Il lavoro indipendente: rispettare la sua specificità

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Il lavoro indipendente: rispettare la sua specificità
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Il lavoro indipendente: rispettare la sua specificità
Prendere la parola in un convegno di giuslavoristi per chi non ha studi di diritto alle
spalle crea un certo imbarazzo. Tuttavia ho accettato il cortese invito del prof. Perulli
di dire qualcosa sul lavoro indipendente (o autonomo) perché ritengo che alcuni
elementi della realtà, che osserviamo tutti i giorni, possano offrire motivo di riflessione
per chi ha il compito di formulare un nuovo ordinamento giuridico o d’interpretare
quello esistente.
Il mio osservatorio è dato
1) dalla partecipazione all’attività “sindacale” di un’Associazione di professionisti
(ACTA,
Associazione
consulenti
terziario
avanzato)
comprese
le
sue
ramificazioni a livello internazionale (siamo membri dell’European Forum of
Independent Professionals e gemellati con la Freelancers Union degli Stati Uniti)
2) da un’attività di ricerca sui problemi del lavoro che risale ai miei anni
d’insegnamento universitario
3) dalla mia attività di professionista con partita Iva nel ramo della consulenza di
organizzazione e direzione d’impresa e di pianificazione di pubblici interventi
per il settore logistica e trasporti di merce (marittimi in particolare)
1. Per andare subito al centro della questione: il lavoro indipendente, dal punto di
vista del suo inquadramento sociologico e culturale, si trova schiacciato tra due
universi, tra due ordini simbolici, quello dell’attività imprenditoriale e quello del lavoro
salariato (o dipendente), ai quali volta per volta viene assimilato con il risultato di
cancellarne o deformarne la specificità. Dalla “ditta individuale” alla “finta Partita Iva”
c’è tutto un gioco di rimandi, un vero ping pong, per far rientrare il lavoratore
autonomo in universi che non gli appartengono.
Il termine stesso di “impresa individuale” o di “impresa con un solo addetto” – termine
largamente in uso nelle statistiche e nella classificazione delle attività economiche – è
un non-senso. Il termine “impresa” può essere utilizzato solo con riferimento a un
sistema complesso, a un’organizzazione. L’impresa è qualcosa che nasce dalla
cooperazione tra soggetti portatori di asset economici e di competenze diverse, non
può essere rappresentata da un solo individuo. Eppure questo non-senso continua ad
essere usato con conseguenze gravi, si pensi alle distorsioni prodotte nella valutazione
di fenomeni che nella situazione italiana hanno un’importanza rilevante, come quello
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del cosiddetto “nanismo” delle imprese. Si pensi a come è stata sovrastimata la
capacità di creazione d’impresa del sistema-Italia e di come è stata distorta la visione
della “competitività” di questo sistema-Paese o di certi territori, come il Veneto. E
tutto questo è avvenuto e continua a ripetersi quando in realtà sarebbe da chiamare
“lavoro autonomo” una molteplicità di forme d’attività economica, che prendono il
nome di “impresa” con tre/quattro dipendenti, anche sotto forma di società di capitale,
che imprese non sono ma lavoro autonomo con un minimo grado di organizzazione come potrebbe essere quello di uno studio professionale registrato come società a
responsabilità
limitata,
dove
due
professionisti
dotati
di
elevate
competenze
specialistiche e di una rete di relazioni si servono di alcuni collaboratori. Che cos’è
l’essenza di quella “impresa” se non le competenze dei due professionisti, che cos’è il
capitale di quella “impresa” se non il knowledge dei due titolari? La forma srl, la
società di capitale, non è che un meccanismo di protezione dal rischio, non è
essenziale per la “produzione” del servizio, che potrebbe benissimo essere fornito
sotto forma di studio professionale associato. Nell’impresa i ruoli sono intercambiabili,
il capitale può passare da una mano all’altra, il management pure. Nel lavoro
autonomo la competenza del professionista, la sua rete di relazioni, la sua reputazione,
non sono intercambiabili o sostituibili. Basta che uno solo di questi tre elementi
manchi perché il lavoro autonomo diventi impraticabile.
