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Gli inganni di Sarastro
I. Il flauto ingannatore
O ew’ge Nacht! Wann wirst du schwinden?
Wann wird das Licht mein Auge finden?
E. Schikaneder e W. A. Mozart,
Die Zauberflöte, 1791
Dunkel ist das Leben, ist der Tod!
………………………………………
Still ist mein Herz und harret seine Stunde!
Die liebe Erde allüberall blüht auf im Lenz und grünt
Aufs neu! Allüberall und ewig blauen licht die Fernen!
Ewig ... ewig ... ewig ... ewig ... ewig ... ewig ... ewig ...
Testi di Li-Tai-Po, Mong-Kao e Wang-Wei, nella rielaborazione tedesca di
H. Bethge, Die chinesische Flöte, musicati da G. Mahler nel 1907-908 (Das
Lied von der Erde).
L’esile trama del Devin du village1 è presto raccontata: la pastorella Colette
crede di aver perduto l’amore del pastore Colin, attratto da una dama cittadina, e si rivolge al mago locale. Questi le consiglia di fingersi a sua volta
innamorata di un bel cavaliere. Infine Colin si confida con il mago, dichiarandosi pentito del suo passeggero errore. Il mago gli fa credere che Colette
ormai si è disamorata di lui e li manovra, teneramente gelosi, fino alla riconciliazione. La contrapposizione degli ingenui e spontanei sentimenti della
campagna agli artifici della città è tipicamente roussoiana, ma questo è
forse l’aspetto più ovvio e superficiale dell’operina. Invero Rousseau l’ebbe
assai cara, a dispetto dell’insignificante valore ideologico e letterario, anzi
la rivestì di musica e la portò a un clamoroso ed emozionante successo a
corte e nei teatri. La fama di Jean-Jacques fu affidata al Devin (1752) ben
prima che alla Nouvelle Héloïse, tanto sul piano musicale quanto su quello
letterario. Ne è segno sicuro l’esistenza di parodie, fra cui quella di Madame
Favart che Fr. W. Weiskern rimaneggiò nel 1768 in forma di Singspiel per
il Bastien und Bastienne di Wolfgang Amadeus Mozart.
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1
J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, ed. Gagnebin-Raymond, II, Paris 1964, pp. 1093 sgg.
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Augusto Illuminati
Il motivo più profondo del Devin è in realtà un po’ al di sotto della
scorza arcadica e forse per questo, nell’VIII libro delle Confessioni, JeanJacques ce ne parla così diffusamente e sproporzionatamente. Il successo
della prima, davanti a Luigi XV e alla Pompadour, si manifesta nella
diffusa commozione del pubblico femminile (“non c’è un suono che non
parli al cuore”) e “il piacere di dare tali emozioni mi commosse fino alle
lacrime” – scrive Rousseau – in un miscuglio in cui “la voluttà del sesso
c’entrava molto più che la vanità dell’autore” e il cui risvolto è l’angoscia
per le perdite di urine che potrebbero colpirlo qualora frequentasse, sulla scia
del successo, donne e salotti: “uno scandalo al quale avrei preferito la morte”.
Un bel groviglio! Non ci si può sottrarre all’impressione che risuonino qui
le corde più profonde della psicologia roussoiana, che è anche direttamente
ideologia del nuovo individualismo romantico-borghese nella forma più
morbosa e inquieta.
Il tema vero, appena accennato nel Devin, è dunque quello della manipolazione (manipolazione dei due pastori, sulla scena, da parte del mago;
manipolazione del pubblico femminile, in sala, da parte dell’autore); il
corrispettivo è il rischio dello scandalo, del “perdersi” (delle urine e della
dignità), così come la decisione di partecipare con il Discorso sulle scienze
e sulle arti al concorso di Digione riproduce letterariamente il giovanile
episodio esibizionistico di Torino – esposizione senza mediazioni della propria
interiorità – ed è pagato con la caduta nell’esteriorità, la perdita dell’innocenza, l’impigliarsi nel mondo corrotto.2 Il mago comprende al volo lo stato
d’animo dei due giovani e gioca scherzosamente con i loro sentimenti, manovrandoli a loro insaputa, con il recondito scopo di dare una lezione alla
frivola dama cittadina, che è la prima responsabile dei dissapori. Qualche
formula magica e un po’ di scena sono una copertura sufficiente. Ben più
complessi sono i mezzi con i quali lavorano altre e più complesse figure di
manipolatori inventate da Rousseau maturo3 – Wolmar, il pedagogo di Emile,
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2
Su questi temi, sui quali esiste un’ampia letteratura critica, vedi soprattutto J. Starobinski,
Jean-Jacques Rousseau, la trasparenza e l’ostacolo (1958), Il Mulino, Bologna, 1999, e il
mio J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Il Saggiatore, Milano, 1977.
3
L’autoritarismo e la presenza diffusa di pratiche manipolative in Rousseau sono stati messi
in luce da diversi autori, in particolare da J. N. Shklar per la Nouvelle Héloïse (Men and Citizens.
A Study on Rousseau’s Social Theory (1969), Cambridge University Press, Cambridge, 1985)
12 !
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il Legislatore nel Contratto sociale. L’ingenuo mago del Devin si complica
e agisce su più vasta scala: il circolo di Clarens, l’educazione (privata)-tipo,
l’istituzione della repubblica-tipo.
Wolmar, marito di Julie, è un personaggio centrale nella Nouvelle Héloïse,
anima e ordinatore, quasi archetipo divino del piccolo mondo di Clarens, i
cui abitanti sono tutti a vario livello da lui gestiti: saggiamente indirizzati e
sublimati in uno spirituale e fallimentare ménage à trois Julie e il suo innamorato Saint-Preux, paternalisticamente controllati con incoraggiamenti e
delazioni i servi. Wolmar di per sé ha “l’animo tranquillo e il cuore freddo...
