La monodia sacra e profana

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La monodia sacra e profana
 1. DEFINIZIONE DI MONODIA MEDIEVALE Nella cultura degli antichi Greci, il termine “monodia” indicava il canto di un solista contrapposto a quello di un gruppo corale; in seguito divenne sinonimo di lamento o compianto funebre, e, applicato con tale significato a componimenti puramente letterari sia in versi sia in prosa, fu trasmesso nel Quattrocento dai dotti bizantini agli umanisti italiani. Fu poi raramente adoperato durante e dopo il Rinascimento. Con l'avvento della storiografia musicale dell'Ottocento fu reintegrato, ma con significato diverso da quello classico, perché definisce, anziché l'unicità dell'esecutore, l'unicità della linea melodica, non è dunque l'opposto di coralità, ma l'opposto di polifonia: monodico è quindi detto ogni tipo di musica che si concretizza essenzialmente in un'unica linea melodica, sia essa solistica, sia corale, vocale o strumentale. La monodia medievale, oggetto di questa trattazione, comprende: • la primitiva liturgia cristiana, nelle diverse tradizioni regionali e la successiva codificazione gregoriana; • le innovazioni liturgico-­‐musicali dei secoli IX-­‐X, e gli sviluppi ulteriori (le sequenze, i tropi, gli uffici metrici, gli uffici drammatici e i drammi liturgici); • la monodia su testi profani in latino; • la produzione su testi in lingua volgare (le canzoni dei trovatori e dei trovieri in Francia, dei Minnesänger e Meistersänger in Germania, le Cantigas in Spagna e le laude in Italia). 1.1 Il canto liturgico cristiano e la codificazione gregoriana • Origine del canto cristiano. Definizione di Canto Gregoriano. Le origini del canto cristiano coincidono con le origini del Cristianesimo, che nacque in Palestina nell'ambito del popolo ebraico e si diffuse rapidamente nel bacino del Mediterraneo. L'organizzazione del canto cristiano in un repertorio liturgico stabile e comune a tutta Cristianità occidentale ha costituito un processo che si è esteso per diversi secoli attraverso una tradizione puramente orale, dando luogo a una complessa vicenda storico-­‐musicale che, partendo dall'inizio dell'era cristiana, e sviluppandosi in varie tradizioni regionali, culmina, in età carolingia, nella codificazione del cosiddetto “canto gregoriano”, cioè del repertorio unificato di canti liturgici monodici della Chiesa cattolica 1
romana: questa codificazione, che, dal IX secolo si avvale anche della messa a punto di una scrittura musicale, dà inizio alla storia della musica occidentale. Dunque nei primi secoli della sua storia il canto cristiano si diffuse e si conservò avvalendosi della sola tradizione orale. A questo proposito è importante la testimonianza di Isidoro di Siviglia, vescovo e teologo vissuto tra il VI e il VII secolo: «Nisi enim ab homine memoria teneantur, soni pereunt, quia scribi non possunt» (I suoni, se non vengono conservati nella memoria, periscono, perché non si possono scrivere). • Prime fonti per lo studio del canto cristiano Per lo studio dei primi secoli della storia musicale cristiana, in assenza della notazione, e quindi delle fonti musicali dirette, ci si avvale di fonti indirette, quali i testi liturgici tramandati da numerosi manoscritti, e la storia della primitiva liturgia, le cui linee principali sono tracciate nel Nuovo Testamento e negli Atti degli Apostoli; oltre a ciò vanno presi in considerazione gli scritti storici e letterari, che testimoniano pratiche musicali nell'ambito delle celebrazioni liturgiche, e le fonti iconografiche. • Derivazioni liturgico-­‐musicali del culto cristiano La primitiva liturgia cristiana era profondamente radicata nel contesto liturgico e culturale ebraico. Non si possono escludere altri influssi come quelli ellenistici, dato che la prima lingua liturgica, anche in Occidente, fu il greco, e quelli derivati dai culti misterici. Tuttavia questi contributi non sono comparabili per vastità e profondità con quelli strettamente connessi e derivati dalla liturgia giudaica. Più difficile, in assenza di fonti musicali scritte, è stabilire affinità musicali tra le melodie ebraiche e melodie cristiane. Un confronto melodico tra i due repertori è sconsigliato dal fatto che il patrimonio musicale ebraico fu messo per iscritto più tardi di quello cristiano, e potrebbe quindi essere stato influenzato da questo, data la dispersione degli ebrei in Europa. I più recenti studi, basati sull'applicazione dei metodi dell'etnomusicologia, hanno rilevato, al di là delle coincidenze melodiche, identità di forme nelle due tradizioni musicali, ed è su questo piano che la ricerca ha dato risultati significativi. La liturgia dei Cristiani ha in comune con quella degli Ebrei una concezione sacrale della parola: di conseguenza, la parola nella liturgia va “proclamata” e non semplicemente detta o pronunciata. Per entrambe le 2
religioni la musica era un mezzo per conferire alla parola maggiore solennità, dunque era essa stessa preghiera. Per questa ragione il canto fu molto praticato nelle varie occasioni liturgiche fino dalle prime generazioni di Cristiani. Troviamo prove di tale pratica musicale già nel Nuovo Testamento, dove alcune parti delle Lettere degli Apostoli, e alcuni cantici dei Vangeli (per esempio il Magnificat), hanno struttura strofica simile alla poesia religiosa ebraica, che normalmente veniva cantata. • Prime forme del canto cristiano Le forme del canto cristiano dei primi secoli, direttamente derivate dalla tradizione liturgico-­‐musicale ebraica, furono la cantillazione, la salmodia e lo iubilus. La cantillazione non è una vera e propria composizione musicale, né un ornamento melodico, ma una amplificazione della parola, una lettura intonata su un ristretto numero di suoni; quasi tutte le sillabe del testo erano pronunciate alla stessa altezza. Questa forma era impiegata per i recitativi del celebrante, per le risposte dell'assemblea, e per le letture sia del celebrante, sia di altro ministro (lector), quali l'Epistola, il Vangelo, le Lamentazioni, e altro. La cantillazione si è protratta nei secoli fino a raggiungere l'epoca della tradizione scritta, dunque ci è stata tramandata dalle fonti musicali. Anche la Salmodia, il canto dei salmi, è arrivata a essere trasmessa dalle fonti manoscritte. Il suo stile non si avvale di una grande espansione melodica, ma consiste in uno schema, ripetuto per ogni versetto del salmo, che prevede una formula melodica iniziale (intonatio) atta a raggiungere la corda di recita, ossia la nota ribattuta sulla quale viene intonata la maggior parte delle sillabe del versetto. Questo procedimento di una nota ribattuta viene interrotto saltuariamente da qualche inflessione discendente, (flexae); se il versetto è molto lungo si inserisce una cadenza mediana a metà del versetto o in corrispondenza della punteggiatura; una cadenza finale (terminatio) conclude l'intonazione del verso stesso. (Cfr. paragrafo 2.16). Nella grande varietà esecutiva dei salmi nella tradizione ebraica scorgiamo i prototipi delle forme salmodiche praticate nella tradizione cristiana. La salmodia responsoriale (Psalmus responsorius) consiste nell'alternanza dell'intonazione dei versetti da parte del solista e l'intonazione del ritornello, detto responsorio, da parte dell'assemblea; se indichiamo A come ritornello e le altre lettere come versetti abbiamo il seguente schema: A solista-­‐A assemblea, B solista-­‐A assemblea, C solista-­‐A 3
assemblea, e così via. La salmodia alleluiatica prevede, dopo ogni versetto intonato dal solista, la ripetizione di un «alleluia» da parte dell'assemblea. La salmodia antifonica o antifonata consiste nell'alternanza di due semicori nell'intonazione dei versetti, con o senza ritornello. La salmodia direttaneo-­‐solistica affida esclusivamente al solista l'esecuzione del salmo, senza ritornelli. Lo Iubilus è un'altra forma melodica derivata dalla tradizione ebraica, ma è presente anche in area latina per uso profano, secondo la testimonianza di poeti e scrittori della latinità classica come Varrone, Marco Aurelio, Silio Italico. A differenza delle precedenti forme (cantillazione e salmodia), non è riuscita ad approdare alle fonti scritte, ma sappiamo da S. Ambrogio e, soprattutto da S. Agostino, nelle sue Enarrationes in Psalmos, che si tratta di un lungo melisma o vocalizzo privo di testo, atto ad esprimere gaudio. 4
2. SVILUPPO DEL CANTO LITURGICO DOPO L'EDITTO DI MILANO L'Editto di Milano del 313, emanato dall'imperatore Costantino, concedeva ai cristiani la libertà di professare la loro religione, permettendo così anche l'espansione del culto; ciò portò alla costruzione delle prime basiliche a Roma e in altre regioni dell'Impero, e diede inizio all'ordinamento della liturgia (nell'ambito di un calendario sempre più rispondente alle esigenze del culto cristiano), e delle relative pratiche musicali. Si fissarono i termini per l'organizzazione del rito eucaristico (la Messa), e dell'Ufficio delle ore, vale a dire la scansione delle preghiere comunitarie (salmi, letture bibliche e altri formulari) distribuite nelle varie ore della giornata (Mattutino, Lodi, Vespri, ecc.). La continua evoluzione del canto liturgico portò alla formazione di gruppi di cantori specializzati, appartenenti al clero, ai quali venivano affidate le parti musicali complesse ed elaborate finché, gradualmente, il repertorio liturgico divenne sempre più appannaggio di pochi professionisti a scapito dell'intera assemblea. A questa opera di ordinamento dei riti si accompagnò, proprio a partire dal IV secolo, l'esigenza di registrarli per iscritto in libri liturgici, superando così definitivamente la fase dell'improvvisazione, caratteristica dei secoli precedenti. I principali libri adottati nella liturgia romana sono: il Liber Sacramentorum o Sacramentarium, nel quale sono raccolte tutte le preghiere del celebrante; il Lezionario, comprendente le letture, che poteva però essere suddiviso in due raccolte separate, L'Epistolario e l'Evangeliario; l'Antiphonarium o Antiphonale Missarum (chiamato anche Liber Gradualis o Graduale) raccoglieva i testi dei canti della messa, e L'Antiphonarium Officii (detto ora in forma breve Antifonario) i testi per l'Ufficio. Tali testi però non riportano fino al IX-­‐X secolo alcun tipo di notazione musicale, e quindi di melodia dei canti. Tuttavia, essendo la monodia cristiana arcaica vincolata a disposizioni ecclesiastiche rigorose, è pensabile sia stata tramandata fedelmente, per tradizione orale, attraverso i secoli, prima di essere registrata con la scrittura alla fine del primo millennio. 2.1 Innodia Il termine inno indicava genericamente, nella antichità sia pagana sia cristiana, un canto di lode alla divinità. Famosa è la definizione di inno data da S. Agostino nella sua opera Enarrationes in Psalmos : «Gli Inni sono canti i quali contengono una lode di Dio; se è una lode ma non è 5
indirizzata a Dio, non è un Inno. Se è una lode di Dio ma senza melodia, non è un Inno. Perché sia un Inno deve avere queste tre prerogative: essere una lode, rivolta a Dio, in musica». A differenza della produzione greca che presenta aspetti formali ben definiti (metrica quantitativa e struttura strofica), la prima produzione cristiana, presente soprattutto in Oriente, era priva di regolari forme di versificazione e di strofe fisse. Essa fa riferimento a modelli ebraici (specialmente ai salmi), adotta la lingua greca, mentre il contenuto è dogmatico, moraleggiante, o, se inserito nella liturgia, dossologico (di glorificazione) o di preghiera. Di molti inni paleocristiani ci è pervenuto solo il testo, oppure versioni melodiche più tarde come il Te Deum e il Gloria della messa. Solo il cosiddetto 'Inno di Ossirinco' ci è pervenuto corredato della notazione greca classica che ne permette la ricostruzione esatta, sia melodica sia ritmica. Gli inni divennero presto strumenti di diffusione sia delle eresie gnostiche sia dell'ortodossia cristiana che si opponeva ad esse. Il riferimento della tradizione innodica in Oriente fu il siriaco sant'Efrem (303-­‐373), diacono di Edessa che basava i suoi inni sul modello testuale dei salmi biblici, ma con una struttura strofica, con un ritornello, con versi isosillabici e con le melodie riprese da modelli preesistenti. In Occidente fu S. Ilario vescovo di Poitiers (315 circa-­‐ 367) il primo a comporre inni in funzione della lotta contro l'eresia ariana, ma la complessità dei suoi versi non permise ad essi di approdare alla liturgia. Fu invece S. Ambrogio (340-­‐397), vescovo di Milano, a dare una precisa configurazione formale all'inno latino: si tratta di un componimento in più strofe, i cui versi sono dimetri giambici (ogni verso è formato da quattro giambi e il giambo è formato da una sillaba breve e da una sillaba lunga), secondo le regole della metrica quantitativa classica, ma contemporaneamente prestano attenzione alla distribuzione degli accenti, cosicché si pongono come modello del futuro verso settenario della moderna metrica accentuativa. Questa evoluzione vedrà dapprima la coincidenza tra sillabe lunghe e sillabe accentate, e successivamente l'assoluta prevalenza dell'accento tonico come principio costruttivo della versificazione. Dal punto di vista musicale l'inno ambrosiano, in opposizione alla salmodia, inaugurò nella storia cristiana il predominio della musica sulla parola. L'intonazione musicale è formulata in base al testo della prima strofa e la stessa musica viene ripetuta per le strofe successive. Su questo schema formale vennero composti, fino al XV secolo, molti inni, che si aggiunsero ai quattro inni che sono sicuramente attribuibili a S. 6
Ambrogio; tra i numerosi innografi successivi va comunque citato Venanzio Fortunato (540-­‐600), autore veneto che divenne vescovo di Poitiers, che, oltre a scrivere inni in dimetri giambici, introdusse anche un altro verso preso dalla metrica classica, il tetrametro trocaico, composto da otto trochei (il trocheo è costituito da una sillaba lunga e da una sillaba breve), corrispondenti nel ritmo a due nostri versi ottonari. Le prime fonti musicali contenenti inni risalgono ai secoli XI e XII, è dunque impossibile ricostruire le melodie composte nei secoli precedenti. E' possibile comunque, data la destinazione popolare di queste musiche, che esse si siano mantenute stabilmente nel tempo, e che quindi non fossero molto diverse da quelle che sono arrivate fino a noi; esse sono sillabiche, si muovono in un ambito melodico ristretto, e fanno coincidere le frasi musicali con i versi del testo, creando le simmetrie tipiche dei componimenti in versi sconosciute al canto gregoriano. 7
3. DIVERSIFICAZIONE DEL CANTO CRISTIANO NELLE CHIESE D'ORIENTE E D'OCCIDENTE Nonostante lo sforzo di associare, attraverso la tradizione scritta, l'unità della fede con l'unità della preghiera, data la vastità del territorio su cui si diffuse il Cristianesimo, per ragioni politiche e culturali la storia della liturgia, e quindi del canto liturgico cristiano, si diversificò nelle varie aree culturali d'Oriente e d'Occidente. In Oriente, la creazione di circoscrizioni ecclesiastiche presiedute dai patriarchi (o metropoliti) avvenuta nel Concilio di Nicea del 323, determinò gradatamente l'autonomia liturgica di tre grandi centri, Alessandria, Antiochia e Bisanzio, dai quali si svilupparono diverse tradizioni liturgiche regionali con relativo repertorio di canti nella lingua originale. Si ebbero così il rito copto in Egitto (dal quale derivò quello etiopico), il siriaco, l'armeno, il bizantino (nel bacino mediterraneo orientale e particolarmente a Bisanzio) e lo slavo. Anche nella Chiesa dell'Occidente latino, nonostante la maggiore ingerenza in essa del pontefice di Roma, si verificò una diversificazione di riti, e quindi di canti. Questo fenomeno crebbe dopo la caduta dell'Impero romano, che provocò il formarsi di numerose nuove entità politiche. A differenza dei cristiani orientali, che usarono varie lingue poiché ciascun popolo adoperava la propria (greco, siriaco, armeno, ecc.), accrescendo in questo modo le opportunità di ammettere elementi prettamente nazionali sia nella poesia sia nella musica, i cristiani d'Occidente nella pratica del loro culto usarono una sola lingua comune: il latino. Si formarono così i seguenti riti e relativi canti: romano, detto vetero romano; l'ambrosiano o milanese, facente capo alla diocesi di Milano e rimasto in uso fino ai nostri giorni; l'aquileiese o patriarchino, proprio del patriarcato di Aquileia; il beneventano, nella parte dell'Italia meridionale dove fiorì per diversi secoli un ducato longobardo, il celtico in Bretagna e nelle isole britanniche, soppresso prima del secolo VII per opera dei missionari romani; il gallicano nella Gallia dominata dai Franchi; l'ispano-­‐
mozarabico nella Spagna dominata dai Visigoti e poi dagli Arabi. 3.1 Questione di Gregorio Magno e del canto gregoriano In questi secoli di espansione, di codificazione delle liturgie occidentali, e quindi anche di eterogeneità di riti, fondamentale fu il ruolo avuto dalla figura di Gregorio Magno (540-­‐604), che fu papa dal 590, e dal cui nome deriva quello del 'canto gregoriano'. Una leggenda consolidatasi solo alla 8
fine del IX secolo, quasi tre secoli dopo la sua morte, attribuisce a lui la paternità del canto liturgico e infatti molte fonti iconografiche medievali lo raffigurano in atto di scrivere mentre lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, gli suggerisce i testi e le relative melodie liturgiche. In realtà se è possibile documentare che il grande papa operò fondamentali riforme nel culto romano (compilò probabilmente un Sacramentario, la raccolta di preghiere per la messa destinate al celebrante, e forse riordinò anche l'Antifonario, il libro contenente i testi letterari dei canti), nessun documento diretto attesta una sua attività musicale. D'altra parte, anche ammessa l'esistenza di questo Antifonario, sarebbe comunque stato privo di ogni indicazione musicale, per il fatto che nessuna notazione veniva ancora usata a quell'epoca. Il formarsi di questa leggenda che vuole Gregorio autore delle melodie che da lui presero il nome, avvenne gradatamente, e trovò espressione nella Vita di S. Gregorio Magno redatta da Giovanni Diacono tre secoli dopo la morte del pontefice: ciò avvenne dunque in un momento storico decisivo, quello dell'alleanza tra il papato e i Carolingi (VIII-­‐IX secolo) che condusse alla formazione del Sacro Romano Impero, e che ebbe importanti ripercussioni sulla storia della liturgia e della musica sacra cristiana. 3.2 Formazione del repertorio romano-­‐gallicano (detto gregoriano) in età carolingia La Chiesa merovingica praticava il rito gallicano, e solo sporadicamente i papi lanciarono moniti affinché il modello della Chiesa romana costituisse il riferimento comune per la cristianità occidentale. L'occasione di una presa di contatto diretta con la corte franca fu data al papa dalla crescente pressione dei Longobardi sui territori della Chiesa. Stefano II si rivolse nel 753 a Pipino il Breve, e successivamente lui stesso si recò in Gallia, dando luogo a una alleanza che dava prestigio al monarca quale salvatore della cristianità, ma contemporaneamente imponeva il rito di Roma nelle regioni franche, e successivamente in quelle da loro dipendenti, mirando all'unificazione liturgica di tutto l'Occidente. Incaricato dell'opera di riforma fu Crodegango, vescovo di Metz, città che così diventò uno dei più importanti centri della tradizione del canto liturgico. Carlo Magno completò l'opera del padre Pipino il Breve, imponendo, anche con atti legislativi, i libri romani in Gallia. L'Introduzione del nuovo rito si innestava in una secolare tradizione gallicana, e ciò provocò resistenze da parte dei cantori locali che si vennero a trovare in difficoltà nell'apprendimento mnemonico di un nuovo 9