Per quale ragione si è continuato a chiamare impresa quel che impresa non è? Poiché
non credo all’ignoranza di chi impiega questo termine in pubblicazioni scientifiche o in
classificazioni statistiche, non vedo altra giustificazione che una eminentemente
politica: per dare legittimità di rappresentanza a istituzioni o soggetti, come
Confindustria
o
le
varie
Confederazioni
dell’artigianato,
per
esempio,
che
rischierebbero di perderla se si valutasse meglio il loro peso organizzativo (per
ammissione del suo Presidente una grande Confederazione dell’artigianato ha di
recente dichiarato di rappresentare il 4% delle 100 mila imprese artigiane registrate
tra Milano, Monza e l’area della Brianza).
Allo stesso modo, la pervicacia con la quale si insiste a considerare “finti” i lavoratori
indipendenti che esercitano secondo l’ordinamento fiscale delle “partite Iva” ed a
trattarli da lavoratori salariati mascherati, non ha altra ragione di essere se non
l’inclusione a forza di un determinato gruppo sociale nel perimetro della titolarità
contrattuale di CGIL, CISL e UIL. Ma procediamo con ordine.
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2. A furia di dài e dài si è riconosciuto che l’universo simbolico nel quale includere i
lavoratori autonomi è quello del lavoro e non quello dell’impresa (o del capitale, per
usare una dizione marxiana). Un notevole passo avanti. Nelle classificazioni statistiche
dell’ISTAT, Rilevazione continua delle forze di lavoro, si distingue ormai tra due
posizioni: quella dei lavoratori dipendenti e quella dei lavoratori autonomi. Si tratta
dunque in ambo i casi di soggetti che erogano le loro energie lavorative e intellettuali
a favore di terzi e le scambiano con qualcosa che si chiama retribuzione (salario nel
primo caso, onorario o compenso nel secondo caso). Lavoratore dunque, sia esso
subordinato o indipendente, è una persona che riceve da terzi una retribuzione in
grado di assicurargli almeno il minimo vitale, una persona che effettua una cessione a
favore di terzi di competenze/conoscenze o energie lavorative, il più spesso le une e le
altre. E qui cominciano le bizzarrie dei giuslavoristi.
Per vanificare la specificità del lavoro indipendente ed assimilarlo a quello salariato si
è cominciato ad introdurre il concetto di “attività autonoma economicamente
dipendente”, una tautologia, perché qualcuno mi dovrebbe dire dove esiste sul pianeta
un “lavoratore” che non lavora per conto di terzi ma per conto di se stesso e quindi
retribuisce se medesimo con la propria attività (non rientrano in questo discorso le
economie di sussistenza che non conoscono né salario né compenso e spesso sono
fondate sul baratto).
Se una persona è classificata come “lavoratore” è automaticamente classificata come
economicamente dipendente. Pertanto la differenza tra lavoratore autonomo e
lavoratore autonomo economicamente dipendente sta solo nella testa di chi ha
inventato questa distinzione. Allo scopo, penso io, di assimilare il lavoro autonomo alla
fattispecie di lavoro salariato prevista dal nostro ordinamento giuridico e di porre le
premesse per eliminare o almeno restringere il campo di un presunta ”anomalia”.
3. In realtà, se abbiamo un minimo di attenzione per quello che succede attorno a noi,
le anomalie più gravi non si celano tra le diverse forme di lavoro autonomo ma si
mostrano nel lavoro salariato. Qualunque teoria economica considera il salario
un’anticipazione fornita dal datore di lavoro alla forza lavoro che è alle sue dipendenze
per consentirne la riproduzione. Il concetto capitalistico di salario è quello di una
misura del minimo vitale alla quale si aggiungono le variabili collegate alla produttività.
Nessun capitalista del secolo dell’industrialismo ritiene razionale erogare un salario al
di sotto del minimo vitale e dall’affermazione del fordismo in poi nessun capitalista
ritiene razionale erogare solo un minimo vitale ma un minimo vitale più un
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ammontare che consenta l’acquisto di beni di consumo durevoli. Il lavoratore diventa
con il fordismo anche consumatore e solo in questa doppia veste si presenta il lavoro
salariato dagli inizi del Novecento in poi. Ancor più con l’affermazione di un sistema di
relazioni industriali, che vede l’instaurarsi di un meccanismo di dinamica salariale e di
diritti che hanno un costo per il datore di lavoro.