poco sensibile al piacere e al dolore”; il suo solo principio è “il gusto naturale
dell’ordine” e “il concorso del gioco della fortuna e delle azioni degli
uomini [gli] piace esattamente come una bella simmetria in un quadro o un
lavoro teatrale ben costruito”. La sua passione dominante è quella dell’osservazione e agisce soltanto nella misura in cui è necessario partecipare alla
vita per meglio studiarla. Nella sua forma più compiuta e irreale Wolmar
diventa il Dio invisibile creatore e regista del mondo o lo stesso Rousseau
che si immagina invisibile e si confonde con Dio stesso:
Se la mia figura e i miei tratti fossero perfettamente sconosciuti agli uomini
così come lo è il mio carattere e la mia natura, io vivrei ancora senza fatica
fra di loro [...] Eserciterei su di loro una benevolenza universale e perfettamente disinteressata; ma senza farmi mai dei legami particolari e senza
portare il giogo di alcun dovere farei verso di loro, liberamente e spontaneamente, tutto ciò che essi faticano tanto a fare, incitati dal loro amor
proprio e costretti da tutte le leggi [...] Se fossi stato invisibile e onnipotente
come Dio, sarei stato benefico e buono come lui... Se avessi posseduto
l’anello di Gige, questo mi avrebbe sottratto alla dipendenza degli uomini e
avrebbe messo loro in quella mia [...] Forse nei momenti di gaiezza sarei
stato così bambino da fare qualche prodigio; ma perfettamente disinteressato
per ciò che mi riguarda e avendo come unica legge le mie inclinazioni
naturali, per qualche atto di giustizia severa ne avrei fatti mille di clemenza
e di equità.4
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e da R. Brandt, Rousseaus Philosophie der Gesellschaft, Frommann-Holzboog, Stuttgart, 1973,
per la figura del Legislatore. Cfr. anche il mio J.-J. Rousseau, cit., cap. V.
4
La VI promenade nelle Rêveries d’un promeneur solitaire, ed. Raymond, P. Cailler, Genève,
1948, pp. 98-101.
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Al massimo avrebbe rischiato di compiere, favorito dall’invisibilità,
qualche abuso sessuale: “sicuro di me su tutto il resto, mi sarei perduto
soltanto su questo punto”.5 Con quest’ultimo satiresco tocco da trickster la
metamorfosi di Wolmar, œil vivant, in Rousseau-Dio-Legislatore è compiuta.
Nella fantasia incontrollata dell’ultimo Rousseau le tortuose manovre di
Wolmar si rivelano per quello che sono: una figura dell’onnipotenza e
dell’arbitrarietà del creatore – creatore del mondo, di una singola società
organizzata (Legislatore), di una personalità (pedagogo), di un’ideologia e
di una sfera fantastica (Jean-Jacques stesso).
Come Wolmar con la preveggenza e con l’inganno dirige la comunità di
Clarens sui sentieri del bene, mescolando accortamente, perfino nell’ordine
vegetale del giardino, la natura e l’arte, così il pedagogo con le sue capacità
previsionali e con una serie di trucchi, effetti psicologici e veri e propri
sociodrammi, guida lo sviluppo “naturale” e l’educazione “negativa” di Emile.
La spontaneità è in realtà sotterraneamente guidata, perché la natura corrotta
non si rigenera senza interventi “miracolosi”.
Lo stesso e su una scena più vasta avviene per la riorganizzazione di una
società corrotta. Se Emile, giunto all’età della ragione, supplica il precettore
di riprendere quell’autorità che egli aveva con infida solennità deposta,
ratificando così in piena libertà quei principi che prima aveva subìto come
benintenzionata costrizione, il problema è più complesso e formale per una
società. Il nocciolo è sempre quello: costringere a essere libere creature
corrotte o corrompibili. Esercitare quindi un’autorità senza farla vedere,
perché il fine è l’auto-costrizione, l’esenzione dalla dipendenza personale e
la subordinazione alla legislazione razionale della natura e della volontà
pubblica unitaria. Il capitolo II, 7 del Contratto sociale tenta di risolvere
insieme un problema di tecnica costituzionale, la redazione delle leggi
fondamentali che abilitano il cittadino alla libertà, e il nodo contraddittorio
della mediazione autoritativa di ciò che vi è di più immediato e libertario.
Vediamo brevemente i termini dell’argomentazione.
Si tratta di passare dalla semplice esistenza del corpo politico, creato
con il patto, alla sua messa in movimento. Un sistema di legislazione non
può essere opera spontanea di una moltitudine cieca: “la volontà generale è
sempre retta, ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato”. Bisogna
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5
Ivi, p. 101.
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additare il buon cammino, garantirlo dalla seduzione delle volontà particolari, consentire progetti a più lungo respiro. Tutti hanno bisogno di guide
per conformare la volontà alla ragione, per imparare a conoscere ciò che si
deve volere. In forma appena attenuata si anticipa quanto più brutalmente
affermerà Kant: che tutti gli uomini hanno bisogno di un padrone. Non è
affatto strano che i due grandi maestri dell’autonomia morale resuscitino
questo imbarazzante luogo comune dell’autorità, e dell’autorità personale,
non semplicemente dell’impersonale dominio della legge. La contraddizione irrisolta fra liberazione dell’uomo comune (borghese) e autentica
liberazione dell’uomo si riverbera in una restaurazione irrazionale dell’autorità: “ecco da dove nasce la necessità di un Legislatore”.
Questa figura è invero mitica e mista. Da un lato è un superuomo, “che
viva tutte le passioni dell’uomo e non ne provi alcuna” (variante nel Mss. di
Ginevra: “un’intelligenza superiore che conosca tutti i bisogni degli uomini
e non ne provi alcuno”), che “non abbia alcun rapporto con la natura umana
ma che la conosca a fondo, la cui felicità sia indipendente da noi e che
peraltro voglia occuparsi della nostra” (nelle citate Rêveries Jean-Jacques
dichiara che “amerei gli uomini a patto che non si occupassero mai di me”).
Non meraviglia che, con tali requisiti, “occorrerebbero degli dei per dare
leggi agli uomini”. Ne scende una conseguenza assai poco rispettosa per la
democrazia e per il popolo: “come i mandriani sono una specie superiore al
bestiame che pascolano, i Pastori di uomini che sono i loro capi dovrebbero
essere di una specie più eccellente dei popoli” (Mss. di Ginevra). Sembra
quasi di ritornare al patriarcalismo di Filmer!
Come rompere questo circolo vizioso? L’iniziativa deve partire dalle
personalità carismatiche, che creano quelle istituzioni suscettibili di riprodurre in seguito i dirigenti delle repubbliche. Il movimento iniziale del
processo di formazione razionale della volontà generale è di per sé irrazionale, sovraordinato. In altri termini: nel Legislatore l’autorità personale
precede e rende possibile lo stabilirsi dell’impero impersonale della Legge.
