Indice - Hoepli

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ECONOMIA
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Francia contro il dollaro da De Gaulle a Sarkozy
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La battaglia del denaro di plastica
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Inflazione al 3,8%, record dal ‘96. Volano i prezzi alla produzione
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UD 11 eco. L2
Euro: ok alla Slovacchia dal 1° gennaio 2009
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UD 12 eco. L1
Il Governatore della Banca d’Italia alla Bocconi. Draghi: «Crisi drammatica.
Per fortuna c’è l’euro»
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UD 13 eco. L1
Le poste italiane e il modello Deutsche Bank
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UD 13 eco. L2
Fidi a breve, rischio tagli
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UD 14 eco. L1
Fmi: «È la crisi peggiore dal 1930». Eurostat: Pil della zona euro cede lo 0,2%
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UD 14 eco. L2
Gli errori, la bufera e il capitalismo «sostenibile»
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UD 15 eco. L1
Cina, fine dei prezzi stracciati. Ora Pechino esporta inflazione
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UD 15 eco. L2
Alla Giornata mondiale dell’alimentazione il monito di Diouf: “Solo un decimo
dei 22 miliardi promessi sono davvero stati dati”
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UD 16 eco. L1
Il liberismo e la speranza
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UD 16 eco. L2
E ora la grande crisi del cibo può frenare la globalizzazione
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UD 17 eco. L1
L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione»
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«La globalizzazione? Può essere dolce»
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Contro il mercato della fame e della sete
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La moneta UNITÀ 10
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Francia contro il dollaro da De Gaulle a Sarkozy
Proponiamo di seguito una lettera di Giorgio Vergili a Sergio Romano e la relativa
risposta apparse sul “Corriere della sera” del 28 settembre 2008, in cui
viene svolta un’attenta analisi dei nodi dell’attuale crisi mondiale e sono illustrati i motivi
per cui urge una nuova Bretton Woods.
La gravità della crisi rende urgente una nuova Bretton Woods per stabilire che: 1) la
Federal Reserve, la maggiore responsabile del disastro, sia dotata di uno statuto simile a
quello della Banca Centrale Europea che la protegga dalle pressioni politiche; 2) anche
gli Usa debbono rispettare i parametri di Maastricht, perché la preoccupante crescita del
debito rischia di provocare la fuga degli investitori dai titoli pubblici con conseguente ulteriore deprezzamento del dollaro.
Con l’occasione, si dovrebbe cercare di convincere finalmente la Cina a rivalutare lo yuan
(o remimbi) in modo da porre un freno all’esportazione di merci cinesi e rendere più
competitivi i prodotti occidentali.
Giorgio Vergili
Caro Vergili, ricordo ai lettori che gli accordi di Bretton Woods furono stipulati nel luglio
del 1944 in una cittadina del New Hampshire. La guerra non era ancora finita, ma i rappresentanti di 44 Paesi alleati affrontarono i mali che avevano afflitto l’economia e la
finanza mondiali dopo la Grande guerra e la recessione del 1929. Occorreva ristabilire la
convertibilità delle monete e creare istituzioni che fornissero liquidità agli Stati in crisi e ai
Paesi in via di sviluppo. Mentre un famoso economista britannico, John Maynard Keynes,
avrebbe preferito creare una nuova unità monetaria, il bancor, gli Stati Uniti insistettero
perché la moneta di riferimento fosse il dollaro. Nacque così un ordine monetario in cui
ogni Paese avrebbe fissato il cambio della propria moneta in dollari, e il dollaro, a sua
volta, sarebbe stato convertibile in oro: un sistema solare in cui tutte le monete avrebbero ruotato intorno a quella degli Stati Uniti.
Il sistema si ruppe nel 1971 quando la guerra del Vietnam costrinse il presidente Nixon a
sospendere la convertibilità del dollaro in oro. Ma il dollaro non smise di essere la moneta di riferimento del sistema monetario. La finanza mondiale fu da allora, per molti aspetti, ancora più americana di quanto fosse stata precedentemente. Gli Stati Uniti non erano
più soggetti all’obbligo della convertibilità, ma continuarono a scrivere le regole del capitalismo e della finanza mondiali. Le leggi si facevano a Washington, le regole si fissavano
a Wall Street, e gli altri Paesi avrebbero dovuto adeguarsi al Galateo del capitalismo finanziario degli Stati Uniti. Ce ne accorgemmo tra l’altro quando il grande scandalo della
Enron, nel 2001, provocò una legge del Congresso (il Sarbanes-Oxley Act del 2002) che
complicava considerevolmente la quotazione a Wall Street delle società europee per
azioni. Quando ha criticato pubblicamente gli errori del capitalismo finanziario america-
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no e proposto di fronte all’Assemblea generale dell’Onu la convocazione di uno speciale G8, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha chiesto, di fatto, una nuova Bretton
Woods: un’idea che Giulio Tremonti aveva cominciato a far circolare in Italia sin dalla
scorsa primavera.
Per la Francia il discorso di Sarkozy è una rivincita storica. La prima battaglia contro il dollaro fu quella del generale De Gaulle verso la metà degli anni Sessanta. Con l’aiuto di un
influente monetarista francese, Jacques Rueff, il presidente della V Repubblica denunciò
più volte la pericolosa egemonia del dollaro. La decisione di Nixon nel 1971 gli avrebbe
fornito munizioni per una nuova e più decisiva offensiva. Ma il generale era morto e la
Francia, dopo le ripercussioni finanziarie della «rivoluzione studentesca» del 1968, non
era più in condizione di dare battaglia. Sarkozy sembra deciso a raccogliere, con qualche
possibilità di successo, l’eredità incompiuta di De Gaulle.
Sergio Romano
Fonte: “Corriere della sera”, 28 settembre 2008
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La battaglia del denaro di plastica
Che uso fanno gli italiani delle carte? Come si collocano in Europa in tale settore?
Perché gli italiani sono ancora diffidenti di fronte a questi mezzi di pagamento?
L’articolo che segue risponde alle domande appena poste.
Scena uno, la cassa si apre. «Sconto contante?». La cassa si chiude. La negoziante milanese di via Moscova paga alle banche il 2% su ogni incasso con il PagoBancomat, il 3%
per CartaSì, il 3,5% per American Express. Al cliente che salda cash può abbassare i
prezzi, affare fatto. Scena due, la cassa si apre. «Non accettiamo carte, prelevate al Bancomat». La cassa si chiude. Lo chef Davide Oldani del D’O di Cornaredo chiede solo banconote: «Con quello che risparmio tengo bassi costi e prezzi».
L’ha detto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi il 14 giugno, l’aveva ricordato
il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco in dicembre. L’Italia è sotto allarme: troppo
contante. Siamo il fanalino di coda d’Europa per utilizzo del denaro elettronico. Nove
pagamenti su dieci sono cash: il 91,1% contro il 60,6% dei francesi, il 69% degli inglesi,
l’82% dei tedeschi. Usiamo le carte di credito e di debito soltanto nel 3% delle transazioni, a Parigi e Londra è il quintuplo (16% e 17%). Per il sistema è un costo: 10 miliardi di
euro stima l’Abi, senza contare la pubblica amministrazione; 12-15 miliardi tutto compreso, giudica CartaSì. Sono i soldi spesi per trasportare le banconote, assicurarle, contarle,
impacchettarle. È un quinto dei costi di gestione del contante di tutta Europa: 50 miliardi. Ed è un terzo di tutte le transazioni di denaro passate su suolo italiano l’anno scorso:
34,9 miliardi di euro. Qualcosa si muove. La «war on cash», guerra al contante, sta iniziando anche da noi. Mercoledì partirà la campagna delle Poste «Zero contanti, più contenti». Ed entro l’anno «è prevista una campagna di sistema», annuncia Roberto Tittarelli, direttore generale di Mastercard Italia, che riunirà l’Abi, Mastercard, Visa e American
Express, «per accelerare l’utilizzo delle carte». Sarà d’aiuto anche la migrazione alla Sepa,
l’area europea dei pagamenti che dal 2008 renderà omogenee commissioni e carte in
tutta Europa, per la quale le banche italiane spenderanno 1,5 miliardi.
Ma perché in Italia circola ancora tanto contante? Eppure l’offerta c’è: «Oltre 50 milioni di
carte, quasi un milione di Pos per leggere i PagoBancomat, 8 milioni di clienti con conti
online», elenca Domenico Santececca dell’Abi. Perché soltanto la metà dei 31,3 milioni di
carte di credito sono attive? Perché i Pos sono 925 mila e gli operatori del commercio 1,6
milioni, quasi il doppio? Chi sono i «nemici» della moneta elettronica, i cavalieri del cash?
Con sintesi estrema ne abbiamo individuati quattro: 1) l’evasore, il titolare di partita Iva che
fa pagare in nero; 2) l’hacker, il pirata informatico che ruba i codici delle carte; 3) il piccolo esercente, che non ha potere contrattuale per ribassare le commissioni delle carte; 4)
infine, per paradosso ed estensione, il banchiere, per il doppio ruolo. Da un lato spinge
infatti alla diffusione delle carte per abbattere i costi di struttura, dall’altro deve tenere alte
le commissioni, essendo le banche socie dei circuiti delle carte di credito: Visa è un’asso-
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UNITÀ 10 La moneta
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ciazione di banche, Mastercard una spa partecipata da banche, lo stesso CartaSì, primo
azionista Intesa-Sanpaolo al 36,7%. Questi quattro profili corrispondono ai quattro freni
alla diffusione della moneta elettronica nel nostro Paese (oltre alla resistenza socioculturale). Vediamoli. Il primo freno è l’evasione: la carta di credito o il bonifico lasciano tracce.
