THULE ITALIA
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THULE ITALIA
La Rivista di THULE ITALIA Percorsi di cultura N°3 - LA TERRA Trimestrale, anno XI Progetto grafico e impaginazione Giacomo Tognacci Immagine di copertina Veronica Piu e-mail [email protected] SOMMARIO Terra: madre e vita di Monica Mainardi pag. 5 La materialità del reale di Pasquale Piraino pag. 31 L’importanza della terra quale mito politico e nella geopolitica contemporanea di Gabriele Gruppo pag. 89 Agricoltura organica, Blut und Boden e socialismo contadino nella riflessione di Richard Walther Darré di Maurizio Rossi pag. 116 Le opere del Demiurgo: la Terra di Stefania Labruzzo pag. 129 «Terra in cui sono nato, Terra povera e nuda, Il tuo suolo è pietroso Ed i tuoi campi ingrati; Quando vi spingo La mia vecchia carriola, Sento il tuo dolce cuore Battere fra le mie braccia. Laggiù è il mio paese! Terra in cui sono nato, Terra povera e nuda, Le tue cupe foreste Piangono nel vento...» Otto Rahn, La corte di Lucifero, SEB, 1989, pag. 171 «Se anche un giorno Dio volesse Per me, alla fine, una caduta mortale, Non per questo rinuncerei a intraprendere Con lo stesso sangue freddo e la stessa serenità Quell’ultimo viaggio in montagna. Che il ghiaccio e la pietra Schiantino tanti nostri camerati: Non è questo a darci dolore: Noi siamo i prìncipi di questo mondo E vogliamo restare prìncipi nell’Aldilà!» Otto Rahn, La corte di Lucifero, SEB, 1989, pag 159 Terra: Madre e Vita di Monica Mainardi «La Terra per la sua estensione, la sua solidità, la varietà dei suoi rilievi e della sua vegetazione forma un’unità cosmica viva e attiva popolata di forze e satura di sacro». (Mircea Eliade) La terra: la Madre, la Vita. Con i suoi tre regni – minerale, vegetale e animale – la terra è considerata da molte tradizioni il più sacro e divino tra gli elementi, in quanto simboleggia la materia primordiale. È materia pura (contrapposta allo spirito – che è l’aria, il cielo). La terra si oppone simbolicamente al cielo/aria come “principio passivo” al “principio attivo”; aspetto femminile all’aspetto maschile della manifestazione; oscurità alla luce; yin allo yang; “tamas” – ossia la tendenza discendente – a “sattva” – la tendenza discendente. Secondo lo Yi ching rappresenta l’esagramma “k’un”, la perfezione passiva che riceve l’azione del principio attivo “ch’ien”. Essa sostiene, mentre il cielo copre. In molte raffigurazioni antiche è personificata solitamente da una Dea Madre (Gaia, in Grecia; Tellus, in area latina; Nerthus, in area tedesca; Papa: in Polinesia), più di rado da un uomo (Geb, in Egitto). Le “nozze sacre” (Hieros gamos) fra cielo e terra sono oggetto di molti miti e riti arcaici, in particolare nei culti della fertilità e nei Misteri della dea Demetra. Nella concezione cosmica della Cina, la terra è un quadrato – paragonato alla cassetta quadrangolare di un carro – e il cielo è una volta circolare a baldacchino. Ai punti cardinali della terra ci sono spesso quattro pilastri o alberi, protetti da custodi sovrannaturali – per esempio, presso i Maya nello Yucatan quattro alberi Ceiba o Kapok (Yaxché, Ceiba pentandra) – e nel sacro centro un asse del mondo o un albero cosmico. Le quattro regioni del mondo (o meglio cinque, visto 6 Rivista Thule Italia che il centro è un luogo sacro a se stante) vengono associate spesso a determinati colori. Come punto cardinale essa simboleggia il Nord; come stagione è l’inverno. Quando la terra trema ciò è sempre visto come un manifestarsi di forze divine ostili agli uomini, che mettono in pericolo l’ordine cosmico e devono essere placate. Tutti gli esseri viventi nascono da lei perché è femmina e madre, ma è totalmente sottomessa al principio attivo del cielo. Rappresenta il grembo indispensabile senza il quale nulla può essere prodotto o riportato in vita: la terra è l’unica vera casa dell’uomo. Le sue virtù sono dolcezza e sottomissione, fermezza pacata e duratura. Oltre che l’umiltà – da cui discende etimologicamente l’“humus”, verso cui essa declina e di cui è fatto l’uomo. Essa è materna e al contempo nutriente, ma anche pratica, concreta, solida e potente. Fertile e creativa, nutriente e rigogliosa, racchiude in sé le caratteristiche del ventre materno che accoglie la vita e la nutre, e ha come sue peculiari qualità la costanza, la pazienza e la forza. Essa rappresenta il luogo cosmico in cui si svolge la vita umana, ed è anche ciò che permette la produzione dei mezzi di sussistenza (la terra fertile). La terra è la sostanza universale, Prakriti, il caos primordiale, e, secondo la Genesi, la materia prima separata dalle acque; essa è la materia con cui il Creatore ha modellato l’uomo. Essa è anche la vergine penetrata dalla vanga o dall’aratro, fecondata dalla pioggia e dal sangue, che sono il seme del Cielo. La terra è una matrice che concepisce le sorgenti, i minerali e i metalli. La terra rappresenta la funzione materna: Tellus Mater. Giobbe esclama, prostrandosi al suolo: «Nudo uscii dal ventre di mia madre e nudo là ritornerò» (1.21), assimilando la terra al grembo materno. Anche nella religione vedica essa simboleggia la madre, sorgente dell’essere e della vita, protettrice contro ogni forma di annientamento. Secondo i riti funerari vedici, vengono recitate alcune frasi nel momento in cui l’urna cineraria viene messa nella terra: «Va sotto questa Terra; tua madre, dai vasti soggiorni, dai buoni favori! Morbida come lana a chi seppe dare, che essa ti preservi dal Nulla! Forma una volta per lui e non annientarlo; ricevilo, Terra, accoglilo! Coprilo con un lembo della tua veste come una madre che protegge il figlio» (Rig Veda, Grhyasutra, 4, 1). Alcune tribù africane hanno come consuetudine quella di mangiare la terra, quale simbolo di identificazione. Il sacrificatore assaggia la terra; La terra 7 la donna incinta la mangia. Dalla terra mangiata nasce il fuoco. Si dice allora che «il ventre si accende». La Terra è il simbolo della vita, di tutta la vita. Naturalmente anche gli altri elementi – aria, acqua e fuoco – sono elementi molto importanti, ma la Terra è il legante di tutti. La terra incarna il concetto di casa, di appartenenza, rappresenta la saggezza tribale e ancestrale, semplice ma non semplicistica, profonda eppure così luminosa e a portata di mano. Paragonata alla madre, la terra è simbolo di fecondità e di rigenerazione. «Essa partorisce tutti gli esseri, li nutre, e poi ne riceve nuovamente il germe fecondo» (Eschilo, Coefore, 127-128). Il mito narra di un’umanità nata dai sassi (le “ossa della terra”) – un mito diffuso in aree assolutamente distanti tra loro, quali, per esempio, la Grecia antica e il Perù incaico. Secondo la teogonia di Esiodo, la terra (Gaia) partorì anche tutti gli dèi. Gli dèi imitarono questa prima ierogamia, poi gli uomini, gli animali; la terra si rivelò quindi all’origine di ogni vita, e così le fu dato il nome di Grande Madre. Secondo le culture matriarcali, essa è il principio femminile per eccellenza sottoposto a una continua fecondazione da parte del fuoco (interno ed esterno), dell’acqua, delle influenze astrali. Nelle sue viscere, accoglie e trasforma il seme del dio – l’elemento maschile –, il seme al quale la madre – l’elemento femminile – dà potenza. La terra è quindi dotata di potenza magica. Materia contrapposta allo spirito, ma contemporaneamente indispensabile all’equilibrio dell’universo. Essa nutre l’uomo fin dalla sua comparsa, è umida e fertile, e sono queste caratteristiche che l’hanno fatta identificare dagli uomini come elemento femminile. Nella stragrande maggioranza delle tradizioni religiose, nelle cosmogonie, in essa viene posto il germe iniziale delle cose – di tutte le cose –, che nel suo interno sono portate a maturazione: il germe dei metalli (il mercurio vivo, padre di tutti i metalli), nel suo ricettacolo sotterraneo può maturare fino alla perfezione (l’oro). Agrippa affermava che la terra racchiude le semenze d’ogni cosa e contiene in sé tutte le virtù seminali, il che l’ha fatta chiamare animale, vegetale e minerale. È suscettibile d’ogni tipo di fecondità, nonché il punto di partenza d’un accrescimento illimitato d’ogni cosa. Purché le sia concesso di ristorare le sue forze e di restare esposta all’aria, non tarda a ridiventare fertile e feconda. Essa è quindi l’utero necessario allo sviluppo della vita, ma è anche 8 Rivista Thule Italia fredda tomba, che raccoglie i resti dei suoi figli. Essa è inizio e fine. Infatti, è associata alla morte, alla rinascita, alla sepoltura. Nella Bibbia è scritto che l’uomo viene dalla Terra e alla Terra ritornerà come polvere, simbolo della transitorietà di tutte le trasformazioni compresa quella finale di tutti gli esseri viventi. L’essere umano tende a rivedere nei riti funerari il “ritorno al ventre della madre”, sin dall’antichità. Gli uomini di Neanderthal seppellivano i morti in posizione fetale, con le gambe e le braccia raccolte al petto. In questo modo si credeva che l’uomo potesse ripercorrere la sua vita al contrario, trovando nel buio abbraccio della terra il calore stesso che aveva conosciuto nell’utero. E nell’antica simbologia celtica, la terra è una forza unificante, tant’è che quando un uomo/donna trapassava, lui/lei non si sarebbe riunito con il proprio clan celeste a meno che l’elemento terra (preferibilmente dal loro luogo di nascita) non avesse toccato i loro corpi defunti. Il suolo natio era quindi necessario per coprire i resti fisici del morto, e questo faceva sì che s’intraprendessero dei viaggi dell’ultimo riposo per riportare i defunti nelle loro terre (quando possibile) e dare loro in codesto modo un eterno riposo. La terra consacra dunque ciò che sostiene, riunisce e ristabilisce tutte le cose che hanno bisogno del suo effetto equilibrante. La terra, dimora e luogo d’origine dell’umanità, è stata spesso venerata come un elemento simbolico, dotato di una propria valenza spirituale, da diverse tradizioni di pensiero. Nella ritualistica sciamanica, strettamente legata al simbolismo della terra è la cosiddetta “capanna del sudore”: si tratta di una costruzione circolare in intelaiatura di rami intrecciati a cupola al cui centro viene scavata una grossa buca che ospiterà delle pietre incandescenti aggiunte man mano da un addetto al fuoco, che si premurerà di mantenerle a una temperatura molto elevata. I partecipanti al rito, dopo una breve purificazione, s’introducono completamente nudi all’interno della capanna, rivivendo una simbolica gestazione e il periodo passato all’interno del ventre materno. Questo rito è palesemente legato alla terra, al buio e al calore della sicurezza; e richiama le divinità ctonie della terra, della morte e della rinascita. Nelle attività magiche, la terra ha sempre “governato” tutti gli incantesimi e i rituali legati al lavoro, agli affari, alla stabilità e alla fertilità: gli aborigeni australiani professano un rito per il quale gli uomini adulti si stendono sulla terra e la fecondano con il loro seme, in segno di ringraziamento per i frutti che costantemente essa fornisce loro per vivere. La terra 9 Nella tradizione magica pagana, un rituale legato a questo elemento poteva essere quello semplice di seppellire un oggetto simbolico di un determinato proprio bisogno o desiderio che si voleva si concretizzasse; o ancora gesti semplici e umili, come quello di tracciare simboli e disegni nella polvere. Così come accadeva con l’acqua, si credeva che la terra fosse in grado di trasportare l’informazione e accogliere e conservare in sé le preghiere e i bisogni di chi la onorava nei rituali. Ad arricchire il significato simbolico e iniziatico della terra contribuiscono poi le forze naturali che fanno parte di essa. I principali elementi esoterici della terra sono: la caverna, la valle, l’erba, la montagna, la foresta, gli alberi e i rami. La caverna consente l’accesso nelle viscere della terra ed è quindi un passaggio per l’“oltremondo”. Solitamente, le caverne sono luoghi oscuri e talvolta pericolosi, dove la luce del sole non giunge e quindi più a contatto con le potenze telluriche. Sono altresì popolate dai Nani, custodi delle ricchezze della Terra. Nella sua funzione di matrice la caverna è usata nei riti iniziatici di passaggio, dall’oscurità alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza. L’immagine della valle richiama l’utero della terra, ricettacolo delle forze celesti. Rappresenta dunque un luogo di fecondità e di trasformazione. L’erba e la sua crescita esprimono l’attività delle forze vegetative della terra che vengono raccolte e rese disponibili a fini medicamentosi e terapeutici, oltre che magico-rituali. La montagna è la manifestazione dell’immobilità e dell’immutabilità: è un luogo che favorisce la calma e la contemplazione. Inoltre, è un luogo altamente sacro, dato che nelle tradizioni mitologiche è abituale dimora degli dèi. Simbolicamente, rappresenta l’ascensione spirituale. Infatti, maggiore è l’altezza della montagna, maggiore è la vicinanza ai cieli. La foresta è luogo sacro e iniziatico per eccellenza. Legati a boschi e foreste esistevano culti veri e propri, a tal punto che le leggi cristiane nell’Uppland svedese ne proibirono il credo e le pratiche. Essa mostra la natura nella sua straordinaria ricchezza, ma anche nella sua terribile ostilità, in quanto è un luogo oscuro dove non penetra la luce. Come aspetto iniziatico, la foresta è un luogo nel quale ci si ritira e ci si apparta per incontrare spiriti e dèi, ma anche per un periodo di rigenerazione, in attesa di entrare nel nuovo ciclo di vita, dopo aver superato 10 Rivista Thule Italia le difficoltà interiori. Quindi la foresta rappresenta in modo allegorico l’accesso alla conoscenza, alla verità e ai misteri, che rendono l’iniziato partecipe di una saggezza durevole nel tempo. Ma è anche fonte di vita e luogo di protezione, così come si allude nel mito nordico nel quale Lif e Lifthrasir trovano rifugio durante il Crepuscolo degli Dèi, nutrendosi di rugiada in attesa dell’inizio del nuovo ciclo. L’albero partecipa ai tre strati che costituiscono l’universo: il “Mondo di Sotto”, rappresentato dalle radici che sprofondano nella terra; il “Mondo di Mezzo”, raffigurato dal tronco; il “Mondo di Sopra”, quello degli dèi, con i rami che elevano verso il cielo. Correlato strettamente con la concezione del cosmo, l’albero è l’immagine dell’ascesa verticale verso l’Alto e, come tale, è un elemento fondamentale e di grandissima importanza nelle civiltà antiche. L’albero assume in sé i concetti di saggezza, sacralità e potenza divina, oltre che mezzo di trasporto attraverso gli stati dell’essere e del cosmo. Nei miti nordici, il guerriero o l’eroe vengono spesso paragonati a un albero, a simboleggiare la nobiltà dell’essere. I rami nutriti dalla linfa che sale dalle radici, con i loro frutti, possiedono la forza vitale dell’albero stesso. Nel Carme di Sigrdrifa, all’interno dell’Edda poetica, ai rami è connessa la “medicina delle rune”, una scienza che verrà poi insegnata dalla Valkiria Sigrdrifa (solitamente identificata con Brunilde) a Sigfrido. E a questo proposito, si noti che spesso nella tradizione del Nord, così come in molte altre tradizioni antiche, la Conoscenza viene trasmessa dall’elemento femminile a colui che supera le prove iniziatiche che gli vengono poste dinnanzi. La terra tra filosofia e mito La terra è uno dei quattro elementi della filosofia greca antica. Essa è comunemente associata alle qualità della praticità, dell’approccio materialista e della moderazione. Ed era attinente anche agli aspetti fisici e sensuali della vita. Con Empedocle di Agrigento (495 - 435 a.C.), la terra divenne uno dei quattro elementi classici, insieme al fuoco, all’aria e all’acqua. Elementi che Empedocle chiamava “radici”. Platone (427-347 a.C.) accolse nella sua filosofia la dottrina dei quattro elementi di Empedocle e nel Timeo, il suo dialogo cosmologico, associò la terra al cubo – che è formato da sei facce quadrate – e la collocò, all’interno dei cosiddetti “solidi platonici”, tra il fuoco (costituito da quattro lati triangolari) La terra 11 e l’aria (rappresentata da otto facce triangolari). Per Aristotele (384 - 322 a.C.) – che fornì nella sua Fisica una diversa spiegazione per i quattro elementi, basata su coppie complementari, disposte concentricamente intorno al centro dell’universo, a formare la sfera sublunare – la terra è sia fredda sia secca, e fra le “sfere elementari” essa occupa un posto intermedio tra il fuoco e l’acqua. Ai suoi antipodi, è posta l’aria. Alchemicamente, l’elemento Terra viene invece indicato con un triangolo equilatero con vertice verso il basso e tagliato da una linea orizzontale, a indicare quindi che non è un elemento dinamico. Indica la riflessione. Tant’è che per i filosofi mistici la terra era simbolo di prudenza, che caratterizza la disposizione particolare dell’individuo di essere pronto e docile a ricevere tutto ciò che è necessario all’illuminazione. Nell’Opera Alchemica, all’elemento terra corrisponde la prima fase, ossia la “nigredo”, che è correlata alla materia, al nero, ed è assimilabile al piombo, all’uomo materiale Le corrispondenze della terra La Madre Terra da un testo alchemico del nel regno animale sono svariate. XVII secolo. In molte culture la Terra poggia sulle spalle o sul dorso di alcuni animali: in Egitto, su uno scarabeo; nel sud-est dell’Asia, sull’epico elefante; in Giappone, su un pesce gigante; nel Sudamerica e Centroamerica, su un serpente; in India, su una tartaruga. E i terremoti venivano spiegati tramite il movimento improvviso di questi animali geofori. E alla terra sono associati vari animali. Tutte le creature con gli zoccoli, come i cervi, i cavalli, i bisonti, i tori, i buoi, oppure con possenti zampe ungulate, come gli orsi e i lupi, sono sotto la sua tutela. E connessi a essa sono anche tutti gli animali che strisciano, primi tra tutti i serpenti, e i ragni. Nel regno vegetale le correlazioni con l’elemento terra sono invece con il frassino, la quercia, il pino, il biancospino, il grano, l’avena, il riso, l’erba medica, l’orzo, il cotone, la serpentina, l’artemisia, il vetiver. La Terra è stata spesso personificata come una divinità, il più delle 12 Rivista Thule Italia volte – anche se non esclusivamente – da una divinità femminile (probabilmente in quanto considerata generatrice di vita). E a essa sono correlati vari miti. Secondo la mitologia greca, Prometeo plasmò – su ordine di Zeus – i primi uomini dalla terra, a partire da un composto fangoso, animandoli poi con il fuoco divino. Esattamente come dal fango la Genesi racconta vengono modellati da Dio il primo uomo e anche la prima donna. La Grande Madre Ma parlando del rapporto terra-divinità non si può non partire dalla Grande Madre, ossia la divinità femminile primordiale, nella quale vengono incarnati degli aspetti fondamentali della vita umana – la fertilità e la generazione della vita, la terra nella sua capacità di produrre cibo e acqua, e l’aspetto peculiare di mediazione tra il divino e l’umano – e che è presente in quasi tutte le forme cultuali e le mitologie conosciute. Il culto della Dea Madre risale a tempi antichissimi: al Neolitico (dal 7000 al 3500 a.C.) e, forse, addirittura al PaLa Venere di Willendorf leolitico, se si interpretano in questo senso le (Paleolitico, 24.000–22.000 A.C.). tante statuette di donne panciute e con grandi seni che sono state ritrovate in tutta Europa. A queste figure, che vengono definite “steatopigie” (cioè “dalle grosse natiche”, dal greco στεας, “grasso”, e πυγε, “natica”), spesso è stato dato il nome di “Veneri”, proprio in connessione con il culto della dea. Una delle più celebri è certamente la Venere di Willendorf, risalente a 25.000-26.000 anni fa e rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy in un sito archeologico risalente al Paleolitico, presso Willendorf, in Austria (e oggi conservata al Naturhistorisches Museum di Vienna). Con l’evolversi della civiltà, gli attributi e le caratteristiche che inizialmente erano raggruppati in una sola divinità femminile, cominciarono a essere specializzati e moltiplicati attraverso divinità distinte. Così abbiamo alcune dee più tipicamente rappresentative dell’amore di tipo sessuale (come Ishtar, Astarthe, Afrodite o Venere), altre più legate alla fertilità (come Ecate), altre ancora legate alla caccia (Artemide, Diana), La terra 13 e infine associate alla prosperità dei campi e ai cicli delle stagioni (come Demetra, Cerere, Persefone, Proserpina). Persefone e Proserpina, al pari della romana Bona Dea e dell’etrusca Mater Matuta, sono anche collegate all’oltretomba e alla morte: questo perché il ciclo di stagioni è collegato a quello della morte e della rinascita, cioè il seme ha bisogno di morire per generare una nuova pianta, che al termine del ciclo darà altri semi. Ecco perché la dea incarna spesso un aspetto notturno e lunare, che in alcune culture è stato travisato e Diana cacciatrice, di Guillaume reso come un aspetto negativo e maleSeignac (1870-1924). fico. In realtà, esso non rappresenta altro che un principio fondamentale della natura, e tutti i contadini sanno che il raccolto sarà migliore se piantano i semi nel periodo in cui la luna è in fase di plenilunio. Il culto della Grande Madre ha un carattere fortemente tellurico. La terra, infatti, incarna da sempre l’aspetto femminile e sacro della divinità, perché genera le piante, produce i frutti e permette alla vita di perpetuarsi. E poiché la madre è anche “grembo”, molti dei culti tributati alla Grande Madre si svolgevano in cavità sotterranee (ipogei). E la divinità era strettamente connessa con le energie telluriche sotterranee: uno dei tanti simboli utilizzato per indicare queste correnti telluriche è quello del serpente, ed è per questo motivo che in molte raffigurazioni delle dee madri compare questo animale. In quasi tutte le civiltà preistoriche d’Europa vi erano numerosi boschi sacri consacrati alla Grande Madre. Per i Latini era sacro il bosco di Nemi, chiamato Nemus Dianae, o più semplicemente Nemus (il termine latino “Nemus”, sottintende il luogo protetto dove avvenivano riunioni collettive tra uomini e sacerdoti che rappresentavano gli dèi). E per i Celti il bosco sacro era il “nemeo”, termine che deriva senza alcun dubbio dalla radice “nemus”, a dimostrazione che il culto degli alberi e dei boschi sacri era davvero diffuso capillarmente in tutta l’Europa. Questi boschi sacri sono stati certamente i più antichi santuari, i primi veri templi dedicati alla Dea Madre, fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo e che egli cercava in tutti i modi di ingraziarsi attraverso 14 Rivista Thule Italia rituali magici durante i quali la terra veniva ingerita o utilizzata per mascherarsi o per tingere il corpo. L’uso di consumare sacralmente un tipo di pane composto di argilla come corpo di un dio era certamente praticato nella Sardegna antica; forse in origine lo si impastava nella forma di un idolo e veniva mangiato durante celebrazioni che avevano componenti lunari come la fecondità e la fertilità. Un altro aspetto importante del culto della Grande Madre è quello della fertilità. E a esso si connettono le cosiddette “pietre della fertilità”, ossia rocce la cui proprietà era quella di assicurare la fertilità alle donne che vi venissero in contatto. La più famosa roccia di questo tipo è il monolito di Baalbek, in Libano, che è la pietra lavorata dall’uomo più grande del mondo e che in arabo viene chiamata “Hajjar el-Houble”, ossia la “Roccia della Partoriente”. Molte altre pietre di questo tipo hanno la forma di Statua di marmo di Cibele, proveniente da Nicea in un uovo, proprio a significare simbolicamente Bitinia (Musei archeologici la generazione della vita. Le donne bretoni già di Istanbul). in epoche preistoriche si strofinavano il ventre con polvere raccolta sulla roccia dei dolmen o con l’acqua trattenuta dagli anfratti della pietra per propiziare le loro capacità di generare, così come si credeva che sedersi su certe pietre “calde” potesse rinvigorire gli organi genitali di coloro che si apprestavano a mettere al mondo dei discendenti. Infine, non bisogna dimenticare le pietre nere, del colore delle viscere della terra (ispirato al limo che rendeva fertili le terre d’Egitto dopo le piene del Nilo). La dea Cibele, a Pessinunte, veniva adorata sotto forma di una pietra conica di colore nero, che è un Omphalos a tutti gli effetti (e che divenne il Lapis Niger posto dai Romani al centro del Foro). Gli stessi aspetti simbolici compaiono anche nei culti pagani di derivazione celtica, dove troviamo le Sheela-Na-Gig, sculture rappresentanti delle donne nude che mostrano una vulva ingigantita. Queste immagini sono diffuse soprattutto in Inghilterra e in Irlanda, e sono praticamente inesistenti in altri Paesi, anche perché nella maggior parte dei casi l’intransigente cultura cattolica ha provveduto alla loro rimozione o cancellazione (così come è stato fatto per le tante immagini falliche, che non hanno nulla di osceno ma rappresentano l’aspetto fondamentale La terra 15 delle generazione della vita, nella controparte maschile). Nella cultura cristiana, l’aspetto della fertilità è incarnato in una variante peculiare dell’iconografia mariana che è quella delle Madonne Nere – che spesso si trovano in luoghi che furono di culto della Grande Madre. Sono molti i simboli associati alla Grande Madre, alla femminilità e altri aspetti a essa legati. Dal triangolo con la punta verso il basso e Il simbolo dell’elemento il trattino orizzontale che lo interseca (simbolo terra. alchemico della Terra) al serpente (simbolo delle energie telluriche), dall’uovo alla pietra nera, dalla Madonna Nera alla Sheela-Na-Gig. A essi vanno poi ancora aggiunti: la caverna – che simbolicamente è identificata con un glifo a forma di ferro di cavallo (mantenuto persino nelle moderne legende cartografiche) – e l’acqua – simboleggiata da una linea a zig-zag (una successione dei simboli della Lama e del Calice) oppure ondulata, o da un triangolo equilatero con la punta