Il ritorno all`ordine

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Il ritorno all`ordine
Arte e territorio
Anno scolastico 2012.2013
Dario D’Antoni
Il ritorno all’ordine
Tra magia e matematica, tra Galileo e Newton, tra gli intrighi di
Cromwell e Richelieu, dopo gli splendori di Luigi XIV, l’Europa
trasforma la sua pelle e i suoi organismi interni. Il Sacro Romano Impero è
un ricordo da libri di storia, si affacciano le superpotenze olandesi addirittura dal 1688 per un certo periodo la casa reale inglese fu
olandese- i turchi minacciano la Germania e l’Austria, mentre in Russia,
paese boscoso vasto e selvaggio, sale al potere Pietro il Grande. Fu un
sovrano selvaggio e crudele, che però si era messo in testa di fare del
suo regno uno stato come quelli occidentali di Francia, Inghilterra o
Germania. Aveva
visto le grandi
città portuali dell’Olanda dalle quali salpavano
immense navi che salpavano verso l’America e le
Indie e volle costruire una città portuale anche in
Russia, in terre che in realtà appartenevano alla
Svezia, ma non se ne curò minimamente, tanto già
era in guerra con la Svezia. Grazie alla fatica di 80 000
lavoratori presto sorse davvero una città portuale,
che si chiamò San Pietroburgo. Molti dei suoi più
grandi monumenti furono realizzati grazie all’apporto
di architetti italiani (B. Rastrelli, Quarenghi, Rossi).
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Ora anche i russi sarebbero diventati veri europei. Pietro il Grande vietò loro di vestirsi in modo tradizionale
con i capelli lunghi, la barba lunga e il saio. Da allora in avanti ci si sarebbe dovuti vestire come i francesi o i
tedeschi. Chi non era d’accordo con le innovazioni poteva essere frustato e impiccato. Sorte che toccò
anche a suo figlio. Pietro il Grande non era quindi un signore piacevole,
ma sapeva ottenere quel che voleva. E anche se i russi non diventarono
europei tanto in fretta, da allora la Russia ha avuto il suo ruolo nelle
sanguinose lotte di potere europee.
Tutte le corti europee si riempivano di formidabili scenari barocchi, che,
oltre a celebrare la potenza di una chiesa finalmente tornata potente e
protagonista,
creavano spazi
scenografici di
suggestiva e
sognante
bellezza. Si
impone, eccessivo, ridondante e imperativo, lo stile
rococò. Il termine fu coniato in epoca rivoluzionaria,
in realtà riferito a piccoli ambienti, e indicava una
frivola confezione di conchiglie e di forme simili a
conchiglie, e da allora è ricondotto a un tentativo di
soddisfare i capricci di una dissipata aristocrazia. Ma in realtà non mancava di fondamenti logici: questo stile
era motivato dalla richiesta di libertà dalle regole accademiche e da una maggiore spontaneità nella
produzione artistica. Il suo genio era nelle sfumature, nei sottili accostamenti di forme, nelle delicate
gradazioni e mescolanze di colori, nei ritmi sfuggenti e danzanti.
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E il ‘700 fu, alla sua alba, un teatro di incredibili avvenimenti. Su tutto valevano le convinzioni, che
abbiamo tanto commentato ma che erano diffusissime anche tra i più assennati e religiosi tra gli uomini, a
prescindere dalla condizione sociale e dalla nazionalità, che le ragazze dovevano esser date in moglie a
uomini che non conoscevano per nulla, che era lecito picchiare i bambini, che i contadini sono al mondo
solo per lavorare e che non devono lamentarsi, che
bisognava frustare pubblicamente mendicanti e
vagabondi; che i ladri devono essere impiccati e gli
assassini pubblicamente squartati, che bisogna bruciare le
streghe e i maghi che non fanno altro che tramare
nell’ombra malefici; che il signor Tizio, un amico inglese, da
un pezzo fa grandi affari trasportando i negri dall’Africa
all’America, dove li rivende come schiavi, che i miscredenti
vanno perseguitati e sbattuti in galera, che la cometa che
è appena transitata porta con sé cattivi presagi.
Ma fu proprio nel corso del Settecento che le cose
cominciarono a cambiare. Le molte, orribili miserie causate
in Europa dai conflitti di religione portarono alcuni uomini a
riflettere. È davvero così determinante a quale articolo del catechismo si creda? Non sarebbe meglio se gli
uomini cominciassero ad andare d’accordo, anche quelli che hanno opinioni e fedi diverse? Se si
rispettassero a vicenda e tollerassero le convinzioni del prossimo? Venne allora formulato un importante
principio: il principio di tolleranza. La differenza di opinioni può esserci solo nelle questioni di fede. Ma sul
fatto che 2+2 fa sempre 4 sono d’accordo tutti gli esseri umani ragionevoli. È perciò la ragione ciò che
potrebbe e dovrebbe unire tutti gli uomini.