Ora, se c’è un fenomeno al quale stiamo assistendo, da un decennio almeno, è quello
di una graduale erosione del rapporto tra salario e minimo vitale. In un paese come la
Germania, secondo i dati 2011 forniti dall’Institut für Arbeit und Qualifikation (IAQ) di
Duisburg, esistono almeno 4 milioni di persone considerate working poor, cioè
lavoratori regolarmente assunti che debbono ricorrere alle varie forme di sussidio
pubblico per raggiungere il minimo vitale sia che si tratti di lavoratori manuali o di
lavoratori intellettuali (su questo vedi l’approfondimento nel libro mio e di Dario Banfi,
Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, pubblicato da Feltrinelli
l’anno scorso). La situazione italiana non è migliore se si pensa che i salari d’ingresso
del nostro paese sono tra i più bassi in Europa e che mancano quel tipo di
ammortizzatori
sociali
che
consentono
un’integrazione
del
reddito
da
lavoro
dipendente, da lavoro parasubordinato e ovviamente da lavoro autonomo. Da un
decennio a questa parte è diventato normale considerare il lavoro gratuito una forma
di occupazione (i cosiddetti stages o tirocinii gratuiti). La nozione di “lavoro”, di
“lavoro salariato”, com’è stata intesa nella civiltà occidentale del Novecento (non in
astratto su una prospettiva di millenni) sta perdendo dunque il suo significato,
malgrado l’esistenza di un sistema di relazioni industriali nelle quali è riconosciuta al
sindacato la titolarità dei rapporti contrattuali tra datore di lavoro e lavoratore.
Questo aspetto, forse il più drammatico all’interno del mondo del lavoro nell’Europa di
oggi, viene completamente oscurato dall’enfasi con cui si tratta il problema della
regolarizzazione del lavoro atipico come un mero problema di stabilizzazione del
rapporto di dipendenza parlando esclusivamente di “forme contrattuali” e non di
rapporti economici. Oggi il problema non è se un rapporto di lavoro è stabile o
precario, il problema vero è se il rapporto di lavoro, stabile o precario che sia,
consente di raggiungere un reddito in grado di assicurare un’esistenza dignitosa o
meno. Mentre affannosamente politici ed esperti del diritto cercano di far entrare il
lavoro atipico nell’alveo del lavoro standard, è il lavoro standard che sta uscendo dagli
argini tracciati dal secolo dell’industrialismo e dalla civiltà occidentale del Novecento. E
questo spiega in parte la resistenza con la quale i lavoratori indipendenti classificati
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impropriamente come “finti” accolgono l’offerta di essere trasformati in salariati (per
esempio in base alle norme previste dal DDL del Governo Monti).
Il lavoro salariato consente un’esistenza dignitosa ad un numero sempre più ristretto
di occupati regolari. E il lavoro autonomo a quali livelli di reddito può dare accesso?
4. Com’è noto il Ministero delle Finanze di recente ha dato vita a due lodevoli iniziative.
Sul suo sito ha istituito un “Osservatorio sulle Partite Iva” consultabile liberamente,
che ci aggiorna mese per mese sulle aperture di nuove P. Iva distinte per regione,
sesso, fascia di età e per grandi aggregati professionali. Inoltre ha messo in rete i dati
riguardanti le dichiarazioni dei redditi con alcune elaborazioni per gli anni d’imposta
2009 e 2010. Se guardiamo i dati relativi al 2010 osserviamo che i redditi medi da
lavoro autonomo sono circa il doppio dei redditi medi da lavoro dipendente e sono
superiori anche al reddito medio d’impresa.