rivolta verso il basso (molto simile al simbolo della Terra). E ancora: la spirale – che può indicare il vortice delle acque in movimento o quello, più simbolico, delle energie telluriche nei punti nodali – e tutti i simboli da essa derivati, come la doppia spirale, il Triskelion celtico e il Labirinto. Vi è infine la “coppella”, ossia un incavo emisferico – generalmente del diametro La Sheela na Gig situata di pochi centimetri – ricavato dall’uomo sulla nella chiesa SS Mary & superficie di basi rocciose normalmente piane David’s di Kilpeck (Hereo poco ripide che si può ritrovare nei più anfordshire). tichi petroglifi del Neolitico e che non è altro che l’ennesima metafora per indicare l’utero e il ventre. Questo simbolismo del ventre si è successivamente tramutato nella Coppa, nel Calice, nel Vaso (da cui poi è seguita l’allegoria del Graal). Tra gli altri animali sacri alle varie dee madri troviamo il leone (che era sacro a Cibele: da qui deriva il significato delle tante bocche di fontane foggiate come la testa di questo animale), la civetta (sacra a Minerva) e gli animali simili, protagonisti della notte: il gufo, il barbagianni, la 16 Rivista Thule Italia strige; l’orso (sacro ad Artemide). Nel mondo animale sono poi da ricordare tutti gli animali che hanno a che fare con l’acqua, come la rana, l’anguilla (che ricorda il serpente di terra), gli uccelli acquatici (l’anatra, il cigno, la gru, l’oca). Inoltre, abbiamo il ragno – al centro della sua tela spiraliforme –, l’ariete – per le sue corna a forma di spirale –, la chiocciola – per il guscio della stessa forma –, la gallina (nel suo aspetto materno di chioccia, custode dei pulcini), la gatta, la leonessa, la pantera, e ancora la mucca (per il latte), ma anche il toro e il bisonte (figure legate, come il serpente, alle energie della terra, e che richiamano la falce lunare nella forma delle corna). E così come i simboli, sono tanti anche i nomi che la Grande Madre ha assunto attraverso i luoghi e le culture, pur mantenendo sempre il principio che ella rappresentava: fu Inanna per i Sumeri, Ishtar per gli Accadi, Astarthe per i Fenici, Anahita per i Persiani, Anat presso Ugarit, Ninhursag in Mesopotamia (V millennio a.C.), Atargatis in Siria, Iside in Egitto, Artemide/Diana a Efeso, Baubo a Priene, Afrodite/Venere a Cipro, Rea o Dictinna a Creta, Demetra a Eleusi, Orthia a Sparta, Bendis in Tracia, Cibele a Pessinunte, Ma in Cappadocia, Gea/Gaia e Atena per i Greci, Brigit in Irlanda, Dana/Anu per i Celti, Bellona o Bona Dea per i Romani, Mater Matuta presso gli Etruschi, Vacuna per i Sabini, Tanit per i Cartaginesi, Quan-Yin o Guan Yin in Cina, Kannon o Kanzeon in Giappone, Gwan-eum o Gwan-se-eum in Corea, Avalokitesvara in Tibet, Durga (Kali/Parvati/Sarasvati/Lakshmi) in India, Lada in Russia. I mille nomi divini della terra In Grecia, Gaia (o Gea) era la dea primordiale della terra. Nella Teogonia, Esiodo parla di Gea come sorta dal Caos, dando vita alle forze naturali del mondo: mari, montagne e cielo (Urano). Unendosi a Urano generò sei Titani e sei Gaia (1875), di Anselm Feuerbach. La terra 17 Titanidi, seguiti dai Ciclopi e dagli Ecatonchiri. Con il fratello, Tartaro, diede vita all’orrenda figura di Tifone. Crono si rivoltò contro il padre e si alleò con Gea, infliggendogli la mutilazione dei genitali. Dal sangue che ne sgorgò, nacque una nuova generazione di mostri: nacquero i Giganti, le Erinni e Afrodite (nata dalla spuma del mare dove erano precipitati gli organi maschili di Urano). Gea e i suoi figli non si opposero soltanto a Urano, ma anche agli dèi, simboleggiando l’ira della Terra per le offese compiute contro di essa. L’antica Grecia traeva il suo sostentamento dall’agricoltura, ogni appezzamento di terra coltivata e resa fertile si vedeva attribuire un potere magico, da cui derivava questo culto per la Madre Terra. Per tale motivo, Gea fu la prima dispensatrice di oracoli. Quando Apollo volle costituire il proprio oracolo a Delfi, fu costretto a uccidere il simbolo di Gea, il serpente, Proserpina (1873–77), di che egli voleva soppiantare. Nelle opere omeriDante Gabriel Rossetti che, Gea viene (Tate Gallery, London). presa a testimone dei giuramenti: a lei non può sfuggire nulla di quanto accada sulla terra. Considerata madre di Zeus, Gaia ebbe grande importanza anche ad Atene, in quanto madre di Erittonio, progenitore della gente dell’Attica, e come protettrice della crescita dei bambini; in epoca storica poi fu considerata una divinità politica, protettrice della terra intesa come patria, luogo di nascita. Ma in Grecia, Gaia-la Terra-la Grande Madre, venne anche rappresentata nella triplice forma di Persefone (fanciulla/vergine), Demetra (madre/generatrice), ed Ecate (vecchia/morte), Il ritorno di Persefone (1891), di Frederic Leighton. dove troviamo una correlazione tra le 18 Rivista Thule Italia età della vita che queste tre dee rappresentavano. Persefone, (dal greco Περσεφόνη, Persephónē), detta anche Kore, (dal greco Κόρη, giovinetta), Kora, o Core, è una figura della mitologia greca, fondamentale nei Misteri Eleusini, che è entrata in quella romana come Proserpina. Sposa di Ade, era la dea minore degli Inferi e regina dell’oltretomba. Figlia di Zeus e di Demetra, viene rapita giovinetta e vergine dal marito Ade e, secondo il mito, nei 6 mesi dell’anno (autunno ed inverno) che passava nel regno dei morti, Persefone svolgeva la stessa funzione del suo consorte Ade, cioè governare su tutto l’oltretomba; negli altri 6 mesi (primavera ed estate) ella andava sulla terra da sua madre Demetra, e qui Persefone non svolgeva alcuna funzione. Ma è chiaro che Persefone rappresentava il ciclo delle stagioni. Demetra (in greco: Δημήτηρ, “Madre terra” o forse “Madre dispensatrice”, probabilmente dal nome indoeuropeo della Madre terra *dheghom mather), era sorella di Zeus, e nella mitologia greca era la dea del grano e dell’agricoltura, costante nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, protettrice del matrimonio e delle leggi sacre. Rappresenta la terra nella funzione di madre e negli Inni omerici viene invocata come la “portatrice di stagioni”. Con la figlia Persefone, Demetra (che nella mitologia romana diverrà Cerere) è una figura centrale nelle celebrazioni dei Misteri eleusini. Ecate è infine una dea della religione greca e romana, ma di origine pre-indoeuropea. Era una divinità psicopompa, in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dèi e il regno dei Morti. Spesso è raffigurata con delle torce in mano, proprio per questa sua capacità di accompagnare anche i vivi nel regno dei morti (la Sibilla Cumana, a lei consacrata, traeva da Ecate la capacità di dare responsi provenienti, appunto, dagli spiriti o dagli dèi). Rappresentava la terra nella sua età senile e nel passaggio alla morte, indispensabile per la rinascita. Nell’antica Roma, accanto a Proserpina, Cerere ed Ecate – e ancor prima di loro – troviamo Tellus, la dea della terra e protettrice della fecondità, dei morti e contro i terremoti. Il suo culto, probabilmente più antico della religione ufficiale romana, pare ricollegarsi direttamente a quello della Grande Madre. Veniva celebrato il 15 aprile con la festa delle Fordicidia; con il tempo, tuttavia, venne associato a quello di Cerere sino a fondersi con esso. Tellus – sempre con Cerere – è citata da Ovidio come una delle “madri delle messi” (“frugum matres”). Nell’Antico Egitto, nel Pantheon degli dèi, il dio Ptah, il grande de- La terra 19 miurgo, è una divinità sia maschile che femminile; un testo proveniente da Menfi, a riguardo dice: “Ptah è il padre e la madre degli dei ed il suo soprannome è ‘La Donna’. È lui la matrice in cui si differenziano i semi di ciò che nasce, è lui che fa spuntare l’orzo dall’uomo e il grano dalla donna...”. Più tardi, fu Geb a diventare una dea madre, raffigurazione dell’argilla, della torba, della materia primordiale, della terra nutrice, coltivabile e feconda. Geb, o Seb, era infatti il dio della terra – in contrasto con la maggior parte delle altre mitologie, per le quali è una persoLa dea del cielo Nut sovrasta nificazione femminile. Egli è figlio di Tefnut, l’umidità, e di Shu, l’aria, nonché marito di il marito, il dio della terra Geb (con testa di serpente). Nut, il cielo, dalla quale ebbe quattro figli: Osiride, Iside, Seth e Nefti. Nell’iconografia è solitamente raffigurato disteso a terra, sormontato da Shu, che sostiene Nut inarcata su di lui. In altre immagini è un uomo barbuto, con l’emblema di un’oca sulla testa, che simboleggia il geroglifico del suo nome (a volte è infatti detto il “grande starnazzatore”). Geb governò il mondo antico, ricco e fecondo, fin quando si stancò di regnare, e il suo posto venne preso dai suoi figli litigiosi Osiride e Seth. Geb venne associato anche al mondo degli Inferi, in quanto si credeva che intrappolasse le anime per impedire loro di ascendere al cielo. In età ellenistica, Geb venne identificato con il dio greco Crono. In Cina la creazione della terra è opera di P’ankou. Secondo il Chou Yi Ki, un testo risalente alla fine del VI secolo d.C., questa è la versione: “Gli esseri viventi cominciarono con P’an-kou, che è l’antenato di 10.000 esseri dell’universo. Quando P’an-kou morì, la sua testa divenne un picco sacro, i suoi occhi divennero il sole e la luna, il suo adipe i fiumi e i mari, mentre i suoi capelli e i suoi peli divennero la vegetazione”. In India, la Terra a volte è Lakshmi, dea della fecondità e della prosperità – e comunemente considerata consorte di Viṣṇu, e madre con lui di Kama, la divinità dell’amore –, il cui simbolo è l’oro, a volte è Kali, la dea nera e sanguinante dei sacrifici, La dea nera Kali. 20 Rivista Thule Italia detta anche Bhumi, “il seno materno”. Per i Maya, invece, la Terra era Itzam Cab, l’iguana-terra, lo “spirito-dell’acqua-terra-coccodrillo”. Mentre tra gli Aztechi troviamo Tlazolteotl, la dea protettrice della fertilità e della sessualità, della nascita nonché dea-madre. Veniva definita “mangiatrice di ciò che è sporco” perché faceva visita alle persone che, giunte al termine della loro vita, le confessavano i propri peccati. Lei poi mangiava questa “sporcizia” (i peccati). Secondo la mitologia azteca, Tlazolteotl è madre di Centeotl, il dio del mais, ed è Lakshmi, la divinità induista dell’abbondanza, associata alla Luna. E accanto a lei non bisogna della luce, della saggezza scordare Cihuacoatl, la “donna serpente”, dea e del destino. della fertilità, protettrice delle madri, in particolare delle donne che morivano di parto. Fu lei che aiutò Quetzalcoatl, il dio “serpente piumato”, a dare origine alla attuale fase dell’umanità macinando le ossa delle generazioni umane precedenti e mischiandole con il proprio sangue. E nelle Ande era fondamentale il culto di Pachamama, la dea della fertilità, che nutriva la terra e dispensava salute attraverso il regno vegetale. Nel paganesimo germanico la dea associata alla madre terra e alla fertilità è Nertus, come veniamo a sapere da un passaggio di Raffigurazione della dea azteca Tlazoteotl. Tacito, che in Germania racconta un rito religioso dedicato a questa divinità dai popoli germanici settentrionali: «Dopo i Longobardi vengono Reudigni, Auioni, Angli, Varni, Eudosi, Suardoni e Nuitoni, tutti ben protetti da fiumi e foreste. Non c’è nulla di importante da dire riguardo a questi popoli tranne il fatto che tutti adorano Nerthus, che rappresenta la Madre-Terra. Credono che lei si interessi degli affari degli uomini e che li guidi. Su un’isola nell’oceano si trova un bosco sacro in cui si trova un santo carro coperto da un drappo. Solo a un sacerdote è permesso di toccarlo. Egli è in grado di sentire La terra 21 la presenza della dea quando si trova nel santuario, e la accompagna con grande riverenza mentre si muove sul carro trainato da tori. Si festeggia ovunque quando decide di fare l’onore di presentarsi. Nessuno va in guerra, nesNerthus (1905), di Emil Doepler. suno usa armi, si vive in pace e quiete finché la dea, avendone avuto abbastanza della compagnia degli uomini, viene infine riaccompagnata dallo stesso sacerdote presso il suo tempio. Dopodiché il carro, il drappo e, se mi credete, la divinità stessa fanno il bagno in una misteriosa vasca. Questo rito viene svolto da schiavi che, appena finito il compito, vengono affogati nel lago. In questo modo il mistero viene mantenuto, e rimane la beata ignoranza riguardo al suo aspetto, concesso solo a chi è destinato a morire». Nella mitologia norrena, la dea della terra è Jörð (“Terra”), una delle dee della stirpe degli Æsir. Figlia di Nótt (la dea della notte, figlia del gigante Nǫrfi) e di Annarr (nome dietro al quale si cela forse lo stesso Odino), ebbe dal dio Odino il dio Thor. Era la personificazione della terra non civilizzata. E collegata alla terra, nel suo aspetto di fertilità troviamo anche Freyja: figlia di Njörðr (dio della stirpe dei Vanir, del vento e dei naviganti) e della gigantessa Skaði, sorella di Freyr (dio della bellezza e della fecondità) e moglie di Óðr, ha molte manifestazioni ed è considerata la dea dell’amore, della seduzione, della fertilità, della guerra e delle virtù profetiche. Freyja, di John Bauer (1882–1918). 22 Rivista Thule Italia Gli incantesimi della Terra La Terra veniva utilizzata soprattutto per incantesimi di guarigione, e in generale si associavano a tale elemento capacità curative: era infatti convinzione che si potesse trasferire la malattia a una sostanza, generalmente di origine organica, che poi veniva seppellita e il male veniva così neutralizzato dal potere della terra. Capitava così che per eliminare una malattia, o per risanare una ferita, si usasse sfregare la parte affetta con una fetta di mela, di patata o di qualche erba ritenuta curativa – e tale rituale deve presumibilmente essere sorto per la casualità di aver constatato dei miglioramenti per via di capacità disinfiammatorie di alcune piante utilizzate. Similmente, si faceva stendere il malato su zone di terra fresca e smossa, e sono facilmente immaginabili le origini di tali convinzioni: la terra era l’elemento dal quale l’uomo vedeva sbocciare la vita; tutto ciò di cui l’uomo aveva bisogno per il suo sostentamento spuntava dal terreno, sia il cibo sia le piante utilizzate per gli infusi e le pozioni, e si credeva dunque che la terra possedesse forte vitalità e che si potesse giovare delle sue vibrazioni positive e vitali entrando in contatto con essa. Per guarire e fortificare, o per compiere riti d’iniziazione, nell’antichità venivano praticati anche sotterramenti simbolici, analoghi all’immersione battesimale. L’idea era quella di rigenerarsi tramite il contatto con le forze della terra, morire a una forma di vita per rinascere in un’altra. Soprattutto in Oriente, vi era la tradizione di costruire le case intorno ad alberi, e spesso la prima cosa che veniva fatta prima di edificare un’abitazione era quella di piantare il seme di una pianta. Le popolazioni dell’Europa pagana che adoravano gli spiriti della natura solevano affidare le proprie necessità e desideri al seme di un albero, che se accudito da germoglio a fusto, avrebbe reso il desiderio realtà. E, ancora, era pratica ricorrente raccogliere in un fazzoletto verde della terra dov’erano stati precedentemente tracciati simboli magici e rune, e portarlo con sé per protezione; similmente veniva fatto con delle bottiglie, poste in seguito sui davanzali delle finestre, per impedire al male di entrare. E la terra veniva gettata alle spalle dei bambini che giocavano, per evitare che spiriti malvagi si insinuassero nei loro giochi (una tradizione che ha probabilmente generato il rito superstizioso – giunto fino a noi – di gettarsi alle spalle un pizzico di sale per scongiurare la malasorte). Nei La terra 23 tempi passati, si credeva in sostanza che la terra confondesse gli spiriti malvagi e i demoni, e che essi fossero costretti a dover contare ogni singolo granello di terra posto davanti a un’abitazione o attorno a un essere umano, prima di poter penetrare nella casa o entrare in contatto con la persona stessa. La zolla e la donna sono spesso assimilate nella letteratura: solco seminato/aratura rimandano alla penetrazione sessuale, le messi al parto, il lavoro agricolo all’atto generatore, la raccolta di frutti all’allattamento, il vomere dell’aratro al fallo dell’uomo. Ecco quindi che anche alcune credenze sono strettamente legate a questo rapporto. In Africa così come in Asia, si crede infatti che le donne sterili rischiano di rendere sterile la terra familiare, e il marito per questo motivo le può ripudiare. Le donne incinte se gettano i grani nei solchi arricchiscono i raccolti: esse sono infatti sorgente di fecondità. «Le vostre donne – dice il Corano – sono per voi come i campi» (11,233). E in un solco seminato, a primavera, Giasone si unì a Demetra (Odissea, V, 125). Per gli Aztechi, la dea Terra ha due aspetti opposti: essa è la Madre Nutritrice che ci permette di vivere con la sua vegetazione; ma reclama anche i morti di cui si nutre, e in questo caso è distruttrice. Presso i Maya, il glifo della terra è la dea Luna, regina dei cicli e della fecondità. L’antica dea Maya – lunare e terrestre – ha una funzione primordiale: presiede alla nascita, alle origini di tutte le cose, all’inizio di ogni manifestazione. Per Giudei e Cristiani, la denominazione di “Terra Santa” si applica alla Palestina; ma essa ha diversi omologhi anche in altre tradizioni, dove riceve i nomi di: “Terra dei Santi”, “Terra dei Beati”, “Terra d’Immortalità”, eccetera. In tutti questi casi si tratta di centri spirituali che corrispondono al Centro del Mondo proprio di ciascuna tradizione, a sua volta riflesso del centro primordiale o del Paradiso terrestre. Si possono quindi paragonare alla terra promessa ebraico-cristiana, ma attraverso una ricerca di ordine spirituale, e alla Terra nera (Kemi) degli Egizi. La “Terra pura“ di Platone corrisponde a quello che noi immaginiamo come Terra Santa. Nel caso dell’amidismo, la terra pura (in giapponese Jodo), detta dal monaco buddista Shinran “Terra di retribuzione” (Hodo) è il paradiso occidentale di Amida (ossia, il Buddha celestiale particolarmente venerato nell’amidismo), ed è – in definitiva – anche 24 Rivista Thule Italia una “Terra dei Beati”. La terra non è poi estranea alle origini. Così quando un gruppo vuole rigenerarsi spiritualmente pratica una sorta di “ritorno verso la terra natale”. Da qui la tradizione dei vari pellegrinaggi nei “luoghi sacri”. Con il suo carattere sacro e materno, la terra interviene spesso nelle varie società come “garante dei giuramenti”. Poiché il giuramento è il legame vitale del gruppo, la terra è madre e nutrice di ogni società. L’irlandese possiede, così come il latino, due parole per designare la terra: “talamh” – che corrisponde a “tellus” e indica la terra in quanto elemento contrapposto all’aria e all’acqua – e “tir” – ossia “terra”, che la indica quale espressione geografica. Il druido aveva potere anche sulla terra-elemento: prima della battaglia di Mag Tured, un druido dei Tuatha Dé Danann promette a Lug che getterà una montagna sui Fomori e che metterà al suo servizio le prime dodici montagne d’Irlanda. Nella mitologia irlandese, la terra è personificata da Tailtiu non come donna, ma come nutrice di Lug, il dio celtico della luce, che veniva chiamato “dio delle mille arti” e la cui festa ricorre il 1° agosto. La terra fa anche parte dei garanti del giuramento celtico, che si può paragonare al giuramento dell’angelo Ammaele a Iside: «Te lo giuro per il cielo, la terra, la luce e le tenebre, te lo giuro per il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra, giuro per l’altezza del cielo, per la profondità della terra e del Tartaro; te lo giuro per Ermes, per Anubis, per gli ululati di Kerkoros, per il serpente che custodisce il tempio; te lo giuro per la zattera e il nocchiero di Acheronte; te lo giuro per le tre Necessità, per i Flagelli e per la Spada». (Collection des Anciens Alchimistes Grecs, I, Parigi, 1887, 29-30). Riti e miti della terra La terra è madre che accoglie, dalla quale si spera di ritornare e della quale si porta nel cuore sempre quel qualcosa che fa sospirare di malinconia quando si è lontani. La terra è quindi anche simbolo di affetto culturale e di radici in senso lato. Non per niente si tende a parlare di “Albero genealogico” quando si ricostruisce la storia di una famiglia. E fin dagli albori per le varie genti la terra accoglie dentro sé il profondo significato della fertilità; un aspetto facilmente comprensibile, La terra 25 dato che il cibo prodotto dai campi è il sostentamento base su cui tutti i popoli di cultura agreste hanno basato il loro benessere. Un raccolto disastroso avrebbe causato con facilità una carestia. E l’abbondanza delle messi andava propiziata. La fertilizzazione del terreno, in qualsiasi modo essa potesse essere invocata, era quindi un rito fondamentale nelle liturgie di origine agreste. Troviamo infatti moltissimi rituali portati a favorire la fertilità mediante offerte di ogni tipo, prima tra tutte quella del sangue, ma anche del latte o del miele. Nel mito celtico, la festa rituale di Imbolc, che cadeva tradizionalmente il 1º febbraio, nel punto mediano tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera (anche se la celebrazione iniziava al tramonto del giorno precedente, in quanto il calendario celtico faceva iniziare il giorno appunto dal tramonto del sole), è strettamente legata all’elemento terra. Il termine in lingua gaelica significa “Nel grembo”, e si riferisce al risveglio della primavera dopo il lungo e freddo inverno. Nel grembo, il seme che ha atteso al caldo sotto lo strato di neve finalmente germina e sboccia, dando vita a un nuovo ciclo. Ma i riti per la fertilità dei campi si ritrovano anche in età contemporanea: lo stesso rituale dei fuochi di Beltane a inizio maggio – con i falò accesi in cima ai colli attraverso cui far passare il bestiame del villaggio per purificarlo e in segno di buon augurio, e il salto propiziatorio sul fuoco di uomini e donne –, il palo di maggio e la corona di fiori, oppure le figure antropomorfe costruite con il grano che vengono intrecciate a Lughnasadh – la festa gaelica del 1° agosto, che celebra il raccolto e il pane, e che ricorda il sacrificio (sotto forma di grano) del dio Lug, il dio della luce: nel suo ciclo di morte (per dare nutrimento alla popolazione) e di rinascita – sono tutti sacrifici propiziatori per la fertilità dei campi. Nel Medioevo appaiono poi anche le curiose figure dei “ben andanti”: ossia, persone nate con il sacco amniotico sopra il volto (i cosiddetti “nati con la camicia”) che sostenevano in particolari giorni dell’anno di recarsi nottetempo nei campi aperti, armati di mazze di finocchio, a lottare contro misteriosi stregoni. Il tutto per salvare il raccolto dell’anno in entrata. Questo fenomeno è tipico delle zone del Friuli Venezia Giulia, ma sotto altri nomi si possono trovare figure simili anche in altre parti d’Europa. La fertilità è dunque uno degli aspetti fondamentali dell’elemento terra, soprattutto in un mondo dove un raccolto povero poteva significare la morte per centinaia di persone. Il simbolismo stesso della morte creato nel Medioevo – ossia, lo scheletro con la falce – ha chiare origini 26 Rivista Thule Italia di tipo agreste. La falce è quella utilizzata per mietere il grano, e la cupa morte diventa allora “la mietitrice”. Ma la stessa morte è legata a doppio filo con l’elemento terra. La terra è infatti colei che dà e colei che prende. Essa dispensa nutrimento con una mano, ma prende la vita con l’altra. Non a caso l’oscurità e il buio degli Inferi sono stati sempre collegati a luoghi sotterranei. Publio Virgilio Marone, nel sesto libro dell’Eneide, racconta il viaggio che fece Enea nel regno degli Inferi. Virgilio ci parla di un enorme olmo sotto le cui foglie sono gettati i sogni fallaci. Infatti, i miti greci parlano degli Inferi come di un luogo sotterraneo dove soltanto i morti (e alcuni simbolici eroi) possono accedere. E uno dei miti più vicini e strettamente legati alla terra è quello di Ade e Persefone. La giovane Kore, figlia di Demetra, dea del raccolto, stava cogliendo dei fiori nei pressi di Enna, nel mezzo della Sicilia, assieme ad alcune ninfe, quando vide correre verso di sé la figura imperiosa e inquietante del dio degli Inferi Ade, che, stanco dell’oscurità del proprio regno sotterraneo, aveva deciso di aggirarsi alla luce del sole. A nulla valse la fuga di Kore; le braccia d’acciaio del dio la afferrarono subito e la inchiodarono sulla biga trainata da cavalli di fuoco. Soltanto una delle ninfe si oppose e tentò di difendere la compagna, cercando di frenare i cavalli: Ciane, che per questo affronto fu trasformata da Ade in una fonte che tuttora fornisce l’acqua al territorio di Siracusa. Dopo la scomparsa della figlia, Demetra, dilaniata dal dolore, si aggirò per il mondo alla ricerca della giovane perduta. Cercò la figlia per nove giorni e nove notti, vagando senza tregua fino ai confini del mondo. Solo il decimo giorno Ecate, la dea della Notte, impietosita, rivelò a Demetra di aver assistito al rapimento della giovane Kore, ora divenuta Persefone regina degli Inferi. Demetra andò allora da Elios, il dio del Sole, che le rivelò la complicità di Zeus, il padre degli dèi e dio del Cielo, nel rapimento della giovane ragazza. Essendo la dea della fertilità e dell’agricoltura, Demetra reagì disperata all’inganno e alla conseguente perdita della figlia, rendendo la terra sterile e infruttuosa. Le persone e gli animali morirono come mosche. A niente valsero le suppliche e i sacrifici degli uomini: Demetra era irremovibile. Zeus così, per scongiurare la carestia e l’estinzione della razza umana, decise di intervenire e inviò Hermes a intercedere per la liberazione di Kore, una richiesta alla quale Ade non si poté opporre. Lasciando andare la sposa, il dio le chiese però di non mangiare nulla, dandole nel contempo un melograno tra le La terra 27 mani. Uscendo la ragazza – ignara del fatto che chi mangia i frutti negli inferi è costretto a rimanervi per l’eternità – violò il patto, nutrendosi di sei semi del frutto donatole. Ade, con l’inganno, aveva quindi legato per sempre a sé Persefone. Con l’ulteriore mediazione di Zeus, si giunse però a un accordo: visto che Kore/Persefone non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe rimasta nell‘Oltretomba soltanto per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell’anno. Così Persefone avrebbe vissuto sei mesi con il marito negli Inferi e sei mesi con la madre sulla Terra. Demetra, da allora, accoglie con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera e in estate. Un altro aspetto della terra è la ricchezza celata, misteriosa e segreta. Nelle sue viscere, infatti, prendono forma le gemme e nelle sue profondità risiedono le vene di minerale prezioso. Per non parlare poi del petrolio, il sangue nero della terra, che nel mondo attuaTeseo e il Minotauro (1826), di Étienne-Jules Ramey le è la più grande fonte di (Giardino delle Tuileries, Parigi). guadagno su larga scala che l’umanità abbia mai conosciuto. La terra trattiene quindi dentro il suo grembo tesori inestimabili. E, infatti, è proprio nella terra che in genere ci si sente più al sicuro nasconderli. Era nella terra che venivano sepolti i forzieri, e nella terra venivano scavate le tombe, nascosti i tesori in antichità. Nella favola Alì Babà e i Quaranta Ladroni, contenuta nelle Mille e una Notte, si narra di una grotta segreta dove era possibile accedere solo mediante una parola d’ordine e dove i malvagi ladroni depositavano il loro inestimabile bottino. Ecco che l’elemento terra qui prende di nuovo il sopravvento come “grembo che accoglie tesori” e che mantiene il segreto degli stessi. Infatti, non era possibile accedere al tesoro se non se ne conosceva la parola d’ordine. Ma anche nella favola di Aladino e 28 Rivista Thule Italia la lampada incantata, sempre tratta da Le Mille e una Notte, il mago spalanca con la magia una caverna che dà nel sottosuolo, dove risiede un tesoro di origini misteriose e nel quale invita Aladino a entrare a patto di non toccare nulla, poiché desidera che lui gli porti soltanto la vecchia lampada magica. La terra può non solo contenere tesori ma può anche custodire segreti e misteri, come il labirinto fatto costruire da Minosse, dove il Minotauro era confinato. Il mito narra che mentre Europa, figlia di Fenice e di Telefassa, era intenta a giocare con le sue ancelle, le apparve un torello candido come la neve che altri non era che Zeus. Questi, dopo averla fatta montare sulla sua groppa, la portò a Creta dove si unì a lei e poco dopo da questa unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone. Quando Zeus lasciò Europa, quest’ultima sposò Asterione, re di Creta e, poiché le loro nozze si rivelarono sterili, Asterione adottò i tre figli di Europa e li nominò suoi eredi legittimi. Alla morte di Asterione, Minosse rivendicò per sé il trono di Creta, dichiarando che quello era il volere degli dèi, e per essere certo di riuscire nell’impresa pregò Poseidone di fare uscire qualcosa dalle acque del mare con la promessa di offrirlo poi in sacrificio al dio a testimonianza del volere degli dèi. Ma Minosse non rispettò i patti e così il dio del mari, infuriato, lo punì, instillando in Pasifae, la regina sua moglie, una passione sfrenata per il toro bianco. Confessata questa sua morbosa attrazione a Dedalo, il famoso architetto in esilio da Atene, questi la assecondò, costruendo per lei una vacca di legno cava ricoperta da una pelle bovina, entro la quale la regina poteva introdursi per soddisfare il suo appetito. Dall’unione dei due venne generato il Minotauro, una creatura metà uomo e metà toro. Minosse, esterrefatto, ordinò a Dedalo di costruire un profondo labirinto al centro del quale fu confinato il mostro. Ogni anno, sette vergini e sette fanciulli venivano introdotti all’interno del labirinto, affinché potessero fungere da sacrificio alla creatura. Al terzo anno, durante la ricorrenza dei sacrifici, Teseo, re di Atene, giunse a Creta per fermare quest’orrenda tradizione, spacciandosi per uno dei fanciulli destinati al pasto del mostro. S’innamorò però della figlia del re Minosse, Arianna, la quale, venuta a conoscenza dei suoi propositi nei riguardi dell’uccisione del Minotauro, consultò Dedalo per aiutarlo. Il problema, infatti, non era solo l’uccisione in se stessa, quanto uscire vivi dalle profondità dell’opera dell’architetto ateniese. Dedalo consigliò quindi alla principessa di donare un rocchetto di filo al giovane, così che po- La terra 29 tesse srotolarlo mentre si aggirava nel labirinto per poter ritrovare la strada verso l’uscita. Il labirinto di Cnosso, infatti, si snodava come un budello contorto dal quale il nobile Teseo non poteva sperare di uscire se non fosse stato per l’intelligente trovata di Dedalo. Una volta ucciso il mostro, riarrotolando il rocchetto riuscì così a riguadagnare l’uscita. Un viaggio – quello di Teseo all’interno del labirinto scavato nelle profondità di Cnosso – che è chiaramente di tipo iniziatico e che riconduce all’esplorazione dei misteri della superbia umana, nel momento in cui decide di sfidare gli dèi. La terra è quindi mistero, oltre che viaggio e ricchezza. Il mistero delle profondità, dei vulcani, fonti di distruzione, dei terremoti, delle voragini che si aprono fagocitando in sé tutto ciò che capita. Lo si vede bene in Viaggio al centro della Terra di Jules Verne, che narra di una spedizione basata sul ritrovamento di una pergamena in caratteri runici con un codice cifrato scritta da un alchimista danese del XVI secolo, tal Arne Saknussemm. Il viaggio conduce il professor Otto Lidenbrock e il nipote Axel (lo scopritore della pergamena), insieme a una guida assunta per il caso, fino al centro stesso della terra, e lì incontreranno dinosauri e altre creature misteriose e fantastiche. Nel romanzo, Verne cerca di svelare il mistero che condiziona gli scienziati di tutto il mondo: l’ipotesi di che cosa possa risiedere al centro della terra. E il cuore stesso è infine lo scranno dove siede l’anima ancestrale del nostro pianeta: Gaia. E la terra, nel suo misterioso “dare quando lo desidera”, si ritrova nelle stesse rune. Che per i popoli del Nord non erano soltanto un alfabeto, ma anche un metodo divinatorio e un mezzo di comunicazione con gli dèi. E che derivano dagli stessi dèi. Per acquisire la saggezza, Odino viaggiò infatti fino ai confini estremi del mondo, dove sorgeva il frassino Yggdrasill, l’albero della vita che sostiene tra i suoi rami i nove mondi. Ma prima di poter accedere ai misteri e alla conoscenza detenuta da Yggdrasill, Odino dovette sottoporsi ad alcune prove, fra le quali abbeverarsi dalla fonte che scaturiva dalle radici stesse dell’Albero della Vita: Mímisbrunnr, nota anche come la “fonte della Saggezza”; e per poterlo fare fu costretto a sacrificare un occhio. Poi, feritosi con la sua lancia, Odino dovette restare impiccato a testa in giù all’albero per nove giorni e nove notti, fino al momento in cui gli giunse infine in dono la Saggezza nella forma delle rune, donate in seguito dal dio agli uomini. La connessione tra la terra e le rune è dovuta al fatto che per tradizione 30 Rivista Thule Italia esse devono essere incise nella corteccia o nella pietra, ossia in alcuni elementi tradizionalmente correlati alla “Grande Madre”. A Demetra Eleusinia «Dea, madre di tutto, demone dai molti nomi, augusta Demetra, che nutri i fanciulli, dispensatrice di felicità, dea che doni la ricchezza, nutri le spighe, tutto doni, che ti allieti della pace e dei lavori dalle molte fatiche, protettrice della semina, accumulatrice di spighe, custode dell’aia, dai frutti verdeggianti, che abiti nelle sante valli di Eleusi, desiderabile, amabile, nutrice di tutti i mortali, che per prima aggiogasti all’aratro i buoi muscolosi e ai mortali mandi la desiderabile vita molto felice, che favorisci la vegetazione, vivi con Bromio, splendidamente onorata, portatrice di fiaccola, santa, ti allieti delle falci estive, tu ctonia, tu che appari, tu favorevole a tutti; dalla bella prole, amante dei bambini, augusta, fanciulla che nutri i fanciulli, che hai attaccato il carro imbrigliando draghi gridando evoè intorno al tuo trono con volute circolari, unigenita, dea dalla molta prole, venerabilissima per i mortali, che hai molte forme di sacre fronde e ricche di fiori. Vieni, beata, santa, carica di frutti estivi, portando Pace e l’amabile Legalità e ricchezza che fa felici e insieme Salute sovrana». (Inno Orfico n. XL, da Inni Orfici, ed. Lorenzo Valla) La materialità del reale di Pasquale Piraino La terra è insieme all’aria l’elemento di più facile ricognizione, ma a differenza di quest’ultima (eterea e impalpabile) presenta delle caratteristiche facilmente avvertibili dai sensi corporei. Tra tutti gli elementi la terra è probabilmente quello più connesso alle riflessioni materiali: basta prestare orecchio a quella fonte di conoscenza che sono i detti popolari — a volte riflesso della sapienza vera e propria — per rendersene conto: si pensi all’espressione “stare con i piedi a terra”, più che indicativa dell’attitudine a considerare strettamente ciò che i sensi sentono, frenando la propensione alla riflessione verso quanto sta oltre le pure informazioni captate senza fantasticare su lontani mondi sconosciuti “iperuranici” . Se riflettiamo sull’origine dell’uomo narrata nell’Antico Testamento notiamo che Dio donò all’essere umano due nature: una materiale e l’altra spirituale. La seconda costituita dallo spirito divino che Dio infuse tramite il suo soffio per animare la seconda metà dell’uomo: il corpo. Mentre quest’ultimo, strumento primo tramite il quale è dato all’uomo il potere di conoscere e di osservare tutto il piano fisico della realtà, fu ottenuto — sempre secondo la fonte veterotestamentaria — impastando proprio della terra. Nella visione fornita dalla Genesi, il corpo umano è, quindi, quanto di più materiale esista, poiché nato dalla stessa terra che con i suoi grani è simbolo di tutto quell’insieme di particelle e corpuscoli che uniti formano il reale. Pertanto, seppur nella visione giudaica la caratteristica materiale dell’uomo viene a incarnarsi proprio nel corpo, il quale è fatto della stessa materia di tutto il creato, bisogna stare bene attenti a trarre le giuste conclusioni dopo la lettura di certe analisi, visto che la componente materiale rappresenta solo una parte della diade, essendo l’altra costituita proprio dalla dimensione spirituale che lungi dall’essere accessoria è invece un dono che Dio elargisce all’uomo per renderlo “a sua immagine e somiglianza” 32 Rivista Thule Italia ovvero a sé eguale, un essere in potenza del tutto pari al Dio creatore. Eppure, in quel particolarissimo testo che è la Genesi, Dio, poco dopo aver creato Adamo — un essere a sé eguale — lo bandisce dall’Eden, in seguito al noto Peccato originale, enunciando a lui e alla sua compagna Eva la nota maledizione: “Polvere siete e polvere ritornerete”, negando quindi all’Uomo ogni possibile immortalità e condannandolo, di fatto, a disgregarsi interamente come la materia della quale è formato. Non si vuole qui trattare dei contrasti ideologici presenti nel Vecchio Testamento, testo sicuramente problematico da analizzare visti i rimaneggiamenti che ha subito nel corso dei secoli e i macroscopici errori di traduzione dall’ebraico, verso i quali oggi nessun Papa evidentemente risulta interessato a far luce, ma bisogna però sottolineare che sarà Cristo a riportare una visione equilibrata all’interno della dottrina schizofrenica e peccaminosa ebraica che bandisce come impura ogni aspirazione verso la materialità dei sensi. In particolare egli ridarà piena dignità alla componente fisica umana identificando la natura dell’uomo come un’intima unione di corpo e spirito, perfettamente armonizzati tra loro al punto che, nella visione escatologica che egli fornisce, alla fine dei tempi i corpi, anche quelli decomposti, risorgeranno in gloria e splendore, potenziati in tutte le loro capacità, tornando in unione con le rispettive anime: in Luca, 20, 34-36 viene chiaramente detto che i corpi “nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli”. La visione giudaica e quella cristiana non risultando comunque esaustive di tutto il panorama dei miti relativi alla creazione dell’uomo, presentano delle costanti rilevabili anche in contesti culturali geograficamente molto distanti da quelli medio orientali. Analizziamo, per esempio, il mito norreno: nell’Edda l’uomo e la donna primordiali sono creati da una triade divina. Come nel caso visto precedentemente, la natura strettamente corporea dell’essere umano nasce non solo dalla stessa materia di cui consiste la terra, ma addirittura risulta figlia del terreno stricto sensu: gli dei infatti creano i corpi umani servendosi dei tronchi di due alberi, il frassino (che darà corporeità al primo uomo) e l’ontano (che invece formerà la prima donna). Nel mito norreno quindi la parentela tra la componente materiale dell’uomo e la terra è per certi versi meno diretta che nell’Antico Testamento, ma non per questo meno forte, visto che l’albero può svilupparsi solo se affonda le sue radici in un confortevole terreno. Mentre nella Bibbia viene fornita una visione fisica che rende l’uomo pari alla terra, poiché fatto con essa, l’Edda fornisce un quadro diverso, indicando il corpo dell’uomo come La terra 33 qualcosa che si è generato dal grembo della terra (quasi come un seme che prima di germogliare va sepolto nel terreno) e quindi non parte di qualcosa di inanimato, ma figlio di un essere capace già da solo di creare la vita, anche se non propriamente senziente. Similmente al Dio giudaico, la triade norrena fornirà al corpo dell’uomo dei doni grazie ai quali risulterà differenziato dal restante regno animale, strumenti che egli userà per compiere l’opera divina di studio e manipolazione del mondo. Tutti e tre, allo stesso modo del Dio degli ebrei, soffiano la vita nei due tronchi: Odino dona lo spirito, Hoenir l’anima e Lodur il calore vitale, inteso non solo come il calore fisico, ma come la capacità posseduta da un cuore capace di ascoltare la voce delle altre anime. Si vuole inoltre qui riportare la versione di Snorri secondo la quale fu la triade composta da Odino, Vili e Vé a creare l’uomo dopo avere smembrato il gigante Ymir e ordinato l’universo. In particolare Odino donò all’uomo lo spirito e la vita, Vili la saggezza, il movimento e la parola mentre Vé la forma e i sensi fisici. Al di là delle leggere differenze il lettore noterà, tuttavia, la stretta concordanza che lega le due versioni del mito: se la componente divina passa tramite il soffio e la voce, simboli dell’aria (elemento in qualche modo antagonista alla terra), quella umana viene generata a partire dalla materia e la terra che, pertanto, non è solo madre del corpo, ma anche simbolo della natura prettamente animale a questo collegata. Questo collegamento tra la terra e l’essenza materiale dell’uomo permane anche nel mito greco secondo cui la creazione dei primi esseri umani è attribuita non più a un Dio, ma a un titano — Prometeo —, figura antagonista degli dèi olimpici. I titani rappresentano probabilmente l’incarnazione di tutta una serie di credenze religiose a base naturalista che esisteva nell’antica Grecia in un tempo precedente all’instaurarsi del culto degli dèi olimpici. L’antagonismo tra queste due forme di culti, quello naturalista e quello antropomorfo, è testimoniato in chiave simbolica nella Titanomachia, ovvero la guerra tra gli dèi e i titani, alla fine della quale quest’ultimi vennero confinati da Zeus nel Tartaro, il baratro più profondo dell’oltretomba, condannati a eterni supplizi. All’interno del vastissimo panorama mitologico greco si possono enumerare svariate figure di titani, ma si può dire — senza tema di smentita — che l’essenza di ogni titano va ricollegata a una specifica forza naturale che esso incarna. In particolare queste protodeità rappresentano le forze primordiali libere della natura nella loro essenza più caotica: non a caso è Zeus che dopo la sconfitta dei titani imbriglia 34 Rivista Thule Italia queste forze, dando forma e ordine al mondo che prima era caos in costante mutamento. Quindi, mentre le divinità olimpiche rappresentano forze ordinatrici (basti pensare ad Helios, che conducendo regolarmente il carro del Sole nel cielo scandisce i ritmi del giorno), i titani sono il simbolo delle forze primigenie e dello stato del mondo naturale prima che a questo fosse impresso un ordine. Alla luce di quanto detto, risulta perciò interessante che la creazione dell’uomo non sia avvenuta per mano di un dio, ma di un titano, Prometeo. Ancora una volta egli dà forma al corpo dell’uomo impastando il fango: ritorna — quindi, prepotentemente — il tema già prima accennato dello stretto legame tra la terra e la componente materiale dell’uomo; nel mito greco però vi è un quid in più, rappresentato dal fatto che non è un dio ordinatore, come quello della Genesi, a creare il corpo, ma un essere superumano: il corpo dell’uomo, pertanto, non è più visto solo come un legame con la terra e il mondo sensibile della natura, ma addirittura come la casa di tutte le componenti più arcaiche della natura che rendono l’uomo una fiera tra le fiere. Laddove il mito giudaico e quello norreno indicano sic et simpliciter una matrice di provenienza dal mondo naturale, il mito greco, tramite la mano plasmatrice del titano Prometeo, fornisce un quadro più completo che spiega la provenienza di tutte le caratteristiche che, piaccia o meno, rendono l’uomo l’animale più pericoloso dell’ecosistema terracqueo: desiderio di dominio, aspirazione alla sottomissione dell’altro e volontà plasmatrice. Tutto ciò che è collegato alla sfera istintuale trova spiegazione nel collegamento tra il carattere umano e le componenti titaniche del cosmo. Ma il titano non riuscì comunque ad animare l’uomo prima di infondergli il fuoco divino: ecco allora venir rimarcato, ancora una volta, lo stretto collegamento tra le due componenti dell’uomo, quella naturale-animale e quella spirituale-divina, che fa da contraltare alla prima e permette di trasmutare le forze caotiche dell’istinto in capacità e abilità messe al servizio dell’intelletto, secondo un meccanismo per nulla dissimile dalla sublimazione psicanalitica. Quindi, il mito greco, pur riconoscendo e dando base ontologica a tutte le caratteristiche più “animali” che coabitano nell’animo umano, rimarca il fatto che l’essere creato non poteva vivere senza essere bilanciato dalle componenti opposte a quelle titaniche, rappresentate dal fuoco degli dèi olimpici, incarnanti le forze ordinatrici presenti in quel medesimo animo umano. Molto più complicati da analizzare risultano i miti indù. Di fatto, l’immensa mole di testi filosofici e religiosi porta a un’apparente suprema- La terra 35 zia della componente spirituale sopra quella materiale e la componente umana legata alla terra, l’elemento simbolo del mondo che possiamo conoscere tramite i sensi corporei, rappresenta un ostacolo al pieno sviluppo delle capacità umane. Tutto il mondo naturale viene riconosciuto come saṃsāra, l’oceano delle esistenze delle vite materiali imperniate sulla sofferenza. Ciò che l’uomo può conoscere con le sue capacità sensoriali corporee è quindi il velo di Maya, una finta conoscenza che distorce e rende incomprensibile quella vera: un velo appunto posto sopra la vera essenza delle cose per nasconderle alla vista. Appare che in nessun altro mito, come in quello indù, il mondo fisico risulti tanto svilito, venendo rappresentato quasi come una scoria della creazione. In realtà, a ben vedere, questi concetti si manifestano come estremamente fallaci, giacché il mondo terreno, naturale, ha sì una valenza negativa, ma rappresenta l’ambiente in cui ogni uomo è chiamato a sviluppare la propria essenza spirituale, una vera e propria palestra nella quale ogni essere deve migliorare sé stesso tramite lo sforzo e la sofferenza. Quindi, se da una parte i miti indù disconoscono il valore positivo della diade spirito-materia, dall’altra tuttavia la ritengono un elemento essenziale al fine della corretta crescita dello spirito dell’uomo, più di un mero ambiente dove espiare i propri mali. Quanto scritto fa quindi capire che l’elemento terreno, fisiologicamente simbolico della componente materiale dell’uomo, non implica nulla di materialistico, trovando invece piena realizzazione tramite la riunione al suo opposto spirituale. Nel presente scritto analizzeremo alcuni dei valori simbolici della terra proprio a partire dal suo stretto collegamento con le filosofie più materiali che per prime hanno cercato di liberare l’uomo dalle catene di dèi dispotici in nome del ritorno ai sani valori terreni e naturali, quindi guarderemo a questo simbolo nelle sue valenze più condizionatrici e vincolanti per la vita umana, non prima però di aver trattato della valenza simbolica che ha ricoperto nella letteratura tardo romantica la terra vista come madre dell’uomo. Infine, daremo qualche accenno alle energie che il nostro pianeta ci dona ogni giorno. L’elemento terra risulta strettamente collegato alla natura. Non sono mancate, nel corso dello sviluppo storico e sociale dell’umanità, correnti culturali che hanno dipinto quest’ultima come una madre amorevole per l’uomo, un rifugio sempre disponibile per chi vuole evadere dalla civiltà, un regno nel quale poter ritrovare i ritmi appunto “naturali” che venivano seguiti dall’uomo prima dell’organizzazione sociale in 36 Rivista Thule Italia centri abitativi sempre più grandi. La natura quindi (insieme alla terra per via ancora più astratta) rappresentava l’insieme dei valori salutari e primordiali dell’umanità, la madre dalla quale il bambino apprende dapprima la sua identità culturale per poi, in seguito, durante la sua crescita morale, creare la propria. Eppure, parallelamente a tale visione ideale, la terra ha sempre rappresentato anche un aspetto più materiale teso a indirizzare lo sguardo dell’uomo verso la sfera dei valori riguardanti la vita pratica, emancipandolo da ogni pensiero metafisico e ultraterreno. È come se l’attaccamento al mondo naturale abbia portato l’uomo ad allontanarsi dalla sfera divina, facendo degenerare la sfera materiale in materialista. I primi sviluppi di questa caratteristica del pensiero umano sono rintracciabili nel panorama filosofico greco che costituisce la base del pensiero occidentale. Trattando di terra e di materialismo, non possiamo non volgere lo sguardo al pensiero di Epicuro, la cui base filosofica è costituita dalla dottrina atomista elaborata da un altro filosofo greco, Democrito. Secondo tale corrente filosofica la base fondante della realtà è da ricercarsi nell’atomo, dal greco ἄτομος - àtomos -, indivisibile. Per il pensatore greco tutta la realtà era costituita, in ultima analisi, da particelle prime indistruttibili che si muovevano nel vuoto, la cui alternanza tra azioni di aggregazione e di disfacimento creava tutto il mondo, uomo compreso. Democrito non era andato troppo lonEpicuro, copia romana dall’oritano dalla realtà scientifica, poiché oggi ginale greco, presso il British Museum di Londra. è ormai nota la struttura atomica della materia. D’altronde, porgendo lo sguardo al mondo naturale, abilità nella quale l’uomo greco era ineguagliabile, non si può non notare come tutto sia riconducibile a minuscole particelle: la stessa terra sulla quale l’uomo cammina altro non è che il risultato di un’erosione, durata millenni, di grandi rocce ridotte adesso in minuscoli grani. Da qui, pertanto, lo stretto collegamento tra l’atomismo e la terra, visto che qualsiasi terre- La terra 37 no, osservato da vicino, altro non è che un insieme di minuscoli granelli di polvere, che legandosi tra loro e impastandosi, creano conglomerati più grossi, che a loro volta si legano tra loro, creando aggregati sempre più grandi. La posizione atomista portò Democrito a immaginare un universo formato da soli atomi che seguivano le leggi del moto descritte dalla fisica, quindi già in questo pensatore si manifestava la prima vena materialista, arrivando egli a negare finanche l’umano libero arbitrio: se l’uomo è fatto da atomi che si muovono secondo leggi meccanicistiche, allora l’unica azione possibile è quella di seguire i binari tracciati da dette leggi. La strada tracciata da Democrito, qui brevemente riassunta, è quella che sarà seguita e ampliata da Epicuro. Epicuro nacque nel 342 a.C. a Samo, poco dopo la morte di Platone. Il suo nome in greco significa “soccorritore” e gli venne imposto in onore al dio Apollo. Già giovanissimo, a soli quattordici anni, iniziò lo studio della filosofia: i suoi esordi risalgono ai primi rapporti con i platonici, in particolare con Panfilo, ma già pochi anni dopo si registra il suo avvicinamento alla scuola di pensiero di Democrito tramite il maestro Nausifane. Nel 306 a.C. si trasferì ad Atene, dove fondò la propria scuola chiamata “Giardino” (Képos in greco), che fungeva per lui anche da casa. In realtà la scelta di Atene non fu casuale: lì Epicuro aveva svolto il servizio militare obbligatorio (l’efebato) e suo padre era un vecchio colono ateniese inviato a Samo, quindi Epicuro, pur essendo nativo colono, era un cittadino ateniese a tutti gli effetti. Inoltre a Samo si scatenò una rivolta che spinse i vecchi cittadini a esiliare i coloni ateniesi: così Epicuro fu costretto a ripiegare sulla vecchia patria paterna e tornò ad Atene. Le testimonianze del tempo, riconducibili agli scritti di Diogene Laerzio e di Tito Lucrezio Caro, attestano l’estrema apertura che contraddistinse la scuola di Epicuro. Di fatto egli pensò il suo sistema filosofico come una cura a tutti i mali che affliggono la vita dell’uomo e rese disponibili le sue lezioni a chiunque fosse interessato alla conoscenza del suo sapere, persino agli schiavi. Nel Giardino, infatti, egli non solo insegnava la sua dottrina, ma viveva