repertorio musicale, data la mancanza, all'epoca, di un sistema di scrittura musicale. Forse fu anche a causa di queste difficoltà che si iniziò, verso la metà del IX secolo, a corredare alcuni libri liturgici di segni simili agli accenti grammaticali che, posti al di sopra delle parole del testo, davano una parvenza di movimento melodico. Questo fu il primo passo nella storia della notazione del canto gregoriano, che all'inizio fungeva solo da semplice aiuto alla memoria dei cantori. Questa notazione, chiamata notazione neumatica, raggiunse poi la massima efficienza nei secoli X e XI (cfr. paragrafo 2.10). Nel complesso, il risultato scaturito dalla riforma carolingia fu in realtà una sorta di compromesso, una liturgia che comprendeva, riguardo alla musica, entrambe le componenti, quella romana, e quella gallicana. Fu forse l'esigenza di imporre la nuova liturgia unificata che portò a conferire sacralità a questi canti, attribuendoli all'opera di una personalità indiscussa come quella di San Gregorio Magno, il cui nome rimase a garanzia della legittimità del repertorio. Dapprima tale paternità fu dichiarata in un proemio in versi con cui iniziano alcuni codici liturgici della fine dell'VIII secolo e, successivamente, come si è già detto, fu ufficializzata nella Vita di S. Gregorio Magno scritta dallo storico Giovanni Diacono negli anni 872-­‐
875. Possiamo dunque definire “canto gregoriano” il repertorio musicale liturgico derivato dalla fusione del canto paleoromano (l'antico canto romano) e del canto gallicano, che si affermò, in epoca carolingia, nei territori franco-­‐germanici. Successivamente, grazie anche alla messa a punto della scrittura musicale neumatica, questo canto franco-­‐romano, ufficializzato e imposto dalla Chiesa in quanto opera di S. Gregorio, si diffuse progressivamente per tutta l'Europa, favorito anche dall' intenzione papale di unificare i riti; questo obiettivo papale portò nel giro di pochi secoli alla soppressione di tutte le tradizioni locali dell'Occidente, ad eccezione del rito ambrosiano (della Chiesa di Milano), che mantenne l'autonomia nel suo repertorio. Lo stesso antico canto usato a Roma, il paleoromano, fu gradualmente sostituito dal 'canto gregoriano'. 10
4. ORIGINI DELLA NOTAZIONE MUSICALE OCCIDENTALE Nei primi secoli della sua storia, fino all'età carolingia, il canto cristiano, come si è già detto, si diffuse e si conservò avvalendosi della sola tradizione orale. Alla base della memorizzazione del repertorio liturgico esisteva una tecnica che consisteva nel saper concatenare, nel giusto modo, una serie di formule melodiche secondo regole codificate. Il percorso di tale disciplina poteva durare anche più di dieci anni, e veniva tramandata oralmente di generazione in generazione. A partire dal IX secolo, in concomitanza con l'adozione di un unico repertorio liturgico-­‐
musicale nell'Occidente cristiano, si cominciò a sperimentare e a individuare sistemi di scrittura adeguati a soddisfare le esigenze di codificazione rigorosa e di trasmissione certa del patrimonio gregoriano. E' tuttora difficile chiarire il percorso di questo lungo e complesso processo che portò a risolvere gradualmente i problemi di registrazione grafica del canto gregoriano. In origine il sistema di notazione era un semplice sussidio mnemonico, in quanto presupponeva la conoscenza della melodia; a lungo si è ipotizzato che la primitiva notazione, detta chironomica (da cheir = mano e nòmos = legge) tendesse a registrare graficamente sulla pergamena il gesto (chironomico) di chi dirigeva, vale a dire il movimento della mano che imita il profilo melodico. Si iniziò collocando direttamente al di sopra delle sillabe del testo alcuni segni, detti neumi (in questo contesto neuma significa 'segno', ma altrove può essere tradotto con 'interpolazione melodica'), che suggerivano l'andamento delle linee melodiche: in questa prima fase quindi la notazione neumatica si definisce 'in campo aperto' perché non utilizza ancora, come avverrà in futuro, le linee di riferimento che indicano le altezze, assolute o relative, dei suoni. I neumi sembrano derivare graficamente dagli accenti grammaticali del greco e del latino, cioè quei segni adoperati per distinguere le sillabe toniche (che si pronunciavano con voce più acuta) da quelle atone (che si pronunciavano con voce più grave). Così dai due accenti, acuto / e grave \, sarebbero derivati i due segni fondamentali della notazione neumatica: la virga, che indica un suono più acuto del precedente, e il punctum, che indica un suono più grave (o comunque non acuto rispetto al contesto); combinandosi tra loro il punctum e la virga formavano altri neumi di due, tre o più suoni che vengono denominati e codificati in base al numero e alla direzione melodica dei suoni che li compongono. Questi primi neumi, posti nella colonna di sinistra dello schema che segue, sono detti neumi-­‐accenti per la loro forma allungata che ne denuncia la 11
provenienza. 12
I requisiti fondamentali di un sistema di notazione che funzioni sono sostanzialmente due: che indichi con chiarezza l'altezza assoluta o relativa di ogni nota, e che ne determini la durata precisa (il ritmo). Questi neumi-­‐accenti sono in grado di registrare graficamente l'andamento del canto in tutti i suoi aspetti ritmici ed espressivi. Ogni neuma infatti poteva avere una serie di variazioni grafiche che permettevano una maggiore precisione nell'esprimere la durata temporale di ogni nota componente, oppure una serie di sfumature dinamiche o di fraseggio. Ad esempio, se lo stesso neuma assumeva una forma più angolata rispetto alla sua forma standard tondeggiante, prescriveva un'esecuzione più marcata; oppure, se i neumi venivano corredati di trattini orizzontali, chiamati episemi, il suono o i suoni da essi interessati acquistavano un prolungamento di durata rispetto a quello o a quelli che ne erano sprovvisti. Inoltre esistevano dei neumi speciali come l'oriscus, e il quilisma, aggregati ai neumi base che, per quanto riguarda il movimento melodico hanno lo stesso significato dei neumi già descritti, ma che assommano ad essi particolari significati fraseologici, espressivi o anche ornamentali; sono neumi difficili da interpretare, che spesso creano problemi di trascrizione e di esecuzione, ma che, nello stesso tempo, dimostrano l'enorme ricchezza e varietà ritmica, dinamica ed espressiva del repertorio gregoriano e quindi della sua notazione. Infatti questa ricchezza complica non poco il problema inerente alla sua registrazione grafica, per il fatto che il canto gregoriano non ha durate misurabili in modo esatto attraverso rapporti aritmetici fra le note, come invece avrà la musica a partire dal tardo medioevo fino all'epoca moderna (che sarà appunto “mensurata”, o misurata): non può dunque essere imbrigliato in un andamento ritmico regolato da scansioni periodiche del tempo. Al contrario il ritmo del canto gregoriano segue strettamente quello del testo verbale che è sempre in prosa (dato che i canti liturgici in versi non fanno parte del repertorio gregoriano ufficiale), e si adegua con estrema adattabilità al suo andamento; solo la notazione neumatica è in grado di esprimere anche le più piccole sfumature di durata di questo ritmo gregoriano che, proprio per la sua analogia con quello di un discorso verbale viene definito ritmo 'oratorio'. 13
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ES. 2 5. EVOLUZIONE DELLA NOTAZIONE I neumi-­‐accenti scritti in campo aperto erano dunque in grado di indicare infinite sfumature ritmiche ed espressive, tuttavia non avevano la capacità di risolvere con esattezza il problema diastematico (diàstema = intervallo), cioè di indicare l'esatta altezza dei suoni. Più tardi, dal X secolo in poi, iniziò a diffondersi la notazione diastematica, cioè in grado di indicare con sempre maggiore precisione l'ampiezza degli intervalli. Questo accadde quando, alla fine del IX secolo, si capì che per segnalare un intervallo importante si doveva occupare sulla pergamena uno spazio maggiore. Il passo successivo in questo senso fu l'apparizione del “custos” alla fine del rigo, cioè un segno (una piccola nota) posto all'altezza della nota con cui la melodia prosegue nel rigo successivo. Nella seconda metà del X secolo il problema diastematico venne risolto (cfr. più avanti la notazione aquitana nel paragrafo 2.12) tracciando sopra il testo liturgico una linea a secco, non inchiostrata, indicante un suono di riferimento rispetto al quale i neumi, diventati graficamente neumi-­‐punti (disgregati, scomposti nelle singole note costitutive, quindi formati da un numero di punti equivalente al numero dei suoni da cui il neuma era formato), venivano disposti in proporzione alla distanza intervallare: sopra, sotto o sulla stessa linea. All'inizio del secolo XI troviamo nella notazione beneventana (cfr. più avanti il paragrafo 2.12) due linee colorate che indicano i semitoni: una linea rossa per il fa, e una linea gialla per il do, e la presenza delle lettere-­‐chiave: C = do; F = fa. Infine, nella seconda metà del sec. XI Guido d'Arezzo nel suo trattato intitolato Prologus in Antiphonarium, codificò il tetragramma, un rigo formato da quattro linee, aggiungendo due linee nere alle due linee colorate. Dovendo essere inserita nelle righe o negli spazi del tetragramma, l'antica grafia dei neumi accenti che con un solo segno indicava più note, subì una completa disgregazione trasformandosi nella cosiddetta notazione quadrata, usata anche nei libri liturgici moderni (cfr. la colonna centrale dello schema posto nel paragrafo 2.10). Il tetragramma permette solamente successioni diatoniche, vale a dire formate da intervalli di tono, e da due intervalli di semitono posti tra il mi-­‐fa e il si-­‐do: per questa ragione, a partire dal secolo XI, in quasi tutte le regioni occidentali, il canto gregoriano, per poter essere scritto sul tetragramma, fu diatonizzato, cioè furono eliminati gli intervalli inferiori al semitono. Solo in alcune regioni della Svizzera e della Baviera la tradizione melodica fu rispettata fino ai secoli XIII-­‐XIV. 15
La notazione quadrata risolve definitivamente il problema della diastemazia, ma, al contrario delle notazioni neumatiche, si rivela assolutamente insufficiente ad esprimere la varietà ritmica e la ricchezza espressiva dei canti gregoriani. La sproporzione numerica e qualitativa esistente tra il numero elevato dei segni che compongono una qualsiasi scrittura neumatica, e i pochi segni adottati dalla moderna notazione quadrata, porta alla deduzione che per una conoscenza anche non specialistica del canto gregoriano non si può fare a meno di ricorrere anche alle antiche fonti manoscritte in notazione neumatica (precedenti la notazione quadrata), la sola a poter esprimere le infinite sfumature ritmico-­‐espressive di questo repertorio. 5.1 Principali famiglie neumatiche I neumi assunsero caratteristiche grafiche differenti nei numerosi centri scrittori delle diverse aree geografiche, che risolsero ognuno in modo autonomo i problemi inerenti alla registrazione grafica dei canti, privilegiando di volta in volta la resa della diastemazia o quella della ritmica e dell'espressione. 16
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Ecco un quadro riassuntivo delle notazioni messe a punto nei principali centri scrittori occidentali e le loro caratteristiche notazionali, scelte tra quelle che possono contribuire nel modo migliore alla ricostruzione critica del patrimonio gregoriano: -­‐ la notazione sangallese (presso i centri scrittori dei monasteri di S. Gallo e Einsiedeln, fine sec. IX -­‐ sec. XI) è quella che ha il più evidente carattere chironomico; è adiastematica e ha grande interesse ritmico sia per l'aggiunta sui neumi di lettere alfabetiche (litterae significativae come, per esempio, la c che significa celeriter o la t che vuol dire tenete, ecc.), sia per la presenza di episemi (trattini orizzontali posti sui neumi che indicavano un prolungamento del suono o dei suoni da essi interessati), sia infine per le modifiche nel disegno stesso dei neumi, o nel diverso raggruppamento dei segni, ai fini di esprimere mutamenti ritmici; 18
-­‐ la notazione metense (presso i centri scrittori dei monasteri di Metz e Laon, sec. X) presenta molti neumi disgregati, vale a dire scomposti nelle singole note costitutive, ciascuna avente un proprio segno staccato da quelli indicanti le altre note. Ha una diastemazia imperfetta, ma presenta grande interesse ritmico perché la disgregazione permette di indicare il valore delle singole note; come la sangallese, utilizza le litterae significativae, e insieme a quella si rivela la più utile per conoscere il canto riformato, quello che sostituì il gallicano nelle regioni centro-­‐occidentali dell'Europa e che prese il nome di canto “gregoriano”. -­‐ la notazione carnutense (testimoniata dal manoscritto del secolo X conservato a Chartres ma proveniente dalla Bretagna) ha possibilità simili, anche se inferiori, alla metense; -­‐ la notazione aquitana (fine sec. X -­‐ sec. XI ha il suo centro principale nel monastero di S. Marziale di Limoges) presenta neumi completamente disgregati che indicano esattamente l'altezza dei suoni, grazie anche alla presenza di una linea a secco (tracciata sulla pergamena con un punteruolo) rispetto alla quale i neumi erano collocati in proporzione alla loro distanza dalla nota espressa dalla linea stessa (intervallo di seconda, terza, quarta, ecc.). Per decifrare l'altezza assoluta della linea a secco si utilizzavano neumi particolari che, per convenzione, fungevano da chiavi. Questa notazione non ha interesse ritmico; 19
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-­‐ la notazione detta 'francese comune' (sec. XI) è adiastematica e ha scarso valore ritmico; importante è però in questa notazione il manoscritto conservato a Montpellier perché riporta, al di sopra della notazione neumatica, delle lettere alfabetiche che danno l'esatta altezza delle note; -­‐ la notazione beneventana (Benevento e Puglia, sec. XI) non presenta un particolare interesse ritmico, ma in molti manoscritti presenta una diastemazia perfetta perché troviamo in essi due linee colorate con inchiostro: una rossa che indica l'altezza del Fa e una gialla che indica quella del Do; inoltre in alcuni manoscritti le due linee colorate presentano, nella loro estremità sinistra, lettere della notazione alfabetica che ne indicano l'altezza: la c per il Do e la f per il Fa, lettere che, con graduali modifiche grafiche, diverranno le moderne chiavi (cfr. il paragrafo 2.13). In questa notazione ci sono pervenuti alcuni caratteristici canti che non appaiono in altre fonti, e che sono molto importanti perché costituiscono un prezioso residuo dell'antico rito beneventano; -­‐ La notazione di Nonantola (monastero di Nonantola, Italia settentrionale sec. XI) presenta neumi disgregati che forniscono una diastemazia imperfetta, ma che hanno un grande interesse ritmico dovuto alle diverse possibilità che ogni neuma ha di passare dalla forma rotonda a forme gradualmente sempre più angolate, in proporzione all'aumento del loro valore temporale; -­‐ la notazione bolognese (Bologna, sec. XI) non fornisce informazioni riguardo l'altezza dei suoni, e non è interessante dal punto di vista ritmico. La graduale trasformazione della scrittura musicale da neumatica in campo aperto (ricca di informazioni ritmiche ed espressive) a neumatica con neumi quadrati (perfettamente diastematica, ma priva di informazioni ritmiche) portò alla parallela e altrettanto graduale perdita della tradizione ritmica, dovuta al fatto che i neumi quadrati non avevano altra capacità che quella di indicare l'altezza esatta delle note. Ma questa trasformazione coincide anche con un effettivo mutamento stilistico nell'ambito della prassi esecutiva. Infatti il canto gregoriano, assunta in età carolingia la posizione di assoluto prestigio religioso per il fatto che era il canto 'composto da S. Gregorio Magno', perse ogni possibilità di rinnovamento e si poneva ormai come modello assoluto e immutabile, cristallizzato in questo ruolo sacrale. Quindi, per evitare il pericolo di ogni impercettibile mutamento nella sua lezione, la sua esecuzione subì un graduale appiattimento ritmico dovuto alla resa sempre più uniforme dei suoi valori di durata. Da qui anche la sua definizione di «canto piano», nel senso di canto dall'andamento lento, severo, formato da note dal valore sempre più uniforme, che, proprio a partire da questa epoca, fu anche inglobato nelle prime forme della nascente polifonia. Dunque per poter, oggi, ricostruire le melodie gregoriane è necessario prendere in considerazione sia i codici scritti in notazione quadrata perfettamente diastematica, che assicurano la lezione melodica, sia quelli coi neumi in campo aperto, che forniscono indicazioni sul ritmo e sul fraseggio. La ricostruzione filologica del canto gregoriano basata sullo studio e sulla collazione delle antiche fonti manoscritte fu intrapresa, nella seconda metà del XIX secolo dai monaci benedettini di Solesmes, in Francia. Furono loro a classificare i neumi e ad avviare, più che altro, la ricostruzione melodica del repertorio gregoriano. Questo lavoro scientifico fu garantito anche da una impresa monumentale, iniziata nel 1888 da Dom André Mocquereau (1849-­‐ 1930), che sostituì, 21
nella direzione del coro di Solesmes, Dom Joseph Pothier, uno dei primi artefici di quest'opera di restaurazione: la pubblicazione in facsimile delle più antiche fonti del gregoriano, la Paléographie Musicale, il cui primo fascicolo uscì nel 1889. Anche sulla base di quest'opera fondamentale, lo studio del canto gregoriano, e soprattutto la sua interpretazione ritmica ha compiuto notevoli passi avanti dopo la metà del nostro secolo. 5.2 Notazione alfabetica Nel Medioevo si elaborarono, sull'esempio dei teorici greci, vari sistemi di notazione in lettere alfabetiche le quali però non uscirono quasi mai dall'ambito delle opere teoriche; la vera notazione pratica era quella neumatica destinata ai cantori; essendo la notazione alfabetica puramente teorica, era destinata agli studiosi dell' ars musica, ai cosiddetti musici (cfr. paragrafo 6.1). Il Medioevo ereditò dai Greci la scala di due ottave in minore (probabilmente da la' a la'''). Fu Boezio a introdurre, all'inizio del VI secolo, nel mondo culturale latino-­‐cristiano, l'uso del simbolismo musicale greco, traslitterandolo in lettere dell'alfabeto latino, e facendo corrispondere ai suoni diatonici da La' a La''' rispettivamente le lettere alfabetiche dalla A alla P in successione; si trattò comunque di un sistema di denominazione e non di una tecnica di scrittura. In seguito la nomenclatura alfabetica da A a G fu fatta corrispondere alle note della scala diatonica, per cui A = do (ut all'epoca: cfr. più avanti il sistema della solmisazione di Guido d'Arezzo al paragrafo 6.3), B = re, C = mi, D = fa, E = sol, F = la, G = si. Nel secolo X Oddone di Cluny tornò ad applicare la serie (o notazione) alfabetica di lettere latine, da A a G, al sistema perfetto dei greci (formato da due ottave), per cui A corrispondeva al la grave, e differenziò graficamente le ottave, usando le sette lettere maiuscole (da A a G) per l'ottava grave, e le stesse lettere minuscole (a-­‐g) per l'ottava successiva, più acuta. Lo stesso Oddone aveva aggiunto al grave la lettera greca gamma maiuscola per designare il suono inferiore al primo La, il Sol grave: da qui la denominazione 'gamma' fu attribuita anche all'intera successione di suoni. Guido d'Arezzo aggiunse delle doppie lettere minuscole, aa, bb, ecc. (oggi sostituite, a volte, dalla singola lettera minuscola provvista di un esponente) ai successivi suoni acuti di questa scala. Nelle ottave superiori (acute) la scala comprende, oltre al si bequadro o naturale, anche il si 22
