Pieg Cine Ott_2007 - Cinema Teatro Astra

Transcript

Pieg Cine Ott_2007 - Cinema Teatro Astra
presenta
Stagione
2007
2008
l’altro
inema
C
cineforum
San Giovanni Lupatoto
Anno XVI
Informazioni
TIPO DI INGRESSO
NUMERO DI FILM
PER CHI
COSTO
Tessera Standard
26
Tutti
€ 65,00
Tessera Senior
26
Dai 65 anni
compiuti in su
€ 45,00
Tessera Junior
26
Dai 15 ai 26 anni
€ 45,00
Tessera Top Ten
10 (a scelta)
Tutti
€ 50,00
Ingresso Singolo
1
Tutti
€ 6,00
Prevendite
Biglietteria Cinema Teatro Astra nei
giorni di apertura; Parrucchiere Estro,
via Garofoli 86; Scampoli Donà Nerino,
via Roma 58 (di fronte alla chiesa di S.
Giovanni Battista).
La prevendita della tessere terminerà
mercoledì 10 ottobre 2007 (salvo
esaurimento delle stesse prima di tale data).
Le Tessere Top Ten potranno essere
acquistate solo durante il periodo di
prevendita. Le Tessere Junior e Senior
devono essere acquistate personalmente dal
titolare munito di documento di identità.
Le Tessere Standard e Top Ten possono essere
cedute a chiunque, mentre le Tessere Junior
e Senior possono essere cedute solo a
persone con gli stessi requisiti necessari per
l’acquisto delle stesse.
Per ulteriori informazioni
Cinema Teatro Astra, via Roma 3/B
San Giovanni Lupatoto (VR)
tel/fax 045 925 08 25
www.cinemateatroastra.it
Proiezioni
Le proiezioni si terranno nelle serate di:
Lunedì ore 20.45
Martedì ore 21.15
Mercoledì ore 21.15
La programmazione de “l’Altro Cinema”
Cineforum inizierà lunedì 8 ottobre 2007
e terminerà mercoledì 23 aprile 2008, con
un’interruzione dal 16 dicembre 2007 al
6 gennaio 2008.
Avvisi
Non sarà consentito l’accesso in sala a
proiezione iniziata.
Le tessere danneggiate e/o smarrite non
possono essere sostituite o rimborsate.
La direzione del Cinema Teatro Astra si
riserva la possibilità di variare il presente
programma se necessario.
Si raccomanda a tutti il massimo silenzio
durante le proiezioni e di spegnere i
cellulari.
Ottobre 2007
lun 8 ore 20.45
mar 9 ore 21.15
merc 10 ore 21.15
Regia
Daniele Luchetti
~
Interpreti
Riccardo Scamarcio,
Elio Germano,
Angela Finocchiaro,
Massimo Popolizio,
Luca Zingaretti, Diane Fleri,
Alba Rohrwacher,
Anna Bonaiuto,
Ascanio Celestini,
Claudio Botosso,
Ninni Bruschetta
~
Anno
Italia 2007
~
Genere
Commedia
~
Durata
100’
~
David di Donatello 2007
Miglior attore Elio
Germano, Miglior attrice
non protagonista Angela
Finocchiaro, Miglior
sceneggiatura Stefano
Rulli, Sandro Petraglia,
Daniele Luchetti, Miglior
montaggio Mirko Garrone,
Miglior suono
Bruno Pupparo.
Ciak d’Oro 2007
Migliore Attore,
Miglior Montaggio, Migliori
Costumi
Mio fratello è figlio unico 1
V
eloce, vivace, ben scritto, ben costruito e ben recitato, tratto dal romanzo Il fasciocomunista di
Angelo Pennacchi (Arnoldo Mondadori edizioni), Mio
fratello è figlio unico di Daniele Luchetti racconta, dal
1968 per qualche anno, di due fratelli che si muovono
tra le architetture razionaliste di Latina ex Littoria e di
Sabaudia, città inventate
dal fascismo.
Il più bello dei fratelli,
Riccardo Scamarcio, è
buono, operaio e attivista
sindacale, adorato dalle
donne, molto popolare.