Ma in tal modo la stessa razionalità della legge è posta in modo irrazionale!
Né diversamente porrà più tardi Max Weber il rapporto fra potere carismatico ed efficienza burocratica. Se per un verso il Legislatore può apparire
colui che realizza il “miracolo” della riconciliazione fra legge e umanità
corrotta – ultima variazione dell’eroe semiferino che fa scaturire la civiltà
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dal caos primigenio –, per l’altro il meccanismo che adotta è illusionismo
confesso, manipolazione delle masse sia pure a fine di bene. Non a caso
Marx era profondamente diffidente proprio verso il passo immediatamente
successivo sul necessario “snaturamento” dell’homme che diventa citoyen.6
La funzione legislativa o meglio “costituente” viene separata drasticamente dall’esercizio del potere, sfuggendo così al rischio del dispotismo
illuminato: “se colui che comanda agli uomini non deve comandare alle
leggi, colui che comanda alle leggi non deve a sua volta comandare agli
uomini”. Non si tratta soltanto di una divisione originaria dei poteri tra
funzione costituente e funzione legislativa, quale sarà riprodotta nella pratica
rivoluzionaria francese, ma del tentativo di garantire, da un lato, il trapasso
periglioso dal disordine all’ordine, dall’altra l’autonomia legislativa del
popolo, solo autorizzato a ratificare le leggi e ad affidare l’esercizio del
governo, con un diritto del quale non si può spogliare. Il Legislatore fa il
suo mestiere ricorrendo a ogni genere di trucchi teatrali (i misteriosi ritiri di
Numa presso la ninfa Egeria o di Mosè sul Sinai), ma a lavoro finito scompare più o meno platealmente, lasciando libero il popolo nel suo potere
di autodeterminazione.
Tutto gira insomma intorno al carattere carismatico di una figura che
deve possedere qualità sovrumane e insieme deve essere priva di autorità
legale per realizzare i suoi compiti. Lo stesso problema si ripresenta a
livello di linguaggio: le parole della razionalità non potrebbero essere intese
da un popolo che è ancora da formare, bisognerebbe “che l’effetto potesse
divenire la causa, che lo spirito sociale che deve essere l’opera dell’istituzione presiedesse l’istituzione stessa, e che gli uomini fossero già prima
delle leggi ciò che devono divenire grazie ad esse”. Ci vuole un trucco per
forzare questo circolo vizioso, una spinta per avviare la rigenerazione. E
non bisogna troppo sottilizzare sui mezzi, che non possono essere razionali
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6
Per sottolineare la difficoltà dei compiti del Legislatore Rousseau sostiene che “chi affronta
l’impresa di dare istituzioni a un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la
natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario,
in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e
l’essere”. Nella Questione ebraica Marx dimostra del tutto pertinentemente (e chi non l’ha
capito non ha colto la differenza fra democrazia borghese radicale e socialismo scientifico)
che in tal modo giunge a perfezione teorica la scissione fra società civile atomizzata ed
egoistica e società politica allegorica, la contraddizione fra eguaglianza giuridica ed eguaglianza
sociale. L’uomo reale è l’individuo egoista, l’uomo vero è il citoyen astratto.
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perché ancora le basi sociali della razionalità sono da costituire. Il Legislatore
non può ricorrere né alla forza (perché l’unione di potere legislativo ed
esecutivo caratterizza l’odiata figura del despota illuminato, cara ai fisiocratici) né al ragionamento; deve pertanto impiegare un altro ordine di
autorità, “che possa trascinare senza violenza e persuadere senza convincere”. Qui è la radice dell’illusionismo, per cui per esempio il Legislatore si
presenta come portavoce della divinità. Ai “pastori” è evidentemente lecito
imbrogliare un po’ le “pecore”.
Un secolo e mezzo più tardi, forte dell’esperienza della manipolazione
totalitaria della società di massa, Schönberg traccerà in modo del tutto differente il dramma di Mosè, costretto a vedere il messaggio divino di cui è
depositario tradito dalla fluente parola del fratello Aronne e degradato a
idolatrico illusionismo. Il ciclo della borghesia si è compiuto: la scenografia
roussoiana anticipa le feste robespierriste, il Mosè schönberghiano presente
le parate di Norimberga...
Il problema è quello di persuadere i popoli a piegarsi alla legge dello
Stato democratizzato così come essi accettano quella della natura. Dio è
alla radice di entrambe ed è evidente il rapporto di analogia fra Legislatore
e popolo e fra Dio e natura: il Legislatore è fuori della legge e dà leggi dall’esterno, senza ulteriormente esercitare autorità, come Dio ha creato il
mondo e non vi interviene più. Quando la repubblica funziona, il demiurgo
è inessenziale e svanisce senza lasciare altra traccia che le leggi e una memoria semidivina, ma prima che essa entri in funzione il problema del
fondatore è predominante e per di più nelle forme di “inauguratore” solenne,
non di agente rivoluzionario. La diffidenza di Rousseau per le rivoluzioni è
notoria – al massimo ritiene che si possano preservare le nazioni non
corrotte come la Corsica, mentre è assai difficile rigenerare le altre – e
comunque, al di là del metodo, sacrale o materialmente rivoluzionario, il
vero soggetto della storia e della politica come teodicea è il Legislatore e
non il popolo. Rousseau stesso si identifica con il Legislatore dei tempi
moderni, in base all’autocoscienza della propria innocenza e originalità, e
non disdegna di porsi ufficialmente in tale veste nei progetti costituzionali
per la Polonia e per la Corsica. Che sia consapevole in forma diretta o indiretta delle difficoltà del compito e, anzi, che chiuda con uno scacco tanto
il romanzo sentimentale della comunità di Clarens quanto il romanzo pe-
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Augusto Illuminati
dagogico di Emile è poi un altro discorso e rinvia alla già presagita contraddittorietà dell’emancipazione borghese.