Nel rapporto Istat 2006 (dati al 2004) si dice che l’economia sommersa in Italia copre il
16,6-17,7% del Pil: sono 230-240 miliardi di valore aggiunto non dichiarato, di cui l’80%
nei servizi. «L’uso del contante nasconde la criminalità economica », dicono al ministero
dell’Economia e sottolineano i tre provvedimenti presi. Uno è la Finanziaria 2007, che ha
limitato a mille euro il pagamento in contanti ai fornitori di servizi (obiettivo 100 euro nel
2009). L’altro è il disegno di legge Bersani che chiede l’obbligo, per la pubblica amministrazione, di accettare i pagamenti elettronici: «Ora sia applicato dal governo», esorta
l’Abi. Il terzo è il decreto anti-riciclaggio in arrivo, che vieta il trasferimento di contanti
quando il valore dell’operazione supera i 5 mila euro. «Bisogna fare emergere le falle dell’economia sommersa», dice Giorgio Avanzi, direttore generale di CartaSì. Che ha un
progetto: convenzionare commercialisti, notai, dentisti, farmacie, agenzie assicurative.
«Investiremo alcuni milioni per installare i terminali», dice. Sono in fase pilota: «Abbiamo
alcune migliaia di adesioni».
Il secondo freno è la sicurezza. L’Abi calcola che il numero delle frodi con carta di credito sia in calo, da 56.507 nel 2004 a 40.600 nel 2006, –28%. E Davide Steffanini, direttore generale di Visa Europe, reputa «in un euro ogni mille il livello fisiologico delle frodi:
lo stesso del contante». Ma molti consumatori sono ancora restii all’uso della carta, soprattutto online. «Il cliente venga assicurato contro l’hackeraggio», propone Gustavo Ghidini,
presidente onorario del Movimento consumatori. Il terzo freno è la frammentazione del
commercio italiano. Tre piccoli esercenti su 10 non accettano le carte. Le commissioni che
pagano sono un mistero: nessun dato ufficiale. Sembra siano in calo, quelle medie di
Cartasì sarebbero scese dall’1,81% del 2005 all’1,69% di oggi. Ma si sa che la grande
distribuzione paga molto meno, anche lo 0,2%. Mentre il piccolo esercente arriva al 4%
per la carta di credito e al 2% per il PagoBancomat. «È meno del costo di gestione del
contante», dice l’Abi. E Isabella Artioli, responsabile monetica in quella Unicredit che ha
investito 120 milioni in tre anni per potenziare i servizi «cashless», parla di «contrattazione». Il nodo però sono le commissioni interbancarie (lo 0,8%, dice CartaSì) che la banca
di chi paga gira a quella di chi riceve. Dure da abbattere. «Per il PagoBancomat versiamo
una quota fissa e una percentuale – dice Ernesto Ghidinelli, responsabile credito in Confcommercio –. Capiamo che è perché ci sono commissioni a livello interbancario. Il problema è l’entità. In Francia le commissioni ai commercianti sono più basse». «Stiamo cercando un trattamento agevolato per le piccole transazioni», annuncia Steffanini di Visa. E
il quarto freno? L’ambivalenza delle banche, che con una mano danno e con l’altra tolgono. Loro sostengono che «prevale l’interesse alla diffusione della monetica». Sarebbe un
bene per tutti. Unicredit ha calcolato che dimezzando le operazioni allo sportello si
potrebbe abbassare di 40 euro l’anno il costo del conto corrente.
Fonte: Alessandra Puato, “Corriere della sera”, 2 luglio 2007
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L’inflazione UNITÀ 11
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Inflazione al 3,8%, record dal ‘96.
Volano i prezzi alla produzione
L’articolo seguente fa il punto sull’attuale impennata dell’inflazione e prende
in considerazione i beni che più ne hanno risentito.
ROMA – Inflazione record; prezzi alla produzione alle stelle. I dati Istat e le stime di Eurostat, l’ufficio statistico delle comunità europee, delineano una crisi economica grave. A
giugno l’inflazione è salita al 3,8%. Pasta e benzina schizzano verso l’alto: gli spaghetti
costano il 22% in più rispetto ad un anno fa; la benzina in un mese è aumentata quasi
del 5%. Nel 2007 costava il 12,6% in meno. Un grido d’allarme che si ripete in tutta l’eurozona. Seguono lo stesso trend anche i prezzi alla produzione dell’industria italiana: a
maggio sono aumentati del 7,5%, la variazione tendenziale massima da gennaio 2003.
Come pure il dato su base mensile, che è aumentato dell’1,5%.
L’INFLAZIONE SEGUE L’INFIAMMATA – A giugno l’inflazione è salita al 3,8%, dal 3,6%
di maggio portandosi ai massimi dal luglio 1996. Su base mensile i prezzi sono aumentati dello 0,4%. Un grido d’allarme che si ripete in tutta l’eurozona. A giugno, l’inflazione
nella zona euro ha raggiunto quota 4%: è la prima volta dalla nascita di eurolandia, nel
1999. A maggio nell’eurozona l’inflazione era 3,7%; ad aprile 3,3% e a marzo 3,6%.
BENZINA E ALIMENTARI ACCELERANO L’INFLAZIONE – Sono ancora alimentari e
carburanti le voci che fanno accelerare l’inflazione a giugno in Italia. In base ai dati forniti dall’Istat nella stima preliminare, i prodotti alimentari sono cresciuti del 6,1%, con un
forte incremento soprattutto per la pasta i cui prezzi salgono in un anno del 22,4% (dal
20,7% di maggio). In forte tensione anche il comparto energetico (oggi nuovo massimo
storico del petrolio, per la prima volta venduto a 143 dollari al barile), dove si registra un
aumento dei prezzi del 14,8% annuale e del 2,8% su base mensile. L’aumento congiunturale è dovuto soprattutto ai carburanti, in particolare al gasolio, i cui prezzi in un mese
sono cresciuti del 5,5%, portando l’aumento tendenziale a sfondare il 31,2% (dal 26,3%);
la benzina in un mese è aumentata del 4,7% e in un anno del 12,6%.
RECORD PREZZI ALLA PRODUZIONE – Come per l’inflazione, è ancora l’energia che
pesa maggiormente sulla variazione record dei prezzi alla produzione. Su base annua, il
raggruppamento energia ha registrato un aumento del 21,5%. Rispetto al maggio di un
anno fa, schizzano verso l’alto i prezzi della produzione dei prodotti petroliferi raffinati
che aumentano del 32,1%. Elettricità, gas e acqua salgono del 12,9%, mentre alimentari,
bevande e tabacco costano alla produzione il 10,1% in più rispetto al 2007. Simile la
curva degli aumenti dei prezzi della produzione su base congiunturale, la benzina segna
un più 10,3%, mentre l’energia elettrica, il gas e l’acqua salgono in un mese del 2%.
Fonte: “la Repubblica”, 30 giugno 2008
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UNITÀ 11 L’inflazione
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Euro: ok alla Slovacchia dal 1° gennaio 2009
L’articolo che proponiamo di seguito fornisce un quadro sulla zona euro e ne annuncia
l’ulteriore ampliamento.
STRASBURGO – La Slovacchia dal 1° gennaio 2009 sarà la sedicesima nazione ad adottare l’euro. Il Parlamento europeo con 579 voti a favore, 17 contrari e 86 astenuti ha
detto sì a Bratislava nell’eurozona, ma ha detto anche che l’attenzione deve rimanere alta
sul tasso d’inflazione, che rischia di superare in futuro i parametri di Maastricht. Sono
state respinte le posizioni più estreme espresse il 30 maggio da due europarlamentari
tedeschi del Ppe, che chiedevano di rinviare al 2010 l’allargamento della zona euro alla
Slovacchia. L’Europarlamento di Strasburgo ha accolto in parte le loro critiche, sottolineando che «il rapporto sulla convergenza 2008 della Bce individua alcuni rischi relativi alla
sostenibilità del tasso di inflazione» raggiunto dalla Slovacchia.
INFLAZIONE – Uno dei cinque parametri fissati dal Trattato di Maastricht prevede che
un Paese candidato all’eurozona debba avere un tasso d’inflazione che non superi – in
maniera «sostenibile» – dell’1,5% l’inflazione media su dodici mesi dei tre Paesi più virtuosi dell’Ue. Secondo l’ultima rilevazione Eurostat, l’inflazione media in Slovacchia a
maggio ha raggiunto il 2,6%, un punto percentuale sotto il tetto di Maastricht. Ma la tendenza è al rialzo dei prezzi, come dimostra il dato anno-su-anno di maggio: 3,7%.
INGRESSO – L’ingresso della Slovacchia nell’eurozona è già stato approvato dalla Commissione europea e dai ministri dell’Economia e delle finanze (Ecofin), che nella loro prossima riunione dell’8 luglio dovrebbero fissare il tasso di cambio definitivo tra corona slovacca ed euro.
LE SEDICI NAZIONI – Con l’entrata della Slovacchia le nazioni dell’euro diventano sedici. Le altre quindici sono: dal 1° gennaio 2002 Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Irlanda,
Lussemburgo, Olanda, Belgio, Germania, Finlandia, Austria, Grecia; dal 1° gennaio 2007
Slovenia; dal 1° gennaio 2008 Malta e Cipro. Oltre a queste emettono monete in euro
anche Città del Vaticano, San Marino e Principato di Monaco. L’euro è anche la moneta
legale di Andorra, Bosnia, Montenegro e Kosovo, che però non emettono monete o banconote proprie.
Fonte: “Corriere della sera”, 17 giugno 2008
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La moneta unica europea e il mercato valutario UNITÀ 12
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Il Governatore della Banca d’Italia alla Bocconi.
Draghi: «Crisi drammatica. Per fortuna
c’è l’euro»
Nell’articolo che proponiamo di seguito, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi,
in un suo intervento all’Università Bocconi di Milano, esprime il suo parere sull’attuale crisi
e sottolinea i vantaggi della moneta unica come garanzia di stabilità.
MILANO – Secondo Mario Draghi «stiamo affrontando la più drammatica crisi degli ultimi decenni». Ma, rispetto a quella degli anni ‘30, ci sono «alcuni vantaggi tangibili» che
derivano dalla moneta unica. Il governatore della Banca d’Italia lo ha detto nel suo intervento “Financial stability and growth: the role of the euro” alla Bocconi, in occasione del
decennale dell’euro. La moneta unica, ha spiegato Draghi, «è stata un essenziale elemento di stabilità. I vantaggi tuttavia non si limitano al suo ruolo: l’euro è stato anche un catalizzatore di cambiamenti fondamentali e positivi nell’economia reale, alcuni dei quali
sono già molto visibili».