Il più bravo, Elio
Germano, diventa fascista con gli insegnamenti
di Luca Zingaretti («Vedi
la torre comunale Fu costruita in 235 giorni»),
partecipa ad azioni violente, a cortei con le catene e il
saluto romano: ma non è detto che sarà sempre così.
l fratello (e la sorella) picchiano il fratello fascista perché è fascista; il fratello di sinistra tiene comizi, il fascista visita la tomba di Mussolini; si trovano uno contro l’altro negli scontri, negli assalti a concerti o convegni culturali di sinistra. Ma il fascista strappa la tessera
quando, nonostante il suo intervento, i camerati danno
fuoco all’auto di suo fratello. Cortei, manifestazioni,
striscioni, botte: forse s’era dimenticato quanto fossero
stati violenti gli Anni Settanta.
Alla fine le vittime, le perdite, il pianto, la solitudine arrivano a capovolgere i ruoli, o a cancellarli. Il film di
Luchetti non è storico né politico: per la prima volta, la
divisione politica è un fatto di famiglia. Si spiega l’approdo opposto dei due fratelli con gli opposti caratteri
(apparentemente, l’eredità aggressiva è data dalla madre Angela Finocchiaro, bravissima, anziché dal padre
mite e cattolico) e le opposte esperienze, le loro vite sono seguite come quelle di ragazzi diversamente idealisti.
E’ un film lieve, spesso divertente, certo non inconsapevole delle perenni lacerazioni italiane. Un po’ paternalistico, un poco indulgente e consolatorio, ma ben fatto
ed esatto, con una evocazione d’epoca esemplare, per
fortuna non affidata prevalentemente alle canzoni.
Lietta Tornabuoni - La Stampa
I
scelte sbagliate e chi quelle giuste, fra l’estremismo e la
moderazione, acquista una particolare valenza simbolica in un momento storico infuocato come quello in cui
si svolgono gli eventi.
Accio passa dalla vocazione seminarista a quella fascista
fino ad abbracciare le idee comuniste: un iter complesso, volto a rappresentare la confusione, la rabbia, la violenza come atti di ribellione nei confronti di una società e, nel caso del protagonista, anche di una famiglia incapace di soddisfare, con l’intelligenza e la sensibilità ri-
L’età inquieta.
chieste, quelle esigenze che da sempre caratterizzano
l’adolescenza e la giovinezza.
Per contro il fratello Manrico è il figlio prediletto, amato dalle donne, impegnato nelle lotte operaie e sindacali: un autentico modello di virtù che Accio, privo degli
affetti familiari, rifiuta e combatte con tutte le sue forze.
Ispirato ad un libro di Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista, il film di Luchetti non manca di concedere un
filo di speranza: un’inattesa solidarietà rinvigorisce, in
dirittura finale, il legame fra questi due moderni Caino
e Abele. Un gradito ritorno per un regista, già protetto
di Nanni Moretti, che nelle sue ultime produzioni pareva essersi smarrito, non diversamente dal protagonista
di questo film.
Marco Bertolino - Nick
L
’Italia degli anni sessanta e settanta raccontata attraverso il destino incrociato di due fratelli, il primo
(Elio Germano) sfigato e in preda al dubbio, l’altro
(Riccardo Scamarcio) solare e senza complessi, ma che
finirà la sua parabola nel vicolo cieco del terrorismo.
Con umorismo e una tenera ironia, il regista ha costruito un bel film che mischia il vortice politico di questi
anni con le passioni e i sentimenti dei due fratelli.
Scavando nella tradizione della commedia all’italiana,
all’italiana, Daniele Luchetti riesce a ricordare che la
storia è fatta di piccole ma appassionanti avventure
umane.
Eric Jozsef - Libèration
“
Mio fratello è figlio unico perché non ha mai criticato un film senza prima, prima vederlo". Non è un monito per tutti coloro che giudicano il cinema in modo
preventivo, bensì un verso di una nota canzone del
compianto Rino Gaetano, cui si è ispirato Daniele
Luchetti per la sua più recente fatica dietro la macchina
da presa, intitolata appunto Mio fratello è figlio unico.