Non è strano questo reciproco coinvolgimento di ideologia politica e di
espressione soggettiva. Infatti il residuo irrazionale della razionalizzazione
politico-borghese nella prima compiuta formulazione spinge ineluttabilmente in primo piano le componenti individuali e psicologiche e la stessa
esplosione della soggettività – dal primato del sentimento all’affiorare dell’inconscio – è elemento costitutivo della nuova ideologia borghese, in cui
l’atomismo sociale è prodotto dall’operare della legge del valore. Alla appropriazione del plusvalore mediata dallo scambio corrispondono i due
impulsi, solo apparentemente contraddittori, della piena razionalizzazione e
democratizzazione della società e dell’esaltazione dell’individuo e dell’autorità carismatica scissa dalla nascita e dal ceto. Le ambigue figure roussoiane
del Legislatore registrano questa contraddizione e la riproduzione irrazionale dell’autorità dentro la trasparenza del contratto sociale di nuovo tipo o
“nuova associazione”, così come in precedenza l’istanza unitaria e democratica aveva espresso sino in fondo le tendenze rivoluzionarie della borghesia
al di là delle velleità compromissorie dei fisiocrati, che si illudevano di
innestare sul corpo dell’Ancien Régime il primato dell’economico-borghese
nella sua ferrea legalità e cogenza “euclidea” .
La tesi della rivoluzione borghese dall’alto era stata respinta e positivamente superata, ma il problema del ruolo dell’autorità in questo processo
rigenerativo era rimasto. Né il metodo democratico né il funzionamento
automatico delle leggi “naturali” economiche si rivelano sufficienti a garantire la nuova convivenza. Occorre qualcosa di altro. Per i fisiocratici era il
despota “illuminato”, per Rousseau la fondazione irrazionale di uno Stato
razionale. In entrambi i casi è presente anche la preoccupazione di garantire
il nuovo potere borghese dalle spinte eversive, che per i fisiocratici sono
direttamente i non-proprietari, per Rousseau, più ingenuamente o forse più
sottilmente, sono gli interessi privati di qualsiasi genere. In realtà il modello
roussoiano è più flessibile. Le difese fisiocratiche della proprietà come civiltà
contrassegnano la società liberale ottocentesca, la difesa roussoiana della
democrazia contro le volontà sviate dei singoli si attaglia benissimo alla
tutela delle moderne società capitalistiche contro gli “opposti estremismi”,
configura un livello più integrale di controllo sociale sul dissenso, consente
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Gli inganni di Sarastro
un ruolo più accentuato degli apparati pubblici e dell’iniziativa statale. E
finalmente può servire da bandiera – nel segno della “continuità” fra Rousseau
e Marx – a ogni riedizione “sociale” della democrazia borghese come “Stato
popolare libero”. Ma per questo la trascendenza dello Stato rispetto alla
società deve essere riaffermata e il Legislatore è un’eccellente tappa intermedia sulla strada che va da Numa Pompilio alla moderna democrazia
interclassista “protetta”.
La crisi di credibilità del dispotismo illuminato non riguarda del resto
soltanto la Francia. Abbiamo lasciato Mozart nel giardino del dottor Mesmer
a rappresentare la roussoiana parodia di Bastien und Bastienne, durante una
breve vacanza dal feudale servizio salisburghese.
Il dodicenne fanciullo prodigio non ha certo una sua filosofia della
storia, ma la singolare tematica roussoiana e l’ambiente della rappresentazione lasciano in lui un’eco profonda. Mesmer non era un mecenate casuale,
ma credeva fortemente all’influsso della musica e degli astri sul carattere
ricorrendovi largamente nelle sue pratiche terapeutiche. La sua teoria del
magnetismo animale lo avrebbe portato da una posizione d’avanguardia
materialistica nell’ambito dell’illuminismo e della psichiatria fino al versante occultistico della massoneria negli ultimi anni della sua vita. Decisivi
furono la persecuzione e l’esilio cui fu costretto per le sue idee avanzate e
non a caso gli studiosi moderni paragonano il suo rigetto da parte della
società tedesca a quello novecentesco di Freud. Le sue pratiche suggestive
sino al limite della ciarlataneria diventarono sospette quando i contraccolpi
della rivoluzione francese indussero un generale clima di avversione nella
classe dirigente contro l’illuminismo radicale. La manipolazione scenografica dei pazienti “isterici”, soprattutto di sesso femminile, a base di bagni
caldi, magnetismo, musica, ipnosi e probabilmente sollecitazioni sessuali
ben sintetizza un metodo terapeutico diverso dalla “segregazione della sragione” ma nello stesso tempo sottilmente autoritario e non-emancipatorio.7
Mozart serberà sempre un gusto vivissimo per personaggi “wolmariani”
che dirigono le vicende umane con occulta regia e non mancherà di asso-
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7
Su Mesmer vedi P. Babini, “Note sul mesmerismo”, in Rivista di filosofia, II, giugno 1978,
pp. 356 sgg., dove si ricostruisce, particolarmente nei seguaci come Brissot, l’emergenza di
istanze di controcultura liberatoria e l’aspirazione a un’armonia fluidica individuale e sociale
che renda i ricchi più umani e “veri padri dei popoli”.
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Augusto Illuminati
ciarli al lontano ricordo del magnetico dottor Mesmer. Nella sfuggente Così
fan tutte (1790) il personaggio che tira i fili dell’azione e per scommessa
manovra a suo piacimento come due coppie di marionette FerrandoDorabella e Guglielmo-Fiordiligi è il vecchio e cinico Don Alfonso, aiutato
dalla servetta Despina. Convinto dell’incostanza e della leggerezza delle donne
egli organizza una falsa partenza dei due uomini e presenta alle dame i
medesimi travestiti da albanesi. In tale foggia Guglielmo riesce a sedurre
Dorabella e Ferrando Fiordiligi dopo insignificanti resistenze. Alla fine
l’equivoco si chiarisce e l’opera termina con un’agrodolce conciliazione, il
cui antifemminismo non contraddice l’esaltazione che nella Entfübrung aus
dem Serail Mozart fa della costanza e dell’eroismo di Constanze. Volubilità
o costanza, fragilità o eroismo – sono i due volti della stessa medaglia, dell’immagine della donna fra arcadia e romanticismo, così come in Rousseau
Julie, ardente eroina nella passione e nella rinuncia, e Sophie, educata con
sadica repressività a correzione dell’innata volubilità. La donna, non-autonoma, oscilla fra tenera incostanza e tenera fedeltà all’immagine direttiva
dell’uomo. Né diversi, si sa, erano i senti-menti di Wolfgang Amadeus nei
confronti della reale Constanze Weber, sorvegliata, idolatrata con il cuore e
un po’ disprezzata con la mente.