insieme a uomini e donne di ogni censo: questa sua estrema apertura mentale viene giustificata dal fatto che egli fu tra i primi filosofi a ideare un principio di egualitarismo tra gli uomini. Nel Giardino insegnò e visse per tutta la sua vita sino al 270 a.C., anno in cui morì — all’età di settantadue anni — a causa delle complicanze causate dai calcoli renali. Il compito che Epicuro si pose, animante tutta la sua filosofia, era costituito dall’indicare all’uomo una via che lo allontanasse dall’infelici- 38 Rivista Thule Italia tà: egli pensava pertanto alla sua filosofia come a una cura necessaria per liberare l’uomo dal male. Da qui proviene la denominazione “quadrifarmaco” ovvero cura per i quattro mali, che lui intendeva attuare dimostrando che “non sono da temere gli dèi, non è cosa di cui si debba stare in sospetto la morte; il bene è facile da procurarsi; facile a tollerarsi è il male”. La filosofia di Epicuro è, quindi, tutta incentrata primariamente sullo studio della Natura e secondo poi alla liberazione dell’uomo da ogni preoccupante prospettiva ultraterrena, indirizzando il suo sguardo verso la vita terrestre e liberandolo dalla morsa di despoti del cielo che ne tengono l’animo in ostaggio. Il suo pensiero è notevole soprattutto perché risulta rappresentare il primo tentativo atto a svincolare l’uomo dalle pesanti catene del metafisico — in nome di un ritorno alla frugalità del vivere comune —, il tutto rimarcando fortemente l’impossibilità per l’uomo della vita immortale e sottolineandone la sua mortalità: in tal senso egli allora può pienamente essere definito un materialista. Epicuro muove i primi passi del suo pensiero da tesi che ricordano la filosofia di Parmenide. Non analizzeremo il pensiero di questo filosofo, ma possiamo enunciare ciò che da Epicuro ne venne assorbito: in particolare, secondo il nostro filosofo, nulla deriva dal nulla e nulla può dissolversi nel nulla. Questi presupposti rappresentano il noto principio fisico che vieta la creazione e la distruzione dell’energia: in questo mondo siamo incapaci di creare o distruggere la materia (che altro non è che energia condensata o lenta), ma possiamo solo trasformarne la forma. È sempre interessante notare che laddove oggi sussiste la presenza di individui davvero geniali che enunciano la possibilità di creare energia a costo zero, l’uomo greco già millenni fa conosceva il più grande limite posto alla capacità creativa umana. Da queste due premesse Epicuro fa discendere la seguente conclusione: ovvero, poiché dal nulla non si può generare niente e, inoltre, niente può essere dissolto sino a scomparire nel nulla, allora sicuramente l’essere è eterno. Questa è una vera e propria dimostrazione per assurdo che implica come assunzione che se il nulla non può esistere, allora solo l’essere è presente nell’universo conoscibile. Cosa si intenda per “essere” va oltre i compiti del presente scritto, ma basti sapere che la scienza dell’essere, l’ontologia, rappresenta una branca a sé del sapere filosofico. Possiamo però chiarire cosa rappresenti l’essere per Epicuro: egli sostiene sia il pensiero di Talete, che distingueva tra essenza e sostanza, sia le riflessioni di Eraclito sul divenire, ma arriva a fondere insieme questi concetti, pensando che è La terra 39 indubbiamente vero che il mutamento è il meccanismo alla base della realtà e che questo si esplica nella generazione e nella corruzione ovvero nell’eterno alternarsi di vita e morte, ma essendo impossibile creare dal nulla, quindi passare dal nulla all’essere, deve esistere qualcosa che permane sempre immutato, capace di attraversare tutti i cambiamenti senza mai modificarsi: secondo Epicuro questo qualcosa è proprio l’essere, che può considerarsi come ciò che è sempre esistito e sempre esisterà. Il filosofo passa poi all’osservazione dei corpi e, in particolare, egli nota come questi siano in continuo movimento, mai troppo a lungo fermi in un dato luogo. Egli pensa che, non potendo esistere il nulla, necessariamente ogni corpo, per quanto possa essere diviso in piccole parti sempre più invisibili, non potendo dissolversi, deve essere formato da realtà non osservabili, ma comunque presenti e indivisibili, dei “mattoncini” che unendosi danno origine ai corpi e che comunque, quando questi si dissolvono disgregandosi, non spariscono, ma continuano a esistere. Proprio come Democrito, Epicuro chiama queste particelle atomi. Egli non può dimostrare direttamente la loro esistenza, ma può comunque risalire a questi per via indiretta, un po’ come per l’essere: se gli atomi non esistessero, il mondo fisico sarebbe discontinuo e frammentato e il nulla potrebbe esistere, ma per quanto scritto prima il nulla non esiste e il mondo fisico è fortemente coeso, quindi gli atomi esistono. Il loro moto li porta a unirsi e questo infinito concentrarsi e diradarsi — ovvero l’alternarsi di unioni e scissioni — causa la nascita e la morte non solo di questo mondo, ma di tutti gli infiniti mondi esistenti accanto al nostro. La teoria di Epicuro si mostra, pertanto, estremamente all’avanguardia ed egli, secoli fa, concepisce già l’esistenza non solo degli atomi, ma del fatto che è la loro aggregazione che crea le sostanze (ciò che lui designa generalmente come corpi) e soprattutto riconosce come atomi diversi possano generare mondi (ed esseri viventi) diversi. La straordinarietà della fisica di Epicuro non consiste solo in questo, ma anche nel fatto che egli ha letteralmente divorato i tempi storici del progresso scientifico sostenendo con mezzi puramente logici non solo l’esistenza degli atomi, ma anche il fatto che essi debbano possedere una natura diversa che li porta ad avere forma e pesi differenti a seconda dell’elemento d’appartenenza: il lettore si rende bene conto come il passo dal pensiero di Epicuro alla moderna chimica sia effettivamente davvero breve. Il nostro filosofo cerca anche una spiegazione al meccanismo di aggre- 40 Rivista Thule Italia gazione degli atomi. Noi non abbiamo alcuna sua fonte che ci riferisca la spiegazione da lui ideata, ma ne troviamo notizia negli scritti di Diogene Laerzio, Cicerone, Plutarco e soprattutto Lucrezio. Egli concepisce la teoria della parénklesis — parola greca che sta per deviazione —: questa consiste nell’osservazione che in virtù del loro peso gli atomi sono sempre impegnati in una continua discesa verso il basso. Non seguono però traiettorie rette e, a causa di reciproche attrazioni, di tanto in tanto subiscono delle deviazioni che li costringono ad urtarsi tra loro e a unirsi in conglomerati sempre più grandi. Per quanto questa teoria possa risultare fantasiosa, bisogna notare quanto, ancora una volta, sia davvero mirabile e grande la capacità di immaginare una forza d’attrazione tra gli atomi da parte di uomini che (apparentemente) non avevano idea alcuna di elettroni e protoni. Epicuro enuncia che tutta la conoscenza del mondo naturale si fonda sulle sensazioni visive, tattili e, in generale, su quelle che l’uomo raccoglie tramite i sensi corporei. Queste, però, altro non sono che immagini emesse dagli atomi (i quali vibrano ogni qual volta i nostri sensi entrano in contatto con loro) e poi conservate nella memoria. In questo modo Epicuro spiega anche il manifestarsi nella mente dei ricordi, enunciando che questi altro non sono che l’immagine che ci è stata trasmessa e che noi abbiamo conservato, interiorizzandola. Proprio a partire dalle sensazioni, Epicuro segue un semplice ragionamento volto a convalidare la possibilità per la mente umana di conoscere correttamente il mondo. Egli, infatti, afferma contro coloro che credono che le sensazioni siano illusorie, che queste sono invece sempre vere e mai fonte d’illusione. Una simile frase potrebbe cozzare pesantemente contro la realtà dei fatti — basti pensare a un cucchiaino messo in un bicchiere pieno d’acqua: i nostri occhi lo vedranno storto e spezzato mentre in realtà questo è perfettamente integro. Come conciliare l’affermazione di Epicuro circa la veridicità delle sensazioni contro un’esperienza come questa? Il nostro filosofo risponderebbe che l’errore non sta nella sensazione, ma nell’informazione che l’osservatore estrapola da essa o meglio nell’opinione che egli crea nella propria mente. Contro tutti gli astrattismi volti a umiliare la natura organica e corporea dell’uomo, Epicuro ancora una volta rimarca invece la validità delle sensazioni che l’essere umano raccoglie dal mondo naturale, sottolineando la stretta connessione tra la sensazione e l’oggetto che l’ha provocata. Egli, però, ammette che le sensazioni debbano essere sottoposte a controllo, così da poterne ricavare un’informazione esatta e non contraddittoria: tornan- La terra 41 do all’esempio precedente, una sana riflessione porterà l’osservatore a dire che il cucchiaino nel bicchiere non è spezzato, ma che è presente un fenomeno di rifrazione che modifica l’aspetto dell’oggetto. Epicuro, nella sua analisi volta alla riconferma della veridicità del mondo fisico, compie un’ulteriore distinzione tra oggetti evidenti, controllabili e nascosti. I primi sono quelli che forniscono un’informazione corretta così per come ci appaiono, senza bisogno di controllo alcuno; i secondi sono invece costituiti da tutti quelli che generano sensazioni sulle quali occorre indagare e riflettere prima di potere estrarre un’informazione esatta: è il caso del cucchiaino rifratto di prima. Infine gli oggetti nascosti: questi non possono essere percepiti direttamente dai nostri sensi, ma se ne possono comunque cogliere degli indizi che, correttamente analizzati, conducono la ragione all’osservazione della loro esistenza e all’informazione che questa fornisce. È il caso delle stelle, per esempio, oppure degli atomi: Epicuro, con i mezzi del tempo, non poteva mostrare direttamente la loro esistenza eppure, tramite una dimostrazione per assurdo (tutta consistente nella posizione che dall’essere non si produce il nulla), è riuscito a farsi un’idea così vicina alla realtà della loro natura. Quanto scritto basta per esporre la fisica epicurea, che affonda le sue radici nel mondo naturale e lo studia con occhio amorevole e non con l’arroganza di chi rigetta tutto ciò che non è in grado di capire. Pertanto, possiamo ora esporre il messaggio principale della sua filosofia: la liberazione dell’uomo dall’infelicità. In realtà, il primo passo che Epicuro vuole compiere è quello di svincolare la mente umana dalle catene costituite dai credi religiosi, che tolgono all’uomo la libertà intellettuale ostacolandone la crescita morale. Egli però non annulla le divinità, ma ne ridimensiona il campo d’influenza: in particolare Epicuro sostiene che “Gli dèi esistono. Ne abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma chi applica le opinioni del volgo agli dèi” (Epicuro, Lettera a Meneceo). Epicuro quindi non stravolge la credenza nelle divinità, ma condanna l’attribuire a queste comportamenti antropomorfi come la benevolenza e l’iracondia. Egli sostiene che gli dèi sono fatti della stessa materia degli uomini (gli atomi), ma possiedono in più l’abilità di non disgregarsi che assicura loro l’immortalità. Essi vivono negli intermundia, spazi vuoti tra un mondo e l’altro, nei quali conducono una vita eterna e beata. Il punto principale dell’analisi 42 Rivista Thule Italia epicurea è che gli dèi, in virtù della loro condizione felice, non si occupano degli uomini né per il loro bene né per il loro male, disinteressandosi del tutto degli esseri inferiori o persino essendo all’oscuro della loro esistenza. Quindi se esiste un essere divino questo deve trovarsi in uno stato di beatitudine tale da non poter essere perturbato: ciò vuol dire che il dio non si occupa degli uomini e non pretende nulla da loro; non è allora sbagliato pensare che la paura degli uomini verso la divinità sia del tutto immotivata ed è sciocco preoccuparsi di seguire uno stile di vita tale da ingraziarsi il suo volere. L’unica strada verso la felicità comincia con lasciarsi gli dèi alle spalle e amare la vita liberamente e senza catene di sorta che blocchino l’azione dell’uomo in precetti vuoti e privi di significato. La seconda componente del quadrifarmaco epicureo è finalizzata alla liberazione dalla paura della morte. Epicuro afferma che l’uomo è dotato di un’anima, ma questa — essendo composta da atomi e non essendo divina — è destinata a disgregarsi insieme al corpo. Ma la morte, di per sé, non è qualcosa da temere: “Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. […] Stolto chi afferma di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma perché arrecherà dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa” . Epicuro quindi sostiene che se la morte priva l’uomo delle sue capacità sensorie, allora il suo sopraggiungere non può essere avvertito, quindi il passaggio dalla vita alla morte non può essere temibile, dato che non è doloroso. Continua infatti così: “Essa non ha alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni non è niente e, quanto agli altri, essi non sono più”. In questo passo dell’epistola a Meneceo erompe tutto il materialismo epicureo: c’è una sola vita (quella sensibile) e non ne esistono altre dopo la morte dalle quali attendersi premi o dannazioni in base alla condotta terrena. Posto questo per Epicuro è più importante quindi stare attenti al presente, godere appieno della vita, ricordando di assaporare tutto, poiché non esiste alcun mondo ultraterreno. La transizione dalla vita alla morte inoltre non è da temere, visto che non conduce in alcun luogo pieno di dolore e neanche ci si rende conto del momento in cui avviene. Risulta strettamente connesso a questo passo del quadrifarmaco il terzo proposito di Epicuro: la liberazione dal dolore. Non c’è nulla di più facile secondo il filosofo greco che liberarsi dalla paura verso il dolore: infatti, l’esperienza assicura che questo è solo La terra 43 di due tipi ovvero intenso, ma di breve durata e debole, ma di lunga durata. In ogni caso quindi il dolore è facilmente sopportabile e data la sua fisiologia non rappresenta nulla di temibile. Ciò che invece bisogna allontanare è la paura, sentimento che acuisce il dolore, aumentandone il potenziale e rendendolo intollerabile. Ecco allora il terzo consiglio di Epicuro: accettare il dolore senza preoccuparsi anzitempo dei suoi sviluppi e tenendo a mente che in ogni caso se è intenso dura poco, se è duraturo invece è poco intenso, non rappresentando mai nulla che una mente ben preparata non sia in grado di gestire. Infine, l’ultimo concetto che spiana la strada verso la felicità è costituito dal riconoscere che il piacere è semplice da procurasi. Epicuro sino a questo punto del suo pensiero sostiene di avere liberato gli uomini dalla paura del dolore, dimostrando che questo non può essere causato né dagli dèi incuranti, né dalla morte e neppure può essere patito in una futura vita ultraterrena e che, una volta vinta la paura, risulta essere una sensazione facilmente dominabile. Il nostro filosofo nota poi che tutti gli uomini hanno dei desideri, anzi sono proprio degli esseri desideranti. L’oggetto dei desideri secondo Epicuro è, in ultima istanza, il piacere personale. A differenza delle filosofie platoniche e aristoteliche, quella di Epicuro identifica il soddisfacimento del desiderio, quindi il piacere, come bene primo e scollega del tutto la ricerca di questo dall’esercizio della ragione: giusto per fare un esempio, per Platone l’Idea del bene poteva essere vista solo dopo avere sviluppato una ragione tale da permetterne la visione intellettiva. Per Epicuro, invece, le cose non stanno così e il bene è una condizione del piacere: questo quindi è un fine e non un mezzo. Tutto ciò comunque non implica che l’uomo debba vivere smodatamente alla ricerca della soddisfazione di tutti i suoi piaceri, giacché non tutti hanno la necessità di dover essere soddisfatti. In particolare, egli distingue tra desideri naturali e vani: nei primi egli inoltre differenzia i desideri necessari da quelli non necessari. Un tipico desiderio naturale e necessario è quello dell’alimentazione, che degenera in non necessario se si considera il desiderio per cibi costosi e raffinati. Un desiderio vano è invece quello verso il potere e la ricchezza. Epicuro indica, seguendo una linea di pensiero estremamente pratica, la nocività intrinseca nei desideri vani: prendendo l’esempio del desiderio di ricchezza, il compimento di questo potrebbe provocare tali contrasti, intrighi e contese da fare in modo che l’individuo, nella sua ricerca, ne esca irrimediabilmente danneggiato. Similmente accade per i desideri non necessari e, in generale, queste due categorie di desi- 44 Rivista Thule Italia deri, con pesi diversi, rappresentano piaceri apparenti, di breve durata, ma nefasti negli effetti. Quindi, conclude Epicuro, il piacere è facile a procurarsi se, riflettendo prima di agire, ci si abitua a evitare la ricerca dei beni voluttuari e allettanti, ma di difficile appagamento, indirizzando il proprio sguardo alla realizzazione dei propri desideri naturali e necessari, i soli che provocano una sensazione di benessere duratura e non dannosa. L’uomo tratteggiato da Epicuro è una persona felice — in quanto non agitata dalle passioni —, che vive nell’equilibrio della ricerca di un piacere che non lo assoggetta al desiderio stesso. L’epicureo è quindi lontano dagli astrattismi celesti, incentra il suo sguardo sulla terra dove vive, dimentico degli dèi come questi lo sono di lui e scevro dalla paura dell’oltretomba. Calcolando le sue azioni e prevedendo le reazioni sta lontano dalla paura, l’unica cosa che può acuire il suo dolore. Qui sta la saggezza epicurea e il nocciolo ultimo del suo quadrifarmaco, una medicina capace di rinvigorire la natura materiale dell’uomo e di riallacciarne il collegamento con la terra, dalla quale egli proviene. Il contrasto tra la componente aerea e spirituale e quella terrena e materiale, aspetti costituenti entrambi la natura dell’essere umano — secondo quanto brevemente visto prima sotto la luce religiosa e, in seguito, sorto chiaramente per la prima volta nel pensiero di Epicuro — ha accompagnato la vita intellettuale dell’uomo, alternando fasi dove un aspetto predominava ad altre dove lo stesso veniva ampiamente svilito. È come se la collettività umana, o per meglio dire la massa, fosse incapace di sviluppare una visione equilibrata che porti a una concezione organica e più armonica della vita, preferendo passare da una posizione estrema, quindi fallace, all’altra. In ogni caso, nonostante la schizofrenia delle masse, permane in alcuni singoli individui una certa capacità di discernimento che li porta ad assumere, a volte in maniera innata e talvolta come risposta all’ambiente sociale, degli atteggiamenti estremamente critici e, al contempo, costruttivi. In questo senso, ovvero nell’ottica di un pensatore che rispose vigorosamente al prevalere della sfera religiosa su quella propriamente umana, vogliamo qui proporre l’esempio di un altro filosofo che ha indagato sui valori morali dell’uomo: Friedrich Nietzsche. Non creda il lettore che l’esempio di Nietzsche non sia altamente costruttivo, poichè è una triste abitudine — della carente scuola odierna — ridurre il pensiero di questo illustre filosofo al “super uomo che uccide Dio e quindi può tutto”. Invero, il pensiero di Nietzsche è molto più complesso di quel che possa sembrare e non La terra 45 andrebbe tanto studiato tramite il filtro didattico, ma letto direttamente dalle sue opere, compito che viene lasciato alla sensibilità personale e al proprio bisogno di crescita interiore. Noi analizzeremo il pensiero del filosofo sottolineando quanto il concetto della “morte di Dio” non sia assolutamente il messaggio di un nuovo ateismo, ma un invito ad abbandonare culti ormai morti poiché sviliti e corrotti in nome di una nuova religione che inizia la sua etica proprio dall’uomo nuovo, dall’uomo che deve venire (l’Übermensch) che “ama la vita” e “ricerca il senso della terra” . Friedrich Nietzsche nasce a Rocken, una frazione della cittadina di Lutzen in Sassonia, il 15 ottobre del 1844. Proviene da una stirpe di pastori protestanti e suo padre viene ricordato come un uomo reazionario fortemente amante del regime monarchico. La giovinezza del filosofo trascorre serena, senza grosse problematiche ed egli si occupa dello Friedrich Nietzsche fotografato da Walter studio della filologia classica, seKaufmann nel 1882. guendo dei corsi prima a Bonn e poi a Lipsia. La sua carriera accademica è tanto folgorante che nel 1869, a soli 24 anni, riceve la cattedra di filologia classica presso l’università di Basilea. La carriera letteraria del filosofo inizia invece nel 1872 con la pubblicazione de La nascita della tragedia. Nel 1879 per dichiarati motivi di salute, ma in realtà per il fatto che la carriera accademica non lo soddisfava pienamente, egli lascia l’insegnamento ed inizia un lungo pellegrinaggio in giro per l’Europa che lo impegnerà per praticamente tutta la vita. Durante il soggiorno a Rapallo, nel 1883, egli inizia la stesura del suo capolavoro: Così parlò Zarathustra, testo che ultimerà due anni più tardi a Roma. Occorre dire che il lavoro letterario e filosofico sostenuto da Nietzsche fu veramente enorme, dato che in pochissimi anni egli pubblicò svariati testi e saggi, occupandosi di dare forma organica a tutte quelle intuizioni interiori che nascevano nel suo spirito. A questa 46 Rivista Thule Italia fatica intellettuale va aggiunta la fatica fisica insita nel sostenere tanti viaggi e continui spostamenti da un luogo all’altro. Per terzo si consideri poi la grande delusione d’amore che egli provò verso Lou Salomè, una giovane russa di 24 anni: Nietzsche si innamorò di lei a tal punto da volerla sposare, ma la slava rifiutò la proposta di Nietzsche per sposare Paul Rèe, un amico del filosofo. Il colpo fu tremendo e non stupisce che, dopo questo avvenimento, il temperamento di Friedrich subì dei notevoli cambiamenti. A questo quadro si aggiungano infine i grandi sforzi economici che egli dovette sostenere per stampare i propri libri (a causa della mancanza di finanziatori esterni) che purtroppo faticavano a riscuotere successo presso il pubblico europeo. Stanco e dai nervi spossati a causa della faticosa vita che egli si ostinava a condurre si trasferisce a Torino, dove sembra acquisire un’apparente stabilità. Qui egli comincia a comporre la sua ultima opera dal suggestivo titolo Volontà di potenza, ma non riesce a portarla a termine: il 3 gennaio del 1889 cade infatti preda della pazzia. Le ipotesi circa il collasso della mente di Nietzsche sono due e argomentano la prima un esaurimento nervoso (giustificabile col tenore di vita eccessivamente sfibrante) e la seconda un tumore cerebrale, malattia della quale potrebbe avere sofferto anche il padre di Friedrich che morì in condizioni mentali simili a quelle del figlio. Dichiarato incapace di intendere e di volere viene affidato alle cure della sorella che lo porta a vivere con sé a Weimar. Muore di polmonite il 25 agosto del 1900 e, a causa delle oscure tenebre della follia nella quale è caduto, non si rende conto che i suoi testi, sui quali tanto aveva scommesso in termini di lavoro mentale e sacrificio economico, riscuotono successo in tutta Europa. Nietzsche durante la sua giovinezza lesse e rimase notevolmente impressionato dall’opera Il mondo come volontà e rappresentazione del filosofo tedesco Schopenhauer. Egli, in particolare, condivise la sua visione pessimistica della vita, intesa come trionfo di dolore e pervasa da una caotica irrazionalità. Nietzsche cerca quindi di sintetizzare le impressioni filosofiche ricevute con i suoi studi riguardanti la filologia classica e da questo intento vede la luce, nel 1872, La nascita della tragedia. Così come noi in questo testo abbiamo identificato i due poli antitetici, quello terrestre e quello aereo, allo stesso modo egli ritrova questi all’interno del mondo della tragedia greca. Per il lettore che non conosce il mondo tragico possiamo tracciare a grandi linee una piccola descrizione: le tragedie erano rappresentazioni musicate in versi che raccontavano delle storie a sfondo mitologico (ispirate a miti di base ampiamente La terra 47 conosciuti, ma mutati dal tragediografo in base al messaggio che egli voleva inviare al pubblico). La struttura basilare delle tragedie spesso presentava inizialmente una situazione ideale, che rapidamente degenerava, terminando appunto in maniera “tragica”. Tipica del mondo narrativo delle tragedie greche è l’assenza di motivi razionali capaci di spiegare il concatenarsi degli eventi, che invece si susseguono sempre più veloci sino alle conclusioni ultime; in questo ambiente si muove la figura dell’eroe tragico, il protagonista della storia, che generalmente assiste inerme alla distruzione del suo mondo (che può essere la propria famiglia, la città d’appartenenza o il suo onore) senza poter fare assolutamente nulla per fermare l’accelerazione degenerativa che tutto consuma: questa figura è la perfetta incarnazione dell’uomo in balìa dei colpi del destino. Infine, un altro elemento fondamentale delle rappresentazioni tragiche è la presenza di un coro che accompagna e commenta gli eventi. Spesso è nei dialoghi tra l’eroe tragico e il coro che il tragediografo sviluppa le tematiche morali ed esistenziali della propria narrazione, utilizzando questa forma di dialogo teatrale come strumento tramite il quale inviare al pubblico il suo messaggio. Riteniamo questi elementi sufficienti per poter capire cosa Nietzsche elaborò dal mondo tragico greco, ma rimando il lettore interessato all’approfondimento di un testo indicato in bibliografia. Nietzsche osservò che lo sviluppo della tragedia — incarnata inizialmente nella figura di Eschilo, ritenuto unanimemente l’iniziatore del genere tragico — rappresentò nel mondo greco dei presocratici, ovvero nella Grecia antecedente alla nascita del pensiero filosofico Busto di Eschilo di Socrate, l’esplosione del senso d’accettazione della vita, della