I BENEFICI DELLA MONETA UNICA – «Rimane molto da fare – sottolinea Draghi –
per cogliere i benefici della moneta unica e dal mio punto di vista ciò che rimane da
fare va nella direzione di una maggiore, piuttosto che minore, integrazione delle nostre
economie». Vi sono misure che, spiega il governatore, «possono essere prese per raggiungere questo obiettivo in molte aree e, per prima cosa, nel settore della regolamentazione».
RISCHIO DI SPIRALE VIZIOSA – In questo momento il «rischio maggiore» per l’economia globale è rappresentato dalla possibilità che «l’irrigidimento delle condizioni del credito e la fase congiunturale negativa si rafforzino a vicenda in una spirale viziosa». È l’allarme del Governatore della Banca d’Italia, in occasione del decennale dell’euro. «A questo proposito – aggiunge Draghi – ripristinare il normale funzionamento dei mercati
interbancari a livello globale e nell’area dell’euro è la precondizione per assicurare un
flusso di credito stabile a famiglie e imprese, minimizzando l’impatto reale della crisi
finanziaria».
NON ESCLUSE NUOVE MISURE – Da governi e banche centrali potrebbero arrivare
presto nuove misure più decise per contrastare la crisi dei mercati finanziari ha anche
aggiunto Draghi. «Non possiamo escludere – ha spiegato – che nel futuro prossimo
siano necessari passi ulteriori, e perfino più audaci, per restaurare rapidamente la fiducia,
comprese azioni per rafforzare i mercati interbancari».
NUOVE REGOLE – Secondo Draghi «una parte essenziale della cura per uscire dal-
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UNITÀ 12 La moneta unica europea e il mercato valutario
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l’emergenza» finanziaria che stiamo attraversando è rappresentata da progressi «decisivi
e tangibili» nella «riscrittura delle regole che governano il sistema finanziario globale, in
una prospettiva più strutturale e di medio termine». In particolare, secondo il governatore, bisogna «concentrare i nostri sforzi per superare velocemente le differenze attualmente esistenti nelle procedure di vigilanza a livello nazionale, lavorare per un set di regole
più armonizzato, fare ulteriori progressi nella cooperazione e nello scambio di informazioni tra le Autorità».
Fonte: “Corriere della sera”, 17 ottobre 2008
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Le banche e il sistema bancario UNITÀ 13
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Le poste italiane e il modello Deutsche Bank
Poste italiane S.p.A. costituisce oggi la più importante azienda postale italiana.
Le Poste italiane sono nate come ente pubblico con il compito di gestire in monopolio
i servizi postali e telegrafici per conto dello Stato. Attualmente sono organizzate
in società per azioni, il cui capitale è detenuto dallo Stato italiano per il 65%
e Cassa Depositi e Prestiti per il 35%. Il breve articolo che proponiamo di seguito
si interroga sul possibile destino di Poste italiane S.p.A. nell’immediato futuro.
Mossa e contromossa. Dopo l’operazione Dresdner-Commerzbank, la regina della banche tedesche, la Deutsche Bank ha, per così dire, dato una risposta di sistema. Con l’acquisizione degli 850 sportelli della Postbank, il braccio finanziario delle Poste tedesche.
Una privatizzazione lampo dopo molti negoziati andati a vuoto.
Nulla, però, potremmo dire se paragonati ai numeri italiani.
Il motivo? La somma dei due gruppi è molto lontana dalla rete di gruppi come Intesa San
Paolo e Unicredito.
Naturalmente perché nel giro di valzer non sono ancora entrate le casse di risparmio, il
vero tessuto bancario del sistema renano.
Ma la privatizzazione della Postbank fa venire in mente un dossier che in Italia gira da
molto tempo sui tavoli delle decisioni, quello delle Poste Italiane. Una rete che conta oltre
14 mila sportelli e che rappresenta ancora un ibrido tra le funzioni postali e quelle propriamente finanziarie.
Di privatizzazione si parla a intermittenza, ma in molti Dpef è presente la possibilità di
cederne una quota (attualmente fa capo al Tesoro e alla Cassa Depositi e Prestiti).
Forse è arrivato il momento di decidere se portarla in Borsa o, perché no, se ragionare su
una qualche forma di integrazione con il sistema bancario.
Come dire: il modello tedesco potrebbe funzionare.
Fonte: Nicola Saldutti, “Corriere Economia”, 15 settembre 2008
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UNITÀ 13 Le banche e il sistema bancario
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Fidi a breve, rischio tagli
L’articolo che proponiamo di seguito suggerisce le strategie più corrette per le banche
nei rapporti con le imprese per superare l’attuale crisi.
Secondo l’ultima indagine sul credito bancario effettuata dalla Banca d’Italia, nel secondo
trimestre di quest’anno le banche hanno leggermente irrigidito i criteri adottati per la
concessione dei prestiti alle imprese.
E questo per la quarta rilevazione consecutiva.
Tra i settori che hanno iniziato ad avvertire la crisi ci sono le costruzioni. Paolo Buzzetti,
presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), commenta: «Prevediamo
che il 2008 si chiuderà con un calo dell’1,1% degli investimenti, in un contesto in cui c’è
certamente una stretta creditizia da parte delle banche».
La via d’uscita per Buzzetti passa attraverso l’azione “ordinaria” delle banche: «Ben vengano strumenti come Confidi o fondi di garanzia, ma nell’immediato sarà fondamentale
il ruolo delle banche nel fornire liquidità a breve termine, così come le misure adottate
dal Governo per il piano casa e il rilancio delle infrastrutture».
Concorda Rosario Messina, presidente di Federlegno-Assarredo: «Che ci sia maggiore
difficoltà di accesso al credito ormai non è una sorpresa, ma le situazioni sono diverse: ci
sono aziende poco competitive o troppo piccole per reggere i mercati internazionali, e
queste sono le prime cui le banche hanno chiesto di rientrare. E poi ci sono aziende in
salute, nei confronti delle quali le banche sono diventate molto più prudenti».
Le due situazioni, secondo Messina, vanno affrontate diversamente.
Per le aziende in difficoltà bisognerebbe aumentare le possibilità d’intervento dei Confidi: «Potrebbero finanziare le imprese non solo “in conto capitale” ma “in conto emergenza” per far fronte alle spese correnti». Per le aziende in salute, invece, l’importante è tenere aperto un canale con le banche, così da evitare l’avvitamento tra diminuzione del credito e discesa delle attività economiche. E proprio per ricreare un clima di fiducia venerdì scorso Confindustria e Abi hanno deciso di attivare a livello territoriale tavoli di confronto diretto tra le associazioni industriali e il mondo bancario locale.
Insiste sul dialogo anche Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu, che riunisce i
costruttori italiani di macchine utensili: «Il nostro comparto è ancora leader a livello mondiale, ma, dato il modello di business, si tratta di gestire i picchi della domanda di liquidità».
Dall’ordine alla consegna di una macchina passano da tre a sei mesi ed è difficile ottenere dall’acquirente più del 10% d’anticipo.
Di conseguenza, spesso c’è bisogno di finanziamenti a breve termine: « È importante che
le banche conoscano bene il portafoglio ordini e le prospettive di crescita dei propri clienti, per non penalizzare operatori in crescita».
Alle prese con esigenze cicliche di liquidità è anche il settore tessile. Afferma Luciano
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Le banche e il sistema bancario UNITÀ 13
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Donatelli, presidente della Fondazione Biella The Art of Excellence: «I problemi maggiori
riguardano le Pmi, realtà che spesso effettuano investimenti tecnologici rilevanti senza
avere al proprio interno una direzione finanziaria strutturata». Nei loro confronti, osserva
Donatelli, le banche dovrebbero adottare un atteggiamento innovativo, «legando la concessione dei prestiti non alle ipoteche, ma alle potenzialità di sviluppo delle aziende. E
valutando la forza delle filiere naturali tipiche dei distretti: in queste situazioni, in cui sei o
sette imprese coprono fasi diverse di un unico ciclo produttivo, si potrebbe pensare a
forme di finanziamento che coinvolgano di fatto tutta la filiera».
Esperimento che per Donatelli potrebbe avvenire anche nel distretto dell’oro di Valenza
o in quello delle rubinetterie del Verbano-Cusio-Ossola.
Sempre nel campo manifatturiero, Vito Artioli, a capo dell’Associazione nazionale calzaturifici italiani (Anci), rileva una sostanziale tenuta degli ordini – confermata anche dalla
fiera Micam ShoEvent di settembre – e guarda al sistema dei Confidi, «che consente alle
aziende di spuntare condizioni di affidamento bancarie migliori rispetto a quelle ottenute individualmente, condizioni che potrebbero ulteriormente migliorare se i diversi Confidi si consociassero in federazione».
Fonte: Cristiano Dell’Oste, “Il Sole 24 Ore”, 20 ottobre 2008
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UNITÀ 14 Sviluppo e ciclo economico
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Fmi: «È la crisi peggiore dal 1930».
Eurostat: Pil della zona euro cede lo 0,2%
L’articolo che segue propone un’analisi della fase di recessione che attualmente stiamo
attraversando e confronta la situazione dell’Italia con quella della Germania.
BRUXELLES – L’economia globale sta «decelerando rapidamente», quella che stiamo
vivendo è la «peggiore crisi finanziaria dal 1930». L’allarme lo lancia il Fondo monetario
nel suo ultimo «Rapporto sull’economia mondiale», in cui descrive un’economia globale
che rallenta dal +5% del 2007 al +3,9% del 2008, per frenare ancora a +3% nel 2009,
un ritmo che molti esperti considerano l’orlo della recessione. Secondo il Fondo monetario internazionale, l’economia mondiale sta «entrando in una crescente depressione economica a causa del più pericoloso shock finanziario per le economie avanzate dagli anni
Trenta». Nel luglio scorso il Fmi stimava l’economia mondiale in crescita del 4,1% nel
2008 e del 3,9% nel 2009. Ora però molte cose sono cambiate.