bemolle. 23
Questo sistema definitivo di nomenclatura alfabetica della notazione era idoneo a identificare i suoni nella trattazione teorica, e quindi era adatto, come si è già detto, all'insegnamento dell' ars musica. Tuttavia costituì anche un importante riferimento pratico, come vedremo, nella messa a punto, da parte di Guido d'Arezzo, del sistema della solmisazione, (cfr. il paragrafo 6.3) atto a facilitare ai cantori l'intonazione e l'apprendimento del repertorio. 5.3 Il sistema modale Le origini del sistema modale non sono ancora state chiarite; ma tra l'VIII e il IX secolo tutto il repertorio gregoriano, per necessità di organizzazione e per facilitarne l'apprendimento e la memorizzazione, fu classificato in base al sistema dei modi ecclesiastici: una serie di otto scale diatoniche ascendenti composte da otto suoni. Ogni scala è caratterizzata dalla diversa posizione dei toni e dei semitoni, e gravita intorno a un suono fondamentale denominato finalis, una sorta di tonica, sulla quale in genere termina il brano, e a una seconda nota caratteristica, detta repercussio, una specie di 'dominante', intorno alla quale si muove la melodia, che, nelle formule salmodiche, (v. più avanti), coincide con la nota di recita, detta anche tuba o tenor. Questa forma definitiva fu raggiunta nell'XI secolo: 24
In tale sistema si individuano quattro modi autentici e quattro plagali; ogni modo autentico ha in comune con il rispettivo plagale la nota finalis, ma diverge nell'ambito (o estensione) dell'ottava, perché ogni scala plagale inizia una quarta sotto la finalis del relativo modo autentico. Si può individuare facilmente la repercussio di ogni modo, tenendo presente che nei modi autentici si trova una quinta sopra la finalis, e nei modi plagali una terza sotto la dominante del relativo modo autentico; quando però la repercussio cade sulla nota si, viene automaticamente spostata sul do. Tuttavia, questa codificazione riguardante la repercussio, rende solo in parte la realtà storica e musicale del canto gregoriano, perché questa 'dominante', più che rappresentare la nota caratteristica di un modo, ha un ruolo preminente in alcune speciali formule melodiche legate a ciascun modo, le formule su cui venivano intonati i salmi, dove la 'dominante' coincide con la nota (o corda) di recita chiamata anche tuba o tenor. Dunque un modo non si può classificare solo in base alla sua finalis e all'ambito melodico in cui si muove, ma anche in base alla individuazione delle formule melodiche tipiche di quel modo. I modi ecclesiastici hanno ricevuto tre tipi di denominazione: gli ordinali greci latinizzati, protus, deuterus, tritus, tetrardus, autentici e plagali; gli ordinali latini dal primo all'ottavo; i nomi 'etnici', dorico e ipodorico, frigio e ipofrigio, lidio e ipolidio, missolidio e ipomissolidio. Quest'ultima nomenclatura, derivata dai termini che denominavano le scale modali greche, è però errata, perché, a causa di una sbagliata interpretazione della teoria musicale greca in epoca medievale, le denominazioni applicate ai modi medievali non coincidono con quelle delle scale modali greche (cfr. paragrafo 6.2). 25
6. GLI ASPETTI TESTUALI DEL CANTO GREGORIANO. La Liturgia è l'insieme dei riti, delle preghiere e dei canti della Chiesa. Il repertorio gregoriano si venne formando e sviluppando in funzione dei testi liturgici organizzati e distribuiti in tutto l'anno liturgico, che è l'insieme delle celebrazioni dei misteri di Cristo nell'ambito di un anno. L'anno liturgico inizia con il ciclo di Natale, preparato dalle quattro settimane dell'Avvento, e culmina nel ciclo di Pasqua, preceduto dalla Quaresima e dal tempo di Passione; si conclude cinquanta giorni dopo la Pasqua con la Pentecoste, ovvero la discesa dello Spirito Santo. Il periodo di mezzo tra la Pentecoste e il nuovo Avvento, già detto delle domeniche dopo Pentecoste è ora definito 'tempo ordinario fra l'anno'. La Chiesa ha aggiunto, nel tempo, varie feste dedicate alla Madonna e ai Santi che però non interferiscono con quelle che celebrano la vita di Cristo. Queste ultime celebrazioni formano il ciclo Temporale, mentre le feste dei Santi costituiscono il ciclo Santorale. La giornata liturgica comprende la liturgia delle ore, o Ufficio, vale a dire la preghiera ufficiale della Chiesa romana distribuita nelle varie ore del giorno, e la liturgia dei sacramenti nella quale emerge per importanza la liturgia Eucaristica, detta Messa, che prende questo nome dalla formula finale di congedo «Ite missa est», ovvero il memoriale del sacrificio di Cristo, e la Comunione. I testi dell'Ufficio (Liturgia delle ore) comprendono 150 salmi con le relative antifone, i cantici (composizioni di carattere poetico prese dall'Antico e dal Nuovo Testamento), inni (composizioni poetiche antiche e recenti, cfr. i paragrafi 2.6 e 2.16), litanie, orazioni e letture tratte prevalentemente dalla Bibbia. Schema dell'Ufficio delle ore liturgiche Ore Maggiori Ore minori Mattutino Laudi (preghiera del mattino) Prima (oggi soppressa) Tertia Sexta Nona Vespri (preghiera della sera) Compieta (preghiera personale della sera) 26
I testi della messa si dividono in Ordinarium missae, il cui testo è invariabile per ogni giorno dell'anno, e nel Proprium missae, il cui testo cambia in base al calendario liturgico. Tale repertorio si trova in libri liturgici medievali che possono essere variamente classificati, sia dal punto di vista cronologico che del contenuto: qui elenchiamo i principali. Il Liber Sacramentorum, o Sacramentario, è il più antico libro della liturgia romana che conteneva le formule di preghiera per il celebrante. I principali libri liturgici che contengono i testi e i canti dell'Ufficio sono due: il Breviarium, che comprende solo i testi per i vari periodi dell'anno liturgico (si disse Breviario perché, a seguito di varie riforme, i testi apparivano in forma abbreviata); e l' Antiphonarium officii, contenente i canti. I principali libri liturgici che raccolgono i testi e canti della messa sono: l'Antiphonale missarum detto anche Liber Gradualis, o Graduale, contenente i canti del Proprio della Messa, e, in appendice, quelli dell'Ordinario: questi ultimi potevano anche essere raggruppati in un libro a parte detto Kyriale; il Lezionario, che conteneva le letture per la Messa, (epistole e vangeli); il Messale, o Missale plenarium, è il libro liturgico che, a partire dai secoli X-­‐XI, contiene le preghiere, i canti e le letture per la Messa: si disse plenarium proprio perché i diversi repertori di preghiere e canti sono raccolti in un unico libro. 27
Inoltre il Liber Usualis comprende i canti principali della messa e dell'Ufficio per tutte le domeniche e le feste più importanti dell'anno liturgico. 6.1 Le Forme musicali del repertorio gregoriano. Tutti i canti del repertorio gregoriano classico che ci sono pervenuti a partire dal IX secolo, attraverso la notazione neumatica, possono essere catalogati e studiati in base a differenti criteri: 1) secondo il loro uso liturgico: canti dell'Ufficio o canti della Messa: a loro volta i canti della Messa possono essere suddivisi in canti di meditazione o canti destinati a momenti di azione; 2) secondo il loro stile, ovvero in base al rapporto tra note e sillabe, per cui abbiamo lo stile sillabico, neumatico, e melismatico e cioè: • sillabico quando ogni nota ha una sola sillaba da cantare; • melismatico quando su una sillaba si cantano molte note; • neumatico quando si verifica un compromesso tra i suddetti stili, per cui ad ogni sillaba corrispondono poche note. Nell'ambito di un canto possono alternarsi stili diversi. 3) secondo la loro forma e il loro modo di esecuzione: • canti antifonali, quando si alternano due cori; • canti responsoriali, quando si alternano un solista e il coro; • canti diretti o direttanei, quando esegue un solista senza alternanza con il coro; 4) secondo il tipo di testo, che può essere biblico o non biblico: ognuna di queste due categorie può a sua volta essere suddivisa tra quelle con testi in prosa e quelle con testi in versi. Prose bibliche sono le lezioni dell'Ufficio, l'Epistola e il Vangelo; testi biblici poetici sono i salmi e i cantici; sull'altro versante i testi non biblici in prosa sono per esempio il Te Deum e varie antifone, e quelli poetici sono gli inni e le sequenze. Il repertorio musicale gregoriano comprende, come si è detto, i canti della Messa e quelli dell'Ufficio. i canti della Messa si suddividono in canti dell'Ordinario, i cui testi sono immutabili per tutto l'anno liturgico, e in canti del Proprio, i cui testi invece variano in funzione delle diverse feste. Gran parte dell'Ufficio consiste nella salmodia, che viene solitamente 28
preceduta e seguita dalle Antifone, e nei i Responsori del Mattutino. Anche i canti del Proprium missae (Introito, Graduale, Alleluia, Tratto, Offertorio e Comunione) sono il prodotto risultante dall'evoluzione della salmodia, dato che originariamente in quei momenti della messa si intonavano salmi. Seguendo il criterio dello stile, prima di prendere in considerazione le categorie di canti più importanti tra quelle in uso nella liturgia, si rende necessaria una ulteriore suddivisione tra: a) forme in cui la musica consiste in una sorta di declamazione intonata (una via di mezzo tra il linguaggio parlato e il canto) in cui è la parola la protagonista assoluta; b) forme che si avvalgono di una musica più elaborata, quindi di una vera e propria melodia. Appartengono alla prima categoria (a): 1) i recitativi, vale a dire le formule per gli interventi del celebrante (quindi la cantillazione delle orazioni, del prefazio, del Pater noster); per gli interventi degli altri ministri della liturgia (le letture, le epistole); e per le risposte dell'assemblea. 2) le formule per l'intonazione dei salmi, o toni salmodici, la cui struttura consiste in uno schema, ripetuto per ogni versetto del salmo, che prevede: -­‐ l' initium, o intonatio, una formula melodica atta a raggiungere la corda di recita detta repercussio; -­‐ la repercussio, ossia la nota ribattuta sulla quale viene intonata la maggior parte delle sillabe del versetto; questo procedimento viene interrotto saltuariamente da qualche inflessione discendente, (note dette flexae), ma nel caso di un versetto molto lungo, il procedimento viene interrotto da una cadenza vera e propria (detta mediatio = cadenza mediana) che si inseriva a metà del versetto o in corrispondenza della sua punteggiatura; -­‐ la terminatio, ossia la cadenza finale che conclude l'intonazione del verso stesso. 29
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Nella categoria dei canti musicalmente più elaborati (b) possiamo distinguere quelli in stile sillabico, dove a ogni sillaba (o a gran parte di esse) corrisponde una nota, in stile neumatico quando ad ogni sillaba corrispondono poche note, e in stile melismatico quando su ogni sillaba si cantano molte note. Naturalmente questa distinzione non è mai assoluta, in quanto dei canti melismatici possono contenere frasi sillabiche, e viceversa alcuni canti sillabici contengono a volte brevi melismi. I canti melismatici, data la loro difficoltà, non erano affidati all'assemblea dei fedeli, ma a un circoscritto numero di cantori professionisti (Schola cantorum, la cui preparazione durava almeno un decennio), o, a volte, a uno solo di essi. Le Antifone sono brevi melodie che precedono e seguono l'intonazione di un salmo. Le più antiche erano destinate a un gruppo di cantori e non a un solista, quindi sono sillabiche o poco fiorite, e la melodia si muove per gradi congiunti in una estensione limitata e su un ritmo semplice (le antifone dei cantici sono più complesse). Le Antifone più recenti non sono invece legate a determinati salmi, ma sono brani autonomi impiegati, tra l'altro, nelle processioni. Lo stile si adattava anche alle diverse fasi della liturgia: i momenti di azione si avvalevano di uno stile meno melismatico di quello adoperato per i momenti di meditazione o contemplazione. Nel Proprio della messa, i momenti dinamici sono l'Introito, il Communio e l'Offertorio e i loro canti, non molto fioriti, sono affidati alla schola, mentre i momenti statici e meditativi, il Graduale, l'Alleluia e il Tratto essendo prevalentemente melismatici, sono affidati a un solista. L'Introito e il Communio, che corrispondono rispettivamente all'entrata degli officianti, e alla distribuzione dell'Eucarestia, derivano dalla salmodia antifonale. Il loro stile è moderatamente ornato (neumatico) e le melodie sono quasi sempre originali. L'Introito conserva dell'antica salmodia solo l'antifona, molto ornata e affidata alla schola, che viene alternata a un versetto di un salmo affidato al solista. Il Communio ha una struttura simile, ma dal secolo XI era rimasto privo del versetto, conservando solo l'antifona. (Il Concilio Vaticano II ha ripristinato l'uso di alternare uno o più salmi all'antifona). A volte è sillabico e si avvale, rispetto all'Introito, di melodie meno uniformi e instabili dal punto di vista della modalità. L'Offertorio, il canto eseguito durante la processione in cui si portano le offerte all'altare, era in origine in forma di salmodia antifonale; durante i secoli VIII e IX si diversificò dagli altri canti processionali della Messa (Introito e Communio) perché da canto antifonale si trasformò (caso unico nella storia del gregoriano) in canto responsoriale, assumendo uno stile più melismatico e facendo ripetere l'antifona dopo ogni versetto. Fino al XII secolo conservò l'alternanza dell'antifona con due o tre versetti, che poi furono abbandonati. Altri elementi tipici degli Offertori sono la singolare estensione dell'ambito melodico, e le frequenti ripetizioni di parole o di intere frasi che conferiscono ai brani grande efficacia espressiva e drammatica. I momenti statici e meditativi nel Proprio sono il Graduale, l'Alleluia e il Tratto, e, come detto, sono accompagnati da canti prevalentemente melismatici, affidati ai solisti. Il Tratto è un canto eseguito dopo il Graduale, in sostituzione dell'Alleluia durante la Quaresima e in altri giorni penitenziali. Il nome deriva forse dall'espressione «cantus tractus», cioè continuato, senza ripetizione: deriva infatti dalla salmodia 'diretta' o 'continua'. E' un canto di meditazione, il testo è preso dai salmi, lo stile è marcatamente melismatico, per cui, come si è già detto, l'esecuzione è affidata a un solista. Quasi tutti i pochi esempi di tratto rimasti del gregoriano primitivo, sono costruiti su un modello melodico comune (melodia-­‐tipo), leggermente variate nei vari brani, che testimonia e conferma il tipo di tecnica compositiva impiegata in questo repertorio: la manipolazione e l'adattamento di formule melodiche. Il Graduale è il più antico canto di meditazione; deriva la sua denominazione forse dal fatto che si cantava sui gradini dell'ambone o del 31
presbiterio. Nella sua forma primitiva dei primi secoli cristiani era un salmo cantato in forma responsoriale (è detto anche Responsorium). Con la successiva e graduale crescita professionale delle scholae cantorum, cioè dei gruppi corali professionistici, lo stile di questo salmo divenne sempre più ornato, così che il protrarsi dei melismi e della durata, portò alla riduzione del numero dei versetti del salmo. La forma del graduale trasmessa successivamente dalla scrittura neumatica comprende due sezioni: un responsorio (risposta corale) e un versetto per il solista. Lo stile del graduale è tra i più ornati del repertorio gregoriano, con melismi che arrivano a trenta note per sillaba; anche in esso sono frequenti le variazioni su melodie-­‐tipo mentre l'ambito modale viene spesso dilatato fino a raggiungere l'intervallo di undecima rispetto alla 'tonica' del brano. L'Alleluia è un canto di acclamazione o jubilus e rappresenta un momento di contemplazione lirica dopo il Graduale e prima del Vangelo. Dal punto di vista musicale era originariamente una breve frase melodica che in seguito si trasformò nella forma più melismatica del repertorio liturgico: consiste in una acclamazione sulla parola «alleluia», molto fiorita, alla quale segue un versetto di un salmo. Si esegue due volte alternandola a un versetto. Anche qui l'ambito melodico, in epoca più recente rispetto ai più antichi esempi, viene ampliato riguardo alla normale estensione del loro modo. Tra i canti dell'Ufficio, le Antifone hanno una struttura più semplice rispetto a quelle della Messa. Al contrario sono molto elaborati i 32
Responsori del Mattutino, che svolgono una funzione analoga a quella dei Tratti e dei Graduali nella Messa: quella di canti di meditazione dopo le letture. Il responsorio che fa seguito alle letture del Mattutino è denominato responsorium prolixum, e diverge da quello che segue le letture brevi delle Lodi o dei Vespri, detto responsorium breve. La struttura formale del Responsorio deriva dalla primitiva salmodia responsoriale e lo stile è nettamente melismatico. Attualmente consiste in un responsorio (la risposta) e un Versus, dopo il quale viene ripetuta la risposta. Anche i Responsori, come i Tratti e i Graduali, ma in misura minore, si sono in parte formati attraverso processi di centonizzazione, cioè utilizzando e riorganizzando materiale melodico preesistente. Di origine più recente sono i cinque canti dell'Ordinario della messa, il cui testo è invariabile durante tutto l'anno liturgico; cominciarono infatti ad apparire solo nei codici tardi con notazione quadrata. La formazione relativamente tarda delle loro melodie fu dovuta forse al fatto che questi canti rimasero a lungo semplici melodie sillabiche affidate all'assemblea e solo a partire dal IX secolo (fino al XV secolo e oltre) esse furono elaborate in adattamenti più ornati e affidati alla schola. In effetti gran parte delle intonazioni musicali dei testi dell'Ordinario ha caratteri melodici più moderni. Il Credo fu introdotto nella messa solo a partire dall'XI secolo; insieme al Gloria è rimasto sillabico rispetto alle più complesse elaborazioni degli altri canti. Per quanto riguarda gli Inni, la cui tradizione risale, come abbiamo detto, ai primi secoli del cristianesimo (cfr. il paragrafo 2.6), essi furono ammessi nella liturgia romana solo a cominciare dai secoli IX-­‐X. Ciò avvenne attraverso la tradizione monastica benedettina il cui Innario, dopo essere stato adottato da diverse chiese particolari, fu accolto anche nelle consuetudini della liturgia romana. La tradizione occidentale ha poi dato vita a un enorme repertorio di testi e relative intonazioni, (i cui filoni vanno individuati nelle consuetudini regionali) che si diversificano per regioni geografiche, per diversi ordini religiosi (domenicani, cistercensi, francescani, eccetera), o secondo la funzione dell'inno nell'ambito della liturgia (liturgia delle Ore, messa, processioni, eccetera). 33