Nel lavoro autonomo è bene distinguere tra quello tradizionale, in agricoltura, nel
commercio, nei trasporti di merce, da quello “di seconda generazione” concentrato
nelle
“attività
professionali
intellettuali
e
tecniche”,
che
rappresentano
una
percentuale sempre più elevata delle aperture di nuove Partite Iva. Pertanto, per
avere alcuni ordini di grandezza del reddito da lavoro autonomo è utile prendere in
considerazione i redditi imponibili dichiarati dai professionisti per il 2010. Si
suddividono nella maniera seguente:
da 0 a 5.000 euro il 6,23%, da 5.000 a 10.000 euro il 5,77%, da 10.000 a 29.000
euro il 25,92%, da 29.000 a 60.000 euro il 28,65%, da 60.000 a 80.000 euro il
9,73%, da 80.000 a 100.000 euro il 6,75%, da 100.000 a 200.000 euro il 9,77%,
oltre i 200.000 euro il 2,59%.
36.000 contribuenti denunciano reddito zero o perdita.
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Una situazione relativamente privilegiata, dunque, quella del lavoro professionale (non
tutto svolto sotto forma di lavoro autonomo, ovviamente).
Ma il quadro cambia se analizziamo la distribuzione per fasce di reddito dei soli
compensi professionali:
da 0 a 10.330 euro il 13,98%, da 10.330 a 20.660 euro il 14,19%, da 20.660 a
40.000 euro il 22,49%, da 40.000 a 61.970 euro il 15,22%, da 61.970 a 309.870
euro il 27,70%
15.993 contribuenti hanno dichiarato compensi superiori, fino a cifre massime di
alcuni milioni
33.508 hanno dichiarato compensi zero.*
* i dati si riferiscono all’anno d’imposta 2009, nelle elaborazioni relative al 2010 la separazione
dei compensi professionali dai redditi imponibili non è riportata. Non credo sia stato un caso.
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C
Considerando i soli compensi professionali, il 50,6% è dunque al di sotto di un reddito
imponibile di 40.000 euro. Tenuto conto delle aliquote Irpef, abbiamo l’immagine di
una categoria di persone che può mantenere un determinato tenore di vita grazie al
godimento di rendite derivanti da beni patrimoniali (o da lavoro dipendente o da
pensione). Chi ha come unica fonte di reddito i compensi professionali – questo è il
genere di persone che la nostra Associazione rappresenta – si trova in una condizione
che non è molto distante da quella del lavoratore dipendente di reddito medio. E ciò
spiega la nostra strenua battaglia condotta contro l’aumento dei contributi alla
Gestione Separata prevista dall’ultimo DDL.
Si potrebbe a questo punto analizzare in dettaglio le aperture di nuove Partite Iva, ma
per non dilungarmi troppo segnalo soltanto che per il 2011 ed anche per i primi mesi
del 2012 il numero di nuove aperture nel settore “attività professionali, scientifiche e
tecniche” è al primo posto, superando quelle del settore del “commercio” e che nel
gennaio 2012, mese in cui si concentra il massimo delle aperture, tutte le fasce di età
hanno segnato una diminuzione rispetto al gennaio 2011, tranne la fascia d’età più
giovane (dai 25 ai 35 anni) che è addirittura aumentata di un quarto rispetto all’anno
precedente. Segno che si tratta di forza lavoro scolarizzata, probabilmente con titoli
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accademici, che, non trovando opportunità d’inserimento lavorativo, comincia intanto
a predisporsi ad un’attività indipendente o a svolgere rapporti di lavoro con Partita Iva.
5. E così siamo giunti all’ultima delle trovate escogitata per erodere la specificità del
lavoro indipendente ed assimilarlo a quello salariato, eliminando quella che secondo
alcuni è una grave anomalia del mercato. La trovata si chiama “finte Partite Iva”,
acronimo F.P.I.. Evidentemente il concetto di “lavoro autonomo economicamente
dipendente” non bastava ad eliminare l’”anomalia”. Il DDL varato dal governo Monti
fissa dei parametri per individuare le F.P.I.: monocommittenza o percentuale del
fatturato superiore al 75% prodotta dal medesimo cliente, esercizio della professione
presso i locali e con i mezzi messi a disposizione del committente. In effetti una delle
condizioni del lavoro autonomo è l’assunzione da parte del lavoratore del costo dei
mezzi di produzione. Ma questo è l’unico punto per il quale può essere plausibile la
definizione di F.P.I.. Non è plausibile invece sull’aspetto centrale del rapporto di
lavoro: la forma della retribuzione. Esiste una sostanziale differenza tra un salario e
un onorario corrisposto su fattura. Il salario è concettualmente un ammontare
monetario che assicura la riproduzione della forza lavoro, la cui responsabilità
compete al datore di lavoro. L’onorario è il corrispettivo di un servizio che prescinde
completamente dalla riproduzione della forza lavoro, la cui responsabilità compete al
lavoratore tanto quanto l’acquisto e la manutenzione dei mezzi di produzione. Sono
due universi concettualmente distinti ed è per questo che invece di lavoro dipendente
o subordinato io preferisco sempre la dizione “lavoro salariato”. Da questa distinzione
discendono una serie di specificità della condizione esistenziale del lavoratore
autonomo. I tempi di pagamento variabili, la corresponsione di un ammontare lordo
cui vanno detratti i contributi alla Gestione Separata, l’Irpef e l’Irap, il versamento di
obblighi fiscali indipendentemente dall’incasso dei compensi sui quali sono calcolati.