RECESSIONE – Male anche la situazione europea, con l’Italia che piomba in recessione
(e ci resterà anche per il 2009) accomunata, in questa marcia all’indietro, a Spagna
(–0,2), Gran Bretagna e Irlanda. Il World Economic Outlook dipinge un quadro fosco per
l’economia mondiale. Le previsioni per l’Italia degli economisti di Washington sono molto
più pessimiste di quelle elaborate dal Governo nell’ultimo aggiornamento del Documento di programmazione economico-finanziaria che prevedeva per quest’anno una crescita dello 0,1% e per il prossimo addirittura un’accelerazione a quota 0,5%, mentre sono
più vicini con gli scenari previsionali recessivi elaborati recentemente da Confindustria. Il
dato, oltretutto, mantiene il Belpaese nella scomoda posizione di fanalino di coda nella
crescita tra i Paesi del G7, i cui ministri finanziari s’incontreranno venerdì a Washington
proprio a margine degli incontri annuali del Fmi. Con la recessione in Italia è previsto un
crollo dell’inflazione, che dal 3,4% stimato per il 2008 calerà nel 2009 all’1,9%.
«PROBLEMI STRUTTURALI» – Secondo il Fmi, l’Italia «sarà colpita dalle strette condizioni di credito ma ha anche problemi strutturali e la necessità di cambiamenti strutturali che
abbiamo sollecitato da tempo, come la liberalizzazione del mercato del lavoro». Lo ha
detto il capo economista dell’ente, Olivier Blanchard, sottolineando che l’Italia non ha
consolidato il proprio bilancio nei momenti di congiuntura positiva e «a questo punto le
opzioni di politica fiscale sono limitate e non vediamo spazio per un piano di incentivi
fiscali».
EUROSTAT – Le stime negative sulla situazione europea sono confermate anche dall’Eurostat: i dati dell’Ufficio Statistico delle Comunità Europee indicano che nel secondo trimestre del 2008 il Pil della zona euro ha ceduto lo 0,2% e quello dei Ventisette è rima-
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Sviluppo e ciclo economico UNITÀ 14
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sto invariato (invece di calare dello 0,1% come indicato nelle stime precedenti) rispetto al
trimestre precedente.
PRIMO TRIMESTRE – Nel primo trimestre, i tassi di crescita erano stati dello 0,7% nella
zona euro e dello 0,6% nei Ventisette. Rispetto al secondo trimestre del 2007 il Pil, al
netto dei fattori stagionali, è cresciuto dell’1,4% nella zona euro e dell’1,7% nei Ventisette (contro l’1,6% simato in precedenza). In Italia il Pil è sceso dello 0,3% rispetto al trimestre precedente ed ha avuto una crescita piatta rispetto allo stesso periodo del 2007. In
Francia il Pil è sceso dello 0,3% rispetto al trimestre passato, ma è aumentato dell’1,1% su
anno. Nel secondo trimestre del 2008, i consumi delle famiglie sono scesi dello 0,2%
nella zona euro e dello 0,1% nei Ventisette. Gli investimenti sono scesi dell’1% sia nella
zona euro che nei Ventisette.
ESPORTAZIONI – Le esportazioni sono scese dello 0,2% in Eurolandia e dello 0,3% nei
Ventisette e le importazioni hanno ceduto lo 0,5% in entrambe le zone. Negli Stati Uniti,
il Pil è aumentato dello 0,7% durante il secondo trimestre del 2008, dopo un +0,2% nel
primo trimestre. In Giappone il prodotto interno lordo è sceso dello 0,7% nel secondo trimestre, dopo un +0,7% nel primo. Su base annua, il Pil americano è salito del 2,1%, contro il 2,5% del trimestre precedente, e dello 0,8% in Giappone, contro l’1,2% del trimestre precedente.
DATI POSITIVI – Ma tra tanti dati negativi, compaiono anche indicazioni positive. A sorpresa la produzione industriale tedesca ha registrato ad agosto un balzo su base mensile del 3,4% contro –1,6% del mese precedente e una previsione di –0,3%. Si tratta del
rialzo maggiore dall’agosto 1993. A Ginevra il Forum economico mondiale (Wef) ha reso
noto che l’economia americana è pronta a ripartire appena sarà passata la crisi finanziaria. «L’economia Usa ha caratteristiche strutturali con una base produttiva solida», dice il
rapporto.
Fonte: “Corriere della sera”, 8 ottobre 2008
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UNITÀ 14 Sviluppo e ciclo economico
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Gli errori, la bufera e il capitalismo «sostenibile»
L’articolo di seguito riportato propone un ripensamento del modello capitalistico
e del ruolo del mercato alla luce dello sviluppo sostenibile e dei diritti della persona.
La crisi finanziaria in corso, che non è di breve durata né meramente congiunturale,
come ogni crisi comporta non solo rischi (il rischio di estendersi all’economia reale, di
minare la fiducia dei risparmiatori, di far pagare costi elevati ai soggetti più deboli e meno
protetti), ma anche opportunità, prima fra tutte l’opportunità di ripensare al modello di
sviluppo capitalistico. Non segna la fine del capitalismo («che ha i secoli contati» come
scrive Giorgio Ruffolo), ma incide in modo e grado diversi nei vari tipi di capitalismo reale
(il modello anglosassone «trainato dal mercato», l’economia sociale di mercato della tradizione continentale europea, il capitalismo gestito da un regime autoritario come nel
caso cinese) e rafforza l’esigenza di un modello diverso di capitalismo possibile (il modello dello sviluppo sostenibile). L’attività economica avviene sempre in un dato contesto istituzionale, caratterizzato da complesse interazioni tra mercati, imprese, governi, reti associative, singoli individui. Ogni varietà di capitalismo presenta implicazioni differenti per la
società civile e per il sistema politico. L’economia aperta del mercato non implica necessariamente una società aperta o un regime politico democratico. Il mercato non è un
ordine spontaneo, non è un fine ma un mezzo; è il meccanismo istituzionale [...] per
organizzare la produzione, lo scambio e il consumo, ma non garantisce di per sé né la
coesione sociale né la democrazia politica, e neppure una distribuzione equa del reddito
e della ricchezza (che rimane un problema eminentemente politico). Esistono prove storiche a favore della correlazione tra economia aperta, società aperta e democrazia e altre
prove che falsificano tale ipotesi. La crisi finanziaria dei derivati non è accaduta per caso.
Alcuni acuti osservatori della realtà economica (economisti non appartenenti al main stream della Scienza economica americano-centrica, sociologi economici, political economists) avevano formulato critiche argomentate da cui si poteva dedurre questo tipo di
esito, concernenti la finanziarizzazione del controllo di impresa, la difficoltà di applicare
regole efficaci a attori del mercato globale come le banche d’affari, la logica perversa di
certi prodotti finanziari che spostano continuamente il rischio su altri soggetti in una sorta
di catena di Sant’Antonio, la diffusione delle stock options e dei superbenefici per top
managers, i clamorosi conflitti di interesse tra società di auditing e di consulenza. Se prevale un tipo di capitalismo come quello in cui si è verificata la crisi attuale, che arricchisce
i pochi insiders e crea difficoltà ai molti outsiders, che è ossessionato dal brevissimo termine e dal quotidiano oscillare dei titoli di Borsa, che non favorisce investimenti in capitale umano e in tutela ambientale, che non crea opportunità di inclusione per i molti
esclusi, il mercato corre il serio rischio di essere erroneamente considerato causa primaria di disuguaglianza e di ingiustizia e di provocare reazioni politiche e culturali che ne
minano la legittimità e la possibilità di funzionamento. Il ritorno allo Stato imprenditore,
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Sviluppo e ciclo economico UNITÀ 14
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a politiche protezioniste, o addirittura a chiusure autarchiche, sono risposte sbagliate, ma
non possono essere esorcizzate sottovalutando la gravità della crisi e le responsabilità
della eccessiva finanziarizzazione del sistema. Vanno confutate formulando proposte realistiche di trasformazione del modello di sviluppo dell’economia aperta, che attraverso
incentivi e sanzioni modifichi aspettative e comportamenti dei soggetti economici e
soprattutto dia risposte al vero problema centrale del capitalismo: come salvaguardare la
sua carica innovativa e forza propulsiva, senza «annullare la sostanza umana e naturale
della società» (come direbbe Karl Polanyi), ovvero senza negare i diritti civili e politici e le
legittime pretese di migliore qualità della vita e senza infliggere ferite profonde all’ecosistema. La crisi in corso non è irreversibile, verrà superata, ma il rischio è che poi si riprenda il cammino che ha portato alla crisi, il business as usual, limitandosi a qualche correttivo parziale e a qualche provvedimento di emergenza, anziché introdurre innovazioni
autentiche nel rapporto tra mercato e società e tra mercato e democrazia.
Fonte: Alberto Martinelli, “Corriere della sera”, 9 ottobre 2008
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UNITÀ 15 Il mondo economico e i diversi gradi di sviluppo
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Cina, fine dei prezzi stracciati. Ora Pechino
esporta inflazione
L’articolo di seguito riportato illustra la situazione economica attuale della Cina
e in particolare gli effetti inflattivi prodotti da un fenomeno inatteso:
la protesta dei lavoratori che hanno chiesto e ottenuto aumenti salariali.
Dietro il carovita che impoverisce i consumatori in Italia come in tutta l’Europa e gli Stati
Uniti, c’è un cambiamento profondo nell’economia globale. È la fine dello “sconto cinese”. Per la prima volta da quando è diventata un peso massimo del commercio internazionale, la Repubblica popolare non esporta più soltanto scarpe e vestiti, computer e televisori, ma anche inflazione. Una delle ragioni di questo cambiamento è una novità salutare: gli operai cinesi alzano la testa. Nelle zone dove c’è la piena occupazione il loro
potere contrattuale migliora, i salari aumentano. È esattamente quel che sta accadendo
lungo il delta del fiume delle Perle, nel Guangdong che è la regione più industrializzata
della Cina, la vera fabbrica del pianeta. Lì a gennaio le buste paga degli operai cinesi sono
aumentate del 13% in media, rispetto a un anno fa. È una rincorsa salariale senza precedenti nella storia recente della Cina comunista, anche se non basta a compensare altri rincari del costo della vita locale (la fettina di maiale è aumentata del 48% in un anno).
