Osare l`umanesimo - Cortile dei gentili

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Osare l’umanesimo
Julia Kristeva
all’inaugurazione di Parigi
del «Cortile dei gentili»
È possibile «osare l’umanesimo» nel
dialogo tra credenti e umanisti. Questa la tesi sviluppata nell’intervento
che la semiologa e psicoanalista francese Julia Kristeva ha tenuto alla
Sorbona durante l’evento inaugurale
del Cortile dei gentili a Parigi (2425.3.2011; cf. riquadro alle pp. 316317). Il panorama spirituale contemporaneo offrirebbe, nella sua lettura,
le condizioni per rifondare una tradizione – definita «umanesimo secolarizzato» – che nasce con Erasmo distinguendosi dall’umanesimo classico
ed ebraico-cristiano, attraversa l’Illuminismo e ci raggiunge con Freud e la
psicoanalisi. Un pensiero che si è separato dalla religione senza divenirle
ostile o indifferente, che ha accettato
il rischio della libertà, dell’individualità, delle passioni liberate. Un umanesimo che fa oggi i conti con le sue
«debolezze» e deve ripensarsi nel confronto coi «nuovi attori» che hanno
fatto irruzione sulla scena culturale e
politica: la questione femminile e il
discorso sulla maternità; un’adolescenza «malata di idealità»; una tecnica sempre più pervasiva e minacciosa per «lo spazio interiore» e
l’incontro delle culture, in particolare
quello con la tradizione cinese.
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Stampa (4.4.2011) da sito web www.kristeva.fr. Nostra traduzione dal francese.
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minenza, signor rettore dell’Accademia, signore e
signori, cari amici,
grazie per questa iniziativa che invita all’incontro credenti e umanisti, e a maggior ragione grazie per avermi invitato. Siamo dunque nel Cortile dei
gentili.
Che cos’è un Cor tile dei gentili?
Erode ampliò l’area del Primo Tempio, il Tempio di
Salomone, per dotarlo di un luogo di sacrificio cui potessero accedere sia i pellegrini ebrei sia i pagani, vale a dire
i greci e gli altri popoli «infedeli», «impuri», «fuori dall’alleanza» con JWHW. Ma il cristianesimo trasforma
questo spazio di separazione, e la rivoluzione di Paolo di
Tarso ha inizio proprio dal suo discorso a questi gentili,
che egli introduce nel Tempio – come si racconta negli
Atti degli apostoli («Ora ha perfino introdotto dei greci
nel Tempio e ha profanato questo luogo santo!», At
21,28) – così da esserne egli stesso cacciato. Schelling svilupperà nel XIX secolo questa intuizione paolina quando
vedrà nel politeismo greco una parte integrante di ciò che
definisce un «processo teogonico»… La mitologia di quei
«gentili», con Edipo, Medea, la Diana di Efeso, non è
forse divenuta l’«inconscio» di Freud?
Durante il Medioevo il cortile-sagrato era il luogo
delle sacre rappresentazioni. Anzi, molto spesso era lo
spazio stesso delle chiese ad aprirsi a questi spettacoli stravaganti, finché, dall’inizio del Quattrocento, la gerarchia
ecclesiastica non li condannerà all’esilio proprio sul sagrato. Un luogo, come vedete, non troppo sicuro…
La polisemia dei termini «cortile» e «gentili», con le
memorie ambigue e polemiche che li accompagnano,
rende il progetto di questo dialogo indecifrabile, pur nella
sua indubbia pertinenza. Soprattutto questa metafora,
applicata all’attualità, ignora la rottura senza precedenti
realizzatasi in seno al cristianesimo, e in seguito al di
fuori di esso, che ha dato vita all’umanesimo rinascimentale, alla filosofia dei Lumi, alle libertà e ai nodi irrisolti
della secolarizzazione, fino ai pericoli e alle promesse
della tecnica. La novità di questi accadimenti non ha
nulla di «gentile», nell’accezione della parola che più ci ri-
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guarda, non solo perché a tale secolarizzazione prendono parte degli ebrei, ma soprattutto perché quello non
è il paganesimo pre-monoteista. «Tagliando i ponti con la
tradizione» greca, ebraica e cristiana, ma anche «opponendovisi», l’umanesimo secolarizzato propone una concezione senza precedenti dell’universalità umana, composta da una varietà di culti religiosi ovvero che non
professa alcuna credenza.
L’apertura di un dialogo dei credenti con questo umanesimo secolarizzato potrà avvenire all’ombra della metafora di uno spazio così gravido di separazioni identitarie?
Potrà fare propria l’ambizione di Henri de Lubac, che nel
1968, in Ateismo e senso dell’uomo (Cittadella, Assisi 1968),
in un commento alla Gaudium et spes, definì il dialogo tra
«umanesimo laico» e «antropologia cristiana» nei termini
di una «lotta», a partire dalla «forza di penetrazione spirituale dei due protagonisti»? Sarà possibile, se gli uni si ritrovano collocati sul sagrato, mentre gli altri rimangono
nel Sancta Sanctorum? Ma al di là delle parole che paiono
contraddirla, l’intenzione è quella di un’apertura, e vogliamo credere che quanti oggi vi si stanno impegnando
faranno del loro meglio per raccogliere la sfida.
smo non pone l’umanità dell’uomo a un livello abbastanza elevato», scrive Heidegger, il quale, «non decidendo né per né contro l’esserci di Dio» e senza pertanto
aderire all’«indifferentismo», non sembra poi, a conti
fatti, davvero ostile a un umanesimo… da ripensare continuamente. A condizione di cogliere tale «elevatezza»
nella «discesa» verso la più profonda povertà di linguaggio: quella del poeta, e fino ai «passi lenti» del contadino.