Da quale di queste specificità sono esenti le cosiddette F.P.I.? Nessuna. Sono
specificità che incidono profondamente nella gestione della sopravvivenza di un
lavoratore autonomo, anzi ne condizionano in alcuni casi l’esercizio stesso della
professione e gli obblighi familiari. Solo perché il lavoro autonomo contiene in sé una
buona dose di economia della sussistenza non assistiamo oggi in questo mercato allo
stillicidio di suicidi che si verifica presso i piccoli imprenditori. E’ vero, i dati delle
dichiarazioni dei redditi sono espliciti, il lavoro professionale indipendente può
assicurare oggi in Italia dei guadagni che solo certe attività finanziarie o immobiliari
possono procurare. Ma questo è un campo dove non si pone il problema delle F.P.I.,
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questo è un campo riservato quasi esclusivamente a professionisti appartenenti a
vecchi ordini professionali, che cumulano spesso redditi da attività di libera
professione con redditi da lavoro dipendente, da beni patrimoniali e da investimenti
finanziari.
6. Lo ripetiamo da tempo: il problema del lavoro autonomo e del suo inquadramento
giuridico incontrano molte criticità perché riguardano il lavoro autonomo “di seconda
generazione”. Questi problemi si configurano solo all’interno di un quadro storico ed
economico che differisce in maniera sostanziale da quello in cui si è formata la figura
del lavoro salariato della prima metà del Novecento - che costituisce il punto di
riferimento del nostro ordinamento giuslavoristico e del nostro sistema di sicurezza
sociale. Ma differisce anche in maniera sostanziale dal quadro storico in cui si sono
formate le libere professioni, sia intellettuali che tecniche, protette da Ordini. Il lavoro
autonomo
“di
seconda
generazione”
è
principalmente
un
prodotto
dell’esternalizzazione di competenze e funzioni tipica del postfordismo, è il prodotto
della creazione del web e della diffusione del personal computer, si concentra sempre
più nelle attività caratteristiche della knowledge economy, sta entrando oggi in una
fase nuova dello sviluppo economico che qualcuno ha battezzato “quarto capitalismo”,
dove al lavoro continuo e regolare della manifattura e dei servizi si sostituisce sempre
più il lavoro intermittente dell’economia dell’evento, propria della cosiddetta “industria
culturale”, dell’entertainment e di altri settori che incidono con percentiuali elevate nel
mercato del lavoro dei grandi agglomerati urbani. E’ un lavoro autonomo che ha come
cliente l’impresa, l’agenzia, la P.A. non la persona, non il privato. In questo sistema
l’impresa stessa è un’impresa precaria, intermittente, è una temporary firm, quindi il
lavoro diventa sempre più contingent work. La monocommittenza diventa un
fenomeno sempre più ristretto a rapporti di lavoro con la Pubblica Amministrazione
ma nel settore privato tende ad assottigliarsi sempre più, sia come quota sul totale dei
rapporti di lavoro a partita Iva sia come durata del rapporto. Sarebbe stato quindi
ragionevole che tra i parametri fissati per distinguere una F.P.I. ci fosse almeno un
rapporto biennale con il medesimo committente. Così com’è stata formulata la
posizione di F.P.I. può essere classificata come abuso sulla base di una sola annualità.