Se la classe operaia cinese si sveglia il mondo trema, per parafrasare la celebre frase di
Napoleone. Dopo avere auspicato un progresso nelle condizioni sociali e nei diritti
umani, ora ci accorgiamo che anche un modesto miglioramento retributivo in Cina non
è indolore per i consumatori occidentali. Alan Greenspan, quando era presidente della
Federal Reserve americana, aveva capito che la Cina era il suo migliore alleato per tenere a bada l’inflazione. Secondo Greenspan, dalla seconda metà degli anni 90 fino a
un’epoca molto recente, l’economia americana è stata miracolata da un “nuovo paradigma”: gli incrementi di produttività diffusi dalla New Economy (con l’adozione universale
delle nuove tecnologie), più il ribasso dei prezzi al consumo regalato dall’invasione del
made in China, hanno consentito agli Stati Uniti dei ritmi di crescita sostenuti, senza
generare tensioni sui prezzi. La politica dei bassi tassi d’interesse seguita dalla Federal
Reserve era dovuta anche a questa convinzione: a contrastare l’inflazione ci pensavano
le importazioni di prodotti cinesi. Quella fase magica si sta chiudendo sotto i nostri occhi.
Gli americani – i consumatori più “sino-dipendenti” del pianeta – sono stati i primi ad
accorgersene. Nel solo mese di gennaio i prezzi del made in China sono saliti dello 0,8%,
l’aumento più elevato da quando lo Us Labor Department ha cominciato a misurare questo dato. In alcuni settori la fine dello sconto cinese si è già trasformata nel suo rovescio.
Nel tessile-abbigliamento i prezzi al dettaglio negli Stati Uniti erano in discesa costante
dal 1998, via via che il made in China rimpiazzava sugli scaffali i prodotti italiani o messicani. Da ottobre improvvisamente i vestiti sono rincarati del 4,6% (con punte del 7,3%
nell’abbigliamento femminile). Negli Stati Uniti e in Europa resuscita di colpo lo spettro
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Il mondo economico e i diversi gradi di sviluppo UNITÀ 15
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della stagflazione – crescita zero più inflazione – che aveva colpito l’Occidente negli anni
70. Una parte di questo choc è nata nel cuore dell’America, tra il crollo del mercato
immobiliare e la crisi dei mutui. L’altro ingrediente sta in Cina. Questo colosso era stato
un potente calmiere dei prezzi soprattutto dopo il suo ingresso nell’Organizzazione
mondiale del commercio (2001). Ora l’indice dei prezzi al consumo cinesi è in crescita
del 7,1%, il più forte rincaro del costo della vita negli ultimi 12 anni. L’inflazione nella
Repubblica popolare si ripercuote inevitabilmente sui prezzi esteri del made in China. Al
rincaro delle esportazioni contribuisce anche la graduale rivalutazione della moneta cinese, lo yuan o renminbi. Dal luglio 2005, quando smise di essere rigidamente agganciato
al dollaro, lo yuan si è rafforzato del 16% sulla moneta americana (ma non sull’euro).
Ai rincari sui prodotti made in China, si aggiunge la corsa alle materie prime che Pechino contende agli occidentali. Con una economia che l’anno scorso è cresciuta dell’11,4%
la Cina è diventata “l’elefante nella cristalleria” sui mercati dell’energia, dei minerali, delle
derrate agricole. Poveri di risorse naturali in casa propria, i due giganti asiatici Cina e India
hanno travolto tutti gli equilibri tra domanda e offerta. Dal petrolio a 100 dollari fino al
minerale di ferro rincarato del 65% in pochi mesi, dall’oro ai cereali, tutte le commodities
segnano record storici per la pressione dei bisogni asiatici: centinaia di milioni di nuovi
abitanti di centri urbani; cantieri edili a non finire; fabbriche energivore; il boom della
motorizzazione individuale. La dieta alimentare del ceto medio cinese si globalizza e
“scopre” i dolci per la prima volta nella storia, facendo impazzire le quotazioni mondiali
di cacao, zucchero, caffè. Il benessere che fa crescere il consumo di proteine, insieme con
la ricerca di fonti alternative di energia nei biocarburanti, mandano alle stelle i prezzi di
soya, grano, riso. La Cina non è autosufficiente per i suoi bisogni alimentari, quest’anno
importerà 8,4 miliardi di dollari di prodotti agricoli dagli Stati Uniti, un aumento del
300% rispetto a dieci anni fa. Anche questo spiega i rincari della pasta e del pane nei
supermercati italiani.
Con un apparente paradosso, la fine dello sconto cinese non riduce la nostra dipendenza dal “made in China”. Anzi, le esportazioni cinesi verso il resto del mondo hanno segnato un nuovo massimo storico a gennaio aumentando del 27%: 110 miliardi di dollari di vendite in un solo mese. La più grande catena di ipermercati americani, Wal-Mart
(che ha un fatturato superiore al Pil della Svizzera) ha confermato che continuerà ad approvvigionarsi in Cina esattamente come prima, malgrado i rincari e nonostante gli scandali sui prodotti tossici. La spiegazione: la Cina è diventata un quasi-monopolio in molti
settori. In Occidente sono state smantellate e delocalizzate gran parte delle fabbriche che
producevano non solo jeans e scarpe ma anche pc, laptop, telefonini, videocamere. Il
“made in China” può rincarare, le fabbriche non torneranno indietro.
Fonte: Federico Rampini, “la Repubblica”, 26 febbraio 2008
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UNITÀ 15 Il mondo economico e i diversi gradi di sviluppo
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Alla Giornata mondiale dell’alimentazione
il monito di Diouf:
“Solo un decimo dei 22 miliardi promessi
sono davvero stati dati”
L’articolo che proponiamo di seguito mostra una triste realtà: la lentezza
e, più spesso, il mancato rispetto degli impegni presi dai Paesi più ricchi nei confronti
dei Paesi poveri nella lotta alla fame nel mondo.
ROMA – Solo il 10 per cento delle risorse promesse per la lotta contro la fame nel
mondo sono arrivate a destinazione. Troppo poco per combattere un flagello che colpisce, secondo le stime della Banca Mondiale, 923 milioni di persone. Oggi, in occasione
della Giornata mondiale dell’alimentazione 2008, un forte appello a tutti i Paesi a rispettare gli impegni presi, arriva da Jacques Diouf, direttore generale della Fao.
Dopo la conferenza internazionale organizzata dalla Food and Agriculture Organization
a giugno, solo un decimo dei 22 miliardi promessi sono stati effettivamente messi a
disposizione, ha detto Diouf, sottolineando la necessità di portare a termine l’impegno
preso nonostante la crisi finanziaria globale.
“La crisi alimentare – ha proseguito Diouf – esiste ancora e se nel 2007 il numero degli
affamati è salito in un solo anno di 75 milioni di persone, arrivando a quota 923 milioni,
nel 2008 questo numero rischia di salire ancora”.
Alla cerimonia della Fao è arrivato anche l’appello del Papa. Basta con questa “speculazione sfrenata” che tocca i meccanismi dei prezzi e dei consumi e basta anche agli egoismi degli Stati, ha scritto Benedetto XVI in un messaggio inviato alla Fao per l’occasione.
“I mezzi e le risorse di cui il mondo dispone al giorno d’oggi – ha aggiunto Benedetto
XVI – sono in grado di fornire cibo sufficiente per soddisfare le crescenti necessità di
tutti”.
“Manterremo tra le priorità dell’agenda internazionale la lotta alla fame e la soluzione
della crisi alimentare mondiale per non farla dimenticare sotto il peso della crisi economica”, ha assicurato il sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Scotti, ribadendo l’impegno
del governo italiano sul tema.
Della crisi economica ha parlato anche la first lady egiziana, Suzanne Mubarak, che ha
ricevuto dalla Fao la nomina a “Raeia”, “guida illustre” dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione. La signora Mubarak ha levato un appello perché si trovino per la crisi ali-
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mentare le stesse risorse finanziarie e con la stessa rapidità con cui sono stati reperiti i
mezzi per la crisi dei mutui. Appello condiviso dall’associazione Actionaid secondo cui la
crisi alimentare deve essere affrontata con la stessa risolutezza di quella finanziaria.
Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in un messaggio ha sottolineato come
quella della fame sia la “sfida su cui si gioca il futuro del pianeta”. Che cosa fare è ormai
noto, ha concluso Diouf, “quello di cui abbiamo bisogno è che vengano rispettati gli
impegni politici per fare gli investimenti necessari a promuovere uno sviluppo agricolo
sostenibile”.
Con le risorse economiche messe a disposizione per il momento, la Fao ha avviato progetti in 76 Paesi. E molti altri programmi a livello nazionale e regionale sono partiti. A ciò
si aggiunge la messa a punto del piano d’azione della task force delle Nazioni Unite,
annunciato a giugno dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon.
Fonte: “la Repubblica”, 16 ottobre 2008
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UNITÀ 16 Il commercio internazionale
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Il liberismo e la speranza
L’articolo che proponiamo di seguito è un ripensamento sulle politiche liberiste
alla luce degli effetti sociali prodotti dalla globalizzazione.
Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazioni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agli
scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza
siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il
futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle
loro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazione
dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990
le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi poco
meno di una su cinque.
Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove
tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli
Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972
era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato
da 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e Edoardo
Narduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata
una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in
un paio di infortuni.
Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innescata dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste,
come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas – l’80% dell’energia utilizzata in Italia – sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo
costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni.
La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per
mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro
e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A
parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi
non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campagna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici della
globalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi
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Il commercio internazionale UNITÀ 16
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gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani.
In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire una
linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma
alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare – con denaro pubblico – un’azienda che perde un
milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengono
usate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romani
festeggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà per
la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondo
sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe
meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi
promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove
abbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di
«concorrenza » e «mercato».
Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca
una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato benevolente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». È certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un
passo. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi
pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono – e che alcuni politici promettono – è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A me
pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi
nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue
capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone
scuole, non dazi.
Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine della
guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior
parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina dei
giorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italia
si trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il
nostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spagna, 3% più che in Gran Bretagna.
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UNITÀ 16 Il commercio internazionale
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In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato,
merito, concorrenza – i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita – spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina – un Paese che
ai primi del ’900 era ricco quanto la Francia – inizia, con Peron, proprio così). Il tentativo
di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia – devo ammetterlo – è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto?
