Ortopedia_files/PEGORARO Boccardo e Quagliaarticoli (1)

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FOCUS ON
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Un ortopedico
a vocazione umanista
La vita professionale di Eugenio Boccardo, da una grande squadra
(il Torino calcio) al Centro scoliosi. Al di fuori dell’ambito medico,
è forte l’impegno nella Fondazione Università Popolare di Torino
La scelta di specializzarsi in
ortopedia (a Modena) per
Eugenio Boccardo, ortopedico professionista con studio nei pressi della Stazione
di Porta Nuova a Torino, più
noto forse come presidente
(da 15 anni) dell’Università
Popolare, fu originata, dopo
la laurea, da una serie di fattori: «essendo stato colpito da
diversi casi di dimorfismo
della colonna vertebrale –
ricorda –, desideravo approfondire l’argomento. Avevo
anche conosciuto un medico
dell’Ospedale Maria Vittoria,
chiropratico e agopuntore,
che curava tali patologie. E
poi all’Ospedale Mauriziano
per questa specialità allora
c’erano possibilità di lavoro».
Una scelta di campo che
allora (come oggi) rispose
alle aspettative. «In quella
specialità mi intrigava
soprattutto poter vedere i
risultati in tempi relativamente brevi. In medicina il
tempo lavora – commenta
Boccardo – ma in ortopedia
la dimensione temporale è
particolarmente importante,
come lo sono del resto le
altre quattro». Quattro
dimensioni? «Sì, oltre alle
tre tradizionali e al tempo,
bisogna includere la dimensione umana».
Dopo una breve esperienza
all’ospedale di Salò e
all’"Agnelli" di Pinerolo, nel
1973 la grande svolta: arriva
sotto forma di chiamata a
“medico del Torino Calcio”,
erede della tragica squadra
granata oggetto, ieri come
oggi, di infinito amore e
rimpianto
nei
tifosi.
Boccardo vi rimarrà sei
anni, maturando un’esperienza destinata a segnare il
suo futuro professionale,
occasione di grande visibilità. A fianco di Cesare
Cattaneo, illustre collega
internista, e in veste di
medico sportivo apprende
cosa vuol dire “lavorare in
squadra” (in tutti i sensi)
con calciatori famosi, giovani come lui. Cosa significa
saper tenere “lo spogliatoio
calmo”. Apprezzato terapeuta di frequenti traumatismi,
di contusioni, specie agli arti
inferiori e problemi alla
colonna, diviene anche, giovane tra giovani, consigliere,
confidente, amico. Inizia
allora il suo lavoro sulla prevenzione che, date le circostanze, si concentra sul
saper appoggiare il piede,
ottimizzandolo con l’uso di
plantari.
Prevenzione che coltiverà
anche nel Centro scoliosi da
lui fondato a Torino, dopo
essersi perfezionato a
Il fisiatra in bicicletta
Tra professione e stili di vita
Se il paziente non va dal fisiatra, il fisiatra va dal paziente. In bicicletta.
La vita professionale di Giuseppe Quaglia si fonde perfettamente
con il suo stile di vita e con il suo concetto di rapporto medico-paziente
Se qualcuno dovesse scrivere
un libro su Giuseppe Quaglia,
laurea in Medicina a Torino
nell’84, specializzazione in
fisiatria nell’87, lo intitolerebbe quasi certamente «La bicicletta del dottore» riecheggiando l’altro celebre volume
«La valigetta del dottore», in
cui protagonista è un medico
che vive la sua professione
come una missione. Forse e
senza forse Quaglia è l’unico
camice bianco in Torino che
invece di usare l’auto o lo
scooterone, mezzo abituale,
ormai, di molti professionisti,
lui dai pazienti a casa, in clinica, in studio o in ospedale ci
va in... bicicletta, avveniristica
due ruote superleggera
“modello Pantani” che un
assistito ha voluto dargli in
“prestito d’uso”.
Zigzagando così, tra una
pedalata e l’altra nel traffico
spesso convulso della città, il
dottore realizza la perfetta
coincidenza tra il suo privato
(la passione per le due ruote) e
il professionale (ossia il movimento, emblema della specialità di cui Quaglia è simbolo
vivente). L’arte della riabilita-
zione basata sul movimento, il
dottore-ciclista l’ha appresa in
Svizzera (a Bad Ragat, Coira)
e in Germania, ad Aachen ed
Heidelberg, città molto avanzata nel recupero delle lesioni
midollari. Vi operano personalità di spicco, come Jone
Echarri, fisiatra madrilena che
ebbe il privilegio di annoverare tra i suoi pazienti Papa
Giovanni Paolo II e con la
quale Quaglia mantiene tuttora contatto, quale prestigioso
riferimento professionale.