Despina, la complice di Don Alfonso, si finge medico per curare i due
pretendenti, respinti la prima volta e falsamente avvelenatisi per commuovere
le belle restie. Guarda caso, essa ricorre ai metodi mesmerici (e l’uso farsesco allude tanto alla celebrità quanto alle relative accuse di ciarlataneria):
Questo è quel pezzo di calamita
pietra mesmerica,
ch’ebbe l’origine nell’Alemagna
che poi sì celebre
là in Francia fu.
Lo scherzoso omaggio a Mesmer non è più opera di un dodicenne affascinato dal ruolo del rustico mago Colas, ma di chi ha affrontato altri e ben
più solenni personaggi di saggi dominatori, giusti dispensatori di vita e di
morte, come il pascià Selim dell’Entführung o il solare Thamos, in cui per la
prima volta il non ancora iniziato Mozart aveva incontrato le tematiche massoniche. Dal dicembre 1784 Mozart è però adepto della loggia della “Speranza
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Gli inganni di Sarastro
incoronata” e vicino a Ignaz von Born, eminente massone e legato strettamente agli Illuminati di Baviera, la setta clandestina radicale che si proponeva
di conquistare dall’interno sia le gerarchie massoniche che gli apparati statali.8
L’adesione alla massoneria ha importanza capitale per Mozart, tanto più
che coincide con l’inizio delle persecuzioni antimassoniche e con l’imminente reazione contro la rivoluzione francese, vista quale conseguenza
nefasta delle idee illuministiche e dei complotti massonici. Mozart sfida il
nuovo clima di reazione, così come aveva sfidato il dispotismo illuminato
dell’arcivescovo Colloredo inaugurando l’autonomia finanziaria del musicista
moderno; se le Nozze di Figaro del 1786 fissavano la sua fama di “sovversivo”, le musiche massoniche (per specifica destinazione rituale o per l’adozione simbolica di determinati strumenti, quali il clarinetto e i corni di bassetto)
rivelano anche una nuova spiritualità e una religiosità del tutto laica.
A un primo superficiale esame sembra che l’adesione alla massoneria si
traduca per Mozart nella ricezione di quei sentimenti di fraternità e umanitarismo correnti nel tardo Settecento in ambiente illuministico, naturalmente
non disgiunti da un’esplicita avversione all’oscurantismo clericale e dall’esaltazione del progresso e della ragione nei consueti simboli solari. L’astro
della solidale volontà massonica squarcia le tenebre dell’ignoranza e della
superstizione e porta la luce agli uomini ingannati e oppressi. Nella cantata
KV 429 Dir, Seele des Weltalls, composta a seconda degli studiosi fra il
1783 e il 1791, la celebrazione solare è immediata e, per così dire, senza
ombre, panteisticamente trionfale:
A te, Sole, anima del tutto cosmico sia oggi consacrato il primo dei cantici
di festa! O possente, possente, senza di te non vivremmo, solo da te
proviene fertilità, luce e calore!
Altre composizioni lodano la gioia massonica nel penetrare scientificamente i segreti della natura (Die Maurerfreude KV 471), la solidarietà dei
fratelli nella loro catena organizzativa (Gesellenreise KV 468), l’aspira-
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8
Su Mozart, oltre la classica biografia di B. Paumgartner (Mozart, Einaudi, Torino, 1945)
vedi il testo di Jean e Brigitte Massin (Mozart, Fayard, Paris, 1970), che dedica ampio
spazio ai rapporti con la massoneria e gli illuminati. Su quest’ultimo tema fondamentale R.
Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972, che
va letto sullo sfondo delle tesi habermasiane sulla sfera pubblica della nascente borghesia.
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Augusto Illuminati
zione alla saggezza e alla verità (Zeriliesset heut’, geliebte Brüder KV 483),
la musica stessa come tramite della gioia e dell’unione degli spiriti (Laut
verkünde unsre Freude KV 623).
Nella Kleine deutsche Kantate KV 619, scritta nel luglio 1791 sul testo
dell’amburghese F. H. Ziegenhagen, utopista roussoiano, progettatore di
colonie naturiste e partecipe dei movimenti prerivoluzionari nella Germania
del nord, la musica aderisce pienamente a un programma radicale, dove la
fraternité ha già spiriti giacobini e l’appello alla natura suona eversione non
solo dei pregiudizi, ma anche degli apparati di potere dell’Europa monarchica e assolutistica. Dio, cui si confanno tutti i nomi delle religioni
rivelate, chiede di essere amato nelle sue opere:
amate l’ordine, la misura e l’armonia! Amatevi, voi stessi e i vostri fratelli!
La forza del corpo e la bellezza siano il vostro ornamento, l’intelligenza la
vostra nobiltà! Rompete le catene dell’errore, strappate i veli del pregiudizio,
svestitevi del settarismo! Forgiate in vomeri il ferro sinora destinato a
spandere il sangue fraterno! Frantumate le rocce con la polvere e il piombo
micidiale scagliato contro il cuore dei fratelli!
Non crediate che una vera infelicità regni sulla mia terra! Solo l’educazione
è benefica, se ci sprona ad azioni migliori; voi uomini siete infelici perché
ciecamente vi volgete all’indietro invece di marciare in avanti, in avanti.
Siate saggi e forti, siate fratelli! Allora riposerà su di voi tutta la mia compiacenza, allora solo lacrime di gioia bagneranno le vostre guance, i lamenti
diverranno canti di giubilo, allora il deserto si cambierà nella valle dell’Eden,
allora tutto vi sorriderà nella natura.
Il progressismo lessinghiano del testo indica abbastanza bene la propensione di Mozart per le correnti massoniche radical-democratiche allora
in dura polemica con le componenti oscurantistiche e mistiche del movimento, volte a rinvigorire il cristianesimo attraverso pratiche esoteriche – la
linea che va da Saint-Martin a De Maistre e ai Rosacroce. Anzi proprio
intorno al 1790, soprattutto dopo la morte di Giuseppe II, giunge al culmine
la campagna diffamatoria in Baviera e in Austria dei Rosacroce contro l’ala
più avanzata della massoneria, gli Illuminati. E proprio al leader austriaco
degli Illuminati, il mineralogo Ignaz von Born, Mozart aveva dedicato la
Maurerfreude nel 1785. È sotto l’impressione della morte di Born e nel
presagio della propria che stenderà l’incompiuto Requiem, ma soprattutto il
personaggio di Sarastro, nella Zauberflöte, è agevolmente identificabile con
22 !