In questo spirito desidero richiamare tre momenti nei
quali si è cristallizzata l’idea dell’uomo secolarizzato, in
contrasto con la tradizione del mondo antico, dell’ebraismo e del cristianesimo, e di fronte ai mutamenti storici,
tecnici e scientifici: Erasmo, il Settecento francese, Freud.
Per mostrare che non si tratta tanto di una negazione di
Dio, quanto di un’interrogazione sull’«essere dell’uomo»,
che si rivela coestensiva tanto al bisogno di credere antropologico, universale e pre-religioso (da tenere distinto
dalla religione istituzionale), quanto al desiderio di sapere
che anima la libertà di pensiero. Di conseguenza, questo
umanesimo che chiamiamo secolarizzato ha rinunciato
a fissare un Oggetto assoluto di desiderio uguale per tutti,
senza peraltro rinunciare a questi due universali che sono
il bisogno di credere e il desiderio di sapere, né tantomeno
ai mezzi per delucidarli.
1. Perché osare: Sar tre e Heidegger
Nel momento attuale, in cui, insieme allo scontro delle
religioni e attraverso di esso, i valori di libertà e di uguaglianza di possibilità scuotono il pianeta, non si tratta forse
di movimenti che si richiamano all’umanesimo universalista? Ho dunque intitolato questa relazione «Osare l’umanesimo». Perché? Quando viene fissato in sistemi – quello
di Auguste Comte o quello di Marx, passando da quel «radicalismo secolarizzato» del quale Sarte afferma che mantiene i valori morali della religione ma rinuncia alla loro
garanzia divina, e che di conseguenza sono altrettante teologie che si ignorano reciprocamente – l’umanesimo appare come un residuo metafisico. Rimuove il culto divino
dell’Assoluto nella società o nella natura umana per arenarsi in una sociolatria o antropolatria che la filosofia contemporanea non ha mancato di mettere in ridicolo.
I due testi di riferimento sull’umanesimo dopo la
Shoah, la conferenza di Sartre del 1945 L’esistenzialismo
è un umanismo (ed. it. Mursia, Milano 61990) e la Lettera
sull’umanismo di Heidegger a Jean Beaufret, del 1946
(ed. it. Adelphi, Milano 71995), fanno appena un’allusione alla genealogia biblica ed evangelica di tale concetto (l’elezione dell’uomo ebreo da parte di JHWH nella
Bibbia; un Dio-amore che si è fatto uomo secondo i Vangeli). Mentre Sartre insiste sulla libertà nell’esistenza che,
presso l’umano, precederebbe l’essenza, Heidegger sviluppa la prossimità ek-statica dell’Essere di cui l’uomo sarebbe il pastore: l’Essere trova riparo nel linguaggio, ma
rimane «nascosto», inaccessibile alla filosofia.
Quali che siano i molteplici volti dell’umanesimo che
mi accingo, per sommi capi, a richiamare, essi cercano di
costruire una rappresentazione dell’uomo attraverso una
«trasvalutazione», secondo Nietzsche e nel migliore dei
casi, di alcune rappresentazioni precedenti frutto della
tradizione greco-romana/biblica/evangelica: «L’umani-
2 . Fra i costrut tori: Erasmo,
l’Illuminismo, Freud
1. Erasmo: come addomesticare la follia
Contrariamente a un diffuso preconcetto, Erasmo,
quando scrive il suo Elogio della follia (1511), non mira a
riabilitare l’homo romanus. Non è un sistema filosofico,
non ha un programma politico: nel momento in cui si cristallizza in Erasmo, l’umanesimo è un’esperienza del linguaggio che addomestica la follia e sogna la pace.
L’umanesimo del Rinascimento si separa dalla teologia
quando il teologo Erasmo, appassionato della retorica antica, si esprime per bocca della Follia: «Senza di me (dice
Erasmo / la Follia) il mondo non può vivere un solo
istante». Che fare? Nessun peccato, nessuna assoluzione,
Erasmo ci offre, molto puntualmente, una declamazione.
Egli colloca la Follia in un teatro ambulante: che il suo
elogio sia in realtà una satira? Del resto non è lui che
parla, è un altro, un’altra, una donna che sragiona, fino
a impadronirsi dolcemente degli stessi apostoli, dei mistici e degli amanti. Teatrale, polifonico, «stadio estetico
ironico» (Kierkegaard), qui l’umanesimo non ci trascende,
ci cerca piuttosto in quanto è più inconfessabile.
2. Diderot e Sade: malattia,
passione, impudenza del proferire
Ecco come, così denotato, l’umanesimo si stacca da
quello che è stato chiamato a posteriori l’«umanesimo cristiano» che riassumerebbe il «superamento» pascaliano:
«Imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo (…).
Ascoltate Dio» (Pensieri, 131 [ed. Lafuma]).
La diagnosi, dopo che Nietzsche l’ha formulata alla
fine del XIX secolo, si diffonde e si aggrava: assegnando
agli esseri umani la preoccupazione di elevarsi, di tra-
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Il card. Ravasi a Parigi
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Aprendo ufficialmente i lavori, il cardinale ha fatto ricorso a una
parabola per esprimere l’intenzionalità che anima il Cortile dei gentili.
«Il cortile per sua natura è uno spazio aperto», uno spazio specifico e diverso da una corte, o da un palazzo (luoghi della politica), e
diverso dal tempio (luogo del sacro, del religioso). Esso permette un
orientamento più vasto, un respiro più ampio. «Questo cortile, che è
il cortile del Tempio di Gerusalemme al quale potevano accedere
anche i pagani, i gentili, aveva però un muro basso che lo separava.