Non chi temeva la globalizzazione – che infatti si è fatto proteggere dalla Lega – ma il
sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore.
I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti)
oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e
deperisce.
È un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.
Fonte: Francesco Giavazzi, professore alla Bocconi, “Corriere della sera”, 30 aprile 2008
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Il commercio internazionale UNITÀ 16
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E ora la grande crisi del cibo può frenare
la globalizzazione
L’articolo che proponiamo di seguito illustra l’attuale dibattito aperto nel Wto,
in particolare la conclusione negativa del Doha Round in corso da sette
anni, sulla riduzione del protezionismo agricolo da parte dei Paesi ricchi
per agevolare lo sviluppo del Sud del mondo.
La marcia trionfale della globalizzazione si era già fermata. Almeno da due anni, l’idea
che l’economia mondiale fosse inevitabilmente destinata ad integrarsi sempre più, con
benefici a cascata per tutti, aveva perso vigore e capacità di convinzione. Ma, adesso, lo
scenario che rischia di aprirsi è quello della ritirata. Il fallimento, ieri, a Ginevra, del disperato tentativo di rianimare la trattativa commerciale globale, avviata a Doha nel 2001 e
rimasta bloccata in sette anni di impasse ha un impatto, prima ancora che economico,
psicologico: si esaurisce l’attitudine a vedere, nell’apertura dei mercati, prima i vantaggi
che gli svantaggi e la globalizzazione non appare più irreversibile. D’altra parte, è già successo: un secolo fa, quando si spense la prima ondata di mondializzazione dell’economia.
Il punto specifico su cui, dopo 24 ore di negoziato quasi ininterrotto, è naufragato questo ultimo capitolo del Doha Round, è la protezione dei piccoli contadini indiani (e cinesi). Nuova Delhi, con il sostegno di Pechino, reclamava la possibilità di aumentare i propri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni, che togliesse troppo spazio alle centinaia di milioni (in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produttori nazionali. La bozza di accordo stabiliva la soglia di anomalia ad un aumento del 40%
delle importazioni. L’India controproponeva il 10%, una soglia troppo bassa, secondo gli
americani, in grado di innescare troppo facilmente una chiusura protezionistica. Nessuno pensava che l’ambizioso tentativo di aprire ulteriormente l’intero mercato agricolo e
industriale mondiale potesse arenarsi su questo scoglio. La crisi del cibo che ha squassato negli ultimi mesi soprattutto i paesi emergenti ha sicuramente acuito la sensibilità dei
governi ai problemi della produzione agricola, ma un compromesso sembrava a portata
di mano: nell’ultimo tentativo di accordo non c’era nessuna cifra a segnare il grilletto che
poteva far scattare l’aumento dei dazi, lasciato ad una decisione caso per caso.
In realtà, il negoziato è fallito, come era già avvenuto nei tentativi precedenti, per l’accumularsi dei veti incrociati. Cina e India non digerivano che gli Usa, dove oggi i sussidi ai
produttori agricoli, soprattutto di cotone e zucchero, valgono 7 miliardi di dollari, si riservassero la possibilità di arrivare fino a raddoppiarli. Gli agricoltori europei reclamavano
una protezione più decisa dei propri marchi geografici, per proteggere la propria produzione di qualità dalle incursioni dello champagne americano o del prosciutto di Parma
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UNITÀ 16 Il commercio internazionale
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cinese. Soprattutto, in termini generali, non ha funzionato l’abituale scambio agricolturaindustria.
Quando il Doha Round è partito, sette anni fa, l’idea generale era di concedere l’apertura dei mercati occidentali alle importazioni agricole dei paesi emergenti, in cambio dell’apertura dei loro mercati ai prodotti industriali (e, in prospettiva, a banche e assicurazioni) dell’Occidente. Ma, in sette anni, il panorama mondiale è stato rivoluzionato. La Cina
è diventata il maggior esportatore mondiale e il cuore dell’industria manifatturiera globale si è spostato nei paesi emergenti: in Cina, in India, in Brasile.
Nell’ottica del Doha Round, tuttavia, questi paesi mantenevano le protezioni da paese in
via di sviluppo. Nel caso dell’auto, per esempio, l’Europa avrebbe dimezzato dal 10 al
4,5% il proprio dazio sull’import di auto da paesi, come Cina e India, che, in questi mesi
stanno conducendo una politica commerciale assai aggressiva sui mercati occidentali.
Contemporaneamente, la Cina avrebbe abbassato i suoi dazi solo dal 25 al 18% e il Brasile dal 35 al 22%. Mantenendo la possibilità di esentare interi settori industriali dal taglio
delle tariffe. Troppo poco, perché, come era avvenuto nei precedenti round commerciali, le lobby industriali occidentali premessero sui governi perché accettassero concessioni
in materia di agricoltura.
In termini puramente economici, in realtà, il fallimento di Ginevra ha un impatto relativamente modesto. Anche se alcuni paesi potevano ricavarne benefici sostanziali (l’Italia
aveva calcolato un aumento delle proprie esportazioni per 500 milioni di euro l’anno), a
livello generale il Doha Round spostava poco. Lo stesso Wto, l’Organizzazione mondiale
del commercio, aveva calcolato che un accordo avrebbe comportato un risparmio di 125
miliardi di dollari l’anno in dazi non pagati. L’effetto avrebbe fatto aumentare il prodotto
mondiale di 50-70 miliardi di dollari, non più dello 0,1% del Pil globale. Come mai così
poco? Perché, in realtà, negli anni scorsi paesi ricchi e paesi emergenti hanno già drasticamente tagliato i propri dazi: oggi alla dogana si paga, in media, nel mondo, il 7%. Cioè,
già meno di quanto si doveva concordare a Ginevra.
Per questo, il fallimento del negoziato ha un valore più psicologico che economico. La
trattativa del Doha Round riguardava, infatti, nella maggior parte dei casi, la tariffa massima applicabile, non sempre (vedi l’auto), ma spesso superiore a quella oggi applicata.
Un accordo, dunque, serviva ad impedire che, in futuro, questi dazi venissero di colpo
moltiplicati, rispetto ai livelli attuali.
Il collasso di questo tentativo è un segno dei tempi. La globalizzazione ha già subito, in
questi mesi, una serie di duri colpi. La crisi dei subprime ha rivelato la fragilità di mercati, in mano ad una finanza internazionale senza regole. La crisi del cibo ha mostrato
quanto, a livello nazionale, possa essere pericoloso affidarsi alle forniture dall’estero per il
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Il commercio internazionale UNITÀ 16
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proprio fabbisogno alimentare. L’impatto della corsa del petrolio sul prezzo dei trasporti
sta mettendo in dubbio la razionalità delle scelte di delocalizzazione industriale. Ora, la
battuta d’arresto riguarda la liberalizzazione del commercio che, della globalizzazione, è
stata in questi anni la struttura portante e il maggior successo. Almeno in teoria, il fallimento di Ginevra non esclude, in realtà, che le trattative possano riprendere, anche nei
prossimi mesi. Tuttavia, diplomatici e osservatori – con l’occhio soprattutto al prossimo
cambio della guardia a Washington – sono per lo più convinti che la pausa sarà lunga e
che il negoziato dovrà, forse, ripartire da zero. Gli economisti, comunque, non ritengono
che questo stop possa colpire il livello del commercio mondiale. Troppo radicato, ormai,
il decentramento globale delle catene di fornitori (la cosiddetta “fabbrica mondiale”) e
troppo radicate, anche, le abitudini e le attese di produttori e consumatori per pensare ad
una svolta. Senza l’ombrello del Doha Round, tuttavia, il commercio mondiale punterebbe più sulla creazione di blocchi regionali, come la Unione europea, il Nafta americano e
un eventuale aggregazione asiatica, frammentando il processo di globalizzazione: questo non garantirebbe regole uguali per tutti e, alla lunga, potrebbe pesare sullo sviluppo
mondiale.
Nell’immediato, il fallimento di Ginevra ha, piuttosto, conseguenze anche politiche. Intacca la credibilità di una organizzazione internazionale. Ridimensiona l’entrata in scena di
una grande potenza. Colpisce il tentativo ambizioso di dare una voce unica ad un gruppo di paesi, divisi da interessi contrastanti. L’organizzazione è il Wto, sempre meno in
grado di presentarsi come una trasparente stanza di compensazione delle strategie economiche mondiali.
La grande potenza è la Cina, che partecipava, per la prima volta direttamente, al negoziato commerciale globale e che ne esce con un nulla di fatto. Il gruppo di paesi è l’Unione europea: il Wto è l’unica sede in cui il rappresentante della Commissione di Bruxelles
parla e tratta a nome di tutti i paesi membri. Un successo avrebbe rafforzato la spinta ad
una gestione sovranazionale della politica europea.
Fonte: Maurizio Ricci, “la Repubblica”, 30 luglio 2008
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UNITÀ 17 Il circuito economico mondiale
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L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione
e sopraffazione»
L’articolo che proponiamo di seguito vuole fornire il punto di vista del Pontefice
nell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.
CITTÀ DEL VATICANO – L’umanità è «lacerata» da «spinte di divisione e sopraffazione» e
«conflitto di egoismi». E «non si può dire che la globalizzazione è sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro». Lo rimarca il Papa, aggiungendo che «i conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono
difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale». Benedetto XVI lo ha detto nella messa dell’Epifania, celebrata nella basilica di San
Pietro davanti a cardinali, vescovi, membri del corpo diplomatico e semplici fedeli.
INGIUSTA DIVISIONE – Nel mondo globalizzato si è accentuata l’ingiusta divisione dei
beni, sostiene Benedetto XVI. «Anche oggi – dice il Papa – resta vero quanto diceva il
profeta: nebbia fitta avvolge le nazioni. Non si può dire infatti che la globalizzazione sia
sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro». Nell’omelia della messa dell’Epifania celebrata
con grande solennità in San Pietro, Papa Ratzinger rileva che «i conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime
rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale. C’è bisogno – afferma – di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti».