7. LE INNOVAZIONI LITURGICO-­‐MUSICALI DEI SECOLI IX-­‐X E LORO SVILUPPO 7.1 Fermenti creativi nell'età carolingia Come si è già detto, nell'epoca della cosiddetta rinascenza carolingia, a partire dalla metà dell'VIII secolo, fu imposta all'Impero Franco la tradizione liturgica e musicale del rito romano; anche per questo fine fu messa a punto la notazione neumatica, per dare garanzia di autenticità alla trasmissione che precedentemente avveniva solo per via orale. Ma la rinascita carolingia mise in atto anche progetti più grandiosi. Tra il IX e il XII secolo i grandi monasteri (soprattutto le abbazie benedettine) divennero centri propulsori e diffusori di cultura, in generale, e in particolare di creatività musicale, che trovava nella liturgia il campo di azione privilegiato: appartengono a questo periodo le prime sperimentazioni nel campo della polifonia, e la creazione e diffusione di nuovi generi di canti inseriti sia all'interno che all'esterno della liturgia ufficiale. Prima di entrare in argomento, è necessario fare una premessa. L'opera di romanizzazione della liturgia nell'impero franco non riuscì pienamente nella unificazione dei riti, ma conferì comunque al repertorio 'gregoriano' di preghiere e canti un'aura di trascendenza perché la convinzione che tale repertorio fosse opera di Gregorio Magno attraverso l'ispirazione suggerita dallo Spirito Santo, conferiva ad esso un carattere sacrale che lo rendeva intoccabile: il motto «ne varietur», adottato dalle autorità e dagli stessi cantori, lo salvaguardava da contaminazioni. Sul piano artistico questa operazione portò a conseguenze negative, censurando ogni velleità creativa, e portando, per paura di modificare anche lievemente la lezione ortodossa, ad un impercettibile ma costante appiattimento dei valori di durata delle note, che causò la perdita graduale della tradizione ritmica originale. Questo fu anche dovuto al fatto che, persa gradualmente l'abitudine di imparare a memoria il repertorio, come da secoli era in uso, non era disponibile, almeno all'inizio, una scrittura neumatica che potesse sostituire perfettamente la memoria perché, specialmente nei primi tempi del suo impiego, la notazione non possedeva grandi capacità di registrare correttamente le infinite sfumature ritmiche proprie di questo repertorio e faceva ancora in parte affidamento sulla memoria dei cantori. D'altra parte le comunità monastiche, e le abbazie benedettine in particolare, non si rassegnarono alla semplice ripetizione del repertorio 34
cristallizzato dalla nuova scrittura neumatica: la sua intangibilità indusse ad ampliare il repertorio liturgico con nuovi generi di canti. Gli spazi che rimanevano aperti alla creatività erano quelli della produzione innodica e delle antifone processionali necessarie allo svolgimento dei maestosi riti nelle abbazie. Altri spazi furono inventati di per sé, dal nulla, come le sequenze e i tropi, che costituiscono il risultato più importante scaturito da questa esigenza di novità che caratterizza musicalmente il periodo della rinascenza carolingia. 7.2 Le sequenze Il termine sequentia apparve nella prima metà del IX secolo, e inizialmente stava ad indicare la melodia (o il melisma) con cui si poteva sostituire facoltativamente il melisma dell'Alleluia; successivamente, ma sempre nel IX secolo, a queste melodie furono sottoposti dei testi originali, attraverso i quali lo stile delle melodie veniva trasformato da melismatico a sillabico: la sequenza divenne così una forma poetica e musicale. Una testimonianza sulla genesi della sequenza ci è fornita dal monaco di San Gallo Notker Balbulus (morto nel 912), il quale nella premessa al suo Liber Hymnorum racconta come la sequenza sia nata per aiutare la memoria nell'apprendimento delle melodie gregoriane. In particolare Notker narra come da giovane avesse molte difficoltà nel ritenere a mente le lunghe melodie liturgiche; ma fortunatamente un monaco, fuggito da Jumièges (che si trova ad ovest dell'impero franco) a causa delle devastazioni dei Normanni, aveva portato con sé un Antifonario nel quale alcuni versi (versetti) erano stati sottoposti alle sequenze, vale a dire a dei melismi sostitutivi di melismi dell'Alleluia. Notker, incoraggiato dai suoi maestri, si dedicò alla composizione di simili testi adattabili ciascuno ai melismi di un Alleluia, così che ad ogni nota del melisma corrispondesse una sillaba del testo, allo scopo di renderne più semplice l'apprendimento. I componimenti di Notker vennero raccolti nel suo Liber Hymnorum, anche se non si tratta di inni perché le composizioni, a differenza di questi, non seguivano le regole della metrica, e non seguivano neanche il modello giambico delle strofe degli inni ambrosiani. La struttura dei testi era costituita da una serie di frasi libere da schemi, disposte secondo cadenze di tipo classico oppure secondo espressioni originali ricche di corrispondenze e assonanze. Questi testi furono chiamati prosae, perché, a differenza degli inni, erano in prosa; la struttura dei periodi fu modellata sulle frasi melodiche dei melismi gregoriani; successivamente furono chiamate sequenze, e, ponendo la parola al servizio della musica, 35
stravolsero l'originario rapporto fra questi due elementi, tipico del gregoriano, privilegiando la musica rispetto alla parola. Il più delle volte due linee di testo consecutive cantano la stessa frase musicale (quindi ogni frase musicale viene ripetuta due volte per due consecutive frasi del testo), così il testo fu organizzato a coppie, dette copulae, diverse per lunghezza l'una dall'altra e a volte intercalate da frasi singole, non accoppiate; la struttura melodica è la seguente: A B B C C D D, e così via. Le simmetrie così create, unite allo stile sillabico, realizzavano una facilità di approccio e di ascolto che non aveva il gregoriano, facilità che rendeva le sequenze accessibili non solo alla schola, ma anche al popolo; peraltro la musica nelle sequenze ha un rilievo maggiore che negli inni, dove invece la ripetizione della stessa melodia per ogni strofa mette in evidenza più che altro il testo letterario delle varie strofe. La sequenza, nella sua evoluzione, contribuì in modo determinante al passaggio definitivo dalla metrica quantitativa alla moderna metrica accentuativa e rimata, perché gradatamente i due versi di ogni coppia (o copula) divennero sempre più simili fra loro riguardo la distribuzione interna degli accenti e la terminazione dell'ultima parola, formando così la rima; e fu anche importante nel mutamento dei principi ritmici della musica, nel passaggio dallo scorrevole ritmo 'oratorio' del gregoriano alla scansione periodica dei ritmi basati sugli accenti delle parole. La fortuna della sequenza è testimoniata fra i secoli XI e XIII da molti manoscritti liturgici chiamati 'sequenziari'; questa tradizione infatti, iniziata nei monasteri di S. Gallo e di S. Marziale di Limoges, si diffuse in Francia, Italia, Germania, Spagna e Inghilterra, costituendo anche delle premesse per la nascita delle forme poetiche e musicali nelle nuove lingue europee. Venne dunque incrementata la produzione di sequenze: se ne composero per tutti i giorni dell'anno liturgico per essere eseguite sempre dopo l'Alleluia della messa, o al suo posto in assenza di esso. Le melodie, staccate sempre più dai modelli gregoriani, si orientarono verso intonazioni originali o prese in prestito da altre composizioni sia sacre sia profane. Anche i testi si emanciparono dalla liturgia tradizionale adottando temi e stili propri. I due versi della copula si organizzarono gradualmente come vere e proprie strofe composte di più versi ciascuna. Ma la codificazione della sequenza nella sua forma più compiuta si deve ad Adamo da S. Vittore (1110-­‐1192), monaco agostiniano in quel monastero parigino. Le strofe delle sue composizioni sono costituite da un tetrametro trocaico (formato da otto trochei corrispondenti nel ritmo a due versi ottonari) seguito da un dimetro trocaico catalettico (corrispondente a tre 36
trochei e mezzo, vale a dire un moderno senario con l'ultima parola sdrucciola), chiamato cauda (coda). Questo tipo di sequenza è chiamata 'vittorina' dal nome del suo autore. Il Concilio di Trento (1545-­‐63) abolì tutta questa abbondante produzione di sequenze e ne lasciò nel messale solo quattro per le seguenti occasioni liturgiche: per la Pasqua Victimae paschali laudes (sec. X, attribuita a Wipone, monaco nativo di Solothurn, città all'epoca appartenente all'impero carolingio); per la Pentecoste Veni Sancte Spiritus (sec. XI); per il Corpus Domini Lauda Sion Salvatorem (sec. XIII, attribuita a S. Tommaso d'Aquino); per la messa dei defunti Dies irae (sec. XIV, attribuita a Tommaso da Celano). Queste due ultime sequenze hanno già una regolare struttura strofica unita al ritmo trocaico. Nel XVIII secolo fu recuperata nella liturgia la sequenza Stabat Mater dolorosa (sec. XIII, attribuita a Iacopone da Todi). 7.3 I tropi Il fenomeno della 'tropatura' nel canto liturgico medievale fu molto diffuso a partire dai secoli IX-­‐X, fino al sec. XIII, ma raggiunse il suo culmine nel secolo XI. Il termine greco 'tropos' in un primo tempo indicava un frammento melismatico destinato ad ampliare la melodia. La tradizione, non confermata storicamente, attribuisce a Tutilone, (monaco del monastero di S. Gallo morto nel 915), l'invenzione del tropo vero e proprio che consiste nell'applicazione di un testo alle parti melismatiche dei canti liturgici: l'aggiunta di nuove parole sotto i melismi trasformava lo stile melismatico in stile sillabico, per la presenza di una sillaba sotto ogni nota del melisma. Successivamente, oltre ad aggiungere un testo ad una precedente melodia che ne era sprovvista, si compose anche nuova musica per nuovi testi, così che quasi tutte le forme liturgiche furono 'tropate', vale a dire introdotte, interpolate o commentate dalle nuove composizioni. Tutto ciò fu possibile perché, se la Chiesa aveva sancito l'immutabilità del canto gregoriano, e dunque aveva proibito la modificazione dei canti liturgici, lasciava tuttavia aperta la possibilità di aggiungere nuovi testi e nuove melodie. Questo ampliamento del canto liturgico, chiamato 'tropo', era l'unica strada possibile per le esigenze creative dei monaci. Questo spiega la grande diffusione dei tropi, contenuti nei Tropari, libri contenenti i canti liturgici modificati dalla tropatura, che fu praticata soprattutto nei canti dell'Ordinario e del Proprio della messa, ad eccezione del Graduale e, per ovvie ragioni, del 37
Credo. Nell'ambito dell'Ufficio subirono tropature i Responsori, che sono le uniche composizioni melismatiche presenti in esso. Anche la sequenza dunque appartiene al vasto genere dei tropi (cfr. più avanti la definizione di 'tropo di adattamento)', e può essere definita un tropo dell'Alleluia. Sono state messe a punto diverse definizioni e codificazioni dei vari tipi di tropo, ma nessuna è particolarmente adeguata, data la vastità delle loro fisionomie e delle loro funzioni. Quella che segue, messa a punto dallo studioso Jacques Chailley, è tra le più soddisfacenti per il fatto che la divisione nelle diverse categorie tiene conto anche dell'ordine cronologico delle tappe successive dell'evoluzione del tropo: a) tropo di adattamento: è la primitiva forma di tropatura, che consiste nell'adattare un testo a una melodia preesistente, senza intervenire sulla musica; ciò provoca un cambiamento di stile, da melismatico a sillabico; b) tropo di sviluppo: oltre ad aggiungere nuove parole, si comincia a intervenire anche sulla melodia, ampliandola leggermente; c) tropo di interpolazione: si inserivano nel canto liturgico nuove sezioni aventi sia testo che musica originali e che erano però saldamente integrati e agganciati al testo e alla musica del canto preesistente; d) tropo di inquadramento: si aggiungevano brani di forma compiuta e autonoma che fungevano da introduzione o da postludio al canto preesistente; e) tropo di complemento: risulta dallo sviluppo dei tropi d'inquadramento, quando questi persero, nel loro sviluppo, ogni attinenza con i pezzi liturgici che 'inquadravano', e divennero brani autonomi collocati tra due momenti liturgici ufficiali. Il centro musicalmente più attivo in questo senso fu il monastero di S. Marziale di Limoges, che chiamò queste composizioni versus, in un primo tempo nel senso di versetti, e più tardi nel senso di composizione in versi, poiché erano versificate. Nel sec. XI, si introdusse nei versus anche la lingua volgare; è indicativo il fatto che contemporaneamente e nella stessa regione iniziava la produzione di canti trobadorici che peraltro furono designati in un primo tempo proprio con il termine vers (cfr. il paragrafo 5.1). Dal tropo di complemento, che faceva da raccordo tra i diversi momenti della liturgia e accompagnava gli spostamenti dei sacerdoti, derivò il conductus, un canto processionale che 38
sarà sviluppato anche nelle forme polifoniche. f) tropo di sostituzione: costituisce l'ultima fase dell'evoluzione dei tropi. Qui la tropatura non si limita a interpolare e arricchire, ma si arriva a sostituire il testo liturgico ufficiale con nuovi componimenti (chiamati il più delle volte, ancora, versus), limitandosi a conservare del testo precedente alcune parole in funzione di richiamo e aggancio. Famosi sono i lunghi versus o tropi del Benedicamus Domino, in versi e a più strofe, che venivano eseguiti nell'ambito dell'Ufficio, e dove queste due parole erano completamente inglobate e mascherate. I tropi ebbero grande importanza nella genesi delle nuove forme musicali sacre e profane, e costituirono un passaggio fondamentale che servì da connessione tra il canto gregoriano e la nuova produzione della storia della musica in Occidente. Ebbero inoltre influenza anche sul canto liturgico ufficiale, nella formazione, che si sa essere tarda, delle melodie dell'Ordinario della messa. Il Concilio di Trento abolì dalla liturgia tutti i tropi. 7.4 Gli uffici metrici Nel periodo carolingio, dalla seconda metà del IX a tutto il X secolo, dobbiamo registrare, nella Francia nord-­‐ orientale, anche la produzione dei cosiddetti uffici metrici e uffici drammatici. Gli uffici metrici consistevano in testi nuovi per gli uffici delle feste dei santi, scritti in versi (esametri) invece che in prosa; l'altra novità rispetto ai formulari liturgici precedenti (in cui antifone e responsori non erano legati da connessioni logiche, ma l'ordine della successione poteva mutare senza danno nello svolgimento dell'Ufficio), è che si basavano sull'elemento narrativo, che sostituiva quello lirico-­‐contemplativo, per cui ogni ufficio formava un ciclo letterariamente compiuto. e per questa ragione gli uffici metrici furono chiamati, all'epoca, historiae. Come per le sequenze, spesso venivano usate le stessa melodie per testi diversi: si tratta di un modo di fare tipico nel periodo medievale postgregoriano, che denuncia un allentamento dell'antico legame fra la parola e la musica. 7.5 Gli Uffici drammatici Gli uffici drammatici traevano spunto dalle parti più rappresentative della 39
liturgia cristiana, che fin dall'inizio si era configurata coinvolgente e ricca di potenzialità drammatiche. Dal VII al X secolo si ebbe una graduale 'drammatizzazione' di alcuni riti, in particolare quelli che fornivano evidenti possibilità di rappresentazione scenica quali le funzioni della Settimana Santa e della Pasqua: la processione delle Palme, la lavanda dei piedi il Giovedì santo, gli Improperii del Venerdì santo con i dialoghi tra Cristo e i suoi accusatori e la parte del Vangelo che narra la Passione di Cristo, la cui lettura alternava alla narrazione il discorso diretto dei vari personaggi, 'interpretati' da altrettanti lettori. Gradualmente la drammatizzazione divenne sempre più specificata e organizzata, anche se gli 'attori' erano ancora i celebranti vestiti dei paramenti liturgici e il rito si svolgeva senza parti dialogiche. In seguito si passò ad arricchire l'ufficiatura di altre festività dell'anno, come il ciclo di Natale, l'Annunciazione, l'Ascensione, eccetera. Un'ulteriore evoluzione della drammatizzazione liturgica si realizzò con l'inserimento di un breve dialogo nell'ambito del tropo Quem quaeritis in sepulchro, o christicolae?-­‐ Jesum Nazarenum crucifixum, o caelicolae, ovvero la parte del Vangelo in cui questa domanda («Chi cercate nel sepolcro, o seguaci di Cristo?») viene rivolta dall'angelo alle Marie che si recavano al sepolcro di Cristo, e la risposta delle tre donne («Gesù Nazareno crocifisso, o abitatore del cielo»). La denominazione di 'Uffici drammatici' è recente, coniata nel secolo scorso; nella loro epoca tali uffici drammatici erano denominati semplicemente officia. 7.6 Il dramma liturgico Con il dramma liturgico si passa dalle ufficiature drammatizzate al vero e proprio spettacolo teatrale, quindi a una forma di teatro con musica, un'azione drammatica che richiede la presenza integrata di cantanti solisti impegnati anche nella mimica. Questa evoluzione parte da lontano, dal canto liturgico responsoriale passando attraverso i tropi in forma dialogica. Il primo dramma liturgico di cui si ha notizia, la Visitatio sepulchri, deriva infatti da un tropo di inquadramento all'Introito della messa di Pasqua, (lo stesso tropo di cui si è detto a proposito degli uffici drammatici), che risale al 920 circa e che proviene dall'abbazia di S. Marziale di Limoges, quindi fu composto probabilmente in Aquitania, ma fu tramandato dal famoso tropario di Winchester che risale alla fine del X secolo. Questo dramma consiste in un'unica scena basata sul dialogo tra l'angelo e le pie donne e inizia con il testo del tropo, ovvero la domanda rivolta dall'angelo alle Marie che si 40
recavano al sepolcro di Gesù e alla loro risposta: Quem quaeritis in sepulchro, o Christicolae?-­‐ Iesum Nazarenum crucifixum, o caelicolae (Chi cercate nel sepolcro o seguaci di Cristo?-­‐Gesù Nazareno crocifisso, o abitatore del cielo). Dopo questo dialogo il dramma prosegue con alcune antifone scelte dal repertorio dell'ufficio di Pasqua allo scopo di formare una semplice scena tra l'angelo e le Marie: l'angelo invita le Marie a visitare la tomba («Venite et videte»), e a informare gli apostoli («Cito euntes»); segue l'antifona «Surrexit Dominus de sepulchro», con cui le Marie annunciano la resurrezione, e il canto del «Te Deum laudamus» con il quale si chiude il dramma. Questa prima fase del dramma liturgico adopera semplici mezzi e un repertorio di testi e canti presi dall'Ufficio, per cui l'insieme è ancora molto vicino alla liturgia. Abbiamo molte fonti di questa prima versione del dramma, segno della sua grande diffusione in tutta Europa, e tutte conformi nelle parti musicali, segno della provenienza di questi canti dal repertorio ufficiale. A esempio di quanto detto, si riporta qui di seguito una descrizione efficace riguardante le modalità di svolgere il suddetto dramma liturgico connesso all'ufficiatura del mattino di Pasqua. Si tratta di una pagina della Regularis concordia, ovvero un Liber consuetudinarius che raccoglie tradizioni monastiche continentali a uso dei monaci benedettini inglesi, redatte dal vescovo di Winchester, Ethelwold, intorno al 970 (la traduzione è tratta da E. CATTANEO, Il culto cristiano in Occidente, Roma, C.L.V.-­‐Edizioni Liturgiche, 1978, pp. 229-­‐30): «Mentre si recita la terza lezione, quattro frati si vestano; uno di loro, in abito bianco, si faccia avanti come preoccupato di fare qualcosa, si rechi di nascosto al luogo del sepolcro, e si metta a sedere tenendo in mano una palma. Poi mentre si recita il terzo responsorio, vengano avanti gli altri tre frati, rivestiti di cappa, recando in mano turiboli con incenso, e, a passi lenti, in atteggiamento di chi cerchi qualche cosa, si dirigano al luogo del sepolcro. Questa scena è fatta per rappresentare l'Angelo che siede sul sepolcro e le donne che giungono con aromi per ungere il corpo di Gesù. Appena, dunque, il frate avrà visto avvicinarsi gli altri tre, in atteggiamento di persone titubanti e alla ricerca di qualche cosa, cominci a cantare dolcemente, in tono medio di voce: "Chi cercate nel sepolcro, o cristiani?" [o seguaci di Cristo]. Alla fine del canto rispondano i tre con un'unica voce: "Gesù Nazareno crocifisso, o abitante del cielo". Ed egli a loro: "Non è qui, è risorto 41
