Esperienze di filosofia: Dio e il divino in Spinoza

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Esperienze di filosofia: Dio e il divino in Spinoza
Esperienze di filosofia: Dio e il divino in Spinoza, Schleiermacher, Barth e Nietzsche
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Esperienze di filosofia: Dio e il divino
in Spinoza, Schleiermacher, Barth e Nietzsche
In questo percorso ci proponiamo di richiamare alcune esperienze possibili su temi di
filosofia della religione (il divino e l’approccio alla religione). Le quattro posizioni sul
divino che abbiamo scelto – quattro diversi approcci alla religione – non sono compatibili tra loro: sono proposte di ricerca su vie originali e divergenti.
Il metodo delle esperienze di filosofia può essere utilmente impiegato al fine dello
studio della storia della filosofia se si accetta di lasciarsi guidare nel mondo spirituale di
un autore per quanto lontano esso possa essere per noi.
Svolgere il percorso significa quindi:
leggere i testi come indicazioni per un lavoro filosofico da compiere;
lasciarsi guidare da essi prendendoli alla lettera;
richiamare alla mente esperienze possibili.
Spinoza: la natura e Dio
«Poiché senza Dio nulla può essere né essere concepito, è certo che tutte le cose che
sono in natura implicano ed esprimono il concetto di Dio in ragione della loro essenza
e della loro perfezione, e perciò quanto meglio conosciamo le cose naturali, tanto mag1
[B. Spinoza, Trattato teologico-politico]
giore e più perfetta conoscenza di Dio acquistiamo.»
Questa frase di Spinoza può essere scomposta in una serie di passaggi, ciascuno dipendente dagli altri.
Non possiamo pensare in modo compiuto senza pensare Dio, perché nessuna cosa
può essere senza Dio e il pensare è pensiero dell’essere: è la celebre tesi centrale del
Primo Libro dell’Etica, per cui la singolarità di ogni ente ed evento è solo un modo
che esprime, secondo un determinato attributo, il Tutto (lo si chiami Dio, Natura,
Sostanza).
La perfezione di ogni cosa è identica con la sua essenza (l’essenza è per ogni cosa,
in estrema sintesi, la risposta alla domanda: che cos’è?), perché ogni cosa è tanto
perfetta quanto è richiesto dal suo posto nell’ordine complessivo del mondo; non vi
sono quindi gerarchie di perfezione in natura.
Le cose ci consentono di conoscere Dio se siamo in grado di conoscerne la perfezione e l’essenza, perché queste due parole indicano lo stesso concetto: ciò che una cosa è e l’essere di ciascuna cosa esprime Dio.
Qual è allora la via per fare esperienza del divino? Conoscere a fondo le cose.
Facciamo esperienza del divino quando, con la scienza, non fermiamo la ricerca e
non smettiamo di porre domande: «quanto meglio conosciamo le cose naturali, tanto
maggiore e più perfetta conoscenza di Dio acquistiamo». Spinoza ha così descritto la
passione profonda, “religiosa”, per la ricerca scientifica. Non a caso queste tesi hanno
affascinato molti scienziati in ogni tempo: Einstein nei suoi scritti filosofici ha dedicato
pagine bellissime a questo tema.
Schleiermacher: singole intuizioni e sentimenti sull’universo
«L’universo è in un’incessante attività e in ogni momento si rivela a noi. Ogni forma
che produce, ogni essere il quale, per la pienezza della vita, partecipa a un’esistenza
distinta, ogni avvenimento che scaturisce dal suo ricco seno sempre fecondo, è una sua
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azione su di noi. E così religione è prendere ogni individualità come una parte del tutto,
ogni circoscritto come una rappresentazione dell’infinito; ma voler procedere oltre,
immergersi più profondamente nella natura, nella sostanza del Tutto, non è più religione […]. La religione si ferma alle immediate esperienze dell’essere e dell’agire
dell’universo, alle singole intuizioni e sentimenti. Ciascuna di esse è un’opera a se stante, non collegata né subordinata alle altre; di deduzione e relazione non sa nulla.»
[F. D. Schleiermacher, Sulla religione]
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Per intendere questo brano, che esprime in modo compiuto la visione romantica della
religione e ha almeno un tratto spinoziano,è necessario sottolineare due passaggi.
L’esistere di ogni essere è un’azione che l’universo compie su di noi; il testo non
dice che ogni essere che abbia una esistenza distinta agisce su di noi, ma che
l’universo agisce su di noi attraverso il solo esistere (non l’agire) di ogni essere.