Quindi la libertà non era assoluta. C’era una frontiera, una distinzione
radicale nella delimitazione dello spazio. (…) Arriva un ebreo il cui
nome, credenti e non credenti, conosciamo: Gesù di Nazaret». Secondo l’apostolo Paolo, nella sua lettera agli Efesini, «Cristo si pianta
davanti a quel muro, si colloca di fronte a quel confine e dei due popoli, gentili ed ebrei, fa un solo popolo abbattendo, eliminando il
muro di separazione intermedio, cioè l’inimicizia». Il Cortile dei gentili, dunque, come spazio liberato dall’inimicizia, dall’ostilità reciproca,
ma non per questo luogo in cui si rinuncia alle specifiche identità:
«Ciascuno sta coi piedi piantati nel proprio territorio, nel proprio cortile,
ma non c’è più una separazione, una distinzione che porta in sé il segno
della morte, dell’inimicizia, dell’intolleranza e della mancanza di rispetto
per l’altro».
«Immaginiamo ora – ha proseguito Ravasi – che sopra questo cortile,
duplice ma non separato, distinto ma non ostile, si accendano nel cielo
tre stelle. Sono le stelle che vogliamo accendere (…) anche per la cultura
contemporanea». Tre stelle ideali, dunque, chiamate a brillare nel cielo di
un cortile simbolico.
La prima è «la stella del dialogo, termine greco che suppone due logoi,
due discorsi, due ragioni, ma che si attraversano reciprocamente (dialogos)». La seconda è quella del «mistero dell’esistenza (…) quel segreto
profondo nel quale nascono tutte le domande di senso, di significato, di
scopo, di fine nella vita (…). Il mistero che è in noi come un vento che attraversa tutte le regioni del mondo, tutti i cortili» e si esprime nelle domande che toccano i grandi temi dell’esistenza: «Il tema dell’amore, il tema
del male, il tema del dolore, il tema della verità, il tema del senso dell’esistenza, il tema della comunione tra i popoli e le culture». L’ultima stella è
«la stella dell’essere in tutte le sue dimensioni, sia fisiche sia spirituali. (…)
L’essere è scavato ininterrottamente dalla cultura, è scavato dalla scienza,
è scavato in maniera tormentata dalla filosofia, è scavato da tutte le religioni: il mistero dell’essere, non solo dell’esistere umano, ma di tutto ciò
che ci circonda e che è anche in noi».
Il presidente del Pontificio consiglio della cultura ha poi preso in prestito un’immagine di Wittgenstein. «Nel suo Tractatus logicus-philosophicus, il grande filosofo austriaco scrive: “Ho indagato i contorni di
un’isola, ma ciò che alla fine ho scoperto sono le frontiere dell’oceano”.
Chi cammina su una spiaggia, se guarda solo da una parte, vede tutto ciò
che è finito, limitato, un perimetro, un’isola (…). Ma su quella stessa linea litorale battono le onde dell’oceano e io devo anche guardare al di là. Alla
fine, ciò che l’umanità ininterrottamente fa non è soltanto studiare l’essere
verificabile, sperimentabile. Attraverso l’arte, la poesia, la mistica, le religioni, vuole anche scoprire l’infinito, l’eterno.
“L’universo è fluido e mutevole; il linguaggio è rigido”, scriveva lo scrittore argentino Borges. Ecco allora il compito di questo cortile. Non solo invitare al confronto, non solo interrogarsi sulle grandi domande, ma anche
l’invito a tentare il sentiero d’altura che va verso l’eterno e l’infinito fluido
scendersi, l’umanesimo cristiano, e con lui alcune correnti
dette umaniste, imporrebbero un’immagine dell’uomo
duplice e pericolosa. Da una parte, la creatura peccatrice,
decaduta, «bionegativa»; dall’altra l’incitamento all’eroismo che si persegue nell’«esistenzialismo dell’ostinazione»
(Sloterdijk) del quotidiano, vale a dire nel culto olimpico.
Sempre e comunque in astinenza di Dio e colpito da un
difetto d’origine (il «peccato originale» dei teologi; la
«prematurazione» secondo l’approccio bio-psicologico),
l’umanità sarebbe una specie handicappata; mentre
l’umanesimo che ne deriva si vede condannato a ritirarsi
nella sola universalità che gli è concessa, quella dei sofferenti e dei malati.
Avverto la riduzione dell’umanesimo a questi due
estremi (miserabilismo / «fragilismo» e ostinazione riparatrice o eroizzante) come una vera e propria violenza ai
danni dell’esperienza specifica e complessa delle persone
in situazione di handicap. Vi vedo l’oblio di due componenti essenziali dell’umanesimo. In primo luogo, l’etica
della felicità e della libertà in Baruch Spinoza, di cui basti
qui ricordare il celebre «Deus sive natura» con le sue molteplici interpretazioni libertarie, atee e oggi ecologiche
sullo sfondo della crisi climatica e nucleare, nonché la
sempre enigmatica formula di riconciliazione nell’Etica:
«Dio ama se stesso con un amore intellettuale infinito». E
poi, gli illuministi francesi, che, con Diderot e Sade in
particolare, sollevano più coraggiosamente che mai il sipario sulle singolari passioni e su come convivere con esse.