LA MODERAZIONE – Per il Papa, nel mondo di oggi «la moderazione non è solo una
regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità». Infatti, «è ormai evidente
che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per
un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile». Ma per cambiare così radicalmente l’ordine economico occorre essere
sostenuti da una «grande speranza», che, ricorda Benedetto citando la sua recente enciclica, «può essere solo Dio, e non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto
umano, il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto».
Infatti, insiste anche oggi il teologo Ratzinger, «se c’è una grande speranza, si può perseverare nella sobrietà. Se manca la vera speranza, si cerca la felicità nell’ebbrezza, nel
superfluo, negli eccessi, e si rovina se stessi e il mondo. Per questo – spiega – c’è bisogno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio». È
necessario cioè lo stesso coraggio dei Magi, che «intrapresero un lungo viaggio seguendo una stella, e che seppero inginocchiarsi davanti ad un Bambino e offrirgli i loro doni
preziosi. Abbiamo tutti bisogno – conclude il Pontefice – di questo coraggio, ancorato a
una salda speranza. Ce lo ottenga Maria, accompagnandoci nel nostro pellegrinaggio
terreno con la sua materna protezione».
Fonte: “Corriere della sera”, 6 gennaio 2008
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Il circuito economico mondiale UNITÀ 17
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«La globalizzazione? Può essere dolce»
L’articolo che segue vuole fornire il punto di vista di un imprenditore di successo
nell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.
Luciano Benetton: «Dalle crisi non si esce con i dazi»
MILANO — «La parola “globalizzazione” nemmeno esisteva. Erano gli anni 60 e per noi
il mondo era l’Europa. Il massimo dell’avventura imprenditoriale era aprire un negozio a
Parigi. Ci riuscii alla fine di quel decennio, eravamo il primo marchio italiano diventato di
moda, e già allora in molti sostenevano che il tessile fosse un settore da abbandonare.
Infatti per poter mettere un piede in una capitale europea e non chiudere bottega il giorno dopo dovevamo innovare. Dovevamo inventarci soluzioni che gli altri non avevano
nemmeno provato». Se per discutere di globalizzazione cercate una persona informata dei
fatti bussate a casa di Luciano Benetton, l’imprenditore globetrotter che ha portato il marchio trevigiano nei cinque continenti e ancora oggi è un gran curioso del mondo e delle
sue contraddizioni. «Un veneto, senza passaporto» si definì una volta in un’intervista e
dopo di allora ne ha vissute tante. È stato senatore del Pri negli anni 90 ma anche simbolo dell’anticonformismo pubblicitario e imprenditoriale. E proprio a lui, che odia tutti gli
embarghi e si è opposto alla guerra in Iraq, è capitato di diventare obiettivo privilegiato dei
blog no global per una storia di indigeni Mapuches e terre acquistate in Patagonia.
Per anni lei ha sostenuto le virtù del free trade e ha anche scommesso che fosse
una forma di politica estera inclusiva. È ancora di quell’opinione oggi che la globalizzazione mette paura ai cittadini dei Paesi ricchi?
«Il libero commercio delle merci è un contributo alla diffusione della democrazia, serve
ad esportarla, cambia il modo di pensare dei governi e dei popoli dei Paesi in via di sviluppo. Ma anche con il commercio non bisogna comportarsi da invasori, il modello che
abbiamo adottato è quello di una globalizzazione dolce. Nei Paesi dove siamo andati il
nostro prodotto era considerato di moda e questo ci ha portato a incontrare le élite di
mezzo mondo. Per loro il logo Benetton voleva dire “io sono globale” o comunque
“penso globale”. Una bella soddisfazione».
Forse si poteva essere dolci nel mondo di venti anni fa, oggi un po’ meno.
«Abbiamo sempre voluto costruire un dialogo alla pari. Cercavamo partner locali per
insegnare ma anche per imparare. Anche venti anni fa, quando aprii un negozio a Cuba
nel ‘92 e incontrai Fidel Castro, dovetti subire le reazioni degli anticastristi che se la presero con i nostri negozi di Miami ma non per questo ho cambiato idea. Non ho mai
amato la politica dell’embargo».
E infatti oggi lavora con l’Iran...
«Lavoro bene in Iran. Con i Paesi che ci vendono petrolio dovremmo mettere in piedi un
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UNITÀ 17 Il circuito economico mondiale
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sistema di compensazioni commerciali. E vendere loro le cose di cui hanno bisogno:
camion, autobus e quant’altro. Capisco che il mondo è cambiato dopo l’11 settembre ma
non vedo alternative. Prima di usare le armi bisogna esperire tutti i tentativi. Far vivere
meglio la gente di quei Paesi, diffondere uno stile di vita democratico, ci permette di fare
un passo avanti. So che i giovani coinvolti negli attentati di Londra dello scorso anno erano
perfettamente inseriti nel nostro sistema sociale ed economico ma le sacche di estremismo
esisteranno sempre. Bonificare dall’interno è la strada che mi convince di più».
Si definirebbe un filoamericano?
«Sicuramente. L’America ci ha insegnato troppe cose, tanti principi che applichiamo nella
vita di tutti i giorni sono nati lì. Ma penso che quando si va in un Paese non bisogna giudicarlo subito. Se incontri un sudamericano e gli parli di patate è un modo per far sentire importante la loro tradizione di coltivazione di 400 diversi tipi di patate. Del resto non
siamo noi italiani pronti a sorridere a chi ci parla con rispetto degli spaghetti?».
La verità è che oggi in Italia imprenditori e operai hanno paura che l’India e la
Cina ci tolgano posti di lavoro.
«Sono stato il primo italiano ad andare in India per vendere sul mercato locale. È un gran
Paese, bella cultura, storici rapporti con l’Europa, un Paese democratico. E infatti ho deciso di andare più in profondità e produrre direttamente lì. Di recente il Times of India ha
scritto che il marchio Benetton è considerato dai consumatori il numero uno dell’abbigliamento in India».
Se lei pensa che sia giusto produrre in India vuol dire che in Italia non si può più
produrre a costi competitivi.
«Dobbiamo creare posti di lavoro più pregiati ed è giusto che perdiamo i posti di lavoro
meno qualificati. Qualcuno soffre di questi cambiamenti ma se fossimo capaci di avere
più ricerca per prodotti più originali, da vendere a prezzi migliori, penso che questo
made in Italy sarebbe apprezzato dai mercati ancora di più. Non ci si può opporre ai prodotti che costano meno anche se distruggono posti di lavoro fragili».
Se va a fare questi discorsi darwiniani a cena in un El Toulà del suo Veneto la
mandano a ramengo...
«(ride) Siì, può essere. Ma la mia non è una proposta snob, ma pratica. La globalizzazione è irreversibile, scomoda per tutti, tanto vale attrezzarsi per tempo. Una banca entra in
crisi in America e i titoli industriali di tutto il mondo perdono valore. Non si capisce il
nesso eppure succede».
Ha letto il libro di Tremonti sulla paura e la speranza dei cittadini globali?
«Sì, l’analisi è perfetta. Ma non penso che questi problemi possano essere affrontati con
un approccio ideologico, uno strappo alla regola si può fare ogni tanto. Anche gli americani hanno messo i dazi per difendere le loro produzioni. Per un periodo limitato si può
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Il circuito economico mondiale UNITÀ 17
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fare, non c’è scandalo. Però nel frattempo l’industria nazionale deve mettersi al passo,
prepararsi all’apertura. Alla lunga i dazi non reggono. E comunque guardi che non è solo
un problema di India e Cina, Indonesia e Vietnam diventeranno ancora più competitivi».
La globalizzazione non è solo flusso di merci ma anche di persone. Quanto
conta la paura degli extracomunitari?
«Penso che un orientamento anti-globalizzazione trovi terreno fertile nella percezione di
insicurezza. Incide molto nell’umore e nella qualità della vita di zone dove si lavora tenacemente. Devono migliorare le politiche di accoglienza ma vanno organizzati i flussi migratori in proporzione. E poi nel Paese la giustizia deve funzionare. Qualche delinquente è stato
messo in libertà troppo presto e questo ha avuto il suo peso nell’opinione pubblica».
In passato lei è stato etichettato come un buonista. Ha cambiato idea?
«A me piace il dialogo ma se qualcuno sbaglia ti abbassa la qualità della vita e questo non
va bene. Nella cronaca di provincia si legge di negozi che vengono derubati anche tre
volte in un anno. Quelle famiglie sono gettate nella rovina, devono incominciare un’altra
storia. I responsabili vanno trovati».
Ma chi pensa che la globalizzazione aiuti lo sviluppo da dove deve ripartire per
evitare che si butti bambino e acqua sporca?
«Dalla giustizia sociale sicuramente ma credo sia giunta l’ora di un capitalismo più creativo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati al mondo. Aprire nuove opportunità di
business, cito ad esempio Al Gore che sta portando avanti progetti straordinari di ricerca
nell’ambito della salvaguardia dell’ambiente, con concrete ricadute che aprono nuove
prospettive industriali».
Intanto i no global continuano a prendersela con lei per le terre dei Mapuches
che ha comprato in Patagonia.
«Noi abbiamo comprato da una società argentina che esisteva da oltre 110 anni. Abbiamo cercato un dialogo coi Mapuches e offerto 7.500 ettari di terra come simbolo concreto. Ma nella discussione, a cui dovevano partecipare governo centrale, locale e forze
sociali argentine, ci hanno lasciati soli. Il movimento no global, che ha aggregato idee e
fermenti molto interessanti, oggi credo abbia perso almeno parte della sua forza propulsiva forse perché passato il momento della critica del No, è mancata la fase propositiva
del Sì, della costruzione, della volontà di risolvere assieme i problemi».
Una volta però Naomi Klein con il suo No logo l’aveva incuriosito?
«Sì, mi sembrava una maniera per essere moderni ma poi ho visto che sono state anche
prodotte felpe No logo. Resto convinto comunque che mettere il proprio nome sui prodotti sia una garanzia di responsabilità e serietà».
Fonte: Dario Di Vico, “Corriere della sera”, 12 maggio 2008
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UNITÀ 17 Il circuito economico mondiale
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Contro il mercato della fame e della sete
L’articolo proposto fornisce il punto di vista del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti
nell’attuale dibattito italiano (e non solo) sulla globalizzazione.