La pellicola riprende proprio il tema centrale del brano,
quello del diverso percorso psicologico ed esistenziale di
due fratelli, collocandolo però in un’epoca ben precisa:
gli anni compresi fra il 1963 e il 1974.
La scelta cronologica non è casuale: il contrasto fra
Accio (Elio Germano) e Manrico (Riccardo
Scamarcio, l’attore italiano del momento), fra l’eterno
perdente e il nato vincente, fra chi compie sempre le
Cucine, soggiorni, camerette, salotti,
armadi, arredobagno, complementi.
Via Palazzina, 135
tel. 045 8266122 - fax 045 8265922
Palazzina - Verona
Ottobre 2007
lun 15 ore 20.45
mar 16 ore 21.15
merc 17 ore 21.15
Regia
Mira Nair
~
Interpreti
Kal Penn,
Tabassum Hasmi,
Irrfan Khan,
Jacinda Barrett,
Zuleikha Robinson
Anno
India, USA 2006.
~
Genere
Commedia
~
Durata
122’
2
Il destino nel nome
L
’India e l’America. Il calore della madre patria e il gelo del paese d’adozione. Il pudore affettuoso dei genitori emigrati e l’aria di sufficienza dei figli cresciuti a New
York, che considerano padre e madre due creature lontane, buffi reperti di una civiltà tramontata. Senza sospettare quanto invece siano loro vicini. Con Il destino nel
nome (The Namesake, rratto dal romanzo dell’indiana
americanizzata Jhumpa Lahiri), Mira Nair stavolta racconta le famiglie della diaspora, i conflitti domestici, la
distanza generazionale e insieme culturale che forgia non
solo caratteri e aspettative, ma corpi e gesti dei personaggi. Il nome del titolo è quello di Gogol, proprio come lo
scrittore russo, che i due protagonisti impongono al loro
primogenito un po’ per caso un po’ per omaggio. C’è di
mezzo un disastro ferroviario da cui il futuro padre si salvò per miracolo. Senza quell’incidente loro due non si sarebbero mai incontrati: e poiché lui stava leggendo proprio Gogol, il figlio finirà per portare il nome del grande
scrittore russo. Intanto gli anni passano, il piccolo Gogol
cresce e quel nome inizia a pesargli, i compagni a New
York lo prendono in giro. Mentre quei tipi che girano per
casa dicendo di essere i suoi genitori (in
originale li chiama proprio così, "guys"),
sfacciatamente sentimentali e attaccati
alla famiglia, gli sembrano sempre più
estranei. Logico che si trovi una fidanzata
bionda e americanissima (e assai scostumata per i codici bengalesi). Meno logico
che al primo viaggio a Calcutta il giovane
Gogol, tutto jogging e rock e roll, cada folgorato dal Taj Mahal tanto da mettersi a
studiare architettura. E dopo un triste imprevisto, scoppia una crisi violentissima
che nemmeno una nuova fidanzata franco-bengalese, ma più occidentalizzata di
lui, potrà placare. Quelle radici rimosse senza nemmeno
conoscerle tornano con imprevista violenza, tutta la sua
vita passata assume un senso nuovo (vedi il bellissimo
flashback della gita al molo col padre). Anche perché stavolta Mira Nair non cede al pittoresco, o meglio lo manovra con abilità e discrezione. E infatti le cose più emozionanti di questo film sempre in bilico fra il pudore e l’effusione sono quelle appena accennate, le famiglie d’origine di lui e di lei (...), i sentimenti mai dichiarati ma sempre più forti fra i genitori, sposatisi per volere della famiglia, e via suggerendo. Una bella crescita per la regista di
Salaam Bombay e Monsoon Wedding. (...).
Fabio Ferzetti - Il Messaggero
casa acqua potabile e gas. Sono innamorati e in cerca della felicità. Arrivano anche un paio di figli. Con il maschietto sorge un piccolo problema. Mentre la tradizione
vuole che il nome sia scelto dalla nonna in patria, scelta
che avviene con tempi lunghi, l’anagrafe statunitense esige di registrare il neonato con il nome. E allora gli viene
assegnato quello (provvisorio) di Gogol. Gogol vive
un’infanzia serena e felice, almeno sino al momento della
scuola quando quel nome che gli piaceva tanto diventa
un impiccio, anche perché si chiama Ganguli di cognome
e l’insieme suona davvero piuttosto buffo. E allora ne sceglie un altro, più consono ai costumi locali e naturalmente si allontana sempre più dalle sue tradizioni d’origine.