Diderot, ex canonico, non poteva dimenticare la miseria del corpo umano. L’ha cercata nel corpo handicappato, in particolare, di un cieco di Cambridge, geometra
del genio, che aveva l’«anima sulla punta delle dita» e calcolava meglio di chiunque altro le cubature senza averle
mai viste. Diderot gli dedica la sua Lettera sui ciechi a uso
di coloro che vedono (1749), dove, ribellandosi, partendo
dal punto di vista dell’handicap, contro la teologia della
predestinazione, da deista che era diviene ateo, cosa che
gli procurò l’incarcerazione. È nato l’umanesimo politico,
che fa del cieco un soggetto politico, e invita la compagine
sociale ad assumersi le sue responsabilità a fronte dell’irreparabile. Per di più, ben presto l’enciclopedista approfondirà questa dimensione orizzontale del nuovo
umanesimo interattivo. La sua Lettera sui sordi e muti
(1751) procede per successivi slittamenti di senso fino a
rivolgersi a tutti quelli che non sanno più né ascoltare né
comprendere. Prendendosela con l’oscurantismo e auspi-
opo l’anteprima ospitata dall’Università di Bologna il 12 febbraio
(cf. Regno-doc. 5,2011,155s), il Cortile dei gentili – istituzione fondata dal Pontificio consiglio della cultura come spazio di «dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei» – ha celebrato
il suo evento inaugurale nella significativa cornice di Parigi, la «città dei
lumi», il 24-25 marzo. Nelle due intense giornate di lavoro si sono succedute tre sessioni di dialogo in tre luoghi simbolo della cultura laica:
la sede dell’UNESCO, (24 marzo); la Sorbona e l’Institut de France (25
marzo). La tavola rotonda conclusiva, al Collège des Bernardins, è stata
l’ultimo atto prima dello spettacolo di chiusura sul piazzale di NotreDame, durante il quale Benedetto XVI è intervenuto leggendo un videomessaggio ai giovani.
Al presidente del Pontificio consiglio della cultura, card. Gianfranco Ravasi, era assegnata la co-presidenza di tutte le sessioni. In ciascuna delle sedi egli ha potuto offrire, con brevi interventi di saluto,
opportune chiavi di lettura dell’iniziativa di cui riportiamo alcuni passaggi significativi (trascritti dai servizi video scaricabili dal sito web
ktotv.com).
All’UNESCO
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e mutevole, quello che i credenti chiamano Dio, e che i non credenti chiamano mistero o affidano semplicemente a un interrogativo».
Alla Sorbona
Nel saluto pronunciato all’aula magna della Sorbona, il cardinale ha
fatto ricorso alle parole «ricerca» e «dialogo» per descrivere lo spirito dell’iniziativa.
«Potremmo caratterizzare il nostro incontro a partire da due termini
fondamentali. Il primo termine è ricerca, che io situerei nella scia dell’Apologia di Socrate, un testo magnifico nel quale Platone fa dire al suo
maestro questa frase illuminante: “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”».
Ravasi ha poi proseguito: «Non è senza significato se il termine credente non indica solo colui che ha creduto una volta per tutte. Ma colui
che, come indica l’utilizzo del participio presente del verbo credere, rinnova il suo credo costantemente». Qui ha ricordato un suo incontro con
lo scrittore Julien Green, il quale, interrogato su ciò che conferiva coerenza
alla sua fede, «aveva dato una risposta di tenore agostiniano: “Finché voi
siete in ricerca, potete dormire tranquillo”. È quello che vogliamo fare qui
– ha ribadito il cardinale: lasciarci anche noi prendere dalla viva inquietudine e dal fremito della ricerca».
Una seconda parola chiave è stata evocata nel suo intervento. «Un
termine d’ordine strutturale per il Cortile dei gentili (…). Si tratta della parola dialogo, che significa l’utilizzo condiviso (dia) della ragione (logos)».
Nella diversità degli approcci e dei cammini, ha sottolineato ancora Ravasi, «la ragione e la fede s’interrogano sulle questioni ultime dell’essere e
dell’esistenza. Il loro confronto deve svilupparsi con rigore, nella libertà,
senza cadere in un esclusivismo radicale o in un facile sincretismo, accettando fino in fondo la sfida di esporsi su terreni sconosciuti».
La conclusione è stata affidata alle parole del poeta anglo-americano
Wystad H. Auden: «Abbiamo soprattutto bisogno di silenzio e di calore.
Produciamo soltanto freddo e baccano». Nella sua semplicità e assenza di
pretese, lo spazio del Cortile vorrebbe offrire, nelle parole del presule, «il
silenzio luminoso della riflessione e il calore della speranza».
All’Institut de France
Per caratterizzare l’incontro con gli accademici di Francia, pensato per
mostrare le declinazioni pratiche del dialogo su tre temi di grande interesse per il dibattito culturale odierno («etica, economia e finanza»; «diritto
e molteplicità dei riferimenti culturali»; «arte, culto e cultura»), il card. Ra-
cando che la monarchia riconosca la libertà di pensiero,
si rivolge allo spazio interiore di ciascuno, all’esperienza
soggettiva di quel che significa «ascoltare» e «comprendere». Si sarà ricordato dell’Apocalisse di san Giovanni?
«Beato chi legge e beati coloro che ascoltano» (Ap 1,3). In
questi nostri tempi di catastrofi sociali o cosmiche, dalla
reinvenzione della capacità di pensare può ricominciare
la vita, e non una vita puramente fisiologica, che sarebbe
una zoologia, ma una bio-grafia (ricordiamo Aristotele):
un’irriducibile soggettività che sia condivisibile.
Desiderio e piacere di creare dei legami, di vivere insieme, senza dimenticare come si fa a stare soli: con l’Illuminismo e Freud, l’umanesimo sarà soprattutto un
erotismo, nel senso etimologico del termine, né «astinenza» né tragedia, ma creatività innovante. Subito, tuttavia, l’accompagna un’aporia: come poter vivere questo
erotismo senza quel misto di vincoli, di repressioni e d’illusioni che le religioni gli hanno tessuto attorno? La caricatura dello scrittore satirico contro la clausura coatta
ne La religiosa segna una svolta: gli amici di Diderot lo
trovano in lacrime, egli non può, per sua stessa confessione, terminare il manoscritto del «racconto a me stesso
che sto facendo». Scampata al convento, la sua religiosa
vasi ha scelto «una parola chiave della tradizione giudeo-cristiana, lo
shema-akouein, ovvero l’ascolto fatto di rispetto e di profonda attenzione all’altro», e il binomio «cercare e trovare», attinto tra i Pensieri
di Pascal da quello «più densamente teologico».