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Nel regno della ragione si può litigare a suon di motivazioni cercando di convincere l’avversario, ma la fede
dell’altro, che è al di là di ogni razionalità, va solo rispettata e tollerata. La ragione fa pensare in modo chiaro
sugli uomini e la natura, non stabilisce differenze di fede, e viene data allo stesso modo a tutti gli uomini:
ricchi e poveri, bianchi, gialli o rossi. Ma visto che la ragione viene data i egual modo a tutti gli uomini, allora
tutti gli uomini valgono allo stesso modo.
Che era anche l’insegnamento del cristianesimo: davanti a Dio, tutti gli uomini sono uguali.
Ma i predicatori della tolleranza e della ragione andarono oltre: essi non si limitarono a sostenere che
fondamentalmente tutti gli uomini sono uguali, ma chiesero anche che tutti venissero trattati allo stesso
modo. Che tutti gli uomini, in quanto creati da Dio e dotati di ragione, avessero dei diritti che niente e
nessuno poteva negare: il diritto di scegliere la propria professione e il diritto di decidere della propria vita,
nonché il diritto di fare o non fare ciò che la ragione e la coscienza dicevano loro. Chiesero che anche i
bambini non fossero educati grazie al bastone ma grazie alla ragione, insegnando loro a capire che cosa è
buono, che cosa è cattivo e perché; e che i criminali venissero considerati come uomini e che anche a loro
venisse riconosciuta la dignità, senza marchiarli con ferri arroventati sulle guance o sulla fronte.
Tutti questi pensieri, che dopo il Settecento si diffusero prima in Inghilterra e poi in Francia, vengono
chiamati Illuminismo, perché combattevano coi lumi della ragione l’oscurità delle superstizioni.
Alcuni sostengono che l’Illuminismo insegnò solo ovvietà e che a quell’epoca si era data una spiegazione
troppo superficiale e semplicistica dei grandi segreti della natura e del mondo. È vero. Ma quelle ovvietà
allora non erano per niente ovvie.
E negli ultimi 200 anni trascorsi dall’Illuminismo si sono studiati e spiegati più segreti che nei 2000 anni
precedenti. Ma soprattutto oggi la tolleranza, la ragione e l’umanità ci hanno insegnato che la stregoneria
non esiste e quindi non si devono più bruciare le streghe (l’ultima fu bruciata in Germania nel 1749, e un’altra
ne venne bruciata in Svizzera nel 1783).
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Che le malattie non vengono scongiurate con la superstizione, ma principalmente con l’igiene e con
la ricerca. Che non ci sono più servi della gleba né schiavi, che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini.
La Rivoluzione francese mise fine a tanti presupposti accettati da secoli, se non da millenni.
Dal «Secolo della Ragione» deriva la Grande Rivoluzione, e insieme derivano molti cambiamenti nella
concezione dell’arte. La gente cominciò a prendere coscienza della parola “stile”.
Il Neoclassicismo
Nei libri di storia, i tempi moderni cominciano con la
scoperta dell’America per opera di Colombo nel 1492. Nella
storia dell’arte, era l’epoca del Rinascimento, quando il
mestiere di pittore, scultore, architetto e artista in generale
cominciava ad esser considerato come una vera
vocazione.
La Riforma, scagliandosi contro l’esposizione delle immagini
nelle chiese, obbligava gli stessi artisti a cercare nuovi
sbocchi commerciali.
Poi, durante il Settecento, ci si interrogava sul concetto
Stourhead garden,Wiltshire
di «bellezza», se bastasse l’imitazione della natura in maniera
idealizzata, come fece Raffaello, o in maniera reale, come avevano fatto
Caravaggio, Carracci, i fiamminghi. Ma tutti erano d’accordo sull’insuperata bellezza delle opere
dell’antichità classica.
Il canone della ragione era contrario ai voli di fantasia del Barocco e ad un’arte tesa a suggestionare e
impressionare. Ad esempio, dall’Inghilterra arriva una nuova tesi sulla realizzazione dei giardini.
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I parchi come Versailles, come Caserta erano condannati come assurdi e artificiosi, con le loro infinite siepi
tosate e gli innumerevoli viali che si saldavano alle
campagne circostanti. I parchi e i giardini dovevano
riflettere le bellezze della natura, capaci di incantare
l’occhio dei visitatori.