Gli inganni di Sarastro
quello del grande e perseguitato maestro radicale. Anche il librettista della
Zauberflöte e di molti testi massonici mozartiani, l’impresario Schikaneder,
gravita nella stessa cerchia, come dimostra l’affiato quasi kantiano del suo
testo per la Piccola cantata KV 623 (“dolce il pensiero che ora l’umanità
ha di nuovo guadagnato un posto fra gli uomini”).
La produzione massonica di Mozart nel suo slancio umanitario e nel
trionfale volontarismo si segna l’apogeo dell’illuminismo democratico e il
rapporto fra questo lato “solare” insieme e tecnicamente severo e la nuova
sensibilità armonica e patetica dei Quartetti dedicati a Haydn, dei Quintetti
per archi, del “Concerto per clarinetto” KV 622 e della Maurerische Trauermusik KV 477 definisce un equilibrio, tanto quanto è invece irrisolto e
lacerato il rapporto della dimensione introspettiva e della ricerca contrappuntistica degli ultimi Quartetti e Sonate per pianoforte di Beethoven con la
prudente positività del finale della IX Sinfonia, dove il richiamo all’estetismo di Schiller riverbera il riflusso della rivoluzione francese.
Eppure non tutto è così limpido e lineare neppure in Mozart. Non è da
considerarsi formalmente l’appello così insistito in tutta questa produzione
massonica al segreto, al riparo dall’invidia del mondo, l’allusione costante
al simbolismo della “catena” che lega i massoni, certo catena “fraterna” e
destinata ad abbracciare tutto il mondo (cfr. Lasst uns mit geschlungnen
Händen KV 623 An.), ma anche e in primo luogo legame esoterico che
tutela uno spazio sottratto al mondo e che deve prepararne la conquista agli
ideali massonici, come è evidente nel cantico O heiliges Band KV 148,
scritto nel 1784 per l’apertura della loggia viennese: “O sacro legame della
fratellanza dei fidi fratelli, pari alla più alta felicità e alle delizie dell’Eden,
in nessun caso opposto al mondo, conosciuto e tuttavia pieno di segreto, sì,
conosciuto e pieno di segreto”. Qui, come a maggior ragione nell’intricato
tessuto ideologico del Flauto magico, non si tratta di innocua compiacenza
iniziatica. Qual era il ruolo del segreto nella massoneria?
R. Koselleck, nel suo studio sull’autocoscienza degli illuministi, ha ripetutamente sottolineato il preciso significato politico della sfera del segreto:
“fin dall’inizio, e con piena consapevolezza, i massoni hanno circondato
col segreto lo spazio interno spirituale extrastatale che condividevano con
altre associazioni borghesi, e lo hanno elevato a mistero”. Per un verso essi
ostentano non tanto di non occuparsi di politica, quanto di rifiutare la poli-
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Augusto Illuminati
tica intesa nel senso tradizionale, per l’altro circondano la loro “nonpoliticità” di un segreto protettivo, che rinsaldi i legami interni dell’organizzazione e “protegga e delimiti lo spazio sociale nel quale doveva
realizzarsi la morale”, alternativa alla politica di gabinetto e ai loschi arcani
del potere costituito.
Il rifiuto della politica, sanzionato dalla segretezza rispetto allo Stato,
mira a costituire una sfera di opinione e di organizzazione in contrapposizione ai valori vigenti, agli interessi ufficiali costituiti ed eventualmente
contrapposti. Come ogni movimento nascente, anche quello massonico e
borghese rivoluzionario in genere predica un “modo nuovo di fare politica”;
la non-politicità apparente è in realtà rivendicazione piena del potere
politico in nome di altri principi, apparentati a una più elevata eticità.
Perfino l’ala più radicale della massoneria, gli Illuminati di Baviera, diretti
da Weishaupt e Knigge, esprime il suo spirito antistatale e antireligioso
nelle forme tradizionali della non-politicità. Nel loro caso, dato l’indiscutibile
carattere cospiratorio e sovversivo da essi assunto con il progetto di conquistare dall’interno gli alti gradi della gerarchia massonica e dell’apparato
statale per instaurare un programma illuministico radicale, è palese che la
“presa indiretta del potere ha come premessa una posizione apolitica”
(Koselleck), che cioè “l’impotenza effettiva, che è condizione e premessa
della fondazione dell’Ordine, è associata all’innocenza morale e alla conoscenza pura che possono essere ottenute soltanto all’interno dell’Ordine”.
Nella protezione offerta dal segreto i confratelli possono liberamente riconoscere e definire il giusto e l’ingiusto; essendo fuori dello Stato essi si
pongono al di sopra dello Stato; nella scissione fra morale e politica la prima
fa valere la sua supremazia. In un primo tempo il segreto serve a staccarsi
dallo Stato, successivamente a conquistarlo dall’interno, facendo ipocritamente dell’apoliticità uno strumento di eversione dell’assolutismo. In particolare per gli Illuminati il corso della storia viene a identificarsi – per gli
iniziati – con la realizzazione del loro piano segreto per la conquista dall’interno e la soppressione dello Stato. Questa azione politica clandestina di
dissoluzione deve garantire “insieme al fine della storia, anche la vittoria
non violenta della morale, la libertà e l’eguaglianza, e quindi anche l’adempimento del dovere politico”.
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Gli inganni di Sarastro
Lo schema della società segreta sostituisce praticamente il mito roussoiano del Legislatore come strumento per inaugurare nuove forme di associazione umana. L’estraneità polemica alle istituzioni si capovolge in
conquista dissimulata delle stesse, la proclamata superiorità dell’opinione
pubblica e della morale sulla politica di vecchio stampo slitta ineluttabilmente
in manipolazione della stessa attraverso finzioni dotate di forza persuasiva
o ingannativa. “L’opinione regna in quanto viene fabbricata” (Koselleck).
L’ideologizzazione forzata dell’opinione, raddoppiata in Rousseau dall’istituto della censura, sovraintendenza e controllo delle volontà particolari,
sbocca praticamente nel terrore come arma per risolvere i contrasti politici
con il vecchio stato di cose, giusto l’osservazione di Hegel. Naturalmente
questo deriva dall’asprezza dello scontro materiale fra borghesia e ceti
aristocratici, che non consentiva un processo indolore e spingeva una minoranza sociale, rappresentativa peraltro degli interessi della maggioranza, a
imporsi su un’altra e più ristretta minoranza con la combinazione di una
diffusa propaganda di opinione e di cospirazioni settarie prima, di “immortali principi” e ghigliottina poi.