«“La verità è come un diamante” – ha detto il cardinale citando
l’antica saggezza orientale –. Essa è una, ma ha molteplici facce. Dal
momento che se ne scopre una faccia, è necessario proseguire il cammino della ricerca», come suggeriva il poeta e romanziere Jean Cocteau, accademico di Francia, che «nel suo Journal d’un inconnu
scriveva: “Trovare prima; cercare poi”. È quanto vorremmo sviluppare
anche noi – ha ripreso Ravasi – nel corso del nostro incontro».
Richiamando i «tre elementi fondamentali dell’essere e dell’esistenza» messi a tema della sessione, il cardinale ha colto l’occasione per
ribadire i caratteri di un dialogo intellettualmente onesto e profondo:
«Credenti e non credenti studiano questi domini a partire da punti di
vista differenti, ciascuno conservando i piedi ben piantati nel suo cortile di ricerca e di scoperta. Il dialogo costringe tutti i pensatori a essere
methorios. Tale definizione di sapiente, che dobbiamo a Filone d’Alessandria, è in tal senso illuminante. Piazzato sulla frontiera, ben ancorato
nel suo territorio, il sapiente allarga il suo sguardo al di là della frontiera
mentre apre le sue orecchie all’ascolto del ragionamento dell’altro. (…)
La ricchezza degli orizzonti che si apre davanti a noi ci impedisce ogni
fondamentalismo ed esclusivismo», ma anche ogni parvenza di facile
accordo che risulterebbe «confuso, minimalista, perfino sincretista».
Ravasi ha rinnovato l’invito a dialogare «nella chiarezza, senza confusione e senza falso irenismo», ripetendo che il dialogo «non deve
nascondere, ma piuttosto sottolineare l’identità specifica di ciascuno
dei partner. Esso deve infine aver luogo sull’unico terreno dove tutti
possono ritrovarsi, quello dell’umanità comune». Su tale terreno il cristiano deve presentarsi «col rigore dello statuto epistemologico della
teologia; con la sua visione antropologica elaborata in secoli di riflessione intorno ai temi fondamentali dell’esistenza della persona
umana»; col suo ricco patrimonio artistico e culturale che ha segnato
l’ethos dell’Occidente cristiano.
«Questo formidabile bagaglio di sapienza e di bellezza», ha concluso il cardinale, «dev’essere “messo sulla tavola” davanti al gentile; il
quale, a sua volta, presenterà i risultati di quanto egli avrà instancabilmente cercato, e di quanto avrà trovato alla luce della ragione e nella
verificazione sperimentale».
M. B.
non trova più senso, nella sua vita, di quanto ne trovi Diderot stesso nello scrivere un romanzo. Lo ritroverà ne Il
nipote di Rameau (ed. fr. 1762, ed. ted. 1805, 1821), in
cui l’«impudenza del proferire» (la definizione è di Hegel)
sarà il marchio distintivo di questo nuovo umanesimo
emergente che la Fenomenologia dello spirito coglie nel
concetto di «cultura» esemplificato dalla cultura francese.
In effetti, mentre Rousseau, ne La nuova Eloisa e nell’Emilio, inventa la moderna coppia bifronte, un tetto
sotto il quale procreare e un nido in cui allevare i cittadini
dello stato borghese, l’impudenza del proferire esplode nei
testi del marchese de Sade. Essa svela la crudeltà dell’onnipotenza pulsionale degli uomini e delle donne quando
pretendono di liberarsi dalla Causa divina e dalle leggi
morali che da essa promanano, per attingere a un infinito non più posto nell’aldilà, ma al fondo delle passioni.
L’energia oscura di questo nuovo Elogio della follia, una
sorta di inverso satanico del teismo, di sarcastica catastrofe dell’umanesimo classico, abbandona la prudenza
umanista dei predecessori. E le sue stesse aporie segnalano al lettore, di volta in volta affascinato o turbato, il
vuoto dell’infinita trascendenza – che si salda con la crudeltà di un desiderio mortalmente infinito – ma anche
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l’imbarazzo di un umanesimo che, dal momento che censura questa «impudenza del proferire», viene meno alla
sua ambizione di scrutare dentro l’«essere dell’uomo».
3. Freud; fra bisogno di credere
e desiderio di sapere
Sopravviene qui la scoperta dell’inconscio e si intravede una nuova versione dell’umanesimo: ancora e sempre «nascosta», passata sotto silenzio. Nel 1911, nelle sue
Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, Freud
postula una «rivoluzione fisica della materia» che costituisce l’ominizzazione e determina l’essere umano: all’onnipotenza del «principio di piacere» che domina il
vivente, e l’umano ai suoi inizi, succede l’instaurazione
del «principio di realtà». Allorché una parte dell’energia
pulsionale è investita come rappresentazione psichica, è
l’assunzione della singolarità che si rappresenta come
un’unità simbolica trascendente tanto l’organismo quanto
la realtà esterna oggettiva.
Con ciò si vuole dire che, mentre la pulsione animale
segue il percorso generale della specie, la rappresentazione psichica (la psichizzazione) rinuncia alla soddisfazione pulsionale immediata, ed è una nuova specie di
realtà quella che l’umano prende come fine dei suoi piaceri di tipo nuovo: la realtà psichica. Si dirà che compie un
«investimento», Besetzung in tedesco, Cathexis in inglese:
teniamo presenti queste parole. La realtà psichica distinta
dalla realtà del corpo e da ciò che gli sta intorno diviene
dunque a sua volta fonte di piacere, nella ricerca di un
oggetto del desiderio che senza fine si sottrae.