Diventa un newyorkese a tutti gli effetti. Scoprirà solo più
tardi che dietro quel nome c’era una storia e che per suo
padre rappresentava qualcosa di più che una scelta come
un’altra. Mira Nair, pur ispirandosi al romanzo
L’omonimo di Jhumpa Lahiri (Marcos y Marcos) in questo Il destino del nome-Namesake, porta la sua esperienza diretta nell’inquadrare il racconto. Si è infatti laureata
due volte, prima a Delhi, poi a Harvard. Conosce quindi
benissimo la lacerazione della doppia cultura, quella d’origine e quella acquisita, talvolta così lontane da rendere
problematiche le scelte individuali. E da questa esperienza mette in scena un film che scorre nell’arco di trenta an-
Da Calcutta a New York:
né di qua né di là.
ni, mostra generazioni diverse, con un affetto nei confronti dei personaggi che dà il tono a un film che rischierebbe il melodramma a tinte forti. Certo, non manca
qualche indulgenza matrimoniale, nel senso che la cerimonia molto teatrale esercita sulla regista un fascino irresistibile (comprensibile, del resto aveva anche vinto a
Venezia con Moonsoon Wedding), ma nell’insieme le
emozioni sono calibrate e appassionanti. (...). E in questo
quadro buona parte del merito va a Tabu, l’attrice indiana
che interpreta il personaggio della madre, vero collante
del film e della famiglia, una straordinaria scoperta, almeno per noi, perché in patria è conosciutissima.
Antonello Catacchio - Il Manifesto
I
ndia anni ’70. Un giovane sta viaggiando seduto nello
scompartimento di un treno. Sta leggendo Gogol, il suo
scrittore preferito. All’improvviso il disastro. Un incidente spaventoso. Ma lui si salva miracolosamente e attribuisce il merito a quella lettura. Passa qualche tempo,
nonostante abbia studiato e lavori in America, quel giovane, rispettoso delle tradizioni, torna in India per sposarsi. Poi la nuova coppia torna a New York. La festa di colori e di caldo si trasforma in un paesaggio grigio e freddo.
La giovane sposa non si ritrova più di tanto in un mondo
che le appare sicuramente estraneo e forse anche ostico.
In compenso è entusiasta all’idea di avere direttamente a
NEL
CENTRO COMMERCIALE
SAN GIOVANNI LUPATOTO
S. S. VERONA-LEGNAGO
Ottobre 2007
lun 22 ore 20.45
mar 23 ore 21.15
merc 24 ore 21.15
Regia
Olivier Dahan
~
Interpreti
Marion Cotillard,
Sylvie Testud,
Clotilde Courau,
Jean-Paul Rouve,
Pascal Greggory,
Marc Barbé, Caroline Sihol,
Emmanuelle Seigner,
Catherine Allégret,
Gérard Depardieu
~
Anno
Francia, Gran Bretagna,
Repubblica Ceca 2007
~
Genere
Drammatico
~
Durata
140’
3
La vie en rose
A
pplausi, commozione e un pizzico di stupore. Erano
anni che Berlino non azzeccava l’apertura, diciamolo. Invece La môme (La vie en rose) di Olivier
Dahan, 140 minuti sulla vita e l’arte di Edith Piaf, è il filmone che ogni festival sogna per l’inaugurazione. Un
esempio, oggi sempre più raro, di buon cinema popolare, pieno di ambienti, di personaggi, di sentimenti. Il ritratto di una figura leggendaria sbozzato con tratto generoso e rotondo, senza esibire artifici formali invadenti, ma evitando anche la retorica o le riverniciature di
nuovo di tanti pessimi biopic. Si comincia dalla fine,
con il "passerotto" (questo significa piaf in argot) che
crolla in scena a New York, e si torna all’inizio di tutto, a quell’infanzia che sembra
uscita dal peggior melodramma, con la
mamma cantante di strada che la abbandona, il padre contorsionista che la affida
alla nonna, la nonna che la cresce fra le
ragazze del bordello che gestisce. E come
se non bastasse la piccola Edith dalla salute malferma perde la vista per riacquistarla dopo un pellegrinaggio sulla tomba di
Santa Teresa di Lisieux, poi perde la puttana che le ha fatto da madre cantandole
Je suis nue di Mistinguett (Emmanuelle Seigner), ritrova il padre che se la porta nei circhi e per strada, conquista a soli dieci anni il suo primo applauso cantando