Questa azione, se percepita come tale (mediante intuizione e sentimento), mette direttamente in contatto la nostra singolarità di vita, d’azione e d’esistenza (le tre cose
sono una sola realtà) con l’universo. Non c’è bisogno di altro passaggio
nell’esperienza che ci si propone, se non sentire in noi l’azione che le cose esercitano. Questo punto è spinoziano, almeno nella lettura romantica allora corrente.
Ogni singola intuizione e sentimento è religione, e resta legata alla singolarità. La
visione di Schleiermacher su questo punto è lontana dallo spinozismo, perché distacca la singola esperienza religiosa dalla razionalità della comprensione del Tutto:
non è sentimento intellettuale del divino, ma un sentimento intuitivo del divino.
Ciò che ci si chiede è di compiere l’esperienza dell’azione diretta delle cose, nella loro
semplice esistenza su di noi, e di fermarci a questo, sperimentando intuitivamente il mistero dell’infinito che è dietro ogni cosa: non è forse vero che la materia che compone il
più piccolo e banale degli esseri viventi (se simili aggettivi possono riferirsi a una natura che ci parla del divino) è antica quanto l’universo? Non dobbiamo riconoscere che
l’esistere di ogni cosa non ci sarebbe, nella singolarità che la caratterizza, se non esistesse l’universo nell’unità delle sue leggi? Che l’intera scienza della natura va richiamata
per comprendere intuitivamente l’esistere di ogni più piccolo essere vivente? Non ci
parlano forse della storia dell’intero universo le singolarità di cui facciamo esperienza?
Barth: il divino e l’umano
«Ogni attribuzione al divino di un essere, avere, fare umano, ogni presumibile relazione diretta con lui, gli rapisce la sua divinità, l’abbassa al livello del tempo, delle cose dell’uomo, disconosce il suo reale significato. […] Dio non è una grandezza psicologica o storica, ma la misura, la fonte e l’origine di tutte le grandezze […]. La parola
Dio […] è la parola del giudizio, della richiesta imperativa, della speranza che è rivolta a tutti e che ha per tutti un significato, e un significato decisivo.»
[K. Barth, L’Epistola ai Romani]
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La tesi di Barth è molto nota e antica: se pensiamo con la nostra esperienza di uomini di
racchiudere in noi il divino, racchiuderemo con ciò solo l’umano. Il divino è al di là
dell’umano e non ne è possibile alcuna esperienza. O meglio, è possibile l’esperienza
del nostro fare umano, che ci dà il senso della finitezza, del limite, e quindi del mistero
assoluto e radicale che è per noi ciò che non è umano. Dio è questo mistero, e
l’esperienza che ci si propone è quella del sentire la “parola di Dio” – la rivelazione della Scrittura – come giudizio, richiesta imperativa, speranza; sentire che questa speranza
ha un significato decisivo per noi. Inutile rivolgersi alla natura: in essa faremmo esperienza della stessa finitezza di cui facciamo esperienza in noi stessi. Dio è altrove e non
lo ridurremo all’umano. L’esperienza religiosa è l’opposto di questa riduzione.
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Nietzsche: fare canzoni e lodare Dio, nell’età della sua morte
«Il santo rise di Zarathustra e così parlò: “Non andare tra gli uomini e resta nel bosco! Va’ piuttosto dagli animali! Perché non vuoi essere, come me, un orso tra gli orsi e
un uccello tra gli uccelli?”
“E che cosa fa il santo nel bosco?” domandò Zarathustra?
Il santo rispose: “Faccio canzoni e le canto, e quando faccio canzoni, rido, piango e
borbotto: cioè lodo Iddio”. […]
Udite che ebbe queste parole Zarathustra salutò il santo. […] Così i due si separarono, il vegliardo e l’uomo, ridendo come possono ridere due ragazzi.
Ma quando fu solo, così Zarathustra parlò al suo cuore: “È mai possibile? Questo
santo vegliardo non ha ancora sentito dire, qui nel suo bosco, che Dio è morto?»
[F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra]
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Non potrebbero esserci due punti di vista più diversi. Il santo è con tutta evidenza il filosofo romantico, alla Schleiermacher, che nella singola esperienza della natura vede il
divino. Il Dio di cui parla è lodato attraverso emozioni, espresse con il riso, il pianto, il
borbottio.