Caro direttore,
1) Eravamo nel mondo circa 1 miliardo di persone, all’inizio del ‘900. Eravamo circa 2,5
miliardi, a metà del ‘900. Siamo circa 6,5 miliardi, all’inizio di questo secolo. Saremo in
previsione più di 9 miliardi, prima della fine di questo secolo. Contrariamente a un’impressione che si sta ormai diffondendo, le previsioni economiche sono ancora affidabili,
ma solo se basate sui grandi numeri e proiettate sulla dimensione temporale della lunga
durata [...]. Dati questi dati: cosa dire sull’oggi? Cosa prevedere per domani? Cosa fare?
Quindici, ancora dieci anni fa, poco più di 1 miliardo di persone aveva più dell’80% della
ricchezza prodotta nel mondo. Oggi, tra quel poco più di 1 miliardo ed i restanti più di
5 miliardi, la ricchezza che si produce nel mondo è divisa a metà: 50%; 50%. Non è solo
un differenziale demografico, economico, quantitativo. È un differenziale politico. Un differenziale ad alta intensità politica. Quindici, ancora dieci anni fa, la parte ricca del mondo
era unificata da un proprio e dominante codice di potere: un unico codice economico e
monetario, linguistico e politico, fatto dall’ideologia del mercato e del dollaro, dalla lingua
inglese e dal G7. Questo ordine si è rotto, nel corso dell’ultimo decennio. Il vecchio codice di dominio è entrato in crisi, tanto al suo interno quanto al suo esterno, a fronte del
nuovo mondo che è emerso un po’ dappertutto fuori dal vecchio perimetro del G7. Un
mondo caotico e anarchico nella sua espressione d’insieme, fatta da sistemi e sottosistemi sociali ed economici, ideologici e politici, tra di loro fortemente differenziati: democrazie emergenti, che replicano alternativamente gli elementi migliori o peggiori dell’Occidente; Stati che ibridano insieme comunismo e mercato; Stati che esprimono e proiettano insieme neo-imperialismo e paleo-mercantilismo; Stati che sono ancora più feudali
che sovrani. L’effetto di insieme, l’effetto complessivo è quello di una forte instabilità.
Instabilità già in atto; e soprattutto instabilità in potenza. L’arte di «prevedere il futuro»,
l’arte di fare la «storia del futuro» è un’arte ricorrente. L’offerta di catastrofismo è una
costante storica, ma nella sua intensità conosce cicli alterni di alto, medio, basso. Un’arte
che in specie si intensifica nelle fasi di crisi, fino agli scenari catastrofici dell’iperconflitto,
del nomadismo, del cannibalismo. Qui cerchiamo di essere più costruttivi. L’accaduto non
può essere evitato. È l’inevitabile che può essere evitato. In questa prospettiva, cibo e
acqua sono elementi essenziali e strategici. Rappresentiamoli in negativo, per capire più
a fondo quanto contano: non cibo, uguale fame; non acqua, uguale sete.
2) Non cibo, alias fame. Entro il 2030 la domanda alimentare crescerà del 50%. In particolare, negli ultimi tre anni, i prezzi alimentari sono globalmente cresciuti dell’83%. Solo nel
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2007 il prezzo del pane è aumentato del 77%, quello del riso del 16%. Nel 2008 la tendenza non si è invertita. È solo un po’ rallentata. Alla base di questi movimenti e dei loro
scarti improvvisi ci sono solo i fondamentali della domanda e dell’offerta o c’è anche la speculazione, la peste del XXI secolo? Per me (non solo per me) c’è anche e forte la speculazione. Ma comunque, anche ragionando solo in termini convenzionali di domanda e di
offerta, c’è qualcosa di più. È questione di equilibri e di velocità sostenibile. La globalizzazione, fatta di colpo e a debito, è stata come aprire un vaso di Pandora, liberando forze che
ora non sono facili da controllare. In ogni caso, sul cibo si è creata un’enorme asimmetria,
tra l’Occidente e il resto del mondo. Un’asimmetria che è insieme culturale ed esistenziale.
A) In Occidente, sul cibo si ragiona in termini lievi, postmoderni. [...] In Occidente la questione del cibo viene in specie vissuta e presentata come un misto tra buone pratiche di
igiene sanitaria (è così un po’ il verificarsi della profezia di G.B. Shaw: l’igiene diventerà la
religione del mondo contemporaneo), pose radical-chic, idee pseudoscientifiche, furbizie
commerciali, prospettive di risparmi pubblici nella spesa per il welfare. Ancora ieri si
auspicava in Europa un aumento dei prezzi per incentivare gli agricoltori a produrre
minori quantità, ma di migliore qualità, etc... E via via con scemenze simili. Soprattutto c’è
il dilemma, l’enigma tragico dei biocarburanti: sono un target europeo positivo e progressivo o sono un crimine contro l’umanità?
B) Nel resto del mondo non è esattamente così. La fame ha fenomenologia e geografia
nuove, diverse da quelle tradizionali. La fame non riguarda più solo le aree da sempre
povere, o le aree colpite periodicamente da siccità o da eventi bellici. La fame è insieme
più estesa e più discontinua di prima. Ed essa stessa può essere, si avvia a essere, non
solo l’effetto ma anche la causa di guerre. È anche questo un lato oscuro della globalizzazione. Per fare un bilancio consolidato della globalizzazione è ancora troppo presto.
Nella parte del mondo non «beneficata» dalla globalizzazione non tutti vivono comunque meglio, molti vivono ancora peggio di prima; perché, con i nuovi prezzi, non basta
più neanche quel mezzo dollaro che prima «bastava».
3) Non acqua, alias sete. La domanda globale di acqua è triplicata negli ultimi 50 anni e
si prevede che crescerà di un ulteriore 25% nel 2030. Almeno 500 milioni di persone
vivono in aree che strutturalmente e permanentemente mancano di acqua. Per il 2050 è
previsto che salgano a 4 miliardi. Da sempre acqua significa vita e salute. Lo sapevano
bene gli antichi romani, con il loro motto Salus per acquas, con i loro acquedotti e le loro
terme. Prima dei romani, vi era la Bibbia. L’acqua nella Bibbia non è solo una presenza
fisica, sospirata e preziosa, ma è soprattutto e non per caso un simbolo spirituale. Sono
almeno 1.500 i passi biblici «bagnati» dalle acque. Passi nei quali ci si imbatte in sorgenti, fiumi, mari, laghi, ma anche in piogge, nevi, rugiade, pozzi, cisterne, acquedotti, piscine, bagni, torrenti, imbarcazioni, pesci, pescatori. L’acqua racchiude valori simbolici fondamentali al punto da trasformarsi in un segno stesso di Dio e della sua parola. L’acqua
rivela anche un profilo terribile, di giudizio e di distruzione: pensiamo solo al diluvio o,
più semplicemente, al mare che nella Bibbia è visto come un simbolo del nulla, del caos,
della morte. [...]
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Da sempre la civiltà dipende dalla disponibilità di acqua. È stato detto, correttamente, che
l’acqua è più importante del petrolio. In un prossimo futuro sarà possibile sostituire il
petrolio con altre fonti di energia, come quella nucleare o quella solare. Ma non sarà mai
possibile sostituire l’acqua. La disponibilità di acqua, va da sé, è essenziale per aumentare la produzione agricola in modo da corrispondere all’incremento della popolazione
mondiale. A differenza del cibo, l’acqua sta diventando una risorsa scarsa, anche nei
Paesi sviluppati. Vi sono innumerevoli segnali. Ad esempio, quest’anno per la prima volta
18 milioni di californiani hanno dovuto subire un forte razionamento delle forniture idriche. Stiamo parlando della parte del mondo più ricca e più innovativa dal punto di vista
tecnologico. Ma tutto ciò evidentemente non è bastato. Il progresso tecnologico potrà
indubbiamente aiutare nel trovare nuove risorse idriche e, soprattutto, nell’usare più efficientemente quelle esistenti. Ma il problema non è soltanto tecnologico o risolvibile solo
con la scienza. È un problema anche politico, ed anche morale.
4) Cibo e acqua non sono una merce qualsiasi, una commodity qualsiasi da lasciare al
mercato secondo la logica del profitto. La logica del profitto può senz’altro favorire un’allocazione efficiente delle risorse. Ma l’efficienza economica ha poco o nulla a che fare con
il soddisfacimento dei bisogni primari di chi – regione geografica o classi di cittadini –
non dispone delle risorse economiche necessarie per pagare prezzi di mercato.
La logica del mercato va correttamente applicata per rendere cibo e acqua più disponibili per tutti, in modo efficiente e senza sprechi. Ma non deve essere applicata per rendere il cibo e l’acqua un nuovo e formidabile strumento per conseguire profitti privati di
monopolio o rendite di posizione. Come per il cibo, anche per l’acqua sta finendo l’illusione pluridecennale di una crescente disponibilità a prezzi sempre più bassi. I governi
hanno il dovere di adottare le misure necessarie affinché l’acqua non diventi una ragione di separazione sociale tra ricchi e poveri, che si tratti collettivamente di interi Paesi o
individualmente di cittadini, all’interno dei vari Paesi. Serve per questo il principio di una
nuova governance del mondo. È per questo che, nel suo grande respiro, si condivide pienamente il discorso fatto il 23 settembre 2008 per l’Europa, all’Assemblea generale delle
Nazioni Unite, dal presidente della Repubblica francese: «La comunità internazionale ha
una responsabilità politica e morale che noi dobbiamo assumere... non possiamo governare il mondo di oggi, quello del XXI secolo, con le istituzioni del XX secolo... Abbiamo
un secolo di ritardo... Non possiamo più aspettare... a trasformare il G8 in G14, per farvi
entrare la Cina, per farvi entrare l’India, per farvi entrare l’Africa del Sud, il Messico, il Brasile. L’Italia propone un grande passo in questa direzione fin dal prossimo vertice che
ospiterà. L’Italia ha ragione!». Nel 2008 il suo anno di Presidenza del G8, l’Italia intende
proprio andare avanti invitando tutti gli altri Paesi a compiere insieme un passo avanti
verso il futuro. Un futuro che può e deve essere migliore del presente.
Fonte: Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia, “Corriere della sera”, 28 settembre 2008
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