come aveva predetto. Andate, annunziate che è risorto da morte". Nell'udire quel comando si rivolgano i tre al coro dicendo: "Alleluia. Il Signore è risorto, oggi è risorto il leone forte, il Cristo figlio di Dio". Dopo le quali parole, di nuovo il frate seduto, quasi richiamandoli, dica il ritornello: "Venite a vedere il luogo dove era posto il Signore, alleluia!" e così dicendo, ritto in piedi, alzi il velo e mostri loro il luogo [del sepolcro] senza la croce, con il solo sudario nel quale la croce era avvolta...Finita l'antifona il priore, a significare la gioia per il trionfo del nostro Re, risorto dopo aver debellato la morte, dia inizio al canto del Te Deum laudamus e tutte le campane suonino insieme». Successivamente si ebbero molte altre versioni del dramma pasquale, sempre più ampie, complesse e ricche di personaggi e spunti drammatici; comparvero testi di nuova invenzione, spesso in versi, e non più limitati solamente alle fonti liturgiche e bibliche; contemporaneamente anche la musica si diversificò nelle varie regioni in cui il dramma veniva coltivato. Questa evoluzione che è simile a quella delle sequenze e dei tropi, si protrasse fino al XIV secolo. Al ciclo liturgico pasquale appartengono anche i Planctus Mariae (Pianto di Maria ai piedi della croce), e il Peregrinus (Pellegrino: narra l'incontro dei due discepoli con Cristo sulla strada di Emmaus), tramandato in diverse versioni. Anche per il ciclo di Natale l'evoluzione fu simile al dramma di Pasqua, perché partì da un tropo all'Introito della terza messa, Quem quaeritis in praesepe, pastores?. Da qui già nel XII secolo si arrivò alla formazione dell'Officium pastorum (Ufficio drammatico dei pastori). Ebbe però maggiore diffusione l'Officium stellae (per la festa dell'Epifania) detto anche Officium Regum trium, in cui emerge sempre più la figura di Erode, e la cui musica consiste di molte parti originali. Nella rappresentazione dei tre Magi è in genere inclusa la scena della strage degli innocenti, che a volte fa dramma a sé, e contiene il lamento di Rachele sui figli morti (Lamentatio Rachelis). Dall'Antico e dal Nuovo Testamento sono stati tratti diversi episodi per altrettanti drammi, come l'Ordo prophetarum (drammatizzazione di un sermone pseudoagostiniano), la Risurrezione di Lazzaro, la Conversione di S. Paolo; ma furono tratti anche da vite di santi, come Il figlio di Getrone, del sec. XIII, che fa parte di un ciclo di drammi sui miracoli di S. Nicola. La qualità delle musiche varia a seconda dei drammi: in alcuni viene usata la stessa melodia per tutte le strofe e per tutti i personaggi, altre volte (nel Getronis filius) ad ogni personaggio corrisponde una particolare melodia, 42
quasi un Leitmotiv (motivo conduttore), procedimento che precorre i tempi e che ritroviamo usato dai compositori di melodrammi dell'Ottocento. A questo proposito vanno citati due pregevoli drammi liturgici: lo Sponsus (che narra la parabola delle vergini savie e delle vergini stolte) che risale al sec. XII, proviene dal monastero di S. Marziale di Limoges, ed è importante per la simmetria geometrica della sua struttura, composta da diversi brani musicali rispondenti ognuno a un personaggio; il Ludus Danielis (dramma del profeta Daniele) che risale al 1140 circa, proviene dalla Francia settentrionale (Beauvais), ed è uno dei più grandiosi e ampi drammi medievali, importante per una serie di elementi innovativi come la caratterizzazione dei personaggi, la cura spettacolare delle scene, e una discreta varietà dei brani musicali. La produzione e diffusione di drammi liturgici si diffuse in tutta Europa, ma non in maniera omogenea; oltre ai già citati monasteri benedettini di S. Gallo, S. Marziale di Limoges e Winchester, altri centri furono Padova, Cividale del Friuli, le città della Catalogna oltre che le regioni di cultura normanna in Inghilterra in Sicilia e soprattutto in Francia. Proprio nei drammi prodotti in Francia, le melodie, anche quelle originali, riportano tracce evidenti dell'influenza in esse dei più svariati generi di musica monodica sia sacra sia profana, conseguenza della ricchezza e varietà delle esperienze musicali nella Francia dell'epoca. Poco alla volta venne introdotta nei drammi liturgici anche la lingua volgare, consistente in vari dialetti francesi o provenzali, dapprima in alternanza con la lingua latina nell'ambito della stessa opera, successivamente sostituendola del tutto. La tendenza a sviluppare i testi letterari portò ad avere drammi sempre più estesi, e, di conseguenza, ad alternare in essi i brani cantati a lunghi brani recitati; in questa situazione si verifica, in modo impercettibile, il passaggio dal dramma liturgico alla 'sacra rappresentazione' (tra i secoli XIII e XIV), in cui la narrazione sacra viene intramezzata da episodi o personaggi profani. Questa nuova forma drammatica assume, nelle diverse lingue, le seguenti denominazioni: ludus, miracle, mystère, miracle play. Anche per i drammi liturgici, come per tutta la musica monodica medievale sacra e profana, rimangono aperti due fondamentali problemi, quello dell'interpretazione ritmica, dovuto alla mancanza di una notazione mensurale chiara e completa, e la questione riguardante l'eventuale uso di strumenti musicali in funzione di raddoppio delle voci. Quest'ultima ipotesi sembrerebbe avallata da vari cenni presenti nei testi e, soprattutto, confermata dall'iconografia contemporanea. 43
8. LA MONODIA PROFANA MEDIEVALE IN LATINO Come sappiamo, la notazione musicale iniziò a svilupparsi in Occidente, solo a partire dal IX secolo, quindi, come s'è detto a proposito della musica liturgica, anche della musica profana anteriore a tale periodo non abbiamo testimonianze scritte. C'è da aggiungere che il predominio culturale esercitato dalla Chiesa nell'alto Medioevo confinava le forme artistiche profane ad un livello inferiore, che le rendeva spesso indegne di approdare alla cultura scritta. Per queste ragioni, fino al tardo secolo XI, quindi per tutto il periodo che precede la produzione poetica e musicale nelle lingue nazionali, le fonti della musica profana sono scarse. Vennero scritte solo quelle che furono ritenute importanti e quindi degne di essere incluse in un codice la cui confezione richiedeva allora una certa cura e un notevole esborso finanziario. L'esistenza e la pratica consueta della musica profana è però testimoniata da numerose fonti indirette (documenti letterari, testi storico-­‐giuridici e di provenienza ecclesiastica), che non sono però in grado di trasmetterci dati riguardanti i caratteri strettamente musicali di questi canti. La produzione profana non consisteva solamente in un repertorio popolare di canzoni e danze, ma anche di musica colta basata, per esempio, sul canto di testi poetici di autori classici latini provenienti dal mondo scolastico. Data l'unitarietà della cultura nel mondo medievale, per cui il sacro e il profano, l'ambiente della Chiesa e quello della scuola spesso si intersecavano, non possiamo che ricondurre la produzione profana alla comune matrice che negli stessi secoli aveva dato vita ai tropi, alle sequenze e ai drammi liturgici; dunque i compositori furono gli stessi del canto gregoriano, monaci o clerici, discepoli delle scuole annesse ai monasteri e alle cattedrali, ai quali in seguito si aggiunsero anche i frequentatori delle prime università, detti goliardi o clerici vagantes. Gran parte della poesia cosiddetta 'mediolatina' (così viene denominata la produzione letteraria medievale in latino) che è arrivata a noi provvista di notazione musicale, rappresenta un importante precedente della più tardiva produzione monodica nelle lingue volgari (neolatine), perché ne sperimenta con anticipo alcune delle forme caratteristiche. Tra le fonti più antiche della musica profana medievale, quindi già dal IX secolo, si conservano un certo numero di canti profani: si tratta di intonazioni di poesie di Orazio, Virgilio (Eneide) e Boezio, e soprattutto una serie di composizioni epico-­‐storiche, tra cui i planctus, vale a dire i compianti per la morte di personaggi famosi. La loro notazione neumatica, 44
che è stata aggiunta nel X secolo, è ancora rudimentale, per cui non è facile ricostruire le melodie, che tuttavia nello stile presentano affinità con il canto gregoriano. Famoso è il Planctus Caroli, composto per la morte di Carlo Magno (Planctus de obitu Caroli): è in versi in metrica accentuativa, e alterna un ritornello, Heu mihi misero!, a una serie di distici che esortano tutte le contrade dell'impero a piangere la morte del grande sovrano. Da segnalare anche composizioni su altri soggetti come, per esempio, il Canto delle scolte (sentinelle) modenesi. Frequente in questo repertorio è l'uso del Contrafactum, vale a dire l'utilizzo di una melodia per testi differenti, e spesso contrastanti; questo procedimento a volte testimonia la comunicazione tra la tradizione musicale liturgico-­‐religiosa e quella profana; a questo proposito vedremo come l'esperienza del canto sacro riemerge anche nella composizione di alcune musiche trovadoriche in lingua volgare. Famoso a questo proposito è il contrafactum O admirabile Veneris idolum, di provenienza veronese che risale al X secolo: si tratta del saluto di un maestro a uno scolaro in partenza, la cui melodia si ritrova in un canto di pellegrini in cammino verso Roma, O Roma nobilis. Altra testimonianza della lirica profana si colloca nella Renania dell' XI secolo, ed è un codice che raccoglie i cosiddetti Carmina Cantabrigentia (perché sono conservati a Cambridge), una serie di composizioni in forma di sequenza, cioè formate da coppie strofiche, che trattano vari temi, giocosi, amorosi ed elogi di imperatori. Altro importante monumento della lirica profana medievale sono i sei planctus del filosofo Pietro Abelardo di Nantes (1079-­‐1142), in cui il tradizionale genere poetico del compianto, dietro la rievocazione di episodi biblici, nasconde tematiche amorose riguardanti il suo sfortunato amore per Eloisa. Sono scritti in varie forme ispirate a quella della sequenza intesa in senso lato: la versificazione, organizzata in una ritmica sillabica o determinata da un procedimento accentuativo, sperimenta varietà di ritmi, alternando per esempio il ritmo binario con il ternario, e li organizza in diverse e nuove strutture strofiche basate su combinazioni di rime e assonanze. Musicalmente questi planctus furono 'notati' un secolo più tardi; i neumi sono in campo aperto con una diastemazia non perfetta, per cui non è facilmente determinabile il disegno melodico della monodia. Aperto rimane anche il problema, comune a tutta la produzione monodica medievale, dell'interpretazione ritmica di tali composizioni, nonostante le numerose teorie formulate a questo proposito da diversi studiosi. Se il planctus di Abelardo deriva da quello latino e lega ad esso tematiche 45
amorose, a sua volta il planctus di Abelardo influenza quelli liturgici, i planctus Mariae. Gli ultimi monumenti profani di poesia per musica in latino sono contenuti in un codice redatto alla fine del XIII secolo, che raccoglie circa cinquanta canti dei goliardi o scholares, cioè dei membri delle prime associazioni universitarie. Essi sono denominati Carmina Burana, perché sono contenuti in un manoscritto proveniente dall'abbazia di Benediktbeuren. Nonostante il periodo tardo in cui fu compilato il codice, la sua notazione neumatica risulta intraducibile; tuttavia alcune fonti manoscritte più recenti che contengono alcuni brani presenti in quel canzoniere aiutano l'opera di trascrizione melodica. Questi canti sperimentano tutte le esperienze tematiche e formali della produzione letteraria medievale in latino, detta appunto 'mediolatina', tra le cui forme più complesse troviamo quelle dell'innodia e delle sequenze. Dopo i Carmina Burana le tematiche profane furono in seguito appannaggio delle lingue nazionali. 46
9. LA MONODIA NELLE LINGUE NAZIONALI 9.1 I trovatori I trovatori e i trovieri furono i poeti e musicisti che operarono in Francia, rispettivamente a sud e a nord della Loira, in piena epoca feudale e cavalleresca. Più precisamente i trovatori, troubadours, operarono dalla fine dell'XI secolo alla seconda metà del secolo XIII nella Francia meridionale che all'epoca non dipendeva dal re di Francia e viveva una fiorente stagione culturale e artistica; i trovieri, trouvères, invece, furono attivi nella Francia settentrionale dalla fine del XII secolo alla fine del XIII. Furono i primi poeti in lingua volgare: la lingua dei trovatori era quella d'oc (particella affermativa del provenzale), risultante dall'insieme dei dialetti antichi della Francia meridionale; la lingua dei trovieri era quella d'oil (particella affermativa del francese antico), formata dai dialetti del nord, da cui si sarebbe sviluppato il francese moderno. Grazie a loro la musica profana entrò a far parte dell'arte colta, e, sempre per merito loro, in Occidente si iniziò ad individuare le prime figure di compositori di musica. Non a caso il termine 'trovatore' , trobador in provenzale, deriva dal verbo trovare (trobar), che a sua volta deriva dal verbo latino tropare, cioè 'fare dei tropi': il trovatore sarebbe dunque un 'tropatore', cioè uno che fa dei tropi, che inventa un testo nuovo e una musica nuova. Tuttavia bisogna precisare che la notorietà da loro acquisita fu dapprima legata solo alla loro produzione poetica: bisognerà attendere epoche posteriori per vedere emergere la figura del musicista che passa alla storia per la sola composizione della musica. Si conservano circa 5000 testi poetici trobadorici e trovierici, numero spropozionato rispetto a quello delle melodie giunte fino a noi, che ammontano a circa un terzo di questa cifra; riguardo alla produzione specifica dei trovatori abbiamo 2542 testi e solo 264 melodie. Altro dato da notare è che, se l'evoluzione della poesia provenzale va collocata, come detto, a partire dalla fine dell'XI secolo, nessuna fonte manoscritta depositaria di melodie è anteriore alla metà del XIII secolo, mentre alcune sono attribuite addirittura al secolo XIV. Queste datazioni indicano che la trasmissione delle canzoni trobadoriche più antiche è avvenuta dapprima oralmente, subendo, probabilmente, delle trasformazioni anche solo parziali rispetto al prodotto originale. Ciò non toglie comunque valore storico e artistico alle fonti in nostro possesso. L'attribuzione delle melodie è problematica, sia per la diversità delle 47
assegnazioni a noi pervenute, sia perché a volte di uno stesso testo esistono versioni musicali differenti; inoltre non sappiamo con precisione quali trovatori-­‐poeti abbiano scritto anche la melodia per i loro testi. Infatti i trovatori non erano necessariamente musicisti oltre che poeti, e non vanno neanche confusi con un'altra categoria, quella degli esecutori delle loro musiche, chiamati in francese jongleurs (dal latino ioculator, da cui deriva giullare in italiano), anche se alcuni trovatori erano essi stessi jongleurs. Va infatti precisato che il termine trovatore si riferisce propriamente all'autore dei versi e della musica, mentre la parola jongleur designa l'interprete, spesso itinerante, che diffondeva le creazioni trobadoriche di corte in corte. Le uniche informazioni a tale riguardo sono fornite dalle vidas (vite), dei brevi profili biografici dei trovatori più noti, tra i quali si annoverano anche alcune donne, redatti nel XIII e nel XIV secolo in lingua d'oc; spesso sono racconti romanzati perché associano verità storica e fantasia. Le vidas ci informano sulla condizione sociale dei trovatori e sul tipo di vita che conducevano. Dei cento trovatori di cui abbiamo la vita, almeno la metà di essi erano di nobili origini; tuttavia l'ascendenza aristocratica non era indispensabile, perché in ogni caso un buon trovatore era, grazie alla sua arte, un personaggio di spicco, che poteva intrattenere rapporti di amicizia con i feudatari loro protettori, o addirittura rapporti d'amore con le loro mogli. Le vidas sono in gran parte costruite su elementi estrapolati dalla stessa poesia trobadorica, quindi ci introducono in pieno mondo cavalleresco, ricolmo di ideali e di amori cortesi (dove l'aggettivo 'cortese' significa 'di corte'). In esse, elementi di ambienti e personaggi di diversa natura convivono naturalmente: il sacro e il profano, la vita monastica e la vita di corte, i cavalieri e i pellegrini, l'amore ideale e l'amore terreno. I dati più interessanti per gli studiosi sono quelli che riferiscono dell'attività specifica dei vari trovatori, che non sempre possedevano tutte e tre le capacità di versificare, comporre la musica ed eseguirla, ma emergevano più o meno nell'una o nell'altra attività, o in tutte, secondo la propria natura. Per quanto riguarda l'esecuzione deduciamo dalle vidas che circa un terzo dei trovatori era anche jongleur, quindi erano in grado di eseguire le loro composizioni; viceversa di alcuni si rivela l'incapacità nell'esecuzione o addirittura di comporre la musica. Sappiamo, per esempio che Marcabruno era insieme poeta e musico («Fetz Marcabru los motz e l so»), e che Raimbaut d' Aurenga era in grado anche di eseguire («Una chansoneta fera,/voluntiers l'aver'a dir», dove faire = trobar vers e dir = chantar so). Al contrario, riguardo ad altri trovatori abbiamo notizia dei 48
loro limiti. Per esempio Aimeric de Peguilhan sapeva comporre, ma cantava male («apres canzos e sirventes, mas molt mal cantava»), e anche Gaucelm Faidit era un buon poeta e un buon musico, ma non sapeva cantar bene («fetz molt bos sos e bos motz» ma «cantava peiz d'ome del mon»); al contrario Peire Vidal cantava bene («cantava meils d'ome del mon») e Elias Cairel era un pessimo esecutore, ma sapeva scrivere bene parole e musica («mal cantava e mal trovava e mal violava e peichs parlava», ma «ben escrivia motz e sons»). (Cfr. il contributo di Aurelio Roncaglia in L'Ars Nova italiana del Trecento, IV, Comune di Certaldo 1978, p. 368). Diamo di seguito la traduzione di due vidas riguardanti due dei più noti e rappresentativi trovatori: Jaufre Rudel e Bernard de Ventadorn (tratto da: G. CATTIN, La monodia nel Medioevo, Torino, EDT, 1991, pp.234-­‐236): Vita di Jaufre Rudel Jaufre Rudel di Blaia fu uomo molto nobile e principe di Blaia. E s'innamorò della contessa di Tripoli senza vederla, ma solo per il bene che di lei udì raccontare dai pellegrini provenienti da Antiochia; e fece su di lei parecchie canzoni con buone melodie ma povere parole. E volendo vederla, si fece crociato e si mise in mare. E in nave lo colse una malattia molto grave, sicché coloro che erano con lui credettero che morisse sulla nave, ma tanto fecero che lo condussero in albergo a Tripoli quasi come morto. E lo fecero sapere alla contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese tra le sue braccia. Ed egli conobbe ch'era la contessa e ricuperò d'un tratto la vista, l'udito e la parola; e lodò Dio e lo ringraziò perché gli aveva conservato la vita sino a poterla vedere; e così morì tra le braccia della sua donna. Ed ella lo fece seppellire onoratamente nella sede dei Templari; e poi, quel giorno stesso, si fece monaca per il dolore ch'ebbe di lui e della sua morte. Vita di Bernard di Ventadorn Bernard di Ventadorn fu del Limosino, del castello di Ventadorn. Fu uomo povero di nascita, figlio d'un servitore ch'era fornaio e scaldava il forno per cuocere il pane del castello di Ventadorn. E crebbe bell'uomo e destro, e sapeva scrivere belle canzoni e cantarle, ed era cortese e istruito. E al visconte di Ventadorn, suo signore, piacquero molto lui, le sue canzoni e il suo canto; e gli rese grande onore. E il visconte di Ventadorn aveva una moglie bella e gaia e giovane e gentile; ed ebbe caro ser Bernard e le sue canzoni e 49