comprensione della fragilità insita nella condizione umana e contemporaneamente della sua esaltazione. Nella tragedia l’uomo greco riusciva a rendersi conto della sua condizione esistenziale appunto perché poteva godere di un punto di vista esteriore agli eventi narrati, riusciva a diventare 48 Rivista Thule Italia spettatore di avvenimenti sì esasperati, ma il cui nucleo rappresentava emozioni con le quali spesso aveva a che fare. Così, guardando certe situazioni dall’esterno, le poteva studiare, le interiorizzava e accettava, uscendo dal teatro non con un senso di sconforto o di tristezza interiore, ma gioioso, perché capace di accettare la vita semplicemente così com’è, senza volontà alcuna di recriminazione verso le sue ingiustizie, ma anzi amando anche queste. Nietzsche vide in questo una scelta coraggiosa, un senso della terra (contrapposto all’inseguimento degli dèi e della loro benevolenza) che porta a un’esaltazione dei valori vitali. Egli, perciò, riconobbe nel mondo greco presocratico la manifestazione più pura di un ideale (da noi definito appunto come senso della terra) da lui chiamato spirito di Dioniso. In questo dio greco egli vede l’immagine dell’ebbrezza, quindi della forza istintiva e fisica, della salute: l’esaltazione quindi poetica di tutti i valori materiali prima della loro degenerazione in materialistici. Lo spirito di Dioniso pertanto marcava un’umanità che testimoniava una piena armonia tra la natura interiore ed esteriore, capace di accettare l’una e l’altra senza desiderio di porvi modifica alcuna. Accanto a questo spirito però Nietzsche trova quello dell’Apollineo, che egli identifica come l’ispiratore delle visioni di sogno, eteree e metafisiche, una tendenza che porta l’uomo a essere moderato e misurato, che lo spinge a negare sé stesso nella ricerca del proprio miglioramento; se il Dionisiaco si manifesta nel movimento caotico, l’Apollineo si fissa in figure ferme ed equilibrate. Questi spiriti secondo Nietzsche si manifestano pienamente nel mondo artistico, ma in forme differenti: l’apollineo nell’arte figurativa, il dionisiaco in quella musicale. Quindi egli denota che se da una parte è vero che il loro contrasto è presente nel mondo greco, dall’altra bisogna assumere che la contrapposizione di questi due poli dialettici ha fatto da agente propulsivo per tutto il panorama culturale ellenistico. Infatti, egli così scrive: “Lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco […] nel mondo greco esiste un enorme contrasto, enorme per l’origine e per il fine, tra l’arte figurativa, quella di Apollo, e l’arte non figurativa della musica, che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti vanno perlopiù in aperta discordia […] fino a quando in virtù di un miracolo compaiono accoppiati l’uno con l’altro”: ciò accade nella tragedia greca, dove la musica viene combinata alla rappresentazione e lo spirito fermo dell’apollineo, figurativo, viene posto in movimento incarnandosi nella figura dell’attore al ritmo della musicalità dionisiaca. L’esposizione di Nietzsche prosegue oltre ed egli nota come la rottura di questo La terra 49 equilibrio e la perdita dell’amore per la vita siano dovuti all’irrompere sulla scena di uomini che hanno fatto dell’apollineo la bandiera della propria vita, giungendo alla mortificazione di quei valori vitali prima esaltati. Il primo di questi fu il tragediografo Euripide, che eliminò dalla tragedia l’elemento dionisiaco in favore di riflessioni cervellotiche e moraliste. Poi fu Socrate, la cui pretesa di dominare e capire tutto con la sola ragione e di svilire l’esperienza nel mondo fisico e le informazioni procurate dai sensi (in perfetta opposizione con il pensiero di Epicuro) portò la vera decadenza, la morte del dionisiaco e lo sbilanciamento verso la visione rarefatta, aerea ed immota apollinea. Infine Platone, che svilì la Terra e tutto l’universo a mera ombra di un mondo superiore, l’Iperuranio, il più aereo di tutti, invisibile ai sensi fisici e godibile solo con lo spirito. Il mondo greco, pertanto, si era del tutto distaccato da quell’accettazione coraggiosa della vita che tanto l’aveva distinto, abbandonò sé stesso e incominciò a detestare il suo stesso riflesso in nome della ricerca di un continuo perfezionamento interiore che però, scevro dal contrappeso dionisiaco, diventava irrefrenabile incapacità di accettare il mondo, distruggendo ciò che legava l’uomo alla natura. Scrive quindi Nietzsche che “Socrate fu un equivoco. Tutta la morale del perfezionamento fu un equivoco […] la razionalità a ogni costo […] era solamente una diversa malattia”. Nel finale della sua prima opera, Nietzsche alza lo sguardo verso gli orizzonti morali che lo terranno impegnato per tutta la vita, conscio però di aver trovato sia la condizione ideale per l’uomo sia la causa del decadimento che continua ad attanagliare la condizione umana: la negazione del dionisiaco. A partire da questo momento, secondo Nietzsche, l’umanità iniziò un processo di degenerazione, privandosi da sola della propria libertà per piegarsi a vuoti esseri del cielo, a divinità del tutto inesistenti. La morale del perfezionamento, logica conseguenza del predominio dello spirito apollineo, ha rappresentato in realtà la morte dei valori positivi. In quest’ambiente declinante i deboli hanno giocato secondo Nietzsche il ruolo delle volpi: nella Genealogia della morale, infatti, egli sottolinea come gli schiavi, ovvero i deformi e i malriusciti, abbiano tradotto in ipocriti ideali morali il loro odio per la forza, per la bellezza e la gioia di vivere e, in generale, per tutto ciò che veniva loro negato in virtù del loro status di malati. In questo modo ipocrita, svilendo il mondo terrestre e tacciandolo per peccaminoso, essi riescono a dominare sui forti, gli individui sani che sarebbero naturalmente portati ad amare la natura, la vita in sé e per sé e l’ebbrezza, ma che invece — incatenati 50 Rivista Thule Italia da finti precetti morali — si mettono da soli in ceppi riducendosi alla stessa immobilità dei malati. Tale è stato il diffondersi del degrado che neanche l’avvento di individui eccezionali, gli oltreuomini — ovvero personalità particolarmente ben disposte in spirito da liberarsi dalla morale comune del risentimento per abbracciare il dionisiaco — è riuscito a riportare l’equilibrio e a smascherare l’inganno della falsa morale degli schiavi. Tra questi, per esempio, vi è Cristo, che Nietzsche non esita a definire come un “libero spirito” e “l’uomo più nobile”, arrivando anche a scrivere che “il simbolo della Croce è il più sublime che sia mai esistito”. Eppure, nonostante la presenza di queste menti illuminate, qualcosa andò storto nel processo dello sviluppo umano. Nietzsche riesce a spiegare questo colossale errore, nel quale il mondo occidentale è caduto, spingendosi ben oltre dove era giunto Epicuro: se il filosofo greco proclamava il disinteresse degli dèi verso gli uomini, lui nella Gaia scienza proclama, per bocca di un folle: “Che ne è di Dio? Io ve lo dirò. Noi l’abbiamo ucciso; io e voi”. In questo passo Nietzsche proclama la morte di Dio e la fine dei valori ad esso collegati: l’uomo perde ogni punto di riferimento e diventa come una zattera in balìa del mare in tempesta, solo con sé stesso. Insieme a Dio, tuttavia, è destinato a morire anche l’uomo vecchio e a nascere un uomo che vada oltre i vecchi valori, l’Übermensch, l’oltreuomo. Ma come è morto Dio e quale sarà il nuovo spirito dell’Übermensch? Questo verrà ampiamente trattato da Nietzsche nella sua opera più intrinsecamente costruttiva, il Così parlò Zarathustra. In questo testo, che rappresenta il suo capolavoro, Nietzsche non solo chiarisce il significato della morte di Dio, ma si preoccupa anche di dare una nuova etica per una rinata umanità capace di assorbirla: dove gli scritti passati rappresentano la critica più forte e distruttiva, lo Zarathustra indica invece la parte positiva della filosofia di Nietzsche, ovvero quella propriamente costruttiva. Il nome del libro (e del suo protagonista) non è casuale: esistette infatti nel passato un filosofo persiano di nome Zoroastro, il quale per primo riformò il sistema religioso persiano individuando due profondi principi alberganti nell’animo umano, quello del bene e quello del male. Nella finzione narrativa del testo, costui ritorna per compiere la stessa operazione eseguita millenni prima, ma rovesciando al contempo i criteri di giudizio. Dietro la figura di Zarathustra, un vero e proprio profeta dell’uomo nuovo, si cela la persona dello stesso filosofo tedesco. La morte di Dio, secondo lui, è un evento di portata cosmica, del quale tutti gli uomini sono responsabili. Questo La terra 51 però non indica il fatto che essi abbiano ucciso un essere immortale o perfetto, bensì che essi lo hanno dimenticato. Prima, nella Grecia antica, il Dionisiaco imperava e gli uomini vivevano — indifferenti ai despoti celesti — una vita felice sulla terra, poi vennero i grandi malati, primo tra tutti Platone, a mortificare questo mondo in virtù di eteree vette invisibili, infine sinanche Cristo, un uomo che indicò agli uomini la via da seguire (quella del coraggio e dell’azione) vide svilita tutta la sua opera da parte della chiesa cattolica. Questa rappresentò il vero anticristo in quanto sovvertì il messaggio iniziale di Cristo e trasformò lui, il più libero di tutti gli uomini, in un simbolo di sofferenza e di malattia. “La chiesa non lasciò nulla d’intatto nel suo pervertimento, ha fatto di ogni valore un disvalore e di ogni verità una menzogna”, tanto arriva a scrivere Nietzsche. Così, in seguito, nacque la morale degli schiavi, legittimata da basi metafisiche inventate e su mondi superiori (come il paradiso o l’inferno) creati dai deboli solo per “calunniare e insudiciare questo mondo”. Infine, nota Zarathustra, dopo questa fase dell’umanità sorse la società ottocentesca imbevuta di positivismo. Il Dio degli schiavi e dei malfermi, quella sorta di grande paralitico universale appeso alla croce, dovette cedere il passo a nuovi valori: la società imbevuta della filosofia positivista era diventata estremamente critica verso la sfera religiosa e così si era lasciata quel falso dio alle spalle, ma continuava a manifestare ancora, dietro la maschera borghese, atteggiamenti più che religiosi e “umani, troppo umani”: la ferma convinzione nello sviluppo storico creò le nuove credenze nel progresso e nel socialismo e, ancora una volta, gli uomini legavano il proprio sano istinto alla vita dietro leggi e prassi sociali. Eppure, in virtù di questi valori il vecchio dio era stato ormai dimenticato e sepolto nel passato, quindi era morto, sostituito dalla morale borghese. Zarathustra enuncia che l’uomo è rimasto “solo”: esclusa la figura divina, che fungeva da custode dell’ordine morale, ogni legge etica che l’umanità accoglie si fonda sul nulla, su una posizione presa oggi e possibilmente lasciata cadere domani. La morte di Dio annuncia agli uomini da una parte la loro nuova libertà, ma dall’altra toglie l’unico punto di riferimento che ha orientato la loro vita. Occorre allora una trasmutazione dei valori che implica un ritorno allo spirito dionisiaco della terra. Ma da dove partire? Dove l’uomo deve porre lo sguardo per tornare a essere sé stesso e, al contempo, superarsi? Per rispondere a queste domande basta osservare con occhio amorevole la natura: proprio il mondo manifesta un’unica necessità, che Nietzsche vive come una vera e propria 52 Rivista Thule Italia intuizione e non riesce bene a spiegare, che è la ferma volontà nel ripetere sé stesso all’infinito, manifestazione di una forza che lo porta a perpetuare nell’eternità la propria stessa esistenza senza mai cambiare. Proprio perché il mondo naturale (di cui l’uomo fa parte) è la manifestazione fisica del dionisiaco e la sua incarnazione, esso è dominato dalla volontà di amare sé stesso, di accettarsi così com’è, pertanto di ripetersi all’infinito. Lo sviluppo storico per Zarathustra non è quindi rettilineo: non esiste alcuna fine apocalittica (mera bugia religiosa) né alcun progresso dell’umanità (bugia ugualmente odiosa proclamata da uomini falsi) poiché “tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi”. Questa è la dottrina cosmologica dell’eterno ritorno e a questa si collega la prima caratteristica dell’Übermensch, dell’oltreuomo, dell’uomo che deve venire: l’amor fati, l’atteggiamento di chi accetta la vita entusiasticamente in tutti i suoi aspetti, sino a quelli più tragici, il carattere che marchia l’uomo che ama a tal punto la terra e la natura da non provare alcun desiderio di modifica o di cambiamento, ovvero di perfezionamento, ma che abbraccia entusiasticamente la realtà così per come la osserva. Il messaggio di Nietzsche, quindi, è ancora più radicale e forte di quello di Epicuro: non solo Dio non esiste, non solo la felicità dell’uomo è insita nel ricercare il necessario e nel sopportare il dolore, ma occorre anche amare questo sinceramente. Zarathustra enuncia, perciò, la trasformazione dell’uomo in superuomo: questi ama la vita e “crea il senso della terra”. La trasformazione, che altro non è che un cambio di punto di vista morale, viene spiegata tramite delle figure metaforiche: l’uomo comune è un cammello, simbolo della natura dello schiavo che lavora pesantemente portando carichi sulla sua schiena; quest’uomo “piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato”. Ma il cammello, nel deserto più solitario, solo con sé stesso muta e diviene leone, che con aspra violenza lotta contro la morale convenzionale. Il leone al grido di “io voglio” uccide il drago “tu devi” che incontra nel deserto, simbolo di tutte le istituzioni, religiose e non, che pongono un freno alla sua volontà, araldo del dio inesistente. Nietzsche è chiaro nello scrivere che la calma della bestia da soma “che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione” non basta a liberarsi, poiché serve la forza vitale e violenta del leone per “crearsi la libertà per una nuova creazione”. Infine, il leone — ucciso il drago — diviene bambino. Egli è “Innocenza, e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto”. Il bambino finalmente libero rappresenta la nuova umanità che danza La terra 53 allegramente, dimentica degli dèi falsi e amante di ogni sua esperienza, che assapora come se dovesse ripetersi all’infinito. La volontà del superuomo fanciullo è potenza, perché libera da ogni precetto. Ecco allora il messaggio di Zarathustra, il più grande inno di gioia verso il mondo che l’uomo vive giornalmente: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Un tempo il sacrilegio contro il cielo era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrilegi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile”. Quanto scritto basta per dimostrare quanto costruttiva in realtà sia la filosofia di Nietzsche e come questa spinga con forza verso la rivalutazione della vita terrena dell’uomo. D’altronde, il messaggio di Zarathustra consiste nello spingere oltre le ultime conclusioni i concetti visti nascere in Epicuro, annullando del tutto la divinità e proclamando non solo l’amore per il necessario, ma per ogni cosa in generale, compreso ciò che causa dolore. Nelle pagine dello Zarathustra, anche nelle parti più scure dove il filosofo mostra senza riserve tutta la corruzione del mondo, rimane una sorta di sottofondo idilliaco, una chiamata potente alla natura che rappresenta la prima accogliente casa per l’uomo. Lo stesso profeta giunge in città per portare la nuova dottrina agli uomini, ma egli ne ha avuto intuizione nella sua dimora, immersa nell’ambiente naturale e lontanissima dalla civiltà umana: è espresso chiaramente, nella prima pagina del libro, che Zarathustra abbandonò il paese natio per vivere da solo in montagna. Per Nietzsche, quindi, la Natura non solo rappresenta l’ambiente primo dell’uomo, ma soprattutto una fonte di risposte capace di saziare le domande dello spirito dell’uomo e di riempirne la sua essenza, depurandolo dalla corruzione della quale egli si è da solo avvelenato. In generale, nella millenaria storia umana, non sono stati pochi i pensatori che hanno guardato al mondo naturale con sguardo simile a quello del filosofo tedesco, ma occorre notare anche l’esistenza di notevoli correnti di pensiero che hanno spinto l’uomo in una direzione del tutto opposta: a pensare alla Natura come un essere sì senziente, ma assolutamente insensibile all’uomo, incapace o addirittura negligente nel rispondere a ogni sua richiesta. Il lettore noti bene che questa visione altamente pessimistica della natura, cioé della condizione umana, non è volta a negare la componente fisica dell’uomo in virtù di un’esaltazione di quella spirituale, ma invece focalizza la sua attenzione sul fatto che proprio l’uomo in quanto “animale intelligente” non può trovare alcuna accoglienza nel mondo della natura, in 54 Rivista Thule Italia quanto la sua condizione di apparente superiorità lo rende incapace di vivere “spensierato” o meglio incosciente come tutti gli altri animali. Da questo punto di vista la natura non è più madre per l’uomo, perché egli in virtù della sua condizione di essere pienamente cosciente non fa più parte del regno naturale, essendo divenuto quasi un essere estraneo, se non sgradito. Proprio su questi temi, i pensieri più profondi sono stati elaborati da Giacomo Leopardi. Le riflessioni di Leopardi e, in generale tutte le sue opere, manifestano un’attualità contenutistica tanto forte da far quasi sentire una sorta di vena pulsante di vita scorrere lungo i testi. Provando a compiere un azzardatissimo paragone con Giacomo Leopardi, di A. Ferrazzi, olio Nietzsche, si nota come la riflessiosu tela. ne sulla natura, la condizione artificiale in cui vive l’uomo moderno e il bisogno della ricerca di nuovi valori, rappresentino le basi comuni dalle quali questi due grandi “maestri del sospetto” hanno mosso le loro riflessioni. Eppure le conclusioni ultime alle quali sono giunti sono totalmente differenti: se Nietzsche, infatti, fornisce una risposta che è essenzialmente di natura ottimistica, quella di Giacomo Leopardi è assolutamente negativa e manifesta una forza dialettica probabilmente meno evidente, ma non per questo meno violenta: Leopardi non usa frasi ad effetto, ma anzi scrive volutamente con uno stile artificioso e morto che rispecchia lo stato che lui più avvertiva nella società civile. Il vigore del pensiero di Leopardi si esprime nella fortissima carica distruttiva che annienta tutti i miti della civiltà moderna e, proprio come Nietzsche, abbatte brutalmente il falso idolo costituito dall’idea del progresso. Egli elimina ogni velo di finzione per svelare la tragicità della condizione umana, dimostrando come del tutto false siano le credenze nei mondi spirituali. Laddove Nietzsche riconosceva lo spirito presente nell’uomo (cercandone la liberazione), Leopardi enuncia invece che “il corpo è l’uomo”. La critica di Leopardi però presenta un momento costruttivo (sarebbe errato scrivere una parte, data la sua presenza appena La terra 55 accennata) nel quale l’uomo può, nonostante tutto, realizzare sé stesso: questo si attua nella ricerca della conoscenza e del vero, che conduce l’uomo a rendersi cosciente della sua misera condizione. Sarebbe del tutto superficiale descrivere Leopardi come un nichilista o uno scettico, poiché egli — pur notando l’insensatezza della vita e di tutti i valori che l’umanità ha costruito come sovraimpalcature psichiche — non si arrende, ma continua nella sua personale ricerca di significato, dato che la crisi dei valori, ieri come oggi, non deve rappresentare una giustificazione per l’inedia, ma anzi una spinta a dare un significato a un mondo che sembra non avere più senso. Prima di proseguire oltre nell’analisi del pensiero di Leopardi occorre però fornire qualche notizia biografica sulla sua vita. Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno del 1798, figlio primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Vive un’infanzia ritirata e secondo l’uso nobiliare dell’epoca non frequenta scuole pubbliche, ma riceve un’istruzione privata da dei precettori cattolici, i cui insegnamenti da una parte soddisfano l’amore per il mondo classico che Monaldo voleva trasmettere ai figli e dall’altra il freddo bigottismo religioso della contessa Adelaide. Durante questi primissimi anni di studio l’amore per la conoscenza porterà Giacomo ad approfittare della vastissima biblioteca paterna ricca di classici, testi letterari italiani e stranieri, fornita anche di molte opere degli illuministi francesi, grazie alla quale Giacomo riesce a conquistare una sicurezza intellettuale e una vastità di conoscenze davvero impressionante. Già a soli dieci anni egli riesce a scrivere non solo in italiano, ma anche in latino e dimostra di sapere padroneggiare la riflessione filosofica al punto da scrivere dei piccoli trattati. Tra il 1809 ed il 1816 viene inquadrato il periodo nel quale Leopardi dedicherà sempre più tempo allo studio, stressandosi (fisicamente e mentalmente) al punto da patire i primi sintomi dei disturbi fisiologici che lo accompagneranno per tutta la vita. Nel frattempo comincia le prime traduzione dei classici (come Omero ed Orazio) e dà inizio ai primi tentativi di scrittura poetica, ma il suo amore rimane essenzialmente legato alla filologia. Il 1816 rappresenta però l’anno della svolta per Leopardi: egli infatti comincia ad avvertire la ristrettezza culturale dell’ambiente familiare, la sua insufficienza affettiva e l’arretratezza (sotto ogni punto di vista) dei genitori: questa presa di coscienza lo porta a riconsiderare la stessa conoscenza che egli ha acquisito in questi anni e Giacomo capisce bene come quella che lui ha accumulato altro non rappresenti se non mera erudizione ovvero 56 Rivista Thule Italia amore per ciò che è stato creato da altri; a questo egli vuole sostituire la ricerca di una più forte consapevolezza dei valori artistici che non sia una semplice lezione appresa da un libro. I rapporti con i familiari cominciano da questo momento a incrinarsi sempre di più, sino a culminare in una crisi costituita nel tentativo di fuga da Recanati sventato dal padre all’ultimo momento. Giacomo vorrebbe a tutti i costi sottrarsi al cupo ambiente recanatese, ma l’occasione per assaporare la libertà non giungerà prima del 1823, anno nel quale gli è permesso di trasferirsi a Roma dal fratello di sua madre. Rimane deluso dalla città ed è costretto a far ritorno per breve tempo a Recanati, ma subito dopo riparte e comincia a muoversi tra Milano e Bologna, fermandosi infine a Firenze. Nel 1827 vengono pubblicate le Operette morali, una raccolta formata da ventiquattro racconti a tema filosofico-esistenziale. In seguito torna per l’ultima volta a Recanati dove affronta dei mesi fatti sì di depressione, ma anche densi di lavori: pubblica infatti altri quattro grandi canti, tra i quali ricordiamo il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sul quale torneremo nel prosieguo di questo scritto. Nel frattempo, grazie alle numerose amicizie che egli aveva stretto, riesce a ottenere una somma di denaro che gli permette di lasciare di nuovo Recanati e di trasferirsi a Firenze, dove nel 1831 esce la prima edizione dei Canti. Nel 1833 si trasferisce infine insieme all’amico Ranieri a Napoli, ma le sue condizioni fisiche cominciano pian piano a peggiorare, sino a divenire critiche. Eppure Leopardi sente di dover intervenire nella vita culturale dell’epoca: lungi dall’essere un uomo ritirato, egli vuole imprimere la sua firma nel mondo sociale, anzi lo vuole cambiare e. a tal scopo, scrive dei testi nei quali si scaglia con violenza contro il mito del progresso (nella Palinodia al marchese Gino Capponi), contro il vuoto mondo sociale (nei Pensieri) e, infine, contro le lotte liberali (nei Paralipomeni della Batracomiomachia). Compone infine l’ultimo canto, La ginestra o il fiore del deserto che rappresenta il suo ultimo messaggio inviato all’umanità. Muore a Napoli il 14 giugno del 1837, a soli trentanove anni, a causa di un peggioramento dei suoi problemi polmonari. Leopardi espresse buona parte delle sue speculazioni filosofiche nelle Operette Morali, una raccolta composta da ventiquattro testi in prosa d’argomento filosofico, espressi in forma di racconto o di dialogo. Di questi noi analizzeremo il Dialogo della natura con un Islandese, testo che ben si collega ai temi trattati in questo scritto, riprendendo sia le riflessioni circa il disinteresse degli dèi verso gli uomini e la loro condizione viste in Epicuro sia la sorta di divinizzazione della Natura che si intui- La terra 57 sce nel pensiero di Nietzsche culminante nell’episteme costituito dall’intuizione dell’Eterno Ritorno, nel quale però le conclusioni ultime, pur partendo da premesse simili, risultano del tutto antitetiche. Già nel titolo Leopardi vuole dare un chiaro messaggio: quello che andremo a leggere non è un dialogo tra un essere onnipotente (la Natura) e un suo eguale, ma riguarda invece un uomo qualunque, del quale non si specifica altro che la sua nazionalità perché, per l’appunto, non c’è altro che lo identifichi, non avendo nemmeno un nome: è l’uomo assolutamente comune e per questo la sua esperienza può essere universalizzata a tutto il genere umano. Eppure l’autore ci manda un chiaro messaggio: pur nella sua assoluta normalità quest’uomo possiede una caratteristica peculiare, egli è un islandese, un abitante di un’isola caratterizzata dalle condizioni di vita estremamente proibitive a causa della conformazione del territorio (noto per la presenza di geyser e vulcani) e dal clima estremamente freddo. Egli ha vissuto, quindi, sin dalla sua nascita, in un ambiente naturale per nulla confortevole, anzi estremamente disagevole, imparando a conoscere sin da subito la vita precaria che gli uomini conducono. Il testo inizia proprio con il racconto del viaggio intorno al mondo che l’Islandese ha compiuto e di come, una volta giunto all’interno del continente africano, egli abbia incontrato un gigante, di proporzioni simili alle sculture dell’isola di Pasqua, ma dall’aspetto femminile. Risulta importantissima la descrizione del volto di questo gigante, “mezzo tra il bello ed il terribile”: proprio come la Natura, capace di fornire all’uomo i più sublimi paesaggi, ma al contempo di spazzare via la sua vita per mezzo di cicloni e altre calamità. L’uomo si presenta al gigante enunciando di essere fuggito, per tutta la sua vita, dalla natura. Possiamo immediatamente identificare il primo capovolgimento di senso: laddove, specie nell’era del progresso, l’uomo ricercava rifugio nella natura, un luogo dove riscoprire sé stesso, il nostro Islandese invece la fugge, ne ha paura. Verrebbe da domandarsi il motivo di tanto terrore e, in effetti, la Natura chiede all’uomo, con fare vago, perché egli scappasse da lei. La risposta dell’Islandese costituisce la maggior parte del dialogo e rappresenta un vero e proprio grido d’accusa verso la Natura. Egli esordisce dicendo che “sin dalla prima gioventù fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattono continuamente gli uni contro gli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano”. Il significato di queste parole è sin troppo chiaro e d’altronde chi meglio di un abitante dell’Islanda, isola già identificata da Voltaire come estremamente pro- 58 Rivista Thule Italia vante per gli uomini, può conoscere bene questi pensieri. Così lui decise di tirarsi fuori dalla lotta per la sopravvivenza e di non recare danno a nessun uomo, in modo da non attirare su di sé alcuna ritorsione da parte degli altri esseri umani e di non ricercare più alcun piacere, dato che questo conduce inevitabilmente al dolore. Egli specifica che non vuole vivere in ozio, astenersi dalle fatiche corporali, ma semplicemente vivere “in quiete”. L’etica epicurea risulta schiacciata sotto il peso della dura realtà: tutt’altro che facile a procurarsi, il piacere porta in sé la sofferenza. Non bisogna d’altronde pensare a nulla di fuori dal comune per giustificare questa posizione di Leopardi, si pensi già a quanto oggi possa essere difficile il solo alimentarsi e quanto sia fortunato chi vi riesce senza grande fatica. D’altronde, sin dall’inizio del testo, Leopardi è crudelmente chiaro: mentre per alcuni uomini il soddisfacimento dei propri desideri vitali è sofferenza, altri lottano per accaparrarsi oggetti che non danno alcuna soddisfazione. Torniamo però al nostro Islandese. Dopo che egli decise di vivere tramite il sudore della propria fatica accontentandosi solo del minimo, si accorse come il disagio non passava e come proprio l’ambiente naturale gli fosse profondamente ostile: “io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo e l’ardore estremo della state […] mi travagliavano di continuo [..] Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla [il vulcano Hekla,nell’Islanda meridionale, ndt], il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi”. Vita infelice quella dell’Islandese, al punto da convincerlo a lasciare la sua inospitale terra: egli pensò che forse doveva esistere un qualche luogo destinato dalla Natura alla vita degli uomini. Allora ciò che vale per gli altri animali, ovvero il fatto che alcuni vivano bene in certi habitat e male in altri, doveva valere in egual modo per l’uomo: forse la difficoltà e la miseria della vita erano soltanto delle conseguenze dovute a errori commessi dall’umanità, una giusta risposta alla sua ubris che la condusse ad allontanarsi dal luogo a lei predestinato. L’Islandese, guidato da questi pensieri, cominciò un lungo viaggio alla ricerca della patria eletta per l’umanità; eppure, dopo le sue lunghe peregrinazioni, egli testimonia che: “io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più La terra 59 luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria”. L’Islandese non trovò in tutta la terra nessun luogo fatto apposta per assicurare una serena esistenza all’uomo, ma ovunque osservò solo una continua lotta tra uomo e Natura, dove la prima attaccava anche quelle civiltà che, ancora allo stato tribale, alcun danno le avevano arrecato. La lunga esposizione dell’Islandese rappresenta un climax ascendente, il cui inizio è rappresentato dall’esposizione del suo pensiero, ma che degenera velocemente in un elenco e in un accumulo di sofferenze e di disgrazie. L’Islandese proseguirà nella sua lunga “requisitoria” elencando tutte le calamità naturali che ha visto ed affrontato: terremoti, esplosioni vulcaniche, straripamento dei fiumi; infine, farà tristemente notare come, a causa dell’ambiente circostante, la condizione umana sia estremamente fragile: “In qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie”. Il tono dell’Islandese diventa infine accusatorio quando, dopo avere compreso che sulla terra non esiste alcun luogo pienamente confortevole per l’uomo e come non ci sia verso di vivere senza disagi, esclama che “mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini”. È un’accusa fortissima questa che Leopardi scaglia contro la Natura e, seppur ampiamente motivata, suona quasi come un grido di disperazione da parte di chi si è accorto che l’uomo in realtà è condannato alla sofferenza. La risposta della Natura all’Islandese è assolutamente semplice e diretta, ma incredibilmente spiazzante. Ella infatti risponde: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo”. In queste poche righe si esprime tutta la mordente critica leopardiana: di fronte alle concezioni antropocentriche del mondo, ai miti titanici e luciferini che dipingono l’essere umano come un dio, un ordinatore del caos e, addirittura, come la ragione per la quale il mondo è stato creato, Leopardi sottolinea come l’uomo, alla vista della Natura, è nulla. La prospettiva di Epicuro (quella rappresentante gli dèi come esseri beati e per questo disinteressati alle condizioni degli uomini) è stata portata alle ultime conseguenze: la Natura, sorta di divinità panteista, non si accorge degli uomini e per questo li distrugge in maniera non affatto dissimile da quella di un uomo che camminando sul terreno schiaccia delle formiche: lui neanche si accorge di loro, stava semplicemente proseguendo per la sua strada. Ecco allora 60 Rivista Thule Italia che l’uomo gioca la parte della formica ogni qual volta la Natura si scatena ed è in questo modo che Leopardi rappresenta le vittime delle catastrofi naturali. Di fronte al progressismo borghese e al mito dello sviluppo, la risposta di Leopardi è ancora più tagliente: il mondo non è assolutamente stato creato per l’uomo. Tutto il dialogo dell’Islandese assume pertanto un nuovo tono: laddove prima della risposta della Natura questo sembrava un’accusa, esso rappresenta in realtà una chiara esposizione di come la terra sia apatica (sino a essere avvertita come ostile) all’umanità e di quanto la sua condizione sia precaria, nucleo tematico rafforzato dalla terribile sentenza esclamata dal gigante-Natura. Leopardi però manifesta una continua tensione alla ricerca pure davanti a intuizioni tanto preoccupanti. La filosofia dello scrittore infatti non si adagia, oziosa, su di un nichilismo puro, ma manifesta un senso del sospetto che non si ferma nemmeno davanti alla scoperta di verità tanto agghiaccianti. L’Islandese allora chiede perché la Natura ha creato l’uomo per porlo in una simile condizione, dato che egli non ha mai chiesto di essere creato. Lui paragona sé stesso e l’umanità a un ospite invitato in casa di un amico per il solo fine di essere ignorato e trattato in cattiva maniera: è vero che la casa dell’amico non è stata fatta per lui, ma è dovere dell’ospitante fare in modo che il suo ospite non abbia problemi durante il soggiorno. Arguisce allora: “non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?”. La risposta, l’ultima che La Natura darà all’Islandese, è ancora più terrificante della precedente: essa gli dice che “Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione”. Ecco allora cosa è l’Eterno Ritorno secondo Leopardi, ecco a cosa è legata la condizione di ogni essere vivente: a un eterno ciclo di morte e resurrezione, una spirale infinita che ruota attorno al perno della sofferenza. In questa spirale il mondo si conserva, sempre uguale a sé stesso, e la condizione dell’uomo è di dolore perché “risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento”. A questo punto Leopardi ha esposto pienamente l’illuminazione alla quale era giunto: la Natura, questa sorta di enorme dea-gigante, non nutre alcun interesse verso l’uomo e questo la porta a causargli infinite sofferenze senza neanche accorgersene; non c’è quindi alcun progresso nella condizione umana e alcuna giustizia, queste sono mere illusioni create dall’uomo, nient’altro che vuote sublimazioni ovvero bugie. D’altronde come dare torto a Leopardi? Senza volere scadere in La terra 61 fantasie apocalittiche, proprio mentre l’umanità conduce le sue stupide lotte giornaliere potrebbe essere annientata del tutto e non per questo il mondo cesserebbe di esistere: ecco allora che l’antropocentrismo e l’idea borghese di progresso sono solo delle colossali menzogne. Allo stesso modo lo scrittore previene Nietzsche, facendo notare che l’Eterno Ritorno esiste, si può facilmente constatare, ma lungi dall’essere qualcosa in cui compenetrarsi rappresenta solo una tensione negativa tra due poli (quello creativo e quello distruttivo) che schiaccia l’uomo come un elastico perennemente teso e compresso tra la morte e la vita, il cui movimento è solo sofferenza. Eppure, nonostante la sua critica all’intera condizione umana sia tanto forte, Leopardi non si appiattisce su una posizione rinunciataria, ma continua a cercare un senso, a porsi delle domande: è come se, nonostante egli avesse espresso questa sua verità esistenziale, egli sentisse di non doversi fermare, ma di continuare nella sua ricerca. Il dialogo così continua con l’Islandese che erompe in un’ultima, disperata, domanda: “A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”. Questa richiesta di senso verrà ricambiata non con una risposta, ma con una conferma dei meccanismi prima espressi: la Natura, disinteressata, lascerà che egli soccomba travolto da un turbine di sabbia (oppure sbranato da dei leoni, in ogni caso sarà sconfitto da un evento “naturale”) e il povero Islandese così entrerà a far parte di quella ruota fatta di “produzione e distruzione”. Dopo avere terminato la lettura dell’Operetta rimane nel lettore una sorta di tensione interiore, causata proprio dal fatto che questa ricerca di senso non trova risposta e rimane sospesa in una tensione che non trova sfogo. Leopardi, proprio alla fine dello scritto esposto, si distacca profondamente dal materialismo di stile settecentesco: è vero che egli non rinuncia a questa prospettiva filosofica, ma ugualmente va oltre, cercando delle alternative alle leggi meccanicistiche della fisica, per lui non sufficienti. Questo perché laddove i materialisti vedevano la natura come un regno retto da leggi ponderabili dalla mente umana, per lui questa è solo il dominio dell’indifferenza e dell’insensatezza. All’uomo allora, secondo Leopardi, non resta altra possibilità che esprimere la propria dignità in una vigorosa denuncia della drammatica verità e continuare la ricerca non con la presunzione di chi crede di potere risolvere l’enigma e trovare ciò che non esiste, ovvero il senso dell’esistenza, ma con la dignità che nasce dallo sfidare la natura mediante la propria ricerca e le proprie capacità intellettuali. 62 Rivista Thule Italia La stessa tensione intellettuale si avverte chiaramente anche nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Questo componimento poetico fa parte della serie dei canti pisano-recanatesi ed è datato tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830. Risulta particolare in quanto Leopardi sceglie di affidare l’esposizione del suo pensiero non a sé stesso (come nei precedenti canti), ma a un personaggio generico (un pastore girovago) così da fare in modo che il messaggio che egli vuole comunicare non sia espresso solo sulla base della sua personale esperienza, ma che partendo da questa riesca a mantenere un valore universale. Il canto, che collocato in un intervallo temporale successivo alla composizione del Dialogo, si riaggancia a questo per le tematiche trattate, ma presenta una situazione ancora più esasperata: descrive infatti un pastore che, di notte, interroga la Luna circa la precarietà della condizione umana. La Luna rappresenta chiaramente la natura, l’ambiente esterno all’uomo ovvero la biosfera della quale egli fa parte; il testo comincia proprio con delle domande incalzanti: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai/ silenziosa luna?”. Questa non è una domanda oziosa, un mero esercizio filosofico, ma rappresenta invece una struggente richiesta di significato, una domanda di senso indirizzata direttamente al paesaggio naturale impersonato nel simbolo più classico di tutti, la Luna. La domanda però, ridondante in tutto il testo, non avrà alcuna risposta. La luna è muta, non risponde, si limita a osservare: già dall’inizio del testo essa è descritta come “silenziosa”, quindi indifferente. Essa quindi rappresenta la natura, fredda e muta verso l’uomo moderno che è incapace di analizzarla per trovare risposte ai suoi interrogativi esistenziali. In questo lungo monologo il pastore avanzerà delle proprie riflessioni, che egli da solo confuterà mettendole a raffronto con l’esperienza diretta, elencando i lunghi dolori e le sofferenze che senza giustificazione alcuna affliggono la vita dell’uomo. Leopardi è diretto nel rappresentare la vita come una lunga rincorsa verso quella grande illusione che è il premio divino, atteso nell’oltretomba; la realtà però è che dopo “il tanto affaticar” ciò che aspetta l’uomo è “abisso orrido, immenso,/ov’ei precipitando, il tutto obblia”. Egli non utilizza termini risonanti o frasi a effetto, ma non di meno la sua critica è meno violenta: lascia che siano i fatti a esprimere da soli il vero, sostituendo alle fantasticherie religiose la deduzione rigorosa dell’esperienza. Anche in questo testo la ricerca leopardiana non si ferma, ma rimane aperta, in maniera ancora più marcata rispetto al Dialogo a causa del fatto che la Luna non risponde, anzi probabilmente neanche si accorge del pastore. Eppure La terra 63 Leopardi non si ferma comunque a un semplice nichilismo e, proprio nel finale del testo, lancia un potente messaggio al lettore. Va notato innanzitutto che nonostante il canto presenti una critica tanto aggressiva verso la condizione umana da annullare anche l’idealizzazione divina, il pastore (quindi Leopardi) si ostina a ricercare delle alternative valide al pessimismo suggerito dalla speculazione intellettuale. Inoltre egli trova due esempi di vita beata, due possibilità di non dolore: la vita del gregge e quella degli astri. Entrambe potrebbero essere allettanti, il gregge infatti vive nell’assenza di bisogni, in una pace che deriva dal semplice seguire l’istinto: questa forse è una finta pace, nascente dall’inconsapevolezza del lasciarsi vivere senza ragionare o riflettere “che la miseria tua, credo, non sai”, ma di fatto assicura una vita serena perché incosciente; gli astri invece rappresentano una condizione beata perché dotati del perfetto sapere, simboleggiati tutti nella Luna alla quale il pastore dice “tu per certo,/ giovinetta immortal, conosci il tutto”, guarda tutto dall’alto perché grazie al sapere assoluto ha guadagnato questa esistenza di vita beata. Eppure la condizione di Leopardi, anzi in generale quella dell’uomo pienamente consapevole, non si incarna in nessuno dei due esempi: entrambi rappresentano una vita volutamente comoda e due casi comunque oziosi, quindi negativi. Ecco allora il messaggio più forte e costruttivo che Leopardi invia al lettore: l’uomo pienamente cosciente di sé, della propria dignità e della propria intelligenza, pur conoscendo l’assenza di senso di una vita alla quale è chiamato solo per lottare contro una terra a lui indifferente, non deve fermare la propria ricerca, tacere il dovere di interrogarsi circa il senso della sua vita, compiendo il gesto tracotante di paragonare sé stesso alla pienezza degli astri o abbassando la sua condizione al rango delle pecore, negando in entrambi i casi (per presunzione nel primo, per inedia nel secondo) l’esistenza di domande che necessitano una risposta. Probabilmente la conclusione “definitiva” in questo percorso di ricerca di significato esistenziale non verrà mai raggiunta, perché non esiste. Risulta comunque ontologicamente doveroso scrivere che l’uomo sia cosciente che la sua vita ha una via di realizzazione, una possibilità remota di riscatto: questa è la ricerca del Sapere. Così, alla fine di questo canto, sembrano risuonare nei secoli i versi di Dante “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza”. A questo punto dell’analisi tra il simbolismo della terra e la cultura umana, la tematica appena trattata, inerente al vastissimo mondo 64 Rivista Thule Italia letterario italiano, risulta davvero interessante in quanto sembra quasi inglobare in sé e dare nuove risposte agli interrogativi posti da Nietzsche ed Epicuro, lasciando comunque aperti nuovi campi di ricerca. Spostiamo adesso il nostro sguardo verso il mondo scientifico: secondo la teoria dell’evoluzionismo, elaborata da Charles Darwin, l’ambiente naturale condiziona le specie viventi sino al punto da indurre i loro organismi a un lento e graduale cambiamento, atto a renderle più abili a operare nell’ambiente di riferimento. Non approfondiremo oltre una teoria scientifica sin troppo nota e abusata (che inoltre non manca di lasciare dei grandi interrogativi senza risposta), ma ragioniamo circa l’eventualità che l’ambiente condizioni effettivamente l’organismo di un essere vivente: basta prendere un po’ di sole per indurre il proprio corpo a produrre quelle sostanze che inscuriscono la pelle, provocando l’abbronzatura. Analizziamo quindi un caso meno banale: si pensi al fatto che, quando un uomo si trasferisce in una località montuosa, ad alta quota, il suo organismo aumenta il numero di globuli rossi del sangue, così da compensare la minore presenza di ossigeno nell’aria tramite un maggior numero di “operai ematici” pronti a trasferire il gas vitale dai polmoni a tutte le zone periferiche del corpo. Adesso si rifletta su questa domanda: il fatto che l’ambiente influisca sull’organismo delle persone non potrebbe anche ripercuotersi sul loro comportamento? Sino a che punto la nostra linea d’azione è libera dai condizionamenti e dagli stimoli che l’ambiente ci invia e quando questo diventa il fattore determinante della nostra condotta? La linea di pensiero di chi si appresta ad analizzare i comportamenti delle persone non deve essere guidata da idee fantascientifiche (ipotizzando, per esempio, una sorta di controllo mentale delle persone in base al movimento delle stelle nel cielo), ma deve guardare invece alle circostanze più comuni per constatare se l’ipotesi espressa sia corretta. In questo caso è facile notare come un clima eccessivamente caldo possa mutare il comportamento di un individuo solitamente pacato sino a renderlo nervoso ed irascibile. Si potrebbero enunciare svariati esempi relativi a modificazioni comportamentali dovute a condizioni ambientali fuori dalla consuetudine del soggetto, ma resta il concetto di base: l’ambiente condiziona pesantemente la condotta umana. Volendo continuare questo genere di analisi, distaccandoci però dal campo freddamente scientifico, torna di nuovo utile lo studio della letteratura italiana e, in particolare, di una corrente sviluppatasi nel corso dell’Ottocento: il verismo. Lo spirito di questo canone letterario si pone, in un certo senso, a metà La terra 65 tra le due visioni dell’elemento sinora trattate. Esso infatti risulta tanto distante dalle serene analisi di Epicuro e dalla gioiosa accettazione di Nietzsche quanto dal disilluso pessimismo di Leopardi. Se con il termine “terra” si intende non solo l’elemento materiale per eccellenza, legato quindi al vivere corporeo dell’uomo, ma tutto l’ambiente che lo circonda, allora il verismo si pone in un prospettiva esattamente mediana che si prefigura lo scopo di rappresentare proprio la componente materiale della vita, quella non bassa (popolare nel senso negativo del termine), ma comune, ovvero scene o racconti di semplice vita vissuta, senza però rinunciare a una fredda e distaccata analisi. Sul piano filosofico il verismo presenta aspetti comuni al positivismo, al materialismo e al determinismo: dalla prima corrente di pensiero esso trae la convinzione che la verità sia oggettiva e scientifica. Lo studio dei fenomeni e degli accadimenti mondani quindi non deve essere eseguito in base alle proprie emozioni personali, ma con il freddo e distaccato occhio dello studioso che si limita a registrare i fatti studiandoli nella loro crudezza. Gli influssi materialistici sono quelli che emergono dalle riflessioni che l’autore fa seguire all’esposizione dei fatti: se ne ricava, infatti, un ritratto dell’uomo che lo porta a coincidere con un animale (sociale, ma pur sempre tale) visto in dipendenza del suo egoismo e dei suoi bisogni materiali. Infine, questa corrente letteraria è determinista perché non riconosce l’esistenza del libero arbitrio, ma constata il ruolo di arbitro svolto da precise leggi che vincolano il soggetto, il quale di fatto è vittima dell’ambiente che lo circonda. È particolare, inoltre, l’influenza che il darwinismo ha assunto in questa corrente letteraria: i veristi, sulla scia dello stesso pensiero di Darwin, per quanto esposto prima fanno coincidere l’essere umano all’animale, quindi come tale lo vedono vincolato non solo dall’ambiente circostante, ma anche dalle leggi della razza e dell’ereditarietà. Essi quindi strutturano i nuovi canoni letterari rifiutando innanzitutto la poetica romantica (la quale è stata portatrice di una conoscenza basata sul sentimento e non sull’analisi fredda e oggettiva) e trattano le loro narrazioni come esposizioni di carattere scientifico, affermando il metodo dell’impersonalità della narrazione; questo consiste nel fatto che l’autore non debba fare sentire il proprio intervento nella narrazione, ma solamente riportare nella maniera il più verosimile e distaccata possibile l’esposizione dei fatti. Nell’analisi verista viene anche del tutto modificata l’idea del Bello: questo non può essere identificato dai canoni tradizionali, ma solo dall’aderenza di un dato racconto alla realtà. Il Vero quindi è sempre nobile e morale, 66 Rivista Thule Italia anche se rivoltante o volgare. A partire da queste posizioni ideologiche viene radicalmente modificata anche la figura dello scrittore, che viene a coincidere con quella di uno scienziato sociale. Queste premesse ideologiche si traducono sul piano della narrazione in uno stile molto particolare. Innanzitutto, le vicende narrate non sono mai estremamente fantasiose o incredibili, ma si pongono su un livello di grande vicinanza alla realtà. Inoltre, i contenuti veristi rappresentano tutti i livelli della società, soffermandosi spesso sulla descrizione dei ceti sociali più bassi in quanto ritenuti più genuini nei loro comportamenti. Dovendo lo stile letterario descrivere queste classi con aderenza al vero ne deriva un linguaggio che imita quello parlato e che non rifugge dall’uso del dialetto o del gergo popolare. Viene altresì posta una particolare attenzione alla psicologia dei personaggi: questa non è spiegata, ma analizzata dall’esterno e sta al lettore dedurla dai loro gesti e dalle loro azioni; è quindi suo il compito dello studio della mentalità dei personaggi, dato che l’autore non la spiegherà mai: egli diviene così assolutamente neutrale, un mero registratore di eventi. Dati questi contenuti ideologici resta da definire quale sia il migliore campo a partire dal quale l’autore debba cominciare il proprio studio. È stato scritto come l’occhio vada indirizzato verso i ceti meno abbienti: questo perché il verismo voleva cogliere e studiare le cause e gli effetti dell’ambiente naturale (e sociale) che vincolano le scelte dell’uomo, rendendo di fatto illusorio il libero arbitrio; ecco allora che questa analisi è più facile da condursi nelle classi meno agiate, giacché esse, vivendo a stretto contatto con l’ambiente naturale ed eseguendo lavori manuali che li obbligano a maneggiare la materia, riescono più agevoli ed intuitive da analizzare. Secondo uno scrittore siciliano, Giovanni Verga, esse sono anche più genuine, poiché a parer suo maggiore è lo sviluppo civile che un uomo raggiunge, più rilevante diviene quindi la sua attitudine a nascondere i reali sentimenti e dissimulare le radici materiali che li determinano. Ecco che nell’uomo volgare, incivile, si palesa pienamente quell’influenza naturale dell’ambiente esterno che lo scrittore verista vuole studiare e rendere manifesta, non come qualcosa da temere (come l’analisi leopardiana suggeriva) o come una fonte d’ispirazione (come indicato da Zarathustra), ma semplicemente per quello che è: una sorgente di freni che limita e costringe la volontà umana. Queste idee, specialmente la mancanza di libertà insita nell’essere materiale — ovvero animale — dell’uomo e la sua consequenziale condizionabilità da parte dell’ambiente esterno, si palesano chiaramente La terra 67 nel romanzo verista. Qui, tra le varie e notevoli opere prodotte dagli scrittori italiani analizzeremo quello considerato come il capolavoro di Verga, I Malavoglia. Prima di proseguire però forniamo qualche notizia biografica dell’autore. Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre del 1840, rampollo di una famiglia di proprietari terrieri e di ascendenze nobiliari (suo padre godeva del titolo di cavaliere). Giovanissimo, appena sedicenne, prova a scrivere un primo romanzo che rispecchia l’atmosfera culturale romantico-risorgimentale italiana, intitolato Amore e Patria. Appena ventenne egli è testimone di un evento che influenzerà tutta la sua Giovanni Verga in età matura. vita potendo assistere al passaggio delle truppe garibaldine. Episodio questo che eserciterà su di lui un magnetismo tanto potente da renderlo un fervente sostenitore dei valori del tardo romanticismo italiano e del Risorgimento. Dopo gli anni siciliani, caratterizzati dalla stesura di romanzi principalmente incentrati sul tema patriottico, inizia per Verga una fase che lo porterà ad allontanarsi dagli ambienti meridionali verso il nord Italia. Egli prima è a Firenze, dove compone il romanzo epistolare Storia di una capinera, nel quale ancora rimangono forti i temi della letteratura romantica e un atteggiamento narrativo volto a fini moralisti, ma si comincia a delineare un interesse per l’analisi delle situazioni sociali più difficili e particolari. In seguito, si trasferisce a Milano, che allora era non solo la capitale culturale d’Italia, ricchissima di salotti letterari presso i quali gli intellettuali del tempo potevano confrontarsi e accrescere la loro formazione, ma anche la capitale economica: egli così, lontano dall’economicamente arretrata Sicilia, può studiare i meccanismi finanziari, le leggi del mercato e del lavoro che tanto influenzano la condotta e le attitudini delle persone, cercando di analizzare il comportamento da queste assunto in base agli andamenti del mondo dell’economia. Egli ha un’intuizione che lo conduce ad abbandonare 68 Rivista Thule Italia definitivamente i precedenti schemi romantici ai quali era ancora vicino e, in particolare, capisce che l’ideale d’arte, in un mondo dominato dal denaro e popolato da uomini che vivono per accumularlo — laddove predominano le banche e le imprese —, è ormai un lusso inutile. Il punto di svolta definitivo è marcato dall’incontro con Luigi Capuana, altro intellettuale siciliano che a Milano cercherà di costituire un gruppo di nuove menti capaci di creare il romanzo moderno, seguendo i principi ispiranti la letteratura Naturalista francese. Questa corrente letteraria presenta molte assonanze con il verismo italiano, ma di fatto quest’ultimo se ne distacca grazie agli originali contributi che gli intellettuali italiani hanno apportato. Sulla scia di queste nuove spinte ideologiche Verga decide di riscrivere di sana pianta un romanzo sul quale aveva lavorato in quegli anni, intitolato Padron ‘Ntoni. Egli unendo le suggestioni nate dai canoni naturalisti alle proprie intuizioni scriverà così I Malavoglia, primo romanzo verista e, insieme al Mastro-don Gesualdo, il testo più contenutisticamente ricco della sua produzione letteraria. Verga però risulta un personaggio difficilmente inquadrabile sotto ogni punto di vista: era una persona schiva, piuttosto solitaria e malinconica, eppure si trovava al centro dell’attività dell’avanguardia letteraria italiana. Egli cercava (e probabilmente vi riuscì) di creare il romanzo nuovo, ma al contempo, capendo che questo non poteva essere apprezzato dal grande pubblico, continuava a scrivere nell’ambito di un secondo filone narrativo, più “digeribile” dal mondo alto-borghese: è un po’ come se egli patisse lo stesso potente condizionamento da parte dell’ambiente esterno che i suoi personaggi sono costretti a subire e su questa scia egli, pur conoscendo tutte le negatività derivanti dal mondo economico, non riuscisse comunque a distaccarsi dall’interesse verso i beni materiali. Da qui l’adesione al programma proposto dalla Destra Storica volto al potenziamento del piano agrario così da ideare una valida alternativa allo strapotere del capitale degli industriali del Nord, a tutto vantaggio dei nobili proprietari terrieri meridionali, classe della quale Verga faceva parte. In seguito comunque egli si ritira dalla vita politica, torna a Catania e si cristallizza su posizioni reazionarie, aprendosi comunque allo schema di un nazionalismo antisocialista. Ancora una volta si legge un contrasto nella biografia di Verga: da una parte egli vuole finire il grande lavoro di analisi del panorama sociale dell’Italia moderna in chiave verista terminando il “ciclo dei Vinti”, gruppo di cinque romanzi, i cui primi due sono I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, ma senza neanche avere terminato il terzo (La duchessa di Leyra) scrive La terra 69 un romanzo ambientato nelle zolfatare siciliane (intitolato Dal tuo al mio) nel quale abbandona i canoni veristi per rappresentare la lotta di classe sotto una chiave d’interpretazione antisocialista. Nel 1920 viene nominato senatore ed a Catania assiste a un roboante discorso nel quale Pirandello lo contrappone a D’Annunzio. Muore il 24 gennaio del 1922, mentre le sue opere veriste stanno cominciando a riscuotere i favori della critica e del pubblico. Nell’ottica del romanzo verista, di cui Verga rappresenta non solo un ideatore, ma anche il maggiore esponente, un esempio tipico è quello de I Malavoglia. La genesi di quest’opera viene datata al 1875, anno in cui Verga comunica all’editore Treves di stare scrivendo una nuova novella ambientata nel mondo dei marinai intitolata Padron ‘Ntoni. Questa novella probabilmente seguiva lo stesso filone ideologico (di tipo filantropico-sociale) che aveva caratterizzato un precedente lavoro, Nedda, di ambientazione rurale. Probabilmente volendo cavalcare il successo che la novella aveva raccolto Verga voleva proporre una nuova opera tematicamente legata alla precedente. Nel 1878 però si registra l’interesse dell’autore per il Naturalismo francese e questo lo porterà a ideare una nuova poetica, quella Verista, che di fatto si realizza nei Malavoglia, romanzo che nasce a partire dal Padron ‘Ntoni, ma che stravolse completamente i canoni letterari del tempo. Il titolo del romanzo rappresenta già un primo messaggio indirizzato dall’autore al lettore: questo infatti è una “ngiuria” siciliana ovvero un soprannome dato per contrasto a una persona o un gruppo da parte della società. Il termine Malavoglia infatti identifica la famiglia dei Toscano di Aci Trezza, che a dispetto del soprannome sono invece una laboriosissima famiglia di pescatori. L’autore così sin dal primissimo principio dell’opera è chiaro nel voler assumere non l’ottica superiore dello scrittore onnisciente, ma quella culturale e linguistica dei personaggi che animano la storia: è tipico della tecnica narrativa verghiana il far sparire il giudizio etico e morale dell’autore per far emergere solo quello dei personaggi. Nella prefazione che Verga antecedette al romanzo vero e proprio si riscontrano i punti principali del nuovo progetto letterario che egli, con I Malavoglia, voleva iniziare. Verga crede che la forma letteraria attuale sia ormai da considerarsi superata poichè non esiste più, nel mondo meccanicistico dominato dalla banche e dalle imprese, un’etica assoluta, da qui pertanto la necessità di ricercare non una, ma svariate soluzioni stilistiche, ognuna adatta a rendere il soggetto trattato e le varie forme che i fatti assumono. Da questa pri- 70 Rivista Thule Italia ma assunzione deriva inoltre il successivo sfumare della persona del narratore nelle voci dei diversi personaggi, che di fatto tramite il loro punto di vista raccontano a turno la propria storia, contribuendo ognuno allo svolgersi del romanzo. Le posizioni filosofiche veriste sono già state precedentemente chiarite ed è naturale che essendo “morta” la figura del narratore onnisciente romantico, che segue gli avvenimenti dall’alto, il nuovo narratore non può che essere interno alla narrazione, quindi costituirsi tramite le plurime voci dei protagonisti della vicenda narrata. Dalla morte del narratore derivano poi delle importanti scelte stilistiche: i personaggi non verranno più descritti tramite la voce dell’autore, ma a mezzo delle discussioni corali o dei dialoghi tramite i quali, pian piano, il lettore imparerà a riconoscerli ancora prima di sentire il loro nome. Quello che Verga vuole ottenere è un effetto essenzialmente realistico e tipico della vita comune: di solito nessuno conosce immediatamente una persona, ma impara di lei tramite i suoi discorsi o quello che ne dicono gli altri, arrivando sinanche a capire il soggetto del quale due persone stiano parlando grazie al solo intuito, senza dovere accertarsi del suo nome. Dal punto di vista linguistico invece l’assunzione degli “occhi dei personaggi” determina il dovere sviluppare il testo secondo uno stile opportuno che riproduca la prospettiva popolare: si giustifica quindi l’ampio uso di metafore e proverbi siciliani che l’autore fa durante il racconto. Verga conclude queste riflessioni esprimendo la consapevolezza di compiere un’azione di rottura, quasi avanguardista, volta alla creazione di un nuovo genere di romanzo. Per raggiungere questo obiettivo egli rinuncia a un successo facile tramite l’offerta al pubblico “delle solite frasi lisciate da cinquant’anni” (come egli stesso scrisse) per realizzare un’opera capace di rompere con un passato ormai morto e di mostrare al pubblico la direzione presa dallo sviluppo storico. Un altro letterato, Oscar Wilde, scrisse che Calibano odia vedere il suo riflesso nello specchio: ugualmente I Malavoglia, nella fase iniziale della sua ricezione, non sarà per nulla apprezzato dal pubblico letterario italiano. Il romanzo comincia con queste parole: “Questo è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere”. Esso racconta, infatti, le vicissitudini della famiglia Toscano di Aci Trezza e di come, a causa di uno scherzo della natura e di una società fortemente chiusa, questa piombi nella rovina più totale, salvo riscattarsi alla fine. Ma procediamo con ordine. I Toscano vengono chiamati dai compae- La terra 71 sani col soprannome “Malavoglia”: fortemente antifrastico, in quanto questa è una famiglia costituita da indefessi lavoratori. È formata dal nonno, padron N’Toni, proprietario di una masseria (chiamata la casa del Nespolo) e di una barca, utile per esercitare il mestiere di pescatore (chiamata Provvidenza, in quanto necessaria al soddisfacimento dei bisogni della famiglia), dal figlio Bastianazzo, dalla nuora Maruzza (chiamata dai compaesani la Longa e così identificata dall’autore) e dai cinque nipoti N’Toni, Luca, Alessi, Mena e Lia. La vicenda viene messa in moto dal matrimonio di Mena: per poterle procurare una dote Bastianazzo e padron N’Toni decidono di investire del denaro su di un grosso carico di lupini, da trasportare in barca. Non possedendo la somma necessaria per comprare tutto il carico, i Malavoglia decidono di chiedere il denaro in prestito a un usuraio del paese, zio Crocifisso (in Sicilia il termine “zio” non è identificativo solo di un grado di parentela, ma anche di una forma di rispetto) detto “Campana di Legno” per la sua incapacità di ascoltare le condizioni di miseria nelle quali la sua stessa opera di prestito a usura conduce le persone. La barca però, durante il trasporto del carico, incappa in una tempesta e naufraga, perdendo tutta la merce e causando la morte di Bastianazzo. Comincia così per i Malavoglia un triste periodo fatto di estrema miseria, dal quale sembrano non potere uscire nonostanteil forte impegno di padron N’Toni di tenere unita la famiglia sotto i due simboli della Casa del Nespolo, rappresentante l’unità degli affetti e quasi una religione familiare, e della barca Provvidenza, emblema primo di quell’attaccamento per il lavoro e per i frutti che da questo derivano. Padron N’Toni è un vero e proprio polo ideale contro il quale si scontra il suo opposto, l’usuraio Campana di Legno, che rappresenta invece i valori dell’utile economico, del guadagno e dell’egoismo cinico. Questi due poli rappresentano in qualche modo uno i valori antichi, quelli sui quali si basava l’esistenza non solo della Sicilia, ma dell’Italia tutta, l’altro i nuovi valori del mondo moderno, che Verga tanto bene aveva visto e registrato nello sviluppo industriale del Nord. Nonostante la presenza di questo polo positivo interno alla famiglia le cose per i Malavoglia non vanno per niente bene e i disvalori moderni si incuneano nella vita di queste persone, modificandone la condotta a causa di una “vaga bramosia dell’ignoto” come scrive Verga nell’introduzione, ovvero di un desiderio di mutare, di non accontentarsi della propria posizione per andare in cerca d’altro. Luca infatti, pieno di amore patriottico, muore nella battaglia di Lissa e soprattutto N’To- 72 Rivista Thule Italia ni — incapace di amare il mondo dei valori tradizionali incarnato dal nonno e animato da un desiderio di evasione — cercherà fortuna nelle grandi città, entusiasmato dal progresso, dalla modernità e dai grandi complessi industriali: lascerà la sua famiglia per tornare più povero di prima. L’ambiente esterno non rimane muto alle disavventure di questa famiglia e da una parte la società di Aci Trezza non avrà pietà alcuna nel criticare la condotta dei Malavoglia, tacciandoli quasi come degli arrampicatori sociali che giustamente sono caduti in miseria, dall’altra la stessa natura influirà pesantemente sulla condizione familiare, arrecando anzi il colpo di grazia: a causa di una tempesta si verifica un secondo naufragio della Provvidenza che aggrava la salute del vecchio padron N’Toni, il quale per saldare il debito è costretto a vendere la casa del Nespolo. Le sfortune della famiglia non terminano qui, in quanto Lia viene insidiata dal brigadiere don Michele mentre N’Toni peggiora la reputazione della sua famiglia praticando le bettole e gli ambienti tipici della malavita di Aci Trezza. In particolare, sorpreso da don Michele durante uno scarico di merce di contrabbando, egli accoltella il brigadiere, il quale durante il seguente processo renderà a tutti nota la relazione con la giovane Lia. Così N’Toni verrà condannato a cinque anni di carcere mentre Lia, ormai disonorata, fuggirà da casa e si “perderà in città” (probabilmente l’autore allude alla prostituzione della ragazza a Catania). Mena, considerandosi non rispettabile a causa della condotta del fratello e della sorella, rifiuterà definitivamente la proposta di matrimonio avanzatale da Alfio, sacrificando il suo amore per non macchiare la reputazione del giovane. Possiamo considerare chiusa la seconda parte del romanzo con la morte di padron N’Toni, il quale ormai stremato trapassa in ospedale. L’ultima parte del racconto si svolge in un arco di tempo lungo molti anni, ma questi vengono quasi condensati in poche pagine. Sembra che tolti gli elementi “disturbanti” l’equilibrio familiare, ovvero Campana di Legno e N’Toni, entrambi rappresentanti i valori nocivi del progresso (accanto alla fredda ragione calcolatrice dell’usuraio sembra quasi, almeno all’inizio, di avvertire gli ideali del borghese che si fa da solo, tanto vagheggiati anche dal giovane Malavoglia), la famiglia Toscano riesca a trovare un certo equilibrio. Il giovane Alessi infatti arriva a riscattare la Casa del Nespolo e a sposare una vicina, Nunziata. Egli riesce quindi a ricostituire l’ambiente familiare, creando quasi un collegamento con i valori del nonno padron N’Toni. Il romanzo termina con N’Toni che, uscito dal carcere, si reca per un’ultima volta nella vecchia La terra 73 casa dove è cresciuto, conscio del fatto di doverla abbandonare a causa della sua condotta profondamente scorretta. Tutto il romanzo si svolge quindi attorno all’analisi di come la ricerca di una condizione di vita ritenuta migliore possa sconvolgere l’assetto familiare e di quanto la natura, vista non solo come l’ambiente naturale, ma anche nell’insieme dell’ambiente sociale, possa influenzare il comportamento degli individui sino a causarne una totale deviazione dalle loro normali abitudini. Infatti è vero che è il primo naufragio della Provvidenza (causa anche della morte di Bastianazzo Malavoglia) a mettere in moto gli eventi, ma gli accadimenti che conseguono a questa disgrazia sono notevolmente influenzati dall’ambiente sociale dove i personaggi si muovono. Invero le azioni dei Toscano/Malavoglia vengono notevolmente influenzate, anzi quasi del tutto determinate, dalle loro relazioni con gli altri abitanti del paese: non è un caso infatti che l’abbandono da parte del giovane N’Toni della morale e del sistema etico impersonato dal nonno si concretizzi proprio quando egli comincia a praticare i bassi ambienti della cattiva gioventù di Aci Trezza. E rafforza quanto scritto il fatto che N’Toni arrivi a falsi plasmare dal contrabbandiere Rocco Spatu al punto da divenire egli stesso contrabbandiere. Se è vero che questo condizionamento è a dir poco lampante proprio nel personaggio di N’Toni, occorre rimarcare che simili influenze (in negativo, ma anche in positivo) si trovano in tutti i Malavoglia: se il carabiniere don Michele non l’avesse oltraggiata in pubblico, probabilmente la giovane Lia non sarebbe divenuta una prostituta e, allo stesso modo, è la Nunziata che incarnando ella stessa i valori familiari e tradizionali funge quasi da sostegno per Mena, la quale rappresenta quella parte della famiglia Toscano ancora fedele al sistema di valori incarnato da padron N’Toni. Possiamo scrivere che tutta la vita di Aci Trezza risulta mossa dall’interazione tra due poli, manifestanti da una parte gli ideali del guadagno e della vita moderna (via seguita, per esempio, da personaggi come Rocco Spatu e dal sensale Piedipapera) e l’altra i valori del lavoro e dell’attaccamento alle tradizioni. Questo stesso bipolo viene poi trasferito all’interno della famiglia Toscano e di fatto la tensione derivante porta a una netta scissione tra i nipoti: Alessi e Mena da una parte, Lia e N’Toni dall’altra. In questo sistema bipolare spiccano, come scritto sopra, le due figure di padron N’Toni e dell’usuraio Campana di Legno. Verga riesce quindi, con grande maestria, nella fredda analisi degli eventi, studiando una storia per come i canoni veristi impongono, ma nonostante tutto — proprio nella scelta dello stile letterario — la- 74 Rivista Thule Italia sciando trapelare la sua posizione a favore del sistema etico della Sicilia tradizionale: ogni qual volta egli rappresenta e racconta degli stati d’animo dei personaggi “positivi” utilizza un registro lirico-simbolico, mentre quando descrive il mondo di Trezza e i comportamenti dei personaggi più meschini adotta uno stile grottesco, potremmo dire comico e caricaturale. Il lettore, per quanto esposto sopra, non si lasci ingannare dalla conclusione del romanzo: è vero infatti che N’Toni, che può essere visto come un traditore dei valori della sua famiglia, abbandona Trezza e che Alessi riesce a recuperare una sana condizione economica e a costruire un proprio nucleo familiare che si pone in un’ottica contigua a quella del nonno, ma questo non lascia comunque spazio a finali “positivi”. Il capitolo finale — nel quale si concretizza l’addio finale di N’Toni al suo paese e a quanto rimane della sua famiglia — è, infatti, altamente significativo e sembra quasi capovolgere l’idea che il lettore si è fatto di questo ragazzo. La nostra analisi potrebbe portare il lettore a vederlo come un personaggio negativo, ma le cose non stanno assolutamente così: egli — a differenza dell’usuraio, di don Michele o di Rocco Spatu — è una persona traviata, che avverte profondamente la scissione tra i valori che hanno animato la sua giovinezza, cardini della sua educazione e i nuovi disvalori del mondo moderno che si stanno delineando già nelle grandi città lontane dalla Sicilia. Egli, inoltre, non è fiero delle sue scelte, anzi è la profonda vergogna che lui avverte, nascente dalla consapevolezza che il suo agire ha violato la legge morale della sua famiglia, che lo porta a capire che per lui, anche dopo avere saldato il suo conto con la società tramite gli anni trascorsi in carcere, non c’è più spazio in quell’ambiente, in quell’ordine arcaico che Trezza rappresenta. “Qui non posso più starci. Addio, perdonatemi tutti”: queste sono le parole che rendono N’Toni non un uomo fiero delle sue azioni, ma un essere scisso a causa dal moto del progresso, il quale viene quasi materializzato dal mare in tempesta che per due volte la Provvidenza ha dovuto affrontare, le cui onde arrivano sino ad Aci Trezza, trascinando al largo anche ‘Ntoni. Ecco, dunque, che nella sua persona possiamo scorgere l’autore, il quale fu anche lui costretto ad abbandonare la Sicilia per vivere in quel mondo moderno che alla fine gli ha portato tanta delusione e nell’esclusione di N’Toni dalla vita di Trezza si materializza l’isolamento del nuovo intellettuale, che nel mondo mercantilistico dell’economia e del denaro non riesce più, come accadeva in epoca tardo romantica, a influire sullo sviluppo della nazione, ma può solo regi- La terra 75 strare il succedersi degli eventi: da qui nasce quindi la posizione verista. Questa chiave di lettura trova piena conferma se si riflette sul fatto che l’addio di N’toni alla sua famiglia o di Verga al mondo siciliano rappresenta ancora di più il momento in cui il mondo tutto si distacca dal suo passato per abbracciare qualcosa di nuovo e distruttivo allo stesso tempo: non deve quindi sorprendere che l’addio di N’Toni, in chiusura di romanzo, sia dipinto quasi a tinte lugubri, una sorta di commiato che richiama un funerale, come sottolinea l’autore scrivendo che: “N’toni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero”. È allora corretto chiudere questa parte dell’esposizione con un’analisi elaborata da Romano Luperini: “In Verga manca la fiducia romantica nella storia e nell’uomo che può costruirla e determinarla. L’uomo infatti è e sarà sempre dominato dagli istinti e dagli interessi materiali. Questi ultimi isolano ogni individuo dai proprio simili: se si eccettua la solidarietà familiare (presente peraltro solo nella famiglia dei Malavoglia) ciascuno è solo con il proprio egoismo. La solidarietà di classe non esiste, e neppure esiste la possibilità di un futuro radicalmente diverso. Chi tenta di mutare stato è un illuso destinato alla sconfitta”. L’elemento terra porta lo stesso nome del pianeta che costituisce la casa dell’umanità. È quantomeno curioso che gli antichi abbiano deciso di identificare il pianeta con l’elemento terreno, laddove invece la superficie di questo pianeta è costituita per circa il 71% dall’acqua. La causa di questo è probabilmente spiegabile tenendo a mente che nei secoli passati si credeva che la superficie terrestre fosse piatta e che le terre emerse fossero semplicemente circondate dal mare. Questo pianeta risulta essere molto particolare all’interno del sistema solare, dato che si può ragionevolmente assumere (allo stato attuale degli studi) che sia l’unico al momento ospitante forme di vita intelligenti. Tale peculiarità è stata permessa da un insieme di fortunati fattori (come la distanza dal Sole, la velocità di rotazione, l’inclinazione dell’asse e il particolare insieme di gas che formano l’atmosfera) che si sono combinati in maniera tale da permettere prima l’instaurarsi e poi lo sviluppo delle prime forme di vita, le quali hanno trovato non solo gli elementi necessari per la loro crescita, ma anche le migliori condizioni ambientali. Dal punto di vista scientifico il pianeta è costituito da un nucleo centrale caldissimo, nel quale avvengono delle reazioni termonucleari che rilasciano una grande quantità di calore ad altissima temperatura che mantiene allo stato fuso tutto il materiale al di sotto della crosta terrestre, che il lettore può immaginare come un insieme di zolle solide che galleggiano sopra 76 Rivista Thule Italia un mare di magma. Proprio per la sua conformazione fisica l’elemento terreno risulta strettamente connesso al fuoco e, allora, non è casuale che la Terra, grazie a trasformazioni lunghe milioni di anni, abbia creato il più grande e potente vettore energetico che ha permesso alla civiltà umana di assurgere sino al livello odierno: gli idrocarburi o combustibili fossili, generalmente inquadrabili sotto la forma di petrolio e gas naturale. Il lettore attento ricorderà che un articolo sugli idrocarburi è già comparso nel precedente numero di questa rivista dedicato al fuoco: è bene allora rimarcare che questa parte dello scritto si pone in continuità tematica con il precedente elaborato, pur posando lo sguardo su simili analisi iniziali sposta poi l’attenzione del lettore verso altri dati. Gli idrocarburi sono delle molecole formate generalmente da atomi di idrogeno e di carbonio: un esempio comune è il gas metano (CH4) formato da un atomo di carbonio legato a 4 atomi di idrogeno. Queste sostanze devono il loro pregio al fatto che la loro combustione è capace di produrre una grande quantità di energia termica. In generale si può dire che la qualità di un idrocarburo (quindi la quantità di calore ottenibile dalla sua combustione) aumenta all’aumentare del numero degli atomi idrogeno (i responsabili della generazione del calore) mentre diviene tanto più dannoso tanti più atomi di carbonio sono presenti (dato che da questi si genera la CO2 , noto gas inquinante): il pregio di un idrocarburo è quindi dato dal rapporto H/C che dovrebbe essere il più alto possibile. Gli idrocarburi, da un punto di vista naturale, vengono generati dalla stratificazione di sostanza organica (come, per esempio, resti animali o vegetali) nel sottosuolo e dalla successiva decomposizione e sintesi dei nuovi prodotti ad altissime pressioni e temperature. Il processo di formazione di questi vettori energetici si svolge su di una scala temporale millenaria, quindi, pur essendo delle fonti energetiche rinnovabili, queste non risultano essere sostenibili, dato che è vero che nel tempo si ricostituiscono rendendosi disponibili al loro sfruttamento, ma non in intervalli temporali tali che un loro utilizzo odierno non infici la capacità di sfruttamento delle future generazioni. Non porremo qui la nostra attenzione agli idrocarburi in sé e per sé, ma li analizzeremo nell’ottica critica finalizzata alla conoscenza della quantità di petrolio e di gas naturale che la Terra ha da offrirci dal suo grembo, dando un rapido sguardo alle possibili alternative. Nell’analisi quantitativa delle fonti energetiche sopra enunciate bisogna