Ammirato soprattutto dai
livelli organizzativi che, al di là
degli aspetti scientifici, qualificano la riabilitazione nell’area di lingua tedesca, da tali
Paesi Quaglia ha dovuto tuttavia staccarsi con nostalgia, a
causa di vicende personali (la
morte del padre). Con un
grosso “salto nel buio” (così lo
definisce) ha fatto rientro a
Torino
all’Ospedale
Mauriziano, suo primo approdo,
per
poi
passare
all’Ortopedico
Maria
Adelaide, all’Asl di Chivasso e
di San Mauro, fino all’attuale
incarico di direttore del reparto di riabilitazione nell’apprez-
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Ginevra e a Lione. A Parigi,
con Pistor e Bicheron,
apprenderà anche i segreti
della mesoterapia, allora agli
inizi, grazie alla quale finirà
in un servizio sulle nuove
medicine pubblicato sulle
pagine di Oggi Salute.
L’altra, importante, svolta
“non medica” nella vita di
Boccardo avviene nel 1988
quando, “volontario culturale” e consigliere della centenaria Università Popolare di
Torino, è chiamato a sostituire il presidente uscente, l'avvocato Bachi. Il suo contributo allo sviluppo dell’istituzione “prima scuola di formazione permanente dell’adul-
Eugenio Boccardo
to” come la definisce, può
essere riassunto in due dati:
all’entrata in carica, i corsi
previsti erano 15, gli iscritti
450. Nell’anno corrente i frequentatori superano abbondantemente i 4mila mentre i
corsi hanno passato il centinaio. In seno alla Popolare
nascono
anche
una
Fondazione e una Casa editrice di volumi a carattere
storico scientifico, «perché –
dice Boccardo – medicina e
cultura hanno qualcosa in
comune: pongono sempre al
centro l’uomo».
Emanuele Quaglia
(ha collaborato Andrea Roggia)
UN CAMPIONE RECUPERATO
GRAZIE AL LASER
(E A UNA FELICE INTUIZIONE)
L'anno cui risale questo episodio riferito da Quaglia è il
2004, allorché il celebre giocatore Fabio Cannavaro
venne venduto alla Juve dall'Inter. «Più che venduto –
ricorda il fisiatra – si potrebbe dire “svenduto” perchè "era
rotto", come si disse allora». Il campione napoletano presentava infatti una frattura da stress alla tibia, patologia
che limitava notevolmente le sue prestazioni e che lo staff
medico dell'Inter non era riuscito a risolvere. Quaglia
apprende del problema di Cannavaro e delle difficoltà di
trovare una soluzione dal collega Roberto Ravera, ortopedico presso l’Ospedale S. Luigi di Orbassano e della
Juve, assieme al primario Flavio Quaglia. «Mi feci dire
esattamente dal collega dov’era localizzata la frattura –
ricorda –. Appurato che era sulla cresta tibiale, mi tornò
alla mente quando anni addietro seguivo una squadra
giovanile alla periferia di Torino e avevo avuto spesso a
che fare con traumi o patologie a livello dell'osso tibiale
molto esposte verso la cute. Di qui la mia ipotesi terapeutica: una laserterapia, mirando il fascio di luce in modo
preciso sul punto interessato dalla frattura con un raggio
che penetrasse poco sotto la cute, ma che stimolasse efficacemente il metabolismo locale e la cicatrizzazione».
Risultato? «Non quella domenica, ma quella successiva,
Cannavaro giocò. E continuò a giocare fino al pallone
d'oro (27 novembre 2006, ndr)».
m.boc
Giuseppe Quaglia
zata Casa di Cura del
“Cottolengo”.
Nel rievocare le origini della
sua scelta professionale,
Quaglia rivela di essere stato
attratto dalla fisiatria, in virtù
della quale è possibile assistere
al “miracolo” di pazienti condannati all’immobilità fino a
poco tempo prima che riacquistano la gioia del movimento, seppur con fatiche e
sofferenza. «Noi siamo i chirurghi del paziente sveglio»
dice Quaglia di sé e della sua
specialità, di cui ama tantissimo anche la profondità del
rapporto che si riesce ad
instaurare col paziente, qualora percepisca la vicinanza del
suo medico e grazie alla quale
“o guarisce oppure si chiude
in se stesso”. Ad approfondire
tale contatto – dice – la bici
paradossalmente gli è servita
molto. Risalente sino ai tempi
dell’Università («i miei attuali
colleghi se ne ricordano anco-
ra») la passione dichiarata per
le due ruote lo spinge ancor
oggi sui pedali fino al mare
attraverso l’Appennino, lo fa
salire in sella la domenica
mattina per una pedalata
ristoratrice in compagnia,
assaporando quel senso di
libertà che in città gli fa dribblare le code e lo spinge a
guardarsi attorno per scoprire
sempre nuovi aspetti urbani.
Il fisiatra ciclista, che a suo
tempo rifiutò l’ortopedia per
una “certa fobia dei raggi” non
sottovaluta affatto il rischio di
muoversi su due esili ruote
nell’inferno in cui una grande
città come Torino si trasforma
nell’ora di punta: «basta utilizzare al meglio la mobilità del
mezzo e accertarsi sempre che
l’automobilista ti abbia visto.
Peccato – dice – che nessuno
dei miei figli (ne ho tre) condivida questa mia pass
ione».
m.boc