s'innamorò di lui e lui di lei, così che fece i suoi canti e le sue canzoni per lei, per l'amore che le portava e per il valore della sua signora. Il loro amore durò a lungo prima che il visconte, marito della signora, e l'altra gente se ne accorgessero. E quando il visconte se n'accorse, allontanò Bernard e fece rinchiudere e custodire la moglie. Inoltre costrinse la signora ad accomiatare Bernard e gli fece dire di partire e di allontanarsi da quella regione. Ed egli se ne partì presso la duchessa di Normandia, ch'era giovane e di gran valore e molto si intendeva di pregio e onore; e lo lodò con belle espressioni. E tanto le piacquero i vers e le canzoni di ser Bernard, ch'ella lo ricevette e l'onorò e l'accolse e gli fece piaceri assai grandi. Rimase a lungo alla corte della duchessa e se ne innamorò e la signora s'innamorò di lui e per questo amore ser Bernard compose molte e belle canzoni. Ma il re Enrico d'Inghilterra la prese per moglie e la strappò dalla Normandia e la condusse in Inghilterra, e ser Bernard rimase di qua triste e dolente; e si partì dalla Normandia e venne al buon conte Raimondo di Tolosa e rimase da lui, alla sua corte, fino a quando il conte morì. E quando il conte fu morto, ser Bernard abbandonò il mondo, le poesie e il canto e il sollazzo del secolo e poi entrò nell'ordine [abbazia] di Dalon e là finì la sua vita. E tutto ciò che vi ho detto di lui mi fu narrato e detto dal visconte ser Ebles di Ventadorn, il quale fu figlio della viscontessa che ser Bernard tanto amò. Il tema principale della poesia trobadorica è quello dell'amor cortese, che viene svolto con maniere e atteggiamenti tipici del mondo cavalleresco; questo mondo viene reso, a volte, con sofisticate analisi psicologiche non prive di allusioni sensuali. Importante nel repertorio trobadorico oltre al tema dell'amor cortese è quello dell'amore ambientato in ambito popolaresco, ma troviamo anche temi politici, satirici e moraleggianti; frequente è il riferimento alla natura. L'arte trobadorica, nata per intrattenere i membri della società feudale aristocratica, e diffusa nelle varie corti dagli esecutori nomadi (jongleurs), fu un importante mezzo di comunicazione sia delle idee sia dei sentimenti personali, all'interno di quell'ambiente. A seconda del messaggio da comunicare, si svilupparono gradualmente stili diversi nel poetare: lo stile semplice e diretto (trobar leu), lo stile sintatticamente complesso che tendeva alla sperimentazione nel versificare (trobar ric), e lo stile del cosiddetto poetare chiuso (trobar clus), per le occasioni in cui il messaggio era riservato, per cui veniva usato un linguaggio quasi cifrato, non privo di metafore e comunque di espressioni oscure, per renderlo incomprensibile 50
a chiunque non fosse il destinatario. Ancora aperta è la questione che riguarda le origini della poesia trobadorica perché le ipotesi formulate sono diverse e contrastanti. Una di queste chiama in causa l'influenza araba, che risulta plausibile sia per i contatti del mondo franco-­‐provenzale con la penisola iberica sia a causa delle crociate: tale ipotesi non è dimostrabile almeno dal punto di vista musicale, data la mancanza di esempi scritti di musica araba. In contrapposizione a questa ipotesi appare più concreta l'affinità con i temi poetici e le sperimentazioni formali e strutturali presenti nella nuova poesia musicale religiosa (sequenze, tropi, drammi liturgici) e profana in lingua latina, soprattutto nella regione aquitana. Infatti il primo trovatore conosciuto è Guglielmo IX (1071-­‐1126) conte di Poitiers e duca di Aquitania il cui unico frammento musicato rimasto è un vers, la più antica forma trobadorica, strettamente collegata col versus liturgico che, come abbiamo già detto, era un tropo di complemento molto diffuso in Aquitania (cfr. il paragrafo 3.3). Il vers aveva una struttura aperta, priva di ripetizioni di sezioni. La struttura delle poesie trobadoriche presenta schemi di versi che variano sia per numero che per lunghezza in ciascuna strofa, detta cobla in provenzale. I componimenti musicali adottano in genere la forma strofica (simile a quella degli inni), con una struttura metrica e melodica che rimane invariata in tutte le strofe. La più importante forma trobadorica fu la cansò (canzone), il veicolo privilegiato della poetica dell'amor cortese: comprende un numero variabile di strofe, dette coblas, ognuna di sei o sette versi, che intonano tutte la stessa melodia. Il termine cobla sembra derivare da copula, che indicava la coppia strofica delle sequenze (cfr. il paragrafo 3.2). Le coblas potevano avere dal punto di vista poetico diversi schemi e combinazioni ritmiche e di rime, che dimostrano la grande abilità e raffinatezza degli autori. Le strutture musicali erano condizionate dalla varietà formale delle coblas, e anche l'uso della ripetizione e del ritornello nello sviluppo melodico varia da una canzone all'altra, o è del tutto assente. Una tipica intonazione musicale della cansò è composta di due frasi musicali (A e B), di cui la prima è spesso ripetuta (A A B): la prima frase musicale intona i primi due versi e viene ripetuta per il terzo e quarto verso (i primi quattro versi sono denominati pedes), la seconda frase musicale intona i rimanenti due o tre versi (che sono denominati cauda) secondo il seguente schema: Versi poetici: 1 2 3 4 5 6 (7) Frasi musicali: A A B 51
Un altro tipo di iterazione si ha con la ripetizione melodica delle due prime frasi, secondo lo schema AB-­‐AB-­‐ CDEF. Dal punto di vista strutturale, quindi, il corpus della musica provenzale può essere diviso in due gruppi: le composizioni che prevedono l'iterazione e quelle che ne sono prive. Sulla struttura delle composizioni trobadoriche discorre anche Dante in un importante passo del secondo libro del De vulgari eloquentia che chiarisce anche i rapporti esistenti tra musica e poesia sul piano morfologico: La canzone null'altro è se non un'opera compiuta di chi compone con arte parole tali da poter ricevere su di sé un'intonazione musicale […]. La canzone per eccellenza è un collegamento in tragico stile di stanze uguali, senza ripresa, per un pensiero espresso in unità, come io mostro quando canto «Donne, che avete intelletto d'amore». Se dico «collegamento in tragico stile» è perché quando questo collegamento sia fatto nel comico noi lo chiamiamo, con diminutivo, «cantilena». […] La stanza (stantia) è un insieme di versi e di sillabe individuato da una determinata melodia e da una determinata struttura generale […] Dico dunque che ogni stanza è composta in modo tale da poter ricevere una certa melodia. Ma secondo il modo in cui le stanze fanno questo, esse appaiono differenziate, poiché alcune restano sotto un'unica melodia sino alla fine, cioè senza ripetizioni di alcuna frase musicale e senza diesis (chiamo «diesis» un passaggio che volge da una ad altra melodia). Altre invece presentano il diesis, e non può esservi il diesis, secondo il senso che si dà a questa parola, se non si ripeta la stessa frase musicale, o prima del diesis, o dopo, o in entrambe le sezioni. Ora, quando la ripetizione si faccia prima del diesis, si dice che la stanza ha i «piedi» (pedes); e conviene che ne abbia due, benché talora se ne facciano tre (ma molto raramente). Quando invece la ripetizione si faccia dopo il diesis, allora si dice che la stanza ha le «volte» (versus). Quando prima non si faccia ripetizione, si dice che la stanza ha la «fronte» (frons); quando non la si faccia dopo, si dice che ha la «sirma» ovvero «coda» (cauda). Da ciò può essere sufficientemente chiarito in qual modo l'arte della canzone abbia fondamento nella divisione della melodia in sezioni.
L'esempio poetico che segue, è la cansò di Jaufre Rudel Lanquan li jorn son lonc en may, in cui l'autore si attiene, come nelle altre sue canzoni a noi pervenute, al tipo morfologico con diesis, (o stacco, ossia con iterazione). I 52
primi quattro versi della cobla, rimati alternativamente (A B A B), hanno due frasi melodiche, una per i versi dispari, l'altra per i versi pari( quindi lo schema di rime coincide con lo schema melodico); nel passaggio alla seconda parte, anch'essa di quattro versi, la melodia si svolge continuata, più libera da ripetizioni. schema melodico 1. Lanquan li jorn son lonc en may A M'e belhs dous chans d'auzelhs de lonh B E quan mi suy partitz de lay A Remembra.m d'un'amor de lonh. B Vau de talan embroncx e clis C Se que chans ni flors d'albespis D No.m platz plus que l'yverns gelatz B 2. Be tenc lo Senhor per veray A Per qu'ieu veirai l'amor de lonh B Mas per un ben que m'en eschay A N'ai dos mals, quar tan m'es de lonh. B Ai! car me fos lai pelegris, C Si que mos fustz e mos tapis D Fos pels sieus belhs huelhs remiratz! B 1. [Quando le giornate sono lunghe, a maggio, M'è grato il dolce canto d'uccelli di lontano, E quando mi sono partito di là, Mi ricordo d'un amore di lontano. Vado con animo imbronciato e depresso, Sì che canto né fiore di biancospino Più non mi piace dell'inverno gelato. 2. Ben tengo il Signore per verace E perciò vedrò l'amore di lontano; Ma per un bene che me ne viene Ne ho due mali, poiché tanto m'è lontano. Ah! ch'io fossi là pellegrino, Così che il mio bordone e il mio saio Dai suoi begli occhi fossero ammirati!] Oltre ai già citati vers e e cansò, le forme più frequenti, in base al 53
contenuto del testo, sono le seguenti: -­‐ il planh, corrispondente al mediolatino planctus, di argomento doloroso o di compianto, quindi di carattere mesto e lamentoso. E' privo di una propria struttura musicale; -­‐ l'enueg, (noia) di argomento satirico, in cui il poeta enumerava ciò che più gli dispiaceva (letteralmente, lo annoiava), al mondo; -­‐ il sirvèntes, che tratta argomenti politici, morali o eroici, satirici e anche religiosi. Come il planh, non ebbe una forma musicale propria, la si doveva cantare su una melodia già conosciuta; -­‐ la Tenso, che ha per tema una disputa che si svolge in forma di dialogo su questioni politiche, morali, o anche galanti; -­‐ la pastourelle, il cui tema è l'incontro tra un cavaliere, o comunque un nobile, e una giovane pastorella, e il conseguente corteggiamento da parte del signore. L'incontro, nelle varie composizioni, evolve in diverse situazioni e conclusioni; -­‐ l'alba, che descrive la situazione in cui l'amico di una coppia di amanti clandestini veglia su di loro e poi li avverte del sopravvenire dell'alba, che pone fine al convegno amoroso. 54
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Seguono due delle sei coblas (la prima e la terza) di cui è formata questa alba: 1. Reis glorios, verai lums e clartatz, Deus poderos, senher, si a vos platz, Al meu companh sias fizels aiuda, Qu'eu non lo vi pos la noitz fo venguda, Et ades sera l'alba! [Re glorioso, luce verace e splendore, Dio poderoso, Signore, se a voi piace, Siate fedele aiuto al mio compagno, Ch'io non l'ho visto da quando venne la notte, E tra poco spunterà l'alba!] 3. Bel companho, en chantan vos apel; Non dormatz plus, qu'eu auch chantar l'auzel Que vai queren lo jorn por lo boschatge, Et ai paor quel gilos vos assatge, Et ades sera l'alba [Bel compagno, io vi chiamo cantando; Non dormite, ch'io odo cantare l'augello Il quale va cercando il giorno nel boschetto, E temo che il geloso vi assalti. E tra poco spunterà l'alba!] Queste ultime due forme, l'alba e la pastorella, conoscono una notevole diffusione nella tradizione popolare, ma è difficile stabilire da quale versante parta il processo di influenza, se da quello popolare o da quello popolare. Tra le varie centinaia di trovatori, i più noti in ordine cronologico, dopo il già citato Guglielmo IX, settimo conte di Poitiers e IX duca d'Aquitania, sono, nella prima metà del XII secolo, Jaufre Rudel (autore della cansò Lan quant li jorn son lonc en mai) e Marcabru (la pastorella L'autrier just'una sebissa); seguono Bernart de Ventadorn (Can vei la lauzeta mover) e Bertran de Born. A cavallo tra il XII e il XIII secolo operarono Guiraut de Borneilh (autore dell'alba Reis glorios, verais lums e clartatz), e, di seguito Peire Vidal, Folquet de Marseilha, Arnaut Daniel e Raimbaut De Vaqueiras (autore quest'ultimo del famoso Kalenda maia = primo giorno di maggio, 56
dall'andamento danzante). Nella seconda metà del XIII secolo, infine, si colloca Guiraut Riquier. Proprio nel secolo XIII la produzione trobadorica decadde soprattutto nelle regioni in cui il genere era nato, ma proseguì in altri siti geografici. Questa decadenza fu dovuta alla crisi politica e culturale che subì la Provenza in seguito alla crociata contro gli Albigesi. Le fonti manoscritte che riportano melodie trobadoriche sono, come si è detto, tarde rispetto al periodo di produzione. Nella trascrizione in notazione moderna esse non pongono difficoltà nello stabilire l'altezza dei suoni, poiché il sistema di notazione è quello neumatico quadrato in cui l'utilizzo del tetragramma e delle chiavi rende possibile una sicura trascrizione del disegno melodico. Il problema più rilevante che pongono le fonti manoscritte è invece relativo alla interpretazione ritmica dei suoni, perché riguardo alle indicazioni di tempo e di durata, la semiografia non consente una traduzione certa. Esistono a questo proposito diverse ipotesi riconducibili ad altrettanti studiosi che non giungono però a una soluzione condivisa. Uno dei modi per risolvere questo problema è stato il tentativo di applicare alle melodie i 'modi ritmici' usati nel repertorio polifonico francese del XIII secolo, ma i risultati non sono mai giunti alla uniformità, così come fallirono diversi altri esperimenti basati sulle più varie ipotesi, da quelle che fanno riferimento alla metrica testuale, a quelle che suggeriscono di attribuire alle note valori uguali. Va dunque tenuto presente che nelle trascrizioni e nelle esecuzioni di canti trobadorici è importante la soluzione soggettiva dell'elemento ritmico. I risultati più soddisfacenti si sono ottenuti sviluppando criteri che facessero coincidere il più possibile il ritmo musicale con quello del testo poetico, che è proprio ideato insieme alla musica e in funzione di questa. Lo stile melodico delle canzoni trobadoriche presenta un andamento accurato e raffinato, lontano dallo stile gregoriano e dalla sua modalità. Influenze della musica liturgica più arcaica sono invece individuabili nei semplici andamenti sillabati su note ribattute. Frequenti sono i melismi, che compaiono per di più alla fine di frasi o semifrasi, e soprattutto nelle cadenze finali. Le differenti lezioni dei tracciati melodici di tali melismi che si riscontrano nelle diverse fonti manoscritte, suggeriscono l'ipotesi che nelle esecuzioni estemporanee era ammessa e quindi prevista l'improvvisazione. Riguardo l'opinione per cui i canti trobadorici fossero accompagnati nell'esecuzione da strumenti musicali, sebbene tutti gli esempi musicali a 57
noi pervenuti riportino esclusivamente il profilo melodico del canto, tuttavia l'iconografia e alcuni passi letterari dell'epoca testimoniano l'utilizzo di vari strumenti musicali ad arco (viella, ribeca), a fiato, a corde e a percussioni. La loro funzione nell'esecuzione era probabilmente quella di raddoppiare all'unisono o all'ottava la parte vocale, ma forse anche di preludio, interludio o postludio al brano cantato. 9.2 I trovieri Per quanto riguarda la produzione dei trovieri, vale quanto già detto per la produzione dei trovatori; tuttavia bisogna precisare che nella loro chanson con struttura musicale A A B della strofa (che abbiamo visto a proposito della cansò), la sezione A termina una prima volta con una formula detta ouvert, aperta, per permettere il ritornello della stessa sezione A, che la seconda volta termina invece con una formula detta clos o di chiusura della sezione. Questo procedimento si ritrova nelle forme della futura ars nova francese del XIV secolo. Il rondeau è un'altra forma trecentesca che troviamo già nella produzione dei trovieri (con lo schema musicale AB, AA, AB, AB); altre forme specifiche dei trovieri erano il lai, con struttura simile alla sequenza, basata sulla coppia strofica, e il jeu parti, in forma dialogica tra due interpreti che intonano la stessa melodia. Importante fu l'opera di Chrétien de Troyes, il primo dei trovieri conosciuti, autore del Perceval le Gallois. Alla fine del secolo XII si collocano invece Conon de Béthune e Blondel de Nesle. Nel Duecento operarono Gautier de Coinci, Thibaut de Champagne e Adam de la Halle (1237ca.-­‐1286/7), il più importante tra i trovieri, autore tra l'altro del celebre Jeu de Robin et de Marion, azione scenica composta forse per la corte napoletana di Carlo d'Angiò. E' una sorta di dramma profano monodico di carattere popolaresco, dove si alternano sezioni recitate a sezioni cantate e danzate che utilizzano anche adattamenti di musiche preesistenti, non solo dello stesso suo autore. Adam scrisse anche mottetti polifonici subendo così l'influsso della contemporanea fioritura, nella Francia settentrionale, della musica a più voci. 58
10. LA MONODIA IN GERMANIA L'influenza della lirica trobadorica e trovierica nei Paesi di lingua tedesca diede origine al movimento del Minnesang (da Minne=amor cortese e Sang=canto): Minnesänger furono denominati i poeti-­‐musici tedeschi che operarono tra la seconda metà del XII secolo e la metà del secolo XIV. I contatti tra la cultura franco-­‐provenzale e quella tedesca (la cui produzione più rilevante è costituita dai canti goliardici), furono favoriti dalle Crociate e ufficializzati dal matrimonio di Beatrice di Borgogna e l'imperatore Federico Barbarossa, avvenuto nel 1156, perché, al seguito della sposa, viaggiava il troviere Guiot de Provins. In un primo tempo, almeno fino all'inizio del secolo XIII, la produzione tedesca dipese completamente dai modelli franco-­‐provenzali, perché le musiche sono adattamenti di melodie trobadoriche, e il repertorio è attestato da fonti francesi che contengono canti trobadorici con testi in tedesco. Successivamente la produzione dei Minnesänger assunse aspetti musicali più caratteristici, anche se continuò in parte l'influenza francese per quanto riguarda i contenuti, le forme e le melodie; il corpus principale della produzione dei Minnesänger è conservato in due codici piuttosto tardivi: il canzoniere di Jena, del secolo XIV, con 91 melodie, e quello di Colmar, del secolo XV, con 107 melodie. I contenuti poetici frequentati dai Minnesänger furono anzitutto l'amor cortese, teso però ad accentuare la dimensione idealistica e spirituale dei rapporti amorosi, gli argomenti politici, morali, religiosi, e l'esaltazione della natura. Anche la corrispondenza terminologica tra i generi letterari sottolinea analogie evidenti: il Lied equivale alla cansò trobadoica e alla chanson trovierica, il Tagelied all'alba e all'aube, il Leich al lai, lo Spruch al sirventes, eccetera. La struttura poetico-­‐musicale più frequentemente adottata dai Minnesänger fu la Bar form (Bar = poema, canzone), corrispondente alla cansò trobadorica. Consiste in uno schema tripartito del tipo A A B, che si articola in due Stollen (piedi), e un Abgesang (chiusa): la prima sezione A è costituita da due Stollen (a, b), la seconda sezione A è la ripetizione della prima (a, b), mentre la terza sezione B è formata da tre o più piedi (c, d, e...), di cui l'ultimo corrisponde spesso al piede b della prima sezione. La notazione musicale è neumatico-­‐quadrata, sprovvista di indicazioni ritmico-­‐metriche, quindi anche per i Minnelieder, si pongono gli stessi problemi di interpretazione ritmica che riguardano i canti trobadorici. Ma a differenza delle lingue franco-­‐provenzali, la versificazione germanica si 59