L’Ordine dei consulenti del lavoro ha già emesso un parere sulla difficile applicabilità di
questa norma, la quale sta già facendo dei danni, come ci ha segnalato uno dei nostri
soci il quale ha perduto il suo migliore cliente – quello che produceva la maggiore
quota del suo fatturato - perché, nel timore di incorrere in situazioni di irregolarità,
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prudenzialmente non gli ha più rinnovato l’incarico. “E pensare” – scrive questo socio
in una lettera disperata che abbiamo pubblicato integralmente sul nostro sito
www.actainrete.it – “che per tenermelo buono avevo fatto dei sacrifici ed era quello
che mi dava da vivere”.
7. Dice il proverbio che ciascuno di noi è artefice dei propri mali. I lavoratori
indipendenti di “seconda generazione”, quelli appartenenti alle professioni non
ordinistiche, non hanno saputo darsi una rappresentanza forte e autorevole, restando
frammentati in qualcosa come 250 associazioni professionali, hanno perseguito e
continuano a perseguire la strada senza sbocchi del riconoscimento della professione
secondo il modello degli Ordini. In parte perché sperano di poter ottenere un loro
sistema di previdenza privato, in parte perché continuano a restare prigionieri della
ideologia del “professionalismo”, che è una pura ideologia di status. Vogliono “sentirsi”
come i medici, gli avvocati, gli architetti, i giornalisti, vogliono sentirsi “borghesia” e
per questo hanno preferito identificarsi con l’impresa piuttosto che con il lavoro.
L’impoverimento degli ultimi anni li ha ricondotti ad una più realistica e meno
ideologica visione del loro status effettivo, anche perché sono ormai i giovani avvocati,
medici,
architetti
e
giornalisti
a
percepire
più
chiaramente
il
peso
di
una
proletarizzazione crescente. La nostra Associazione non mette l’accento sulla
professione e non aspira a riconoscimenti pubblici (secondo una pubblicazione dell’ILO
quella del consulente non è nemmeno una professione, perché non ha un percorso di
studi predefinito, consulente può essere l’ingegnere ma anche il teologo, il filosofo
ecc.). Si batte per degli obbiettivi che ritiene siano comuni a tutti coloro che lavorano
con partita Iva nel campo delle attività intellettuali e tecniche, problemi previdenziali e
fiscali soprattutto, e trovano in questo forti affinità con altre associazioni, ben più
strutturate e autorevoli, sia nel mondo anglosassone che in altri Pesi europei.
Nemmeno rispetto al DDL del governo Monti siamo riusciti a creare un fronte comune
con le altre associazioni (anche se in questi ultimissimi giorni qualcosa pare stia
cambiando). E quindi non dovremmo lamentarci se il lavoro autonomo un giorno viene
assimilato all’impresa e un altro giorno al lavoro salariato. Ciononostante riteniamo
nostro dovere mettere in guardia le forze politiche e sindacali dal ridurre la
complessità dei lavori del posfordismo al paradigma del lavoro salariato perché in tal
modo si contribuisce ad ingessare ulteriormente questo paese già sufficientemente
bloccato e incapace di innovazione istituzionale. Non si risolvono i problemi degli
autonomi ma nemmeno quelli dei precari, non si fa un passo avanti nella formulazione
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di una flexsecurity, si continua a credere che, aumentando il costo di determinati
contratti per il datore di lavoro, sia possibile eliminare gli abusi ma finché esisterà per
il datore di lavoro una possibilità di trovare una soluzione più flessibile tra quelle che
la legge riconosce come legali, adotterà sempre quella a costo di rinunciare al
rapporto con un collaboratore, se ciò avviene in un contesto storico di assoluta pace
sociale.
La mia conclusione, che potrà sembrare a taluni utopica ad altri banale, è che un
cambiamento può avvenire solo se cambia il clima sociale, solo se il lavoro - salariato,
indipendente o precario che sia - riprende una sua forza “sindacale”. E’ un problema
politico non giuridico. Al diritto spetta, a mio avviso, in questa fase, solo il compito di
non peggiorare le cose.
Sergio Bologna
Venezia, 15 giugno 2012