con voce incredibile la Marsigliese a una folla commossa di reduci dalla Grande Guerra. Intanto continua lo
slalom fra le epoche, l’infanzia si mescola a una vecchiaia solo apparente perché Edith muore ad appena 47
anni ma ne dimostra 70, consumata dall’alcol, dalla
morfina, dal dolore. Ed eccola ventenne cercare fortuna
nelle strade di Montmartre, e trovarla quando l’impresario di un cabaret alla moda (bel cameo di Gérard
Depardieu) resta colpito dalla sua voce e la fa cantare
nel suo locale, le presenta artisti e parolieri, le regala i
primi successi e le prime fughe perché la môme, la ragazzina, sulle prime è terrorizzata, non si distacca dal suo
mondo di alcolisti e macrò, anzi quando il suo benefattore è trovato ucciso viene accusata di complicità con la
mala. E qui come altrove il film passa fin troppo in fretta. Ma ci sono da raccontare le amicizie, la nascita leggendaria di certe canzoni (La foule, Je ne regrette rien),
la mamma che riappare in miseria (è Clotilde Coureau),
il poeta che affina il suo talento naturale, brutalizzandola se occorre, l’amore immenso e tragico per il pugile
Marcel Cerdan, sposato e destinato a morire troppo presto (il piano sequenza in cui si illude di averlo accanto
senza sapere che è caduto in aereo è un piccolo gioiello
a parte); e poi la droga, l’America, l’Olympia, i dolori
più segreti. Ma sempre per piccoli tocchi, partendo dagli stati d’animo, ignorando la tirannia di quei "fatti"
che sono la palla al piede di ogni biografia. Intanto
Marion Cotillard, truccatissima ma mai ridicola, invecchia, ringiovanisce, canta in playback, si confronta con
la vera Piaf rilanciandone, auguriamoci, la leggenda
con questo film "per tutti", come si diceva un tempo,
che potrebbe accontentare, chissà, anche i palati più
esigenti.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero
P
resentato all’ultimo festival di Berlino, La Vie En Rose
non si limita a narrare la vita e le vicende di Edith Piaf.
C’è qualcosa di più dell’elemento biografico, comunque
veritiero e sul quale il regista si è documentato a dovere. È
un film ben pensato e intenso, dalla fotografia meritevole
e in cui l’uso dei flashback è tutt’altro che canonico: un
continuo intrecciarsi di periodi, di frammenti della vita
dell’artista si trovano a coesistere, e sembra che il tempo
non abbia una direzione sola. La bambina abbandonata in
un bordello che rischiò di diventare cieca, quella che a
dieci anni cantava per strada La Marsigliese applaudita dai
passanti o che sbirciava il padre contorsionista dal tendone del circo, la donna ricca e famosa, la ragazza che chiedeva l’elemosina per le strade grigie di Parigi si specchiano
l’una nell’altra. La visione d’insieme diventa molto intrigante e realistica. Così la cantante sempre più raffinata
Edith Piaf canta la vita.
non smette di essere sfacciata e impaurita; è in ogni momento la bimba con la fronte corrugata, la donna disperata, ubriaca o innamorata. Per quanto riguarda la voce, è
stato scelto di utilizzare quella della Piaf durante i momenti delle varie esibizioni: Marion Cotillard, la notevole attrice protagonista, per interpretare il playback ha osservato non solo il modo di cantare e di muoversi dell’artista ma
anche il suo stesso respiro. C’è anche la corporeità della
Piaf, goffa e graziosa. E le urla strazianti, che punteggiano
il suo essere continuamente strappata alle persone amate:
la madre, la prostituta a cui si era affezionata, un’amica e il
grande amore della sua vita, il pugile Marcel Cerdan. E alcuni degli incontri importanti per la sua carriera, come
quello con Louis Leplée (Gérard Depardieu) che la fece
debuttare nel 1935 e che scelse il nome d’arte (...); poi con
Marguerite Monnot o Charles Dumont, figure fondamentali per la canzone francese. Yves Montand viene citato
come ospite dell’ultima esibizione all’Olympia nel 1961,
insieme ad altri personaggi a lei vicini quali Jean Cocteau.