basa sul numero degli accenti forti e non pretende l'uguaglianza numerica delle sillabe non accentate. Questa diversità rende impossibile la sistematica applicazione della teoria modale nelle trascrizioni di questo repertorio. Tra i più importanti Minnesänger sono da segnalare Walther von der Vogelweide (ca. 1170 -­‐ ca. 1230); Wolfram von Eschenbach (fine del XII-­‐ inizio del XIII secolo); Heinrich von Meissen, (fine del XIII-­‐inizio del XIV secolo) detto Frauenlob (lode alla signora), perché in una contesa di cantori sostenne il termine Frau (signora) al posto di Wip (donna); Oswald von Wolkenstein (fine del XIV-­‐metà del XV secolo). Con la rinascita delle città e la conseguente ascesa della borghesia, nei secoli XV e XVI, i Minnesänger, legati all'ambiente di corte e alla società feudale, lasciarono il posto ai Meistersänger (maestri cantori), che operavano nel contesto borghese e cittadino. Erano organizzati in corporazioni, una sorta di scuole artigiane relative alle varie arti e mestieri, con struttura gerarchica. Organizzavano veri e propri tornei di composizione, per partecipare ai quali bisognava adottare rigorose norme, da loro stabilite, per la creazione poetica e musicale. La prima scuola fu fondata dal già citato Frauenlob a Magonza; successivamente la scuola più importante divenne quella di Norimberga, per merito di Hans Sachs (1494-­‐1576). Anche in un'epoca così avanzata, dominata ormai dal linguaggio polifonico, i Meistersänger continuarono a frequentare il linguaggio monodico da loro codificato in quel particolareggiato sistema di regole che fu oggetto di satira nell'opera di Wagner Die Meistersinger von Nürnberg. Sono da menzionare nell'Europa settentrionale anche i Geisslerlieder, (canti dei flagellanti), un repertorio fiorito nel XIV secolo a imitazione dei canti penitenziali italiani, simili alle laude, durante la grande epidemia di peste del 1349: essi anticipano chiaramente alcuni tratti del corale luterano. 60
11. LA MONODIA IN SPAGNA La vicinanza geografica della Francia con la penisola iberica determinò la diffusione dell'esperienza lirica franco-­‐provenzale anche in Spagna e Portogallo. Numerosi trovatori, tra cui Peire Vidal, Guiraut de Bornelh, Marcabru, viaggiarono in questi paesi, e operarono nelle corti di Catalogna, Castiglia e Aragona; conseguentemente molti signori spagnoli si cimentarono nell'arte del 'trobar'. In Portogallo invece si affermarono, fino all'estinzione della dinastia di Borgogna (1383), eccellenti trovatori autoctoni. La più antica testimonianza di canti d'amore in lingua gallego-­‐portoghese è opera del joglar (giullare) Martin Codàx, che all'inizio del secolo XIII compose le sette Cantigas de amigo, canti nostalgici di una donna il cui amato era lontano, alle crociate. Tuttavia il nucleo più rilevante della monodia iberica è costituito dalle Cantìgas de Santa Maria, un repertorio raccolto da Alfonso X «el Sabio», re di Castiglia e di Leòn, tra il 1252 e il 1284; è formato da più di quattrocento canzoni (cantigas era il termine con cui, nella lingua gallego-­‐portoghese, si designavano composizioni tanto sacre che profane) che celebrano prevalentemente i miracoli della Vergine. Queste canzoni hanno un precedente nei Miracles de Notre Dame, composte dal troviere Gautier de Coinci, perché anch'esse realizzano l'intenzione di onorare la Madonna con le forme proprie della poesia profana. La forma che prevale in queste cantigas è simile a quella della ballata italiana e del virelai francese: una struttura strofica in cui un ritornello, detto estrabillo, precede, intercala e conclude le diverse strofe che mutano. Si è ipotizzato che questa forma, che troviamo anche in liriche mediolatine, abbia subito l'influsso dello zagial, una composizione arabo-­‐
andalusa con schema strofico (aaax, bbbx, eccetera), la cui musica si differenzia dalle altre monodie europee per le sue originali inflessioni. Il codice conservato nella Biblioteca dell'Escurial che contiene le Cantigas de Santa Maria è famoso per il ricco apparato iconografico formato da splendide miniature raffiguranti strumenti musicali medievali e costituisce quindi una sorta di manuale organologico utile non solo alla conoscenza degli strumenti del Medioevo, ma anche della coeva prassi esecutiva. 61
12. LA MONODIA IN ITALIA: LE LAUDE. In Italia la lirica provenzale ebbe notevole accoglienza, e diversi trovatori come Raimbaut de Vaqueiras, Gaucelm Faidit, Peire Vidal, soggiornarono nelle corti italiane; la conoscenza della lingua provenzale era diffusa tra i poeti italiani, e lo stesso Dante nel canto XXVI del Purgatorio rende omaggio al trovatore Arnaud Daniel in lingua d'oc. La letteratura provenzale esercitò una certa influenza sulle prime forme della letteratura italiana, e lo dimostrano anche le denominazioni di alcune forme poetiche come la ballata, la tenzone, il sirventese, chiaramente derivate da quelle francesi. Non sono però rimaste testimonianze che attestino un accompagnamento musicale per la poesia cortese italiana, così come ne abbiamo per l'analoga poesia francese, tedesca e spagnola. Al contrario esistono documenti che dimostrano, in Italia, una netta separazione tra i ruoli del letterato e del musico: a quest'ultimo veniva affidato il testo poetico, composto precedentemente dal poeta, per rivestirlo di musica. La musica invece era molto presente nelle consuetudini popolari, sia nell'ambito delle feste religiose che di quelle profane: tali correlazioni tra la musica e la vita sociale, tra la sfera religiosa e quella laica, vengono puntualmente documentate. Fu soprattutto san Francesco d'Assisi con i frati suoi seguaci, da lui spronati ad essere ioculatores Domini (giullari del Signore), a operare in questo senso, a unire le due dimensioni utilizzando nella musica un linguaggio mondano e popolare per esprimere il sentimento religioso: ciò accade nelle sue Laudes creaturarum, il Cantico delle creature, o «lodi delle creature» del 1225, che originariamente erano accompagnate dalla musica, come testimonia la presenza nel manoscritto di Assisi (codice 338) di righi musicali rimasti sfortunatamente in bianco. Proprio nell'ambito della rinascita spirituale del XIII secolo, sollecitata dagli ordini mendicanti (francescani, domenicani, servi di Maria) e orientati verso una religiosità caritatevole e penitenziale, si realizza in Italia l'unione tra poesia e musica dando luogo alla lauda, un nuovo genere di canto religioso extra liturgico, in versi in lingua volgare, e di carattere popolare, destinata alle confraternite laiche che allora si andavano formando. In seguito vennero fondate delle confraternite specifiche, dette dei Laudesi, che avevano, come scopo principale, il canto delle laude, così come altre confraternite eseguivano pubblicamente atti penitenziali (i Flagellanti, i Battuti, etc.). La prima confraternita dei Laudesi operò a Siena, dove fu fondata nel 1267, diffondendo le laude liriche, i cui temi si adeguavano di volta in volta al calendario liturgico. In seguito, un'altra 62
confraternita, quella dei Disciplinati di Perugia, sviluppò la lauda drammatica, che nel XIV secolo portò a creare forme di teatro religioso denominate 'rappresentazioni'. Le confraternite dei Laudesi incrementarono la produzione delle laude dando loro una sempre più precisa struttura letteraria e musicale. Altro scopo dei Laudesi era quello di perfezionare le esecuzioni, per cui si rese necessario provvedere alla compilazione di codici notati. Sono giunti a noi due fonti manoscritte integre, provviste di notazione musicale: il codice Cortonese, e il codice Magliabechiano, che deriva questa denominazione dalla biblioteca fiorentina che lo conservava. Il primo fu redatto presumibilmente prima del 1297, appartenne alla confraternita di Santa Maria delle Laude presso la Chiesa di San Francesco in Cortona, contiene 44 melodie, più due aggiunte, ed è ora conservato nella Biblioteca comunale di Cortona. Il secondo è stato datato tra il 1310 e il decennio 1330-­‐40, appartenne nella prima metà del XIV secolo alla Confraternita di Santa Maria di Firenze, con sede presso gli Agostiniani di Santo Spirito, e poi alla confraternita detta degli Umiliati d'Ognissanti. Contiene 97 laude, di cui 20 sono in comune con il codice Cortonese, ed è ora conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Le strutture musicali delle laude si rifanno a vari schemi melodici. A volte la forma deriva dal repertorio liturgico (sequenza, inni..), ma più spesso le laude sono modellate sullo schema strofico della ballata profana, che, alternando il ritornello alle strofe o stanze, fa pensare a esecuzioni in cui si alternano il solista e il coro. Le melodie delle laude, forse di derivazione arabo-­‐ispana, sono semplici, hanno un andamento sillabico e procedono prevalentemente per gradi congiunti, superando raramente l'intervallo di terza; andamenti melismatici sono però presenti nel codice magliabechiano. Nella loro semplicità, data anche dalla frequente presenza di note ribattute, le melodie rivelano una certa originalità rispetto agli altri repertori monodici medievali e grande capacità espressiva nella resa di testi altrettanto coinvolgenti. La notazione musicale di questi codici è la neumatica quadrata su tetralineo amensurale, per cui anche per le laude si ripropone, in sede di trascrizione, il problema della interpretazione ritmica, questione tuttora aperta per tutta la produzione monodica medievale. 63
13. LA TEORIA MEDIEVALE 13.1 Ars musica e pratica musicale I principali scritti teorico-­‐musicali medievali sono pubblicati, in edizione moderna, nell'opera Scriptores ecclesiastici de musica curata da Martin Gerbert, 3 volumi, S. Blasii, 1784; l'opera di Gerbert fu continuata e completata con una successiva edizione intitolata Scriptores de musica Medii Aevi curata da Edmond de Coussemaker, 4 volumi, Parigi, 1864-­‐76. Allo scopo di renderli accessibili agli studiosi moderni, essi furono ulteriormente ristampati in edizione anastatica. Le opere teoriche medioevali che trattano di musica possono essere distinte in due fondamentali categorie: quelle in cui prevale l'aspetto propriamente teorico e speculativo, e quelle che si occupano anche della pratica musicale. Lo stesso concetto di Musica, e quindi il suo significato, veniva scisso nei due aspetti sopradetti, quello teorico e quello pratico. L'uno veniva definito ars musica, e in questa accezione consisteva in una disciplina teorica, speculativa, erede e continuatrice delle tradizioni della teoria greca, che, insieme all'aritmetica, la geometria e l'astronomia, apparteneva al Quadrivium. Le arti del Quadrivium costituivano, insieme alle arti del Trivium (Grammatica, Retorica e Dialettica), le materie di insegnamento nelle università europee nel Medioevo. Questa collocazione della musica accanto alle altre arti del Quadrivium si spiega in base al fatto che tutte e quattro quelle arti si occupavano dei numeri nelle loro varie applicazioni, e l'ars musica consisteva nello studio dei numeri applicati ai suoni; da questa premessa scaturisce l'impostazione scientifica e filosofica nello studio della teoria musicale, comprensivo dell'acustica, degli intervalli, del ritmo verbale (prosodia e metrica), della modalità. L'altro aspetto riguardava la formazione e la pratica musicale vocale-­‐
strumentale e l'insegnamento del canto liturgico, e trovava il proprio spazio naturale nelle scholae delle cattedrali e dei monasteri. Da questa suddivisione scaturisce anche la differenziazione tra la figura del Musicus, termine con il quale si designava il teorico, il dotto studioso che si occupava di teoria musicale, quindi dell'ars musica, e la figura del Cantor, termine che si riferiva invece al musico pratico. La distinzione fra Musicus e Cantor è anche all'origine del profondo divario, esistente fra le opere dei teorici e la produzione musicale contemporanea, che caratterizza i secoli fin qui trattati; i riferimenti, nelle opere teoriche, alla pratica e alla musica del tempo erano molto scarsi o mancavano del tutto. 64
13.2 I principali teorici della monodia medievale Il primo dei dotti cristiani è S. Agostino (354-­‐430), uno dei quattro grandi dottori della Chiesa Occidentale, il quale, pur essendo in perfetta sintonia con l'impostazione della trattatistica classica, fu anche l'iniziatore di quel lungo processo che portò, nei secoli successivi, al progressivo avvicinamento della teoria alla pratica nella musica occidentale. In molti suoi scritti, infatti, sono presenti accenni alla pratica musicale contemporanea; tuttavia, delle due opere strettamente musicali da lui progettate, l'una sulla metrica del linguaggio e l'altra sugli intervalli, completò solo la prima, intitolata De musica libri sex, che si occupa principalmente dell'aspetto teorico e filosofico della musica. In particolare nel sesto libro, Agostino definisce il suo concetto di numero, che è alla base della musica e ne costituisce la natura profonda, elevandola a scienza divina. I teorici medievali successivi ad Agostino, cioè Boezio (480-­‐524), Cassiodoro (485-­‐580) e sant'Isidoro di Siviglia (559-­‐636), si limitano a riprendere i temi speculativi della teoria classica, senza far nessun accenno alla musica liturgica del loro tempo. Severino Boezio (480-­‐524) funge da mediatore tra la cultura musicale dell'antichità classica, da lui assimilata attraverso i neopitagorici e neoplatonici, e il mondo medievale. La sua opera più importante, concernente la teoria musicale, si intitola De instituzione musica, e fu scritta un secolo dopo S. Agostino (circa 500-­‐507). La teoria boeziana afferma che, nella musica, la percezione sensibile deve sempre essere sottomessa alla ragione, perché solo questa può comprenderne il reale significato. Da qui nasce la netta divisione tra musico ed esecutore: solo il musico possiede gli strumenti intellettuali per giudicare «modi, ritmi e generi delle cantilene». Gli esecutori sono invece dei servi perché letteralmente 'servono' all'esecuzione della musica, senza però apportare alcun elemento razionale. Tutta la trattatistica medievale, almeno fino agli inizi del XIV secolo si uniforma a questa concezione che è strettamente congiunta con l'altra famosa distinzione boeziana della musica in tre specie: mundana, humana, instrumentalis. La prima, prodotta dal rapido movimento dei corpi celesti, non è udibile, e si rifà al concetto di armonia piuttosto che a quello di suono; la humana, che congiunge armoniosamente anima e corpo, può essere udita da chiunque sappia discendere in sé stesso, e possiamo definirla come una sorta di armonia psichica; la terza, quella prodotta dagli 65
strumenti, è il genere inferiore, essendo appannaggio degli strumentisti che sono schiavi ('servi') dell'esecuzione musicale. Questo trattato ebbe grande fortuna durante tutto il Medioevo e improntò la speculazione teorica della musica fino al Rinascimento. Cassiodoro (Squillace, ca.490 -­‐ Vivarium [oggi Stalettì, Catanzaro], ca. 583), con il suo De Institutione Musicae, si affianca all'opera di Boezio nella funzione di tramite fra la teoria antica e il Medioevo. Importanti, per la teoria musicale sono l'Expositio in psalterium (ca. 540) e le Institutiones divinarum et humanarum rerum, dove Cassiodoro tratta la teoria musicale unificando l'opera di Gaudenzio e di Alipio. Pur riprendendo la teoria greca, propone una divisione originale della musica, in tre parti: harmonica, rhythmica, metrica. Scrisse le sue opere anche per scopi pratici come l'educazione al canto dei giovani ammessi nel suo monastero di Vivarium in Calabria. Successivamente Isidoro, vescovo di Siviglia (560ca.-­‐636) pur seguendo nelle sue opere, le celebri Etymologiae e il De ecclesiasticis officiis, i canoni teorici tradizionali, ad esempio l'esposizione della teoria delle sette arti liberali del Trivium e del Quadrivium, procede mantenendo sempre il riferimento alla pratica del canto liturgico; questo emerge ad esempio quando definisce la musica non solo in rapporto alla scientia, ma anche alla peritia. Inoltre egli disquisisce del ritmo nell'ambito della grammatica e della prosodia: se ne deduce che per Isidoro non esistesse alcun rapporto tra il ritmo della melodia ecclesiastica e la quantità del latino classico. D'altro lato una sua frase (già citata nel paragrafo 2.1 di questa trattazione) ci fa capire inequivocabilmente quanto si fosse lontani anche dai primi passi della notazione: «Nisi enim ab homine memoria teneantur, soni pereunt, quia scribi non possunt» (Se non sono fissati nella memoria, i suoni si perdono, perché non possono essere scritti). Infine gli strumenti musicali sono da lui descritti più per doverosa completezza che per reale interesse, quasi che la musica strumentale non esistesse. Dopo Isidoro bisogna attendere il periodo carolingio per incontrare altri teorici. In questi secoli si venne gradualmente a definire e a codificare la struttura tonale delle melodie liturgiche che furono adattate ai canoni dell'oktoechòs bizantino, il sistema degli otto 'modi' usati dalla musica ecclesiastica (cfr. paragrafo 2.14). Questo graduale processo è stato complicato, nel suo percorso, da malintesi terminologici e, di conseguenza, semantici, che ne hanno resa difficile la comprensione. In sintesi, la nomenclatura dei modi medievali è stata applicata utilizzando la terminologia delle scale modali greche, ma, proprio per un'errata interpretazione della teoria musicale greca, è stata 66
fraintesa la nomenclatura, per cui le denominazioni applicate ai modi medievali non coincidono con quelle delle scale modali greche. E' quindi tuttora errata l'abitudine di designare i modi della cultura occidentale con la terminologia greca. I primi teorici che parlano dei modi ecclesiastici riferendosi alla musica contemporanea appartengono all'epoca carolingia. Il primo accenno lo troviamo in un frammento di un trattato anonimo (erroneamente attribuito ad Alcuino, organizzatore degli studi presso la corte di Carlo Magno) dell'inizio del IX secolo: enuncia quattro modi liturgici caratterizzati ognuno dalla nota finale. Successivamente altri due teorici dell'età carolingia, Aureliano di Réome, della prima metà del secolo IX, e Reginone di Prüm (842-­‐915), descrissero le peculiarità modali del canto gregoriano, senza connessioni con la teoria classica. Queste connessioni furono espresse dapprima da Hucbald di Saint-­‐ Amand (840-­‐930), che permise così ai contemporanei di ravvisare quanto avessero in comune con la teoria greca: una scala di sette suoni 'naturali', con l'aggiunta, al bisogno, del si bemolle. Fu invece l'ignoto autore del trattato intitolato Alia musica (titolo derivato dalle parole iniziali), scritto forse nella prima metà del X secolo, che, definendo i modi liturgici come specie di ottava, attribuì ad essi i nomi etnici delle scale modali greche, sbagliando però nell'attribuzione dei nomi ai rispettivi modi. Successivamente poi il tedesco Ermanno il Contratto (1013-­‐ 1054) definì l'assetto dell'octòechos che sarebbe rimasto immutato nella teoria musicale occidentale fino al Rinascimento. 67