Gli Illuminati bavaresi reclutarono una élite di intellettuali borghesi su
un programma di graduale demistificazione del potere della Chiesa e dello
Stato e con una rigida gerarchia interna. Vi aderivano Goethe, Herder,
Pestalozzi, Jacobi e Born. Perseguitati, grazie alla polemica combinata di
gesuiti e Rosacroce, furono sciolti in Baviera nel 1784 e costretti a rifluire
nella massoneria austriaca dalla regolamentazione di Giuseppe II. Quando
nel 1790 il nuovo imperatore Leopoldo II inaugurerà un nuovo corso antiilluministico e antimassonico, sollecitato dai timori per il dilagare della
rivoluzione francese, essere stati Illuminati diverrà un titolo di colpa e tanto
più significativo è il fervore con cui proprio nel 1790-91 Mozart sfida il
nuovo clima repressivo. L’affiliazione di Sylvain Maréchal e di Buonarroti
agli Illuminati fece poi da tramite con il sorgere delle società segrete
neogiacobine e socialistiche utopistiche del nuovo secolo, che raccolsero
l’ideologia della cospirazione minoritaria e protetta dal segreto in nome
della maggioranza della società e per la soppressione dello Stato.
L’accento rituale sul segreto – che sanciva, non casualmente, l’esclusione
integrale delle donne – si connette quindi strettamente a tutto il modo di
porsi davanti allo Stato e alla società: è una società ristretta che, nel suo
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Augusto Illuminati
estendersi egemonico all’intera società, distrugge l’apparato statale, ma fa
ciò usando gli stessi mezzi rovesciati della suggestione e dell’inganno,
dell’ipocrisia e della manipolazione. Gli Illuminati non hanno più fiducia
nel dispotismo illuminato e vogliono essi stessi farsi despoti per liberare
la società.
La Zauberflöte, rappresentata per la prima volta il 30 settembre 1791,
alla vigilia della morte di Mozart, si presenta come una fiaba e con un
linguaggio sapidamente popolare. Questo non è casuale e sarebbe parziale
vederci soltanto l’involucro necessario per l’affermazione del Singspiel
nazionale contro la tradizione italiana, insomma l’inizio dell’opera romantica
tedesca. Il ricorso alla favola è qui strutturale quanto l’uso del mito in
Wagner. Il materiale (Lulù, dal Dschinnistan di Wieland, e l’Oberon di K.
L. Gieseke) è rimaneggiato da Schikaneder e Mozart secondo moduli altrettanto fiabeschi, in primo luogo con il rovesciamento fra apparenza e realtà.
Chi nella prima parte dell’opera sembra buono si rivela cattivo nella
seconda e viceversa. È lo schema stesso dell’iniziazione massonica che
ricalca la trama iniziatica delle fiabe e garantisce l’omogeneità della storia
con i simboli. Non ci dilunghiamo a citare Propp! Vogliamo però aggiungere che tale forma, con il suo intreccio di mistificazione fabulatoria e di
“morale” conclusiva si adatta perfettamente alla determinazione illuministica
del corso della Storia. Non ricorreva a simboli e a leggende il Legislatore
roussoiano, Mosè o Numa, per fondare dal caos una società giusta, per costringere gli uomini a essere liberi? Anche qui il cammino alla libertà è
coatto e la struttura fiabesca della peripezia corrisponde organicamente al
contenuto politico.
La trama è questa. Il principe Tamino è inseguito da un drago e sviene.
Viene salvato da tre damigelle vestite di nero che uccidono il mostro e
conducono il bel giovane dalla loro padrona, la Regina della notte. Sopravviene l’uccellatore Papageno, vestito egli stesso come un uccello, che si
spaccia per il salvatore di Tamino. Ricompaiono le tre damigelle che puniscono Papageno per la sua bugia con un lucchetto alla bocca e mostrano a
Tamino il ritratto della figlia della Regina, rapita alla madre dal malvagio
mago Sarastro che la tiene prigioniera nel suo castello. La Regina darà la
figlia in sposa a chi la salverà. Tamino, innamorato a prima vista del ritratto,
si impegna solennemente e parte per l’impresa assistito dal perdonato Papa-
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Gli inganni di Sarastro
geno e fornito di un flauto e di campanellini magici contro i pericoli. Intanto
Pamina cerca di fuggire dalla custodia del libidinoso e nero Monostatos,
servo di Sarastro (allusione, sul modello del Calibano shakespeariano, al
rinnegato Hoffmann, ex-illuminato e denunciatore dei suoi compagni), che
vorrebbe approfittare di lei e ne è distolto soltanto dall’arrivo di Papageno.
Costui annuncia a Pamina il prossimo arrivo di Tamino e insieme cantano un
inno all’amore che limpido cresce nel cerchio della natura.
Tamino intanto arriva alla reggia di Sarastro. Al centro è il tempio della
Saggezza, ai due lati quelli della Ragione e della Natura. Tre giovanetti lo
ammoniscono a “essere uomo” e a possedere le virtù “maschili” della costanza, tolleranza e discrezione. Viene anzi rimbrottato aspramente per aver
creduto alla Regina della notte: “A questo ti ha condotto una donna? La
donna chiacchiera molto e fa poco di buono!” L’antifemminismo massonico
si innesta agevolmente sull’ambiguità dell’atteggiamento mozartiano e si
dispiega sullo sfondo della generale contrapposizione fra matriarcato e patriarcato, essenza lunare ed essenza solare che già segnalava Adorno. È la
storia di come il principio patriarcale “progressivo” ha rovesciato quello
matriarcale “retrogrado”. Ma andiamo avanti nella trama.
Tamino è molto impressionato dal luogo e dalle parole con cui un vecchio
sacerdote lo accoglie. Qui regnano veramente la saggezza, il lavoro, e le
arti e menzogne erano quelle della Regina della notte. Il problema è la bella
Pamina. Che fine avrà mai fatto? Il sacerdote tace e restato solo Tamino
sospira la fine delle tenebre e l’avvento della luce: “Oh eterna notte! Quando
dileguerai? Quando i miei occhi troveranno la luce?” Al suono del flauto
arrivano Pamina e Papageno, inseguiti da Monostatos, e infine Sarastro. Questi
punisce il malvagio Monostatos, ma rifiuta di liberare Pamina nel suo stesso
bene. Spiega infatti ai due giovani che la Regina è una malvagia creatura,
cui è stato necessario strappare la figlia per allevarla fuori dei cattivi influssi
e destinarla a un uomo degno.