Ma cominciava ad affermarsi una consapevolezza
nuova: le regole dell’arte classica non erano realmente
provenienti dalla Grecia antica, ma da rovine romane
risalenti alla decadenza della stessa Grecia. Così,
inevitabili, iniziarono i viaggi verso quell’Atene dove l’arte
greca poteva essere studiata nelle sue regole corrette.
L’arte, così razionalmente studiata e analizzata nella culla
della sua massima espressione, poteva concepirsi come
applicazione di norme severe e funzionanti. Thomas
Monticello, Virginia
Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti,
disegnò personalmente la sua residenza, Monticello, in questo stile nitido, “neoclassico”. La città di
Washington, con i suoi edifici pubblici, fu progettata secondo le forme dell’urbanistica e dell’architettura
greca. Anche in Francia questo stile trionfò dopo la rivoluzione. Robespierre e i membri del parlamento
rivoluzionario avevano dichiarato il Cristianesimo una antica superstizione e decretato per legge l’abolizione
di Dio. Al suo posto andava pregata la dea della Ragione. E si andò avanti così in un turbinio di esagerazioni
che avrebbe spazzato via Robespierre, Danton, Marat e tutti i rivoluzionari.
La vecchia tradizione degli architetti e decoratori barocchi e rococò venne identificata col passato che
doveva essere spazzato via.
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Quando Napoleone, campione delle idee rivoluzionarie, acquistò potere in Europa, lo stile artistico
“neoclassico” divenne lo “stile impero”. Il vero stile rivoluzionario, che accompagnò la parabola umana
e politica dell’ultimo grande conquistatore Napoleone, fu proprio il
Neoclassicismo.
Un’epoca moriva, un’altra sorgeva e non si capiva bene dove si andava, forse ci si rifugiava in un
olimpo borghese, in una mondanità francese, o forse in una allegoria vittoriosa fatta di ragione e carnalità, di
illuminismo e mitologia, di virtuosismo e di nuovo conformismo.
Antonio Canova
E anche di dinamismo, se si pensa che tutte le sculture di Antonio
Antonio Canova, Self portrait
Canova (1757-1822), il campione del
Neoclassicismo, contemplavano un meccanismo psichico che permetteva
di girarci attorno, ruotarci accanto, movimentarle, colloquiare con loro.
Gustave Flaubert, di fronte a una copia del gruppo Amore e Psiche,
esclamò: « Ho baciato sotto l’ascella la donna abbandonata che tende
verso Amore le sue slanciate braccia di marmo. E che piedino! Che testa!
Che profilo! Ch’io possa esser perdonato, dopo tanto tempo questo è stato
il mio solo bacio sensuale, ed è stato qualcosa di più: ho baciato la
bellezza stessa, ed era al genio che sacrificavo il mio ardente entusiasmo. »
Il visitatore, davanti alle sculture di Canova, non doveva più ronzare intorno
alle sculture come un guardone, erano loro a fare tutto il lavoro. Una
concezione modernissima che rendeva il fruitore il vero perno dell’azione,
soggetto e non più oggetto. Secondo la nuova visione di rivoluzione ed
evoluzione sociale. Roba da anticipare le più coraggiose idee dei futuristi,
che pure volevano porre “lo spettatore al centro del quadro”.
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Canova aveva il pallino di far rivivere la scultura del passato come il Palladio voleva nel Cinquecento far
rivivere l’architettura greca. Proprio per questo Antonio Canova è stato messo nel tritacarne del vecchiume,
additato come un campione del becero, dell’antico che non vuole mollare, del lezioso, della pignoleria e
della bellezza fredda e sfuggente come blocco di ghiaccio in freezer.
Canova, nato in Veneto, a Possagno, ma romano di adozione e di spirito classico, produceva i suoi
lavori con un sistema straordinario. Il processo creativo impiegato si componeva di quattro fasi.
Il disegno era la prima fase in cui il maestro trasferiva i propri "pensieri " sulla carta : ad essi attribuiva un
Fasi del metodo di lavoro di Canova
importanza fondamentale
equiparando la matita allo
scalpello.
Il bozzetto in terra, cotta o cruda o
in cera, costituiva la seconda fase ,
ed era realizzato per poter vedere
immediatamente come poteva
realizzarsi l'opera appena ideata
nel disegno.
Si procedeva quindi, in una terza
fase, a realizzare il modello a
grandezza naturale, in creta.
Il passaggio dal modello in creta a quello in gesso si attuava col metodo della "forma persa": la creta rivestita
da un leggero strato di gesso rossigno veniva ricoperta da uno strato di gesso bianco. Asportata la creta,si
colava il gesso all'interno della matrice che veniva infine distrutta procedendo con la massima cautela al
comparire dello strato di gesso rossigno.