Fu in quell’occasione che, nonostante le sue condizioni
precarie, interpretò Non, Je Ne Regrette Rien, pezzo che
le aderiva alla perfezione. Volle cantare fino all’ultimo, le
era necessario. Un’artista straordinaria, che questo film riporta più che degnamente in scena.
Lea Tommasi - Il Mucchio Selvaggio
Presentando la tessera del Cineforum
dal martedì al venerdì (escluso se festivi)
sconto del 10%
Via Garofoli, 157 - Info line 045 545316
S. Giovanni Lupatoto - Verona - Chiuso lunedì
Ottobre 2007
lun 29 ore 20.45
mar 30 ore 21.15
merc 31 ore 21.15
Regia
Cristiano Bortone
~
Interpreti
Luca Capriotti,
Paolo Sassanelli,
Marco Cocci,
Simone Colombari,
Rosanna Gentili
Anno
Italia 2005
~
Genere
Drammatico
~
Durata
96’
~
David di Donatello 2007
Premio David giovani
Cristiano Bortone
Rosso come il cielo
B
ambini ciechi. Qui da noi, fino alla metà dei
Settanta, se erano tali, venivano affidati a istituzioni che non facevano nulla per addestrarli a una vita normale. Abolite per legge, sono state sostituite
adesso da organismi che, indicandoli meno crudelmente come "non vedenti", ne coltivano le doti, avviandoli anche a vere professioni.
Quel periodo di transizione è seguito nel film di oggi
da Cristiano Bortone - già piuttosto noto nel settore
dell’audiovisivo - attraverso la vera vicenda di un
bambino, Mirco Mencacci, diventato adesso, da adulto, rumorista di cinema (per La meglio gioventù, ad
esempio, e per Le fate ignoranti).
Lo incontriamo in Toscana, nel ’71, a dieci anni. È sano, dotato, vivace ma ecco che, per un incidente, perde la vista. Desolati, i genitori sono costretti a toglierlo dalla scuola e ad accettare che sia rinchiuso in un
"istituto per ciechi" dove, nonostante la comprensione di un bravo insegnante, si vede drasticamente tarpate le ali molto più di quanto non faccia già la sua
menomazione. Trova però
per caso un registratore e comincia a servirsene per captare le voci della natura, ma è
contro le regole di quel luogo
non dissimile da una prigione
così, anche se l’insegnante lo
difende, un direttore rigido e
incomprensivo lo fa espellere.
Seguirà una rivolta, anche
con l’intervento di sostenitori esterni, e Mirco non solo
verrà riammesso ma, grazie
alle sue doti, avrà modo di
esibirsi tra quelle mura in uno
spettacolo di "favole sonore"
che diventeranno poi la base della sua felice professione di oggi. Tutto molto semplice e secondo schemi
narrativi spesso frequentati: il contrasto fra l’insegnante comprensivo e quello incapace di adeguarsi, le
avversità del protagonista fatte alla fine superate da
un successo che fa riconoscere i suoi meriti.
Bortone, però, ripercorrendoli, li ha visti e fatti vedere soprattutto con l’occhio dei bambini che vi sono
coinvolti, privilegiando, a fianco del dolore prima e
della letizia poi, un candore che permea dal principio
alla fine, con accenti plausibili, tutto il racconto: all’inizio in una rustica e quasi aspra cornice toscana, in
seguito tra le vecchie mura, a Genova, del monumentale ex Albergo dei Poveri, oggi, per fortuna sostituito, da istituzioni più giuste e più umane.