Questa psichizzazione comporta una condizione indispensabile: la funzione paterna. Dal momento in cui
Romain Rolland porta Freud a riconoscere, nel contatto
materno, un «sentimento oceanico» come il prototipo
dell’estasi in cui eccelle l’esperienza religiosa, sarà l’identificazione primaria, Einfühlung, con la figura del Padre
nella «preistoria individuale» a orientare (secondo lo psicoanalista) lo scopo pulsionale degli umani. «Diventare
Uno con il padre» distacca l’infans dalla sola soddisfazione sensoriale, e sostiene la sua capacità d’investire le
rappresentazioni psichiche. Si noti che ci troviamo qui di
fronte alla rivolta di Edipo contro Laio, e che assai presto
il futuro essere parlante investe la funzione del padre che
lo riconosce e che egli riconosce: non il padre come «oggetto» di soddisfazione, ma come polo di identificazione
– doni e attese reciproche di riconoscimento.
L’atto psichico che qui viene posto in rilievo, l’«investimento», si dice in sanscrito *kred-dh, śrad-dha- , in latino
credo. Condotta dal desiderio materno per il padre (il proprio e/o quello del bambino), questa Einfühlung – «unificazione», «divenire Uno con il padre» – costituisce un
caso pre-religioso di «credere» come bisogno antropologico universale. Di conseguenza, questa Einfühlung nel
bisogno di credere appare come una pre-condizione del
linguaggio, superando la diade oceanica madre/infans e
rivolgendosi al Terzo in cui si compie l’«assunzione del
soggetto». «Ho creduto, perciò ho parlato», dice il salmista (cf. Sal 116,10), ripreso da Paolo nella Seconda lettera
ai Corinzi (2Cor 4,13).
Il monoteismo celebra questa verità antropologica del
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desiderio per il padre attraverso l’intermediario del bisogno di credere che apre la strada alla parola. Lacan lo
esprime così: «In men che non si dica, il dire fa Dio».
Freud stesso si dirà persuaso che le religioni istituzionalizzano alcune tappe di questa dinamica, e consolidano
talvolta il piacere di immaginare e di pensare, ma più
spesso intralciano il desiderio di innovare pensando. Al
contrario, una certa rinuncia pulsionale e il bisogno di credere ripreso dal desiderio di sapere nell’esperienza completa della soggettività, gli sembrano necessari alla
cultura, quale che essa sia: non possono dissolversi, possono solo «sublimarsi». E soprattutto rimettersi infinitamente in questione, attraverso il desiderio di sapere che
prorompe nella curiosità del bambino e nell’irresistibile
impeto del ricercatore.
Per quanto verticale nel suo superamento ascendente
verso la Legge o l’Ideale, questa dimensione dell’Homo
religiosus che è l’Homo sapiens non è esclusivamente ascetica, ma comporta tanto un suo inferno quanto un suo
paradiso. L’esperienza interiore della mistica, in particolare, ha costruito la complessità psicosessuale dell’uomo e
della donna europei: Ego Affectus est e Credo Experto, dice
san Bernardo, uomo d’arme e di amori, crociato, contemporaneo dei trovatori, precursore del Rinascimento;
«Chiedo a Dio di lasciarmi libero da Dio» insiste dal
canto suo Meister Eckhart, tramandando alla filosofia tedesca il suo lessico mistico; «Giocate, sorelle mie, a scacchi, sì, per dare scacco matto al Signore», propone infine
con un sorriso Teresa d’Avila.
Tuttavia, in parallelo a questo procedere nel bisogno di
credere – o secondo Freud sempre, poiché la mistica e la
psicoanalisi avrebbero «un approccio similare» – la psicoanalisi, con le scienze umane, solleva una questione più
generale che riguarda la struttura stessa dell’Homo religiosus. Il quale non sarebbe capace di chiarire l’odiamore che
lo conduce, se non facendosi da parte e assumendolo come
oggetto del pensiero. Potrà egli aprire la sua teologia alle
molteplici interpretazioni delle molteplici varianti dei bisogni di credere? La ricerca psicoanalitica scommette che
è possibile dire l’amore dell’altro (e ogni investimento o
credo), infinitamente; analizzarsi e analizzarlo, infinitamente? La psicoanalisi non sarà una delle varianti della
teo-logia? La sua variante ultima – chi lo sa – hic et nunc?
3. I nuovi at tori dell’umanesimo:
le donne, le madri, gli adolescenti
L’ascolto psicoanalitico ci permette di accostare alcuni nuovi attori dell’umanesimo – le passioni liberate, le
donne, le madri, i ragazzi (tra gli altri), la cui irruzione
nella cultura e nella politica imbarazza oggi le ideologie
tradizionali, sia che si tratti dei dogmi delle religioni rivelate, sia delle debolezze dell’umanesimo.
Non lo si ripeterà mai abbastanza: da Théroigne de
Méricourt a Louise Michel e Simone de Beauvoir, l’umanesimo è un femminismo. Pertanto, l’accesso – incompiuto
– delle donne alla libertà di amare, di procreare, di pensare, di intraprendere, ovvero di governare, non può far
dimenticare che la secolarizzazione è l’unica civiltà che
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non possiede alcun discorso sulla maternità, sebbene una
parte importante della ricerca nella psicoanalisi contemporanea sia dedicata attualmente alla relazione precoce
madre/bambino.
Cos’è una madre? È l’attrice di ciò che definirei l’affidamento. La madre costruisce con ciascuno dei nuovi
venuti un codice sensibile, il pre-linguaggio, e trasforma
il contatto in tatto per condurre l’infans al linguaggio.