L’esperienza che richiamano le parole del santo è descritta con molta chiarezza:
è esperienza del divino nella natura e in sé attraverso immagini singole e altrettanto
singole emozioni; è esperienza dell’empatia con altri esseri viventi (gli animali): diventare orso con gli orsi, uccello tra gli uccelli, e in questa trasfigurazione di sé
percepire in sé il divino;
è esperienza del canto, anzi del fare canzoni e poi cantarle, quindi della creatività
della musica, che consente di esprimere le profonde emozioni del cuore in forme
belle.
Ora, fare canzoni, ridere, piangere e borbottare, dice il testo, è già lodare Iddio. Non si
tratta di momenti distinti. L’esperienza del divino che il santo sta proponendo è quella
romantica dello “spinozismo” (che della filosofia di Spinoza è un’interpretazione molto
particolare data dai romantici dopo le celebri Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi), con il superamento della distinzione tra sé e la natura. È percepire con i sensi il divino nella natura.
Zarathustra comprende, sa di che si tratta, forse ha fatto queste esperienze nel suo
sforzo di comprendere in sé il suo tempo; del resto senza farle è impossibile comprendere il punto di vista del santo vegliardo, che non descrive teorie comprensibili razionalmente, ma racconta esperienze vissute. Ma pur comprendendo (il ridere in comune come due ragazzi è il segno di una profonda affinità del sentire), Zarathustra è spiritualmente e intellettualmente lontanissimo. Non vive nel bosco, ma nel mondo degli uomini, in cui tutti hanno ormai sentito dire che Dio è morto.
Che cosa rappresenta dunque il bosco? È la privata realtà di chi fugge il mondo, e
ovviamente può “realizzarsi” in qualsiasi situazione, anche nel pieno della folla urbana.
Ma non è il proprio tempo condiviso con gli altri: è necessario essere dei solitari, godere
della compagnia della natura piuttosto che degli uomini. Tra gli uomini ciò di cui Zarathustra fa esperienza è l’assenza di Dio, la percezione del nulla. È la stessa esperienza
del santo, ma ne è di segno opposto la lettura: dietro la natura Zarathustra non riconosce
più alcun Dio. L’esperienza romantica è perduta.
Così Zarathustra e il saggio ridono l’uno dell’altro. Sanno che l’altro non legge nello
stesso modo l’esperienza, anche se si intendono. Sono maestri nel riconoscere all’altro
la sua alterità, e sentono che l’altro la riconosce a loro. Forse nella loro esperienza degli
uomini sanno che non è cosa comune.
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Quattro esperienze divergenti
In una notte stellata, in montagna, quando nel cielo possiamo vedere tante stelle e così
luminose come nessun cielo cittadino può ormai renderci, facciamo esperienza di una
realtà naturale che l’uomo non ha dominato né modificato. È un’esperienza rara, perché
quasi nessun luogo sulla terra ha più queste caratteristiche, e non è certo un caso se tanti
filosofi parlano del cielo stellato.
Le luci che vediamo nella volta celeste possono essere percepite in moltissimi modi,
che ovviamente si incrociano con l’esperienza e la singolarità della vita di ciascuno.
Proviamo però a seguire i filosofi nelle quattro esperienze inconciliabili che ci hanno
proposto.
Richiameremo allora alla mente le conoscenze scientifiche che abbiamo, ricordando
che immani esplosioni ci stanno avvolgendo da ogni parte, su una scala descritta dalle
formule, ma non concepibile in rapporto alle esperienze della realtà terrestre.
Seguiremo singole intuizioni e lasceremo libero il nostro sentimento, perché ciascuna
luce possa farci sentire l’azione dell’universo su di noi.
Percepiremo il buio come nulla, e la luce come un nulla luminoso, un’immane esplosione che passa e svanisce, perché tutto passa, e tutto ciò che vediamo è nel tempo, e
non dura, e non ci parla di Dio, perché Dio non passa.
Canteremo una canzone con gli amici, o da soli, sotto le stelle, come farebbe il santo,
o rideremo di chi canta sotto le stelle, come Zarathustra.
1 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di A. Droetto e E.Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 68.
2 F. D. Schleiermacher, Sulla religione, trad. it. di S. Spera, Queriniana, Brescia 1989, pp. 76-78.
3 K. Barth, L’Epistola ai Romani, trad. it. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 88.
4 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Rizzoli, Milano 1988, p. 28.