Gli interpreti, per la maggior parte, sono bambini già
visti, qualcuno, in altri film. Il protagonista è il toscano Luigi Capriotti, l’insegnante è Paolo Sassanelli,
noto in teatro ma anche al cinema.
Gian Luigi Rondi - Il Tempo
P
rimi anni ’70: in un paesino della Toscana vive il
piccolo Mirco, un bimbo sano, con una bella famiglia, appassionato di cinema. A causa di un incidente
4
domestico, Mirco si ferisce agli occhi e perde progressivamente la vista fino a rimanere cieco.
Le scuole «normali» non possono più occuparsi di lui:
i genitori devono mandarlo in un istituto specializzato di Genova, dove tutti gli scolari sono non vedenti
(molti, a differenza di Mirco, dalla nascita).
Lì si gioca la scommessa della vita: «rinchiudersi» in
un mondo buio, imparando ciò che è possibile e sperando di ottenere uno dei pochi lavori che un cieco secondo i pregiudizi sociali - può svolgere, o coltivare
nonostante tutto i propri sogni? L’istituzione, pur di
non avere problemi, è per la prima soluzione; il bimbo
insegue tenacemente la seconda.
Decisiva sarà la scoperta, nel collegio, di un vecchio
registratore a bobine con il quale Mirco imparerà a
miscelare parole, rumori e suoni, ricavandone delle
storie.
È l’inizio di una vicenda che si svolge, per così dire,
dopo il film: la storia vera di Mirco Mencacci, uno dei
più bravi montatori del suono del cinema italiano (tra
i suoi titoli più recenti, il famoso Notte prima degli
esami) che ha saputo far coesistere la condizione di
non vedente con il lavoro creativo nel cinema.
Rosso come il cielo è la sua vita, appena romanzata: un
Una favola moderna
ispirata a una
storia vera.
piccolo, toccante mélo familiare interpretato da bambini che recitano come attori veri (a cominciare dal
protagonista Luca Capriotti).
Cristiano Bortone, il regista, ha fatto il salto da documentari militanti e polemici (come lo straordinario
L’erba proibita, sulla marijuana e i suoi «nemici») a un
film di genere e di sentimenti con bella perizia.
Speriamo che Rosso come il cielo trovi un suo pubblico: sicuramente andrebbe visto (e ascoltato) in tutte
le scuole d’Italia.
Alberto Crespi - L’Unità
G E L AT E R I A PA S T I C C E R I A
Gelato, semifreddi, torte,
rinfreschi, dolci nuziali:
tutti di nostra produzione
APERTO DA MARTEDÌ A DOMENICA 15,30-24,00
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Pozzo di S. Giovanni Lupatoto - VR
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Novembre 2007
lun 5 ore 20.45
mar 6 ore 21.15
merc 7 ore 21.15
Regia
Marcos Carnevale
~
Interpreti
China Zorrilla,
Manuel Alexandre,
Blanca Portillo,
José Angel Egido,
Roberto Carnaghi
~
Anno
Spagna, Argentina 2005
~
Genere
Commedia
~
Durata
108’
Intramontabile effervescenza 5
L
’amore a 80 anni come non l’avevate mai visto: folle e tenero, in barba all’inevitabile con cui si comincia ormai a familiarizzare e con un sogno nel cassetto da realizzare nei minuti di recupero. È il tema di
Intramontabile effervescenza, commedia crepuscolare
che pur senza raggiungere gli eccessi dei precedenti
Vivere alla grande e Svegliati Ned è attraversata da
un’analoga vena trasgressiva, quanto meno inquadrando le aspettative sulla terza età.
Alfredo, 77enne fresco vedovo, si trasferisce in una
nuova casa. Derelitto e ipocondriaco, trascura le attenzioni di un amico e subisce quelle della figlia Cuca, imperiosa e scorbutica, la
cui macchina tamponata
dalla nuova vicina produce la scintilla dell’incontro.