Prima del bisogno di credere che manifesta l’identificazione
primaria con il Padre della preistoria individuale, l’affidamento materno si trova all’alba dello psichismo, in
quanto precede il bisogno di credere che le religioni istituzionalizzeranno. Come potrà un soggetto donna, a cui
si chiede di essere amante e per giunta sempre più attiva
sul piano professionale, dire «io» a questo crocevia della
passione/vocazione materna? Le religioni o la dimenticano o ne fanno una dea, una regina. «La donna libera
non è ancora nata», scriveva Simone de Beauvoir. Tanto
meno la madre libera, e non ci sarà alcun nuovo umanesimo senza che le madri siano state capaci di prendere la
parola. Bisogna essere una santa come Teresa d’Avila per
costruire un’altra maternità, che lei definisce in termini
di: «non godere solamente di sé e per sé», ma «pensare
dal punto di vista dell’altro», «senza legarsi mai le mani»?
Ma se l’umanesimo è un femminismo, è anche adolescenza. Perché questi ragazzi anoressici, suicidi, tossici,
incendiari, ma anche sognatori, innovatori, liberatori, romantici affascinano e fanno paura? Perché sono degli innamorati, malati di un ideale, che credono ciecamente
che l’Oggetto d’Amore Assoluto esista. E quando non lo
trovano, questi Adami ed Eve, questi Romei e Giuliette,
diventano nichilisti, spacca tutto, kamikaze… La secolarizzazione è anche l’unica civiltà priva di riti d’iniziazione
per i suoi adolescenti. Gli psicologi, gli educatori, i sociologi, i genitori riusciranno a decifrare queste «malattie
d’idealità», questi bisogni di credere che, ad esempio, si
lasciano intravedere attraverso i loro eccessi erotici e i loro
passaggi all’atto mortiferi (thanatici)?
Per finire, desidero richiamare le sfide della tecnica e
dell’interculturalità, che l’umanesimo, pur così screditato,
è chiamato a raccogliere; perché ho l’ardire di pensare
che esso possa continuamente ricostruire se stesso.
4. Esperienza interiore
e iperconnet tività
All’inizio del terzo millennio, lo sviluppo della tecnica
impone un nuovo parametro: «Ci sono sempre informazioni». Nella cultura dell’impresa iperconnessa e delle tecnologie intelligenti che si introducono nel più intimo,
ormai in corso di colonizzazione da parte della biotecnica, assistiamo alla scomparsa dello spazio interiore di
cui godeva Teresa nelle sue sette «dimore», e che Diderot
già cercava, con i sordi e i muti, di riabilitare?
A conclusione della sua Critica della ragion pura,
Kant intravede la possibilità di un «corpus mysticum di
esseri razionali in esso contenuti». Questa metafora dell’unione con se stesso e con il totalmente altro non può essere intesa solo nel senso svilito di una «solidarietà» o
«fraternità» via Twitter. Il patto con il Totalmente Altro,
che tiene il soggetto mistico sotto il proprio dominio, non
si riduce alle sole leggi morali, ma le trasforma in amore
assoluto. La seduzione esercitata oggi dalla mistica rivela
un’assenza: ci mancano oggi un’esperienza amorosa e un
discorso amoroso moderni. Con la scoperta o la rivisitazione del corpus mysticum qualcuno di noi cerca di reinventarli.
Frattanto, le nuove operatività tecnologiche risvegliano oggi antiche fobie contro la tecnica che si presume
snaturi la sacro-santa «natura umana». L’orrore atomico
alimenta questi terrori. L’intervento della scienza, in utero
o sul DNA, allorché diviene capace di rimediare alle malformazioni o alle malattie, provoca il liberismo degli uni
e le resistenze spaventate degli altri: pro o contro, «bimbosperanza» o «bimbo-medicina»? Eppure, l’«automanipolazione dell’essere umano» (secondo la formula del
gesuita Karl Rahner) non ha avuto inizio con l’era atomica, né con quella delle cellule staminali.
Altri si dicono certi che sarà sufficiente dare libero
corso alle «dot-com», alla finanza, all’impresa e alle tecnologie intelligenti che, «in sé stesse», dovrebbero generare la versione dell’umanesimo del terzo millennio,
gettando il discredito sull’«arcaismo» dello spazio soggettivo, definito «umanolatrico» e autocontemplativo.
Bene, l’eredità dell’intuizione freudiana non è certo un
Sé ideale, preso dalla preoccupazione di dominare la propria «materia». Piuttosto, in parallelo al secolo biotech, è
l’intelligenza della più intima specificità. Cerco, scopro,
comprendo, condivido la lingua singolare di questo
uomo, di questa donna: è l’haecceitas di Duns Scot, il
«questo» − l’umanesimo dovrebbe essere un ascolto del singolare.
L’ultimo e non minore enigma – dopo la Shoah – di
fronte al quale siamo posti dalla globalizzazione galoppante riguarda le mutazioni del soggetto singolo, che, qualsiasi figura assuma, si è costituito sulla scia della
tradizione greco-ebraico-cristiana. Il ribaltamento delle
strutture edipiche in seno alla famiglia allargata; ma
anche l’emergere di culture (musulmane, confuciane,
shintoiste) che non paiono condividere le medesime logiche dell’individualismo libertario, pur essendone attratte,
non aboliscono veramente l’universalità delle costanti antropologiche, così come sono state scoperte e poi fissate
dai monoteismi, e che l’esperienza analitica da Freud in
poi si sforza di chiarire. Questi ribaltamenti ci obbligano
tuttavia ad affrontare, con un misto di fermezza e di tolleranza, tanto i codici etici necessari all’autonomia del
pensiero e alla libertà del soggetto – che si sono costituiti
nel solco di questa tradizione e attraverso le sue rotture –
quanto le sue contingenze trasgressive, ribelli, «queer» o
«impure».