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A questo punto i lavoranti del suo studio fissavano sui punti chiave della figura le repère 1, i punti di
riferimento, con chiodi metallici e iniziavano la sbozzatura del marmo.
In una quarta fase il materiale sbozzato veniva trasferito nella studio personale del
Maestro per ricevere ciò che egli stesso chiamava "l'ultima mano", la fase che dava il
soffio di vita all'opera d'arte. Il Canova dava gli ultimi tocchi a lume di candela . In
ultimo un lustratore, in vari giorni di lavoro donava all'opera la diafana lucentezza del
marmo. Canova aveva l'abitudine di spalmare sull'intera superficie epidermica una
speciale patina. Il composto doveva essere formato da una mistura di pietra pomice,
da una tintura giallognola o fuliggine o "pura cera e acqua elaborata dallo speziale"
o "acqua di rota" (cioè acqua sporca dall'arrotamento di strumenti metallici)
Decisivo è il tocco "dell'ultima mano", dove l'artista apporta le decisive modifiche
rispetto al gesso. Canova nella sua opera di finitura si serviva di innumerevoli strumenti,
alcuni dei quali simili a quelli adoperati nell'antichità greca e latina, altri di sua
ideazione. L'ultima mano era tutt'altro che inutile manifestazione di virtuosismo
fine a se stesso, ma bensì tendeva a donare all'opera una vita propria fissata in un istante.
Canova davanti alle sue opere si aspettava di veder spuntare la grazia, la leggiadria, la poesia. Le covava,
le coccolava, le levigava, le lustrava fino allo stremo.
Era fissato con la grandezza, con la regalità della bellezza, tanto da diventare l’artista favorito di un
altro maniaco della nobiltà e della regalità, uno che era capace di incoronarsi imperatore da solo: mi
riferisco a quel megalomane di Napoleone.
1
Con il termine repère sono definiti dei particolari chiodini metallici (generalmente realizzati con una lega di bronzo ottenuta dalla fusione di zinco, rame e stagno),
infissi nel modello originale di gesso dallo scultore al fine di poter riprodurre l'opera nelle stesse dimensioni in marmo, utilizzando un pantografo manuale cosiddetto a
punti. Svariati esempi possiamo osservarli su molte opere originali in gesso nelle quali sono ancora presenti i chiodini metallici, appunto repère, opportunamente
disposti sulle superfici più salienti del modellato, per poterne riprodurre i principali valori plastici prima di procedere all'esecuzione dei particolari e delle finiture.
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I due andavano così d’accordo che a un certo punto Napoleone, dopo esserselo scelto come
ritrattista ufficiale, affidò a Canova pure la sorellina Paolina affinché da principessa capricciosa e ribelle si
elevasse al rango di gran dama con la puzza
sotto il naso. In pochissimo lui ne fece una
Paolina Borghese come Venere vincitrice
semidea piacente e giacente come manifesto
1804-08
programmatico del gusto neoclassico.
Marmo bianco, 160 x 192 cm
Galleria Borghese, Roma
In realtà a commissionare la scultura fu il
principe romano Camillo Borghese, secondo
marito di Paolina. L’opera fu subito ammirata e
lodata durante i ricevimenti e i balli tenuti nelle
residenze della famiglia Borghese. Inizialmente
Canova pensò di rappresentare la sorella
prediletta dell’imperatore nelle vesti di Diana
cacciatrice, ma la venticinquenne principessa,
vedova da poco e nota per il suo capriccioso
carattere, oppose un netto rifiuto.
Vittoriosa come Venere con in mano il
pomo ricevuto da Paride, Paolina trionfa
orgogliosa nella sua seducente e provocante
nudità, semidistesa su una chaise longue, o
letto greco. Letto che non ha la funzione di
semplice base d’appoggio, ma diventa elemento integrante della stessa scultura, è ornato con motivi
vegetali e palmette, ed è chiuso nella parte inferiore da un finto tendaggio con frange dorate. La figura ha il
busto completamente nudo ed è coperta nelle gambe da un morbido panneggio a sottili pieghe.
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Una nudità tanto ardita da suscitare non poco scandalo a
quei tempi. Eppure, pensate che pure il Crazy Horse per
scegliere le sue pupe adottò il canone paolino del seno a
coppa di champagne.