14. GUIDO D'AREZZO Fondamentale è l'opera teorica e didattica di Guido d'Arezzo, monaco benedettino attivo nella prima metà dell'XI secolo. Iniziò la sua attività a Pomposa e successivamente si trasferì ad Arezzo dove insegnò teologia e musica nella scuola annessa alla cattedrale. La sua opera tende a codificare e divulgare i precedenti tentativi di dare risoluzione pratica ai problemi legati alla lettura e alla esecuzione musicale. Nel suo Prologus in Antiphonarium espone il suo sistema di notazione pratica che risolve definitivamente il problema della diastemazia con l'adozione di un tetragramma e di chiavi poste all'inizio di esso, nel quale vengono disposti i neumi divenuti ormai quadrati (cfr. il paragrafo 2.11). Nel Micrologus è illustrata invece una notazione alfabetica (cfr. il paragrafo 2.13) idonea a identificare i suoni nella trattazione teorica, e quindi adatta all'insegnamento della sola ars musica. Tuttavia questa notazione alfabetica costituì anche un importante riferimento pratico nella messa a punto, da parte di Guido, del sistema della solmisazione che verrà illustrato di seguito. Nella sistemazione di questa notazione, Guido, come già esposto al paragrafo 2.13, aveva ripreso il tipo di codificazione proposto da Oddone di Cluny, il quale aveva applicato la serie alfabetica di lettere latine da A a G al sistema perfetto greco (formato da due ottave), per cui la lettera A corrispondeva a la; aveva inoltre differenziato graficamente le ottave, usando le sette lettere maiuscole (A-­‐G) per indicare la prima ottava (dei suoni più gravi) e le stesse lettere minuscole (a-­‐g) per la seconda ottava (dei suoni più acuti). (Lo stesso Oddone aveva anche aggiunto al basso la lettera greca gamma maiuscola per designare il suono inferiore al primo la, il sol grave: da qui la denominazione 'gamma' attribuita anche all'intera successione di suoni). Guido d'Arezzo aggiunse delle doppie lettere minuscole, aa, bb, ecc., (oggi a volte sostituite dalla singola lettera minuscola provvista di un esponente) ai successivi suoni acuti di questa scala. A questo proposito si può confrontare lo schema completo della notazione alfabetica posto nel paragrafo 2.13). Due capitoli del Micrologus trattano anche della polifonia, che viene denominata da Guido diaphonia o organum, ed è questo uno dei più antichi riferimenti a una pratica vocale che stava rinnovando il canto liturgico e che avrebbe fatto progredire di molto la struttura e la scrittura musicale, oltre che la prassi esecutiva. Nell'Epistola ad Michaelem de ignoto cantu troviamo invece una originale 68
innovazione di Guido d'Arezzo legata alla sua attività di didatta: l'elaborazione di un sistema pratico, destinato non ai musici, studiosi dell'ars musica, ma ai cantores, i musicisti pratici, per facilitare loro l'intonazione e quindi l' apprendimento delle melodie da cantare. Tale sistema, che per la sua efficacia rimase nella pratica didattica fino al Rinascimento, è denominato solmisazione. Esso si basa sulla memorizzazione, da parte dei cantori, di un esacordo, una scala di sei suoni formata al suo interno dai seguenti intervalli: Tono-­‐Tono-­‐Semitono-­‐
Tono-­‐Tono; il semitono è collocato in posizione centrale. I suoni che compongono questa successione sono derivati dalle note iniziali, con relative sillabe, di ognuno dei sei emistichi (mezzi versi) che compongono la prima strofa dell' inno a San Giovanni, molto famoso all'epoca, il cui testo è il seguente: Ut quaeant laxis / Resonare fibris Mira gestorum / Famuli tuorum, Solve polluti / Labii reatum, Sancte Ioannes. [Affinché possano i tuoi devoti esaltare con la voce le meraviglie delle tue opere, cancella il peccato dall'impuro labbro, o san Giovanni.] 69
L'esacordo guidoniano è costituito dalle sillabe e note iniziali di ogni versetto dell'inno: in esso, l'unico semitono è denominato con le sillabe mi-­‐fa: ut re mi fa sol la = esacordo naturale T T ST T T La nomenclatura odierna delle note è rimasta quella delle sillabe iniziali dei sei emistichi che compongono questo inno, con la differenza che l'ut iniziale fu sostituito dalla sillaba Do (pare ad opera di Giovanni Battista Doni, che, nella prima metà del XVII secolo la trasse dalle prime due lettere del suo cognome), e che venne aggiunto il si (formato dalle iniziali dell'invocazione Sancte Johannes) nel 1482, dal teorico Ramis (Ramos) de Pareja. Questo esacordo si chiamò 'naturale' perché era incentrato sul semitono naturale, formato da due suoni non alterati. La memorizzazione di questo schema melodico imprimeva nella mente dei discepoli cantori la successione intervallare 'naturale' dei toni e semitono, e rendeva automatica l'intonazione di quest'ultimo, l'intervallo più difficile da intonare. Ma i semitoni previsti nell'ambito dei modi diatonici gregoriani erano tre: oltre al mi-­‐fa, c'erano il si bequadro (o naturale)-­‐ do, e il la-­‐si bemolle; dunque era possibile ricavare altri due tipi di esacordi incentrati su questi due semitoni, esacordi in cui rispettivamente il si-­‐do e il la-­‐si bemolle fossero preceduti e seguiti da due toni interi. Partendo dalla nota sol, invece che dalla nota ut, si aveva l'esacordo duro (perché il semitono coinvolge il si bequadro); partendo invece dal fa si aveva l'esacordo molle (perché il semitono coinvolge il si bemolle). In questo modo Guido aveva creato un modello stabile, adatto a qualsiasi contesto modale: sol la si ut re mi = esacordo duro (con il si bequadro); T T ST T T fa sol la sib ut re = esacordo molle (con il si bemolle). T T ST T T Il cantore, memorizzando l'esacordo naturale e le relazioni intervallari in esso contenute, assimilava un modello intonativo applicabile ai diversi contesti modali. L'importante, nell'intonazione, era di denominare sempre, in tutti e tre i casi, l'intervallo di semitono con le sillabe mi-­‐fa, (e, di 70
conseguenza, i toni precedenti Do-­‐Re e Re-­‐Mi, e quelli successivi Fa-­‐Sol e Sol-­‐La), anche in presenza dei semitoni si-­‐do e la-­‐si bemolle. Così le sillabe usate designano un rapporto intervallare e non l'altezza assoluta dei suoni intonati. Prima di intonare le note di una melodia, si doveva quindi avere consapevolezza del suo ambito melodico e dunque individuare il semitono, per poi, intonandolo, chiamarlo comunque mi-­‐fa. Mutazione era il termine che designava il passaggio da un esacordo all'altro. La denominazione di solmisazione riferito a questo sistema deriva dal fatto che nella mutazione, quindi nel passaggio dall'esacordo naturale a quello molle, si passa dal sol al mi (solmisazione-­‐solmifazione). Questo meccanismo mnemonico aiutava i cantori ad avere una sicura intonazione nella lettuta dei canti, e forniva loro maggiore consapevolezza musicale. Applicato alla scala-­‐tipo, cioé all'estensione dello spazio musicale in cui i compositori medievali operavano, (che lo stesso Guido d'Arezzo aveva contribuito a sistemare nella sua nomenclatura, dal sol grave identificato con la lettera greca Gamma maiuscola, fino al mi'), ogni nota veniva denominata, oltre che dalla sua lettera, anche dalle sillabe relative alla posizione occupata all'interno dell'esacordo o degli esacordi di cui faceva parte per sovrapposizione. Il seguente schema riporta, in fase definitiva, il sistema degli esacordi sovrapposti applicati alla scala-­‐tipo (la cosiddetta gamma dei suoni): 71
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Proprio a causa della parziale sovrapposizione di questi esacordi, uno stesso suono, per esempio a (= la), poteva essere, in diversi esacordi, rispettivamente la (nell'esacordo naturale), mi (nell'esacordo molle) e re (nell'esacordo duro). Così, il nome completo di un suono nella intera successione della scala-­‐
tipo, si ottiene partendo dalla seconda linea da sinistra dello schema dell'ES. 13, che riporta le lettere della notazione alfabetica, e, proseguendo verso destra, enunciando progressivamente le differenti denominazioni che lo stesso suono assume all'interno dei diversi esacordi. Nell'esempio appena citato, il nome completo del suono espresso dalla lettera a è: a la mi re. Un ulteriore sussidio didattico alla solmisazione, era la famosa cosiddetta 'mano guidoniana', erroneamente attribuita a Guido d'Arezzo, che ritroviamo presente in quasi tutti i trattati musicali del Medioevo e del Rinascimento. Ogni falange della mano sinistra aperta indicava uno dei venti gradi che formavano la scala-­‐tipo suesposta. Le altre note come il fa diesis o il mi bemolle ne erano escluse. Purtroppo i particolari riguardanti la sua applicazione alla pratica musicale non sono stati tramandati dalle fonti in maniera uniforme. Allo scopo di chiarire ulteriormente il meccanismo della solmisazione si riporta qui di seguito la spiegazione dello stesso Guido contenuta nella sua Epistola ad Micaelem de ignoto cantu: Al beatissimo e amatissimo fratello Michele, Guido abbattuto e pur irrobustito tra molte vicissitudini. O i tempi sono difficili o sono oscure le disposizioni del divino volere, poiché la veracità è calpestata dalla falsità e la carità dall'invidia, che raramente abbandona il nostro Ordine. Con tali mezzi la malvagità degli Israeliti è punita dalla congiura dei Filistei, perché l'anima che confida in se stessa non perisca qualora vediamo verificarsi tutto ciò che vogliamo. Infatti le nostre azioni sono veramente buone quando attribuiamo al Creatore tutto ciò che siamo capaci di realizzare. […] Io pertanto, guidato dalla carità ispiratami da Dio, con la massimo premura e sollecitudine, non solo a te ma anche a quanti altri mi fu possibile, ho messo a disposizione il dono datomi da Dio pur essendone del tutto indegno; così che i posteri, imparando con grande facilità i canti ecclesiastici che io e tutti i miei predecessori imparammo con enorme fatica, implorino l'eterna salvezza per me, per te e per gli altri miei aiutanti, ci sia concessa per misericordia di Dio la remissione dei peccati, o almeno offrano per noi una breve preghiera in cambio di così grande beneficio. Infatti, se intercedono devotamente presso Dio a favore dei loro maestri coloro che fino ad oggi poterono a stento in un decennio acquisire una imperfetta conoscenza del canto, che cosa pensi che sarà fatto per i nostri aiutanti e per noi che riusciamo a fare un perfetto cantore nello spazio d'un anno o al massimo di due? E qualora l'abituale miseria degli uomini si mostri ingrata a coaì grandi benefici, forse che il giusto Dio non ci darà la ricompensa per la nostra fatica? O forse, poiché Dio fa tutto e noi senza di lui non possiamo nulla, non avremo alcun premio? Non può essere. Anche l'Apostolo infatti, pur essendo per grazia di Dio quello che è, scrive: «Ho combattuto la buona battaglia, ho portato a compimento la corsa, ho serbato la fede: ora mi aspetta il premio della vittoria» [2 Tim. 4,7]. Perciò con sicura speranza nella ricompensa, dedichiamoci a completare un'opera di così grande utilità; e poiché dopo molte tempeste è tornato il sereno, riprendiamo felicemente il cammino. 73
Tuttavia, poiché nella tua condizione di prigioniero diffidi della tua libertà, ti esporrò l'ordine dei fatti. Il papa Giovanni [XIX], che ora governa la chiesa di Roma, udendo la fama della nostra scuola e meravigliandosi che con i nostri Antifonari i ragazzi riescono a cantare delle melodie mai prima ascoltate, con tre ambascerie mi invitò presso di sé. Mi recai dunque a Roma con il reverendo abate dom Grunwald e con dom Pietro preposito dei canonici della chiesa di Arezzo, uomo coltissimo per i tempi nostri. Il Pontefice si rallegrò assai del mio arrivo, mi parlò a lungo e mi pose vari quesiti; e sfogliando ripetutamente il nostro Antifonario come se fosse un miracolo e riflettendo sulle regole scritte all'inizio, non cambiò argomento o non si mosse dal luogo ove sedeva finché non realizzò il suo desiderio imparando a cantare un versetto che non aveva mai udito, così da riconoscere rapidamente vero per sé stesso ciò che a mala pena credeva negli altri. Che debbo dirti di più? Per poca salute non potevo fermarmi a Roma neppure un poco, dato che il caldo estivo mi minacciava fino a morire in quei luoghi prossimi al mare e paludosi. Infine ci accordammo che io vi sarei ritornato nel successivo inverno per esporre la nostra opera al Pontefice che ne aveva avuto un saggio e al suo clero. Dopo pochi giorni, mosso dal desiderio, feci visita a dom Guido abate di Pomposa padre vostro e mio, uomo per virtù e saggezza carissimo a Dio e agli uomini e parte dell'anima mia. Egli, uomo com'è di acuto ingegno, appena vide il nostro Antifonario lo approvò immediatamente e ci credette e si pentì di aver prestato fede un tempo ai nostri rivali e mi supplicò di andare a Pomposa, sostenendo che io come monaco dovevo preferire i monasteri ai vescovadi, Pomposa prima d'ogni altro, che per grazia di Dio e per l'attività del reverendo Guido è primo ora in Italia quanto allo studio. Piegato dunque dalle preghiere di tanto padre e accogliendo le sue indicazioni, desidero innanzi tutto dare splendore con quest'opera a un così famoso monastero e farmi conoscere dai monaci come monaco, tanto più che, essendo quasi tutti i vescovi condannati per simonia, non vorrei avere a che fare con loro. Poiché tuttavia ora non posso venire, ti mando intanto un'ottima sintesi del metodo che conduce alla scoperta di un canto sconosciuto: un dono da poco elargitoci da Dio e rivelatosi utilissimo alla pratica. […]. Per imparare un canto sconosciuto, o beatissimo fratello, la regola prima e la più comune è di suonare sul monocordo le lettere (note) appartenenti a ciascun neuma: ascoltandole dallo strumento le potrai imparare come da un maestro. Ma questa regola è buona per i fanciulli e, se è valida anche per chi comincia, è pessima per coloro che hanno fatto qualche progresso. Ho visto acutissimi filosofi che per lo studio di quest'arte cercarono 74
maestri non solo Italici, ma anche Galli e Germani e perfino Greci, ma poiché si affidarono solo a questo metodo, non riuscirono mai a diventare non dico musici, ma nemmeno cantori, né sarebbero capaci di imitare i nostri fanciulli salmisti. Per imparare una melodia sconosciuta non dobbiamo quindi ricorrere sempre alla voce d'un uomo o al suono d'uno strumento, così da sembrare incapaci di avanzare senza una guida come i ciechi. Dobbiamo invece fissare nel profondo della memoria le differenze e le proprietà distintive di ciascun suono e di ogni discesa ed elevazione della voce. Avrai a disposizione un facilissimo e sperimentato metodo per imparare una melodia nuova se c'è qualcuno che sappia insegnare non solo con lo scritto, ma meglio a voce, con una conversazione familiare, secondo la nostra abitudine. Infatti, quando cominciai a insegnare questo metodo ai ragazzi, prima di tre giorni alcuni di essi riuscirono a cantare facilmente melodie sconosciute, cosa che con altri sistemi non poteva verificarsi neppure in molte settimane. Se vuoi dunque fissare nella memoria un suono o un neuma in modo che quando tu vuoi, in qualunque canto noto o sconosciuto, esso ti possa immediatamente venire in mente (nel senso che riesci a cantarlo subito senza incertezze), devi individuare proprio quel suono o quel neuma all'inizio d'una melodia che ti sia notissima; inoltre per ritenere nella mente ogni suono, devi tenere pronta la frase melodica che comincia con la medesima nota. Un esempio è dato dalla melodia seguente, di cui mi servo da principio alla fine per l'insegnamento ai ragazzi: C D F DE D D D C D E E Ut que-­‐ ant la-­‐ xis re-­‐ so-­‐ na-­‐ re fi-­‐ bris EFG E D EC D F G a G FED D Mi-­‐ ra ge-­‐ sto-­‐ rum fa-­‐ mu-­‐ li tu-­‐ o-­‐ rum, GaG FE F G D a G a F Ga a Sol-­‐ ve pol-­‐ lu-­‐ ti la-­‐ bi-­‐ i re-­‐ a-­‐ tum, GF ED C E D San-­‐ cte Jo-­‐ an-­‐ nes. Vedi come questa melodia comincia nelle sue sei frasi con suoni diversi? Pertanto, se con l'esercizio riuscirai a riconoscere l'inizio di ciascuna frase in modo da cantare subito senza esitazioni una qualunque di esse, potrai 75
facilmente intonare secondo le loro proprietà quei sei suoni dovunque li incontrerai. Anche quando ascolti un neuma senza vederlo scritto, osserva quale di queste frasi si adatti meglio alla nota finale del neuma, così che la nota finale del neuma e quella iniziale della frase siano all'unisono. Sta sicuro che il neuma termina con quella nota con cui comincia la frase ad esso corrispondente. Se invece cominci a cantare una melodia sconosciuta posta per iscritto, bisogna che tu faccia molta attenzione a terminare correttamente ogni neuma, così che la sua nota finale si colleghi bene con la nota iniziale di quella frase che comincia con la stessa nota con cui il neuma finisce. Questa regola ti sarà di grandissimo aiuto per cantare con esattezza melodie mai udite appena tu le vedi scritte e per distinguere bene quelle che ascolti senza vederle scritte, allo scopo dio scriverle speditamente. In seguito applicai delle brevissime melodie alle singole note: se tu ne guardi attentamente le frasi, ti sarà gradito scoprire all'inizio delle stesse frasi in successione ordinata tutti i movimenti di discesa e di ascesa propri di ciascuna nota. Se poi riuscirai ad affrontare l'intonazione, a tua scelta, di ogni frase dell'una o dell'altra melodia, ciò significa che con una brevissima e facile regola hai appreso le varietà molteplici e assai difficili di tutti i neumi. Tutti ciò può essere meglio insegnato con un semplice colloquio, mentre a fatica riusciamo in qualche modo a spiegarlo per lettera. Come per ogni scrittura si hanno 24 lettere, così per ogni canto abbiamo solo sette note. Infatti, come vi sono sette giorni nella settimana, così vi sono sette suoni nella musica. Le altre note che si aggiungono alle sette, sono le medesime e suonano nello stesso modo, tranne che doppiano il suono più in alto. Perciò sette le chiamiamo gravi e sette acute. Le sette lettere non si scrivono due volte uguali, ma si distinguono così: Chi poi desidera farsi un monocordo con il quale discernere la qualità, la quantità, le somiglianze e le differenze dei suoni o dei toni, si sforzi di capire le pochissime regole che qui indichiamo […] Queste poche nozioni scritte in versi e in prosa come prologo all'Antifonario, riguardanti la forma dei modi e i neumi, ti apriranno in breve e forse in misura sufficiente la parte dell'Ars Musica. 76
Chi invece vuol saperne di più, cerchi il nostro libretto intitolato Micrologus e legga con attenzione anche l'Enchiridion composto in modo eccellente dal reverendo abate Odone [di Cluny]. Dal suo esempio mi sono allontanato soltanto nella forma delle note, perché ho voluto adeguarmi al livello dei ragazzi, non seguendo in questo Boezio, il cui trattato non è utile ai cantori, ma solo ai filosofi. Tratto da G. CATTIN, La monodia nel Medioevo, Torino, EdT, 1991, pp. 227-­‐
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