Come avrete capito, io ritengo che, avviata dal Rinascimento e dall’Illuminismo, dopo la modernità normativa dell’ebraismo moderno (Herman Cohen, Hans
Rosenzweig, Gershom Scholem, Emmanuel Levinas) e la
modernità critica (Nietzsche e Heidegger che si appropriano o reinventano Kafka, Benjamin, Arendt), siamo
in cerca di una terza modernità, quella dell’umanesimo
analitico. Di ispirazione freudiana, essa ha la possibilità di
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tudi e commenti
aprire tutte le tradizioni religiose del mondo globalizzato
all’esperienza del pensiero.
5. Cinesi ed europei: universo o multiverso?
L’incontro delle culture è certamente l’altra sfida essenziale cui l’attualità della globalizzazione ci mette di
fronte. Tra gli esempi più significativi di tale sfida vi è
quello dell’incontro della tradizione cinese con il monoteismo ebraico e cristiano.
Contemporaneo della missione gesuita in Cina, Leibniz, insieme ai suoi predecessori, riteneva che i cinesi non
solo non conoscessero il «nostro Dio», ma pensassero che
la materia stessa fosse provvista di una sorta d’intelligenza, di Legge, «LI» ( ). E che a partire dalla matematica si potesse giungere alla visione di un… «umanesimo» alla cinese il cui enigma ancora ci sfugge e che
non esitiamo a stigmatizzare come un’«arroganza». Sarà
forse perché si è più a proprio agio nell’adattarsi alla logica dell’impresa e della connessione, in cui il Sé si riduce
a un punto d’impatto degli infiniti ripiegamenti cosmici e
sociali (oggi chiaramente nazionali, e che giungono ad
annullarlo)? D’altra parte, ereditata dai monoteismi
ebraico-cristiani, la permanente decostruzione/costruzione
che distingue l’umanesimo europeo nella sua aspirazione
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Registrazione del Tribunale di Bologna N. 2237 del 24.10.1957.
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In copertina:
Beatificazione di Giovanni Paolo II,
Roma, Piazza San Pietro,
1° maggio 2011, Agenzia SIR.
universale non sarà un handicap che rischia di costituire un impedimento alla nostra competitività imprenditoriale?
Io ritengo, al contrario, che nel voler ignorare le logiche
dell’esperienza interiore ci si assume il rischio di vedere l’angoscia della finitezza e l’esplosione della violenza ostacolare
continuamente la connettività, la cooperazione e la riparazione a opera delle omeotecniche di questo mondo
ideale che la Nuova Alleanza nella complessità ci promette.
L’umanità globalizzata cerca un incontro tra, da un lato,
l’adattabilità cinese alle intelligenze cosmiche e sociali, e,
dall’altro, l’interazione politica tra quelle complessità psicosomatiche delle quali Proust riassume l’umanesimo postcristiano in questi termini: «I malati si sentono più vicini
alla loro anima».
Ho solo indicato alcune varietà di questa umanità che
ormai non ci appare più come un universo, ma come
quello che definirei un «multiverso», metafora che prendo
a prestito volentieri, in un tempo in cui l’astrofisica rimodella la nostra comprensione dell’umano, dalla teoria detta
«delle superstringhe» (teoria della fisica quantistica che fa
proliferare gli universi possibili, e teoria dell’inflazione che
li spinge a esistere). Una meta-Legge governa l’insieme: c’è
un’umanità universale i cui concetti e la cui prassi provengono dal monoteismo universalista e dalla rottura sopravvenuta nei suoi confronti; ma la singolarità di ciascuna
delle sue componenti è di una finezza tale che la legge generale assume modalità differenti.
In questo spirito, e fintanto che soffia sul mondo arabo
un vento di libertà tanto imperioso quanto incerto, la riflessione del rabbino capo di Gran Bretagna mi ha rivelato un senso dell’Akedà (il sacrificio di Isacco; ndt)che va
oltre, egli dice, lo «stretto particolarismo», e apre la strada
alla «dignità nella differenza». L’alleanza sarebbe un «legame di fiducia» che manifesta la «tenera sollecitudine di
Dio», posto che essa ritiene che un «legame non ne esclude
altri» e che, di conseguenza, i nemici tradizionali d’Israele,
Egitto e Assiria possono essere «eletti insieme a Israele».
L’alleanza implicherebbe dunque un riassorbimento delle
diversità nell’Unico? Potrebbe essere... doppia, tripla, infinita?
Osservo: l’Uno-Tutto (del monoteismo biblico ed evangelico) si è invertito, estrovertito, capovolto nell’Universale.
Ma, a fronte delle emergenti diversità delle quali ho appena richiamato alcune singole «figure» o «mondi», quello
di cui oggi si è in cerca è un umanesimo multiversale.
E concludo. È possibile? L’attualità induce allo scetticismo. Ma se lo fosse, lo sarebbe solo a partire da e con le
nostre tradizioni dell’Universale e le loro modificazioni di
cui le crisi e gli sbalzi della secolarizzazione sono una testimonianza.
Vi sarò grata se accoglierete questa riflessione come un
invito a riprendere quel lungo cammino che risale alla preistoria, attraversa gli inconsci e si indirizza verso l’ignoto.
Mi piace scommettere che si apra davanti a noi una nuova
tappa, per l’ambizione che oggi nutriamo di riaprire la memoria delle religioni, basandoci sull’esperienza analitica e
con l’apporto di tutti coloro che si vorranno unire a noi.
JULIA KRISTEVA