Elsa, di origini argentine,
la cui età non va rivelata
sia perché si tratta di una
signora, sia perché la si
scopre all’ultima scena,
vive irresponsabilmente
e con disinvoltura gli anni del declino e della malattia; rifugge dalle attenzioni del figlio premuroso (dalla cui carta
di credito pure attinge a menadito) per dedicarsi al più
scapestrato figlio minore. Testarda, dispettosa e irrimediabilmente bugiarda, con Alfredo si dichiara vedova,
nonna di 5 nipotini senza madre e via elencando sciagure, fino a palesare gelosia quando vede il suo vicino
portare fiori sulla tomba della moglie.
Come si intuisce dai titoli di testa, Elsa vive nel mito
della scena della Fontana di Trevi che ha immortalato
La dolce vita, sperando di rivivere le gesta di Anitona
con il suo cavaliere. Poco a poco, riesce a smuovere
Alfredo dalla sua sfera di autocommiserazione e svogliatezza, a coinvolgerlo nella sua “vita spericolata”
(...) e soprattutto in una relazione amorosa che lascerà
di stucco figli e parenti.
La commedia, opera terza dell’argentino Marcos
Carnevale, è ben congegnata grazie alla creazione di
due personaggi che catturano l’attenzione e a due protagonisti straordinari e ben assortiti.
China Zorrilla, attrice uruguayana, deve assomigliare
molto al personaggio di Elsa, e riesce a rendere non
solo credibile, ma anche umanamente verosimile un
carattere che frettolosamente si potrebbe giudicare
eccentrico.
Parlando di Alfredo, lo definisce “opaco e noioso per
aver fatto le cose per bene tutta la vita” e ammette che
“il mio tempo sta scadendo, farebbe meglio a decidersi”. Ma le battute migliori sono quelle al vetriolo, così
come le considerazioni sull’amore sotto gli 80 (...).
(...). Fino all’avverarsi del sogno puerile, da vivere rigorosamente in bianco e nero come nel film di Fellini. Un
antidoto alla depressione per l’incalzare dell’età, particolarmente indicato per il pubblico agé e non solo.
Mario Mazzetti - www.fice.it - vivilcinema
U
na commedia romantica. Gentile, anche commovente. Realizzata da un regista spagnolo poco
conosciuto qui da noi, Marcos Carnevale, che ha avuto il coraggio di raccontarci una storia d’amore fra due
ottantenni senza piegarsi al patetismo di «Love
Story», anzi, con un guizzo ironico.
Fred e Elsa. Il primo è vedovo da pochi mesi, depresso,
funereo, persino ipocondriaco. La seconda è solare,
festosa intraprendente, fierissima di essere stata paragonata in gioventù a Anita Ekberg nella Dolce vita e
con l’aspirazione, mai soddisfatta attraverso gli anni,
di poter un giorno fare il bagno anche lei a Roma, nella Fontana di Trevi, con un suo innamorato al fianco.
Fred, cambiata casa dopo il suo lutto, è diventato suo
vicino e lei comincia quasi subito a corteggiarlo, dicendo di essere vedova da anni ma di voler continuare a vivere in allegria.
Romantica storia d’amore…
in ritardo.
Lui, sulle prime, quasi la respinge, rinchiudendosi
sempre di più nel suo guscio, poi a poco a poco cede e
la ricambia, decidendo addirittura, a un certo momento, di scortarla a Roma dove, nella parte di
Marcello Mastroianni, la accompagnerà fino alla
Fontana di Trevi per rinnovare insieme con lei la scena famosa del bagno. E si sorride anche durante tutto
il rapido dipanarsi della vicenda, con l’equilibrio giusto fra i sentimenti e la loro scoperta stravaganza che
convince sempre. Per l’abilità mai insistita con cui
quel sorgere e poi quello svilupparsi dell’amore fra due
anziani è seguito per una galleria attorno di personaggi minori proposti spesso, in contrasto, quasi sopra le
righe, con colori vivaci e ritmi, almeno all’inizio, concitati e rapidi, ammiccando, ma senza mai eccedere,
proprio alla commedia. (...). Gli interpreti vi corrispondono. Elsa è l’argentina China Zorrilla, tutta dinamismo euforico, Fred è lo spagnolo Manunel
Alexandre, forse un po’ troppo cupo all’inizio, ma
pronto poi a rianimarsi. Grazie all’amore.
Gian Luigi Rondi - Il Tempo
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