Allungata sul fianco, Paolina volge il capo alla sua
sinistra e fugge lo sguardo dell’osservatore. I tratti del volto
sono idealizzati e ispirati al canone della bellezza codificata
dall’arte neoclassica, ma è piacevolissimo e naturalistico
l’effetto della pelle che si piega nel fianco e nel collo,
svelando tutta la carnale morbidezza del corpo lavorato con
abile virtuosismo per raggiungere il massimo effetto di
sensazioni tattili.
A rendere ancora più l’impressione di realismo della
figura, Canova aveva steso sulle parti dell’incarnato uno
strato leggero di cera sciolta che conferiva al marmo un
delicato tono rosato.
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Amore e Psiche che si abbracciano
1786-93
Marmo, altezza 155 cm
Musée du Louvre, Paris
Fu il colonnello inglese John Campbell a
commissionare a Canova quella che oggi è una
delle più conosciute e ammirate sculture al
mondo. Il gruppo raffigura, come riportato dallo
stesso autore: “Amore e Psiche che si
abbracciano, tratto dalla favola dell’Asino d’oro
di Apuleio”. L’episodio, tra i meno rappresentati
delle Metamorfosi, coglie l’istante in cui Amore (il
greco Cupido) col suo bacio rianima Psiche
svenuta per aver aperto, nonostante il divieto di
Venere, il vaso che Proserpina le aveva
consegnato dall’Ade, il mondo dei morti.
La lettura ottocentesca aveva messo in evidenza
solo la componente erotico-sensuale sprigionata
dal gruppo, ma la critica moderna ha saputo
mettere in luce aspetti sottili legati al trattamento
del marmo, levigato con estrema delicatezza, e
ha rintracciato profondi significati nel contatto tra
i due corpi.
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Questo stupefacente gruppo scultoreo fu attaccato con stroncature incomprensibili per parecchi decenni
da autorevoli studiosi.
Ma ammirandolo la perfezione esecutiva del marmo levigatissimo si
stenta a comprendere le ragioni di tali critiche mosse dai
contemporanei. In realtà la poetica dello scultore segna con
quest’opera uno dei più elevati momenti del suo percorso creativo.
Mirabile è il senso di misura e corrispondenza delle parti: il
sensuale corpo di Psiche sembra distendersi ancora di più nella
tensione estrema delle braccia
che non circondano
completamente Amore, ma si
limitano a sfiorarne appena i
riccioli della testa. Le lunghe ali
del dio, protese verso l’alto,
danno all’apparente quiete dei
corpi un impercettibile senso di
movimento. Alla base, un rialzo di
terreno roccioso.
L’idealizzazione delle figure e la morbidezza delle linee sciolgono la
tensione erotica in un incrocio di sguardo e di braccia.
Ogni eccesso di sensualità sembra arenarsi davanti a un bacio sospeso,
mai dato, eternamente inappagato e inappagabile.
Esiste una seconda versione conservata all’Ermitage di San Pietroburgo.
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Canova aveva quindi questo superpotere di teletrasportarsi nello strapassato remoto e da lì modellare
opere nella materia viva dell’eternità. Divenne un’autorità in
materia di pietre tombali, di gruppi statuari funerari, di fondali
scenografici di foscoliana memoria.
Le urna dei potenti avevano lui come massimo referente,
seppe rappresentare la perfezione dell’ultima stazione, il
culmine della parabola esistenziale, la seduzione del distacco
senza il turbinio raccapricciante del Barocco.
Fu il gran cerimoniere di un culto laico, portavoce di un club
riservato alla nuova emergente classe dirigente. Tutti
potevano aspirare a farsi un piccolo impero, bastava averne
le capacità e i soldi.
Adesso, nel vecchio studio di via del Babuino, che ò’artista
lasciò all’allievo prediletto Adamo Tadolini, tra modelli
preparatori, punti a repère, strumenti di lavoro, pantografi e
gessi, hanno messo i tavolini da gourmet secondo un restauro
conservativo che non sottovaluta il livello gastro-ristorativo.
Monumento funerario di Maria Cristina d’Austria Lo hanno chiamato Ristorarte 1818.
1798-1805
Se ora vi dicono “Ci vediamo da Canova” preparatevi
Marmo, altezza 574 cm
a un bel piatto di rigatoni all’amatriciana o a due spaghetti
Augustinerkirche, Vienna
cacio e pepe.
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Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.
Le citazioni sono liberamente tratte dai testi
Ernst H. Gombrich Il mondo dell’arte
(Verona 1952)
Ernst H. Gombrich Breve storia del mondo
(Firenze 1985)
Honour-Fleming Storia universale dell’arte
(Bari 1982)
Pablo Echaurren Storia universale dell’arte
(Roma 2011)
Giuseppe Pavanello Antonio Canova
(Roma 2005)
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