Nel secondo atto Sarastro ammette Tamino alle prove iniziatiche: se le
supererà potrà sposare Pamina e distruggere il potere tenebroso della Regina.
Tamino e il riluttante Papageno sono lasciati soli e due sacerdoti tornano ad
ammonirli di non credere alle astuzie femminili, principale pericolo per gli
iniziandi. Subito dopo arrivano le tre damigelle che calunniano Sarastro e
sostengono che gli iniziandi vanno incontro a morte certa (allusione alla
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Augusto Illuminati
campagna antimassonica e alle persecuzioni contro gli Illuminati). Tamino
le respinge e passa ad altre prove, non senza aver rincuorato Papageno con
altre considerazioni sulla stoltezza delle donne.
Intanto Pamina riceve la visita della madre, che si dichiara impotente a
liberarla perché Sarastro ha ereditato dal defunto marito della Regina il
settemplice cerchio solare cui essa deve obbedienza. Piuttosto consiglia alla
figlia di uccidere Sarastro e di impadronirsi del magico talismano; altrimenti la maledirà. Ma Pamina rinnega la madre e dopo una passeggera crisi
di sconforto accetta il paternalistico discorso di Sarastro: “Tua madre è una
donna sfrontata! Un uomo deve guidare i cuori femminili, perché senza tale
sussidio ogni donna rischia di scivolare su una brutta china”. Tutti gli interessi di Pamina convergono ora su Tamino, che finisce di superare le prove
iniziatiche. Anche Papageno trova la sua Papagena e insieme faranno tanti
piccoli papageni, poveri ma felici. Intanto l’ultimo assalto della Regina
della notte, delle damigelle e di Monostatos è respinto e le streghe sono rigettate all’inferno. Sarastro unisce solennemente Tamino, ammesso fra gli
iniziati perché, sebbene principe, ha dimostrato di essere un vero uomo, e
Pamina. Tamino sarà il successore di Sarastro: “I raggi del sole trapassano
la notte e distruggono l’insinuante potenza degli ipocriti! Sia gloria agli
iniziati, che penetrano l’oscurità e conquistano la saggezza!” La femminilità autonoma della Regina è streghizzata, quella di Pamina è piegata all’uomo
(la riproduzione è pur sempre necessaria), il buon proletario Papageno fabbrica felice altri proletari, il principe Tamino assurge al potere grazie ai
suoi meriti, sebbene sia “casualmente” di origine aristocratica: il Regno
Millenario della borghesia può cominciare.
Chiunque abbia letto Rousseau riconoscerà agevolmente la polarizzazione della figura femminile fra l’eroina romantica, che sacrifica la sua autonomia all’autorealizzazione nel rapporto con l’uomo (la Julie della Nouvelle
Héloïse e la Sophie dell’Emilio), e la negativa portatrice della sensualità e
della superstiziosa ignoranza. Il trionfo della Ragione passa attraverso la
sottomissione dell’elemento femminile e attraverso la captazione del consenso
grazie ai trucchi illusionistici di Sarastro. Pamina e Tamino sono diversamente manovrati, mentre Papageno è semplicemente imbrogliato, per realizzare i loro ruoli e l’occulto disegno della storia. Gli iniziati occupano il
potere ostentando la loro superiore moralità e non-politicità rispetto al po-
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Gli inganni di Sarastro
tere costituito, ma trascinando le masse ignare, sia pure con lo scopo di
elevarle in futuro. Il secondo atto basta a illuminare Tamino, che deve
succedere al potere, ma quanto occorrerà per illuminare Papageno e chi mai
riscatterà Pamina del tradimento verso la madre?
Sarastro-Born è la versione seria dell’Alfonso di Così fan tutte e del
mesmeriano Colas degli anni di adolescenza: divertito motteggiatore della
fragilità delle donne e sempre più abile manovratore della fragilità delle
masse. Nel trionfare stesso dell’emancipazione borghese si rivela appieno il
suo limite restrittivo, il suo carattere illusorio e perciò illusionistico: la rivoluzione è ancora una rivoluzione dall’alto, il conclamato rifiuto del
potere è un altro modo di esercitare il potere sulla maggioranza. Il disinteresse di Sarastro è una tecnica di trasmissione del potere. I suoi inganni
vincolano i successori e producono cultura.
Nella fase del trionfo della borghesia – fra la Bastiglia e Valmy – Mozart
può condividere integralmente l’entusiasmo dell’ascesa e risolvere solarmente le incipienti ambiguità nella fiducia emancipatoria della natura/ragione.
Pamina e Tamino escono dalla notte e stabiliscono un rapporto positivo con
il mondo. Questo risulterà già più difficile nella destrutturazione tardobeethoveniana della forma sonata, mentre a partire da Schubert la positività
del mondo è vagheggiata proprio in quanto comincia a sfuggire, si fa poesia
“sentimentale” e non più “ingenua”. All’inizio del secolo successivo il ciclo
del progressismo democratico è ormai chiuso: chi non si compiace della
barbarie imperialistica deve serrarsi nell’inviolabile intimità del proprio io,
chiedere di essere dimenticato (“Ich bin der Welt abhanden gekommen...
Ich bin gestorben dem Weltgetiimmel / und ruh’ in einem stillen Gebiet. /
Ich lebe allein in meinem Himmel, / in meinem Lieben, in meinem Lied” –
canta Mahler sui versi rückertiani). Ormai l’attesa della luce è vana, non c’è
più iniziazione a una felicità collettiva, ma stoica pietà e amore per gli altri
uomini sul perpetuo rinnovarsi della natura:
Buia è la vita, buia è la morte...
Quieto è il mio cuore e attende la sua ora.
L’amata terra fiorisce ovunque in primavera
e a nuovo verdeggia!
Ovunque e in eterno brilla azzurro l’orizzonte ...
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Qui l’intellettualità borghese progressista si è separata sul serio dal
potere e dall’inganno di una conciliazione positiva fra il mondo e i propri
ideali. Il mondo è salvo e gli ideali sono riconosciuti ambigui. Il flauto cinese
segna la sconfitta dell’ottimismo “classico” del flauto magico. La cultura
testimonia ormai la crisi irreversibile di un ciclo storico di cui con troppo
ingenuo entusiasmo aveva cantato gli esordi.
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