necessariamente affidarsi ai dati forniti dalle grandi compagnie La terra 77 petrolifere e del gas. Nel prosieguo di questo scritto noi ci affideremo alla Eni World Oil and Gas Review, rapporto gratuitamente scaricabile dal sito dell’ENI. Prima dell’analisi occorre chiedersi Andamento delle riserve mondiali di Petrolio (fonte Eni World Oil se questi dati and Gas Review. siano o meno affidabili. Una brutale risposta porterebbe a pensare che purtroppo il cittadino può accedere solo a questi dati (o a simili diramati da altre compagnie), pertanto la sua analisi può essere viziata dall’uniformità delle fonti. Inoltre, viste le note leggi di domanda-offerta che regolano in parte l’andamento del mercato del greggio, la diffusione di informazioni totalmente contrastanti con la realtà causerebbe danni monetari alle stesse compagnie. Il mercato dei derivati, infatti, si regge nel breve termine sulle intuizioni o meglio sui presentimenti provocati negli azionisti e nei compratori dalle informazioni circolanti, dai dati puri ai quali ognuno riesce ad accedere (e in questi frangenti la conoscenza di informazioni dona un grande potere), ma alla lunga è il mercato reale, quello fisico, che detta le sue leggi. Quindi sarebbe sciocco dire che un pozzo di petrolio vicino all’esaurimento è invece ancora ricco, perché un’informazione del genere precluderebbe l’aumento del prezzo della fonte (tipico dei pozzi in esaurimento) e il successivo (e fisiologico) esaurimento di detto pozzo provocherebbe delle perdite economiche al proprietario. Non si pensi, comunque, che i dati che gratuitamente questi enti ci forniscono siano assolutamente veri, poiché per quanto scritto prima i mercati sono ampiamente influenzati dalle informazioni circolanti: questi elementi quindi rappresentano una piccola leva che le grandi industrie del petrolio possono utilizzare per variare leggermente lo stato delle cose. Il lettore allora sia scaltro nell’interpretare i dati solo riguardo agli andamenti della fonte che essi forniscono ovvero 78 Rivista Thule Italia se la sua disponibilità sia in aumento o in diminuzione, diffidando al contempo delle quantità che, oltre a essere spesso ingegneristicamente inesatte, risultano anche ben camuffate così da orientare l’andamento dei mercati internazionali. Il petrolio ed il gas naturale sono non solo due fonti d’energia assolutamente insostituibili, ma anche due veri e propri beni primari, vista l’influenza assoluta e unica che essi esercitano sul grado di sviluppo della civiltà umana. La Terra sembra quasi avere incubato nel suo ventre per milioni di anni queste particolari sostanze in attesa che l’uomo, una volta giunto a piena maturazione, potesse impiegarle al meglio per stabilire un suo primato incontrastato quale dominatore del mondo naturale tutto. Non è un caso che noi abbiamo utilizzato il termine “insostituibile”, dato che nel prosieguo verrà ampiamente dimostrata la totale insostenibilità delle fonti rinnovabili, meglio conosciute come “energie verdi” . Dobbiamo innanzitutto chiarire come vengano distinte le fonti fossili sopra citate: la quantità totale di petrolio e gas naturale viene divisa in riserve, produzione e consumi. Il primo termine viene definito come “la quantità di petrolio/gas tecnicamente ed economicamente estraibile”: questo implica, quindi, che le cosiddette riserve siano costituite da ciò che noi siamo in grado di estrarre dal sottosuolo a un costo non eccessivo, capace di rendere la vendita competitiva sul mercato. Il secondo termine invece indica “la quantità di petrolio/gas estratta dal sottosuolo e successivamente rivenduta nei mercati”: questa definizione introduce quindi un concetto che spiega come non tutto il petrolio disponibile all’estrazione (le riserve) venga effettivamente estratto, poichè quest’operazione pertiene solo a una piccola parte di questo, ovvero alla porzione che viene integralmente venduta sul mercato. Il terzo termine indica “la quantità di petrolio/gas naturale comprata e successivamente immessa nel settore industriale”: si parla quindi di quella parte che viene effettivamente utilizzata dalle industrie nazionali per i vari settori produttivi, quali per esempio la produzione di energia elettrica. I dati Eni forniscono alcune informazioni molto particolari. Guardiamo per prima cosa il gas naturale: secondo un dato ampiamente diffuso, questa fonte fossile è ormai satura, ovvero il livello delle riserve mondiali non è in aumento, bensì in calo. Questo perché il gas naturale è una fonte tale che lo sfruttamento di qualsiasi giacimento non è mai stato tecnicamente o economicamente svantaggioso, quindi già da alcuni anni La terra 79 abbiamo saturato la nostra capacità d’estrazione. Discorso ben diverso, invece, va fatto per il petrolio: la notizia che gli ambientalisti diffondono circa il suo prossimo esaurimento è sostanzialmente un’informazione falsa e fuorviante. Infatti i dati mostrano chiaramente come le riserve mondiali manifestino un andamento nel tempo monotòno crescente: se vogliamo dar retta ai numeri, si è Trivellazioni petrolifere nell’Artico. passati dai 956.823 milioni di barili nel 1995 ai 1.401.525 milioni di barili nel 2012. Visti i tempi lunghissimi necessari alla formazione del petrolio e i motivi sopra elencati, bene si comprenderà come quest’andamento crescente sia dovuto al fatto che l’avanzamento della tecnica ingegneristica permette lo sfruttamento di pozzi prima non competitivi sul mercato e — date le odierne informazioni e le attuali trivellazioni (specie nell’Artico) — non abbiamo pertanto motivo di temere una prossima saturazione della fonte. Per motivi prettamente euristici, tecnici e fisici siamo quindi sicuri che, almeno per molti anni, la quantità di petrolio sarà più che sovrabbondante per tutti coloro che potranno acquistarla. Il problema inerente le fonti fossili è proprio quello relativo al costo: per il gas naturale possiamo dire che gli andamenti mondiali (quindi su larghissima scala) sono più “prevedibili” rispetto a quelli relativi al greggio. Sino a molti anni fa, infatti, il gas veniva trasmesso solo lungo grandi tubature, dette gasdotti, che per motivi economici e tecnici potevano collegare solo produttori e importatori relativamente vicini. Guardando il caso di studio italiano, la penisola era prima approvvigionata in gas naturale esclusivamente da paesi sudafricani e nordeuropei. Grazie allo sviluppo delle tecnologie di liquefazione e rigassificazione del gas (che permettono di liquefare il gas presso la zona d’estrazione così da poterlo trasferire tramite navi metaniere in tutto il mondo senza vincolo alcuno) questa fonte è stata del tutto svincolata dalle limitazioni geografiche e soprattutto politiche tipiche dei gasdotti. Da questa succinta analisi circa la mancanza (al momento prettamente virtuale) di vincoli geopolitici e data la sa- 80 Rivista Thule Italia turazione della fonte, deriva una certa debolezza dei venditori del gas naturale sul mercato. Questi infatti hanno poco potere economico nei confronti di una fonte che è sì molto sfruttata nel mondo, ma di cui è noto che la quantità non risulta in aumento. Ecco allora che paesi come il Qatar (primo al mondo nel settore delle riserve, ma praticamente assente dal punto di vista della produzione a causa della sua incapacità di imporsi sul mercato) hanno dovuto abbassare notevolmente le loro richieste per potere vendere la loro fonte sul mercato mondiale. Si spiega così come, dal lato gas, i compratori europei e nordamericani riescono a far valere una piccola leva, grazie specialmente al fatto che i paesi produttori possono interloquire quasi esclusivamente (perlomeno per quello che riguarda le grosse quantità) con loro, poiché i Paesi economicamente emergenti (Cina prima tra tutti) risultano utilizzare generalmente impianti industriali non a gas ovvero a peggiore rendimento, ma a minore costo d’impianto. Tutto ciò, sinora, ha fatto in modo che non si verificassero grosse criticità lato gas, perlomeno a livello mondiale. Il condizionale risulta però d’obbligo, dato che specie in ambito europeo si è ancora molto dipendenti dai gasdotti, condizione che ha portato a un certo immobilismo politico anche di fronte ad azioni politiche piuttosto spregiudicate. Molto diverso è invece lo stato delle cose dal lato del petrolio. Questa fonte risulta influenzare non solo gli interi mercati economici, ma anche la stabilità politica di molti Paesi e, in generale, la vera e propria sopravvivenza di una nazione. Innanzitutto occorre dire che già solo l’atto d’acquisto della fonte presso un Paese piuttosto che un altro è una conseguenza di ben ponderate decisioni politiche. A riguardo ha del clamoroso il caso del Venezuela, Paese che risulta essere il primo al mondo dal punto di vista delle riserve possedute, ma che non riesce a imporsi sul mercato; ciò per motivazioni geografiche e politiche, infatti la posizione del Venezuela lo porta a poter interloquire principalmente con gli U.S.A., ma questi ultimi, per motivi politici, preferiscono comprare la fonte loro necessaria da altri (anche a prezzo maggiore), pur di non mettersi in una posizione di debolezza verso uno stato “nonamico”. Naturalmente alla lunga questo Stato sudamericano riuscirà a vendere il suo petrolio (che al momento può stare ben al sicuro sotto terra), ma al momento la popolazione venezuelana non gode di tutti quei vantaggi che potrebbe ottenere in termini di benessere e di ricchezza da una fonte tanto ricca. Non si creda, tuttavia, che nel mercato del petrolio i Paesi compratori La terra 81 godano dello stesso potere decisionale che si è (almeno virtualmente) riscontrato nel mercato del gas naturale. Bisogna dire che i produttori cercano, a tutt’oggi, di assecondare gli andamenti dell’economia mondiale facendo scendere il costo della fonte durante i periodi di recessione economica e mantenendolo costante (o addirittura provocandone un rialzo) durante i periodi di crescita del PIL mondiale. Perché i produttori si comportano così? Sicuramente non per fini umanitari, ma esclusivamente per motivazioni che riguardano la loro sopravvivenza economica. Infatti, essi seguono l’andamento economico mondiale solo per potere fare in modo che le vendite della loro fonte non subiscano cali: i produttori anzi guardano positivamente a un aumento del PIL mondiale solo perché questo permette loro di vendere il petrolio a un prezzo maggiore. Ci si potrebbe chiedere perché, nonostante quanto scritto sopra, il prezzo del greggio sia in costante aumento a dispetto della crisi economica che ha investito l’Europa occidentale e l’America del Nord: la risposta è assolutamente semplice. Prima il PIL mondiale vedeva come uniche due forze motrici proprio queste due macrozone geografiche, ma dagli ultimi 10 anni circa a oggi si sono introdotte nuove realtà nel panorama economico mondiale che, grazie all’esponenziale crescita dei loro mercati, hanno del tutto soppiantato il ruolo di guida dei mercati mondiali prima tenuto da queste macrozone. Oggi, nonostante l’America e l’Europa siano in piena recessione, il PIL mondiale è in crescita grazie allo sviluppo dei paese emergenti e così i paesi venditori non solo non calmierano i prezzi, ma addirittura li aumentano, potendo contare su acquirenti che, in virtù dei loro mercati in espansione, possono permettersi l’acquisto. La grande e futura abbondanza di petrolio comporterà così che il greggio sarà, per moltissimo tempo, qdisponibile per chi avrà la capacità d’acquisto. Si verificherà quindi nel mondo una vera e propria lotta per la sopravvivenza, che vedrà il petrolio al centro dei contendenti e non temiamo di scrivere che la mancata disponibilità condurrebbe, istantaneamente o quasi, uno Stato alla rovina. Il problema dell’approvvigionamento però non riguarda tutti gli Stati importatori, ma solo una particolare fetta. Uno Stato, infatti, può soddisfare la propria richiesta energetica in diversi modi: utilizzando i propri giacimenti (una nazione potrebbe per esempio possedere riserve troppo esigue verso l’esportazione, ma sufficienti per il proprio approvvigionamento) oppure comprando tutta la quantità necessaria dall’estero. In mezzo a questi due contesti estremi vi sono quegli Stati che in parte sfruttano giacimenti 82 Rivista Thule Italia endogeni e, in parte, si riforniscono presso i mercati. Una decisione su quale percorso intraprendere per affrontare il piano energetico nazionale è fortemente politica e influenza la comunità nazionale in tutta la sua sfera. Decidere così di prosciugare le fonti endogene in breve tempo, senza comprare nulla dall’estero (dove possibile) comporta sul breve termine una bassa pressione fiscale sulla comunità, ma provoca alla lunga un rialzo immediato della tassazione — di difficile sopportazione e sostenibilità non appena occorre approvvigionarsi dall’estero. Viceversa un’ottica volta all’acquisto dall’estero e al risparmio delle fonti endogene porta sicuramente a degli oneri maggiori sulla popolazione, ma assicura allo Stato una certa indipendenza dalle situazioni economiche congiunturali: per esempio, se il prezzo del petrolio diventa troppo alto o l’approvvigionamento diviene difficile per motivi politici, allora si può ricorrere ai propri pozzi. La prima situazione è quella tipica degli U.S.A. che hanno deciso di comprare quantità veramente esigue dall’estero e di sfruttare subito i propri giacimenti (di petrolio e gas naturale). Secondo i dati forniti dal report in questione l’America potrà continuare a sostenere questo piano per un periodo di tempo compreso tra i 10 ed i 20 anni. Questo significa che il governo statunitense passerà a breve da una situazione nella quale compra poco dall’estero a un’altra che lo vedrà impegnato a dover acquistare tutta la fonte necessaria per il suo sostentamento energetico, con conseguenza che la sua già disastrata economia possa subire un vero e proprio colpo ferale destinato ad abbattere definitivamente il Paese tutto e provocando la definitiva fine degli U.S.A. così per come oggi li conosciamo. Allora il lettore deve capire che è un estremo atto di responsabilità di un governo verso la popolazione quello di stabilire un piano energetico sostenibile e improntato verso il risparmio delle fonti, dato che innanzitutto viviamo in un mondo dove lo strapotere europeo e soprattutto americano (sul piano economico) è ormai definitivamente tramontato e non si possono assolutamente incolpare i Paesi produttori di petrolio se si disinteressano delle condizioni di queste due macrozone mondiali: il loro unico bisogno, strettamente correlato alla loro lotta per la sopravvivenza, è di trarre il massimo guadagno possibile dall’unico bene che possiedono e di fare in modo che, quando questo sarà esaurito, avranno sviluppato soluzioni adatte per il loro sostentamento. Noi europei non trovando solidarietà dal punto di vista dei venditori non ne troveremo neanche tra i compratori, poiché è fisiologico che Paesi come la Cina, che hanno per secoli sopportato la forza La terra 83 del capitale occidentale, una volta che gli equilibri siano cambiati non si facciano scrupoli dei danni che il loro potere economico sta provocando negli altri Stati. Ugualmente allora si capirà come le azioni di certi Stati che cercano di creare zone d’influenza in determinate aree geografiche non rispondono che a un bisogno di sopravvivenza, nell’impossibilità di agire secondo le leggi del mercato. È normale che uno Stato in difficoltà pensi al suo futuro e per questo non esiti nell’utilizzare mezzo alcuno; deve invece provocare sdegno il fatto che il tutto si svolga sotto il mantello della bugia e della menzogna, sotto ragioni che poco hanno dell’umanitario e molto dell’infame e del bugiardo. Per lo stato delle cose viene quindi da chiedersi se la Terra non offra all’uomo altre fonti energetiche per il suo sostentamento. Purtroppo, nonostante le tendenziose notizie messe in giro dai cosiddetti “verdi”, al momento la dipendenza energetica da petrolio e gas naturale è assolutamente ineludibile. Ciò non solo a causa dell’immensa quantità di energia della quale l’uomo ha giornalmente bisogno, ma anche per motivi di natura tecnica ed economica che analizzeremo a breve. Bisogna innanzitutto notare l’aleatorietà tipica delle fonti cosiddette verdi, come l’energia solare, l’eolica o l’idroelettrica. A causa della loro indeterminatezza non siamo in grado di sapere con assoluta certezza quando e come un certo impianto possa produrre energia. Prendiamo, per esempio, il caso di un sistema eolico. La velocità del vento (parametro fondamentale nella produzione di energia elettrica a partire da quella eolica) non è un dato il cui valore giornaliero è noto con esattezza, ma risulta seguire una distribuzione di probabilità, in particolare quella denominata Weibull. Questo significa che il vento potrebbe soffiare, in un dato giorno, con un’intensità che risulta essere la più probabile, ma non la più certa. Nonostante vengano sostenute, localmente, accurate campagne sperimentali volte alla raccolta dei dati utili per ricavare l’andamento statistico delle velocità del vento, si rimane comunque all’interno del campo delle probabilità, ovvero non si ha mai l’assoluta certezza che le cose vadano per come era previsto. Poniamoci allora la domanda se siamo sicuri di volere dipendere in questo modo da una fonte tanto “capricciosa”. Lo stesso ragionamento seguito per l’eolico può essere fatto per la maggior parte delle altre fonti, come il solare o l’idroelettrico. Vogliamo, inoltre, sottolineare che una delle principali caratteristiche di una fonte d’energia è proprio la sua disponibilità a essere sfruttata in un momento qualsiasi e da questo punto di vista gli idrocarburi hanno dominato tanto a lungo la civiltà umana grazie al 84 Rivista Thule Italia loro facile stoccaggio e alla grande densità d’energia in essi racchiusa. Saremo chiari nel dire che non bisogna cadere in sciocche fantasie: l’attuale civiltà umana abbisogna di energie sempre presenti e pronte per l’utilizzo. Poniamoci una domanda provocatoria: siamo disposti a ritardare di un paio d’ore una nostra qualsiasi attività a causa del fatto che — per esempio — un cielo eccessivamente nuvoloso non permette al pannello fotovoltaico di produrre energia elettrica? E quali effetti avrebbe questa aleatorietà delle fonti sui processi industriali? Ancora prima di queste due domande occorre porsi un quesito ancora più importante: siamo noi in grado di gestire una produzione energetica tanto discontinua? Bisogna infatti fare i conti con la realtà rappresentata dalla rete elettrica nazionale, ovvero dall’insieme di elettrodotti che si occupano della trasmissione di energia elettrica lungo tutto il territorio nazionale. È ben noto che, al pari di un tubo percorso d’acqua, anche i fili conduttori dove scorre l’energia elettrica presentano delle ben precise capacità che se superate portano alla rottura del conduttore (si pensi a un tubo dove scorre troppa acqua: appena superato il limite questo si rompe, per esempio bucandosi). Una rete elettrica, dovendo essere in grado di assicurare la fornitura d’energia a tutte le utenze, occorre che sia dimensionata in modo tale da poter permettere il transito della massima energia elettrica possibile. Una rete ideale quindi è come un tubo nel quale possiamo far passare tutta l’acqua che vogliamo senza il pericolo di danneggiarlo. Naturalmente costruire un elettrodotto di capacità infinita è tecnicamente impossibile, mentre realizzarlo con una capacità eccessivamente sovrabbondante rispetto ai reali utilizzi diventa economicamente insostenibile. Le energie verdi in relazione alla rete di elettrodotti diventano scomode per alcuni motivi. Il primo motivo è legato alla loro natura aleatoria che causerebbe un dimensionamento tecnico ed economico dell’elettrodotto estremamente difficile, se non impossibile. Infatti, da una parte dovremmo dimensionare questo sulla potenza massima prodotta dalle centrali alimentate da energia verde, ma vista la natura stocastica di queste fonti tale picco non si verificherà mai (è difficile che in un dato istante in tutto il territorio nazionale per esempio ci sia un bel sole o un forte vento), al contempo però dovremmo pensare che il dimensionare questo sulla potenza media ci porterebbe immediatamente in una posizione di rischio, dato che potrebbe accadere che per più ore consecutive la potenza elettrica prodotta superi la capacità dell’elettrodotto e questo porterebbe al suo danneggiamento La terra 85 e a problematiche per nulla secondarie o marginali, come il rischio di black out. Ancora una volta, prima di chiederci se siamo in grado di costruire un elettrodotto sovradimensionato — che sarà sottoutilizzato per quasi tutta la sua vita utile e quindi rappresenterà un insensato esborso economico —, dobbiamo fare i conti con la realtà nostrana, la quale ci dice che gli elettrodotti italiani risultano già ampiamente precari nel loro “banale” funzionamento di collegamento tra centrali canoniche (dalla potenza nominale certa e assoluta) e le utenze già senza l’aggravarsi di variabili stocastiche. La nostra rete risulta essere dimensionalmente ridotta rispetto al picco e non siamo in grado di gestire eventuali sbalzi nella produzione elettrica senza pagare (a spese della comunità) opportune centrali affinchè fermino la produzione così da diminuire il carico localmente transitante, permettendo il passaggio della capacità in esubero. È completamente fuori da ogni pensiero razionale sognare un Paese servito esclusivamente da parchi di generazione elettrica alimentati a fonti rinnovabili. Rasenta poi il puro delirio ragionare nell’ottica di tanti piccoli impianti domestici, ciascuno dei quali dovrebbe essere teoricamente autosufficiente, ma realmente pronto ad assorbire o cedere alla rete la quantità d’energia in esubero o in deficit: noi italiani, ma in generale la gran parte del mondo, non siamo assolutamente pronti a gestire questo tipo di utenze elettriche. È necessario, infine, ragionare su un ultimo aspetto del problema, che riguarda prettamente il nostro territorio nazionale, relativo alle politiche energetiche. Da tempo chi produce energia elettrica tramite impianti alimentati a fonti sostenibili e rinnovabili viene premiato, ovvero incentivato tramite una remunerazione economica. Questa pratica viene universalmente seguita per rendere l’investimento più invitante ai privati e trova la sua giustificazione nel fatto che la produzione d’energia da fonti verdi provoca delle ricadute positive su tutta la collettività: diminuisce la percentuale d’inquinanti prodotti, diversifica i bacini d’approvvigionamento energetico (rendendo uno stato meno vincolato verso l’estero) e migliora il rendimento energetico nazionale. Queste sono tutte motivazioni sin troppo sponsorizzate, ma che spiegano l’interesse collettivo verso lo sviluppo di impianti alimentati a fonti rinnovabili. Il piano energetico italiano presenta però delle notevoli criticità, che portano in pratica a un’eccessiva incentivazione per i grossi impianti, mentre per i piccoli impianti non finalizzati alla produzione di energia elettrica di fatto i bonus sugli investimenti sono trascurabili o addirit- 86 Rivista Thule Italia tura inesistenti. Si consideri che l’incentivo viene monetizzato sotto forma di un maggiore prezzo di vendita unitario dell’energia: ciò significa che chi produce da rinnovabili vende la propria energia all’autorità competente (in Italia il GSE, Gestore dei Servizi Elettrici) a un prezzo notevolmente maggiore rispetto a quello “standard” che si viene a formare sul mercato nazionale. Il GSE vende l’energia elettrica acquistata dai produttori rinnovabili sul mercato elettrico, ma a un prezzo pari a quello di mercato: questo vuol dire che l’ente ricava una perdita, in quanto vende qualcosa a un prezzo minore di quello d’acquisto. L’ente, allora, rientra da questo deficit caricando la perdita (quindi il valore dell’incentivo) sulle componenti aggiuntive del costo dell’energia elettrica pagate dal Oneri dei meccanismi d’incentivazioni sulla comunità singolo contribuente (il nazionale (da fonte GSE) lettore interessato potrebbe controllare nella sua bolletta il costo dell’incentivo gravante su di lui leggendo l’importo riportato alla voce A3). Giusto per fornire qualche cifra, laddove in Francia il costo per kWh di energia elettrica si può assumere pari a 5 c€ , in Italia già nei prossimi anni (a causa dell’installazione di nuovi impianti alimentati a rinnovabili) 8 c€ rappresenteranno solo una parte del costo unitario del kWh, il cui totale potrebbe anche essere tre volte superiore a quello pagato dai vicini francesi. Si comprende che tale sistema d’incentivazione, che pesa annualmente sul bilancio nazionale per cifre dell’ordine del centinaio di milioni di euro, non è economicamente sostenibile e che l’attuale piano energetico ha perso ogni interesse comunitario, finendo per privilegiare e gonfiare sino all’inverosimile gli interessi privati. Il lettore sappia che un imprenditore capace di investire, per esempio, 1 milione di euro per la costruzione di una centrale eolica, già nel giro di 12 mesi avrà pienamente recuperato l’investimento eseguito e per la restante vita utile dell’impianto non farà altro che intascare denaro senza dovere svolgere, di fatto, alcun lavoro: La terra 87 in questa maniera investendo egli potrebbe ottenere una somma pari a 10-15 volte l’esborso iniziale, tutto a spese della comunità nazionale. Il meccanismo d’incentivazione è, senza tema di smentita, fallito poiché l’interesse e il guadagno del privato ha di gran lunga superato e oscurato il beneficio per la collettività, giungendo al paradosso per il quale una fonte fisicamente “sostenibile e rinnovabile” risulta economicamente dannosa e insostenibile per tutta la comunità. I motivi sopra esposti sono ritenuti più che sufficienti per dimostrare che, allo stato attuale delle cose, la fonte d’energia principale che la terra ci offre è rappresentata dai combustibili fossili che essa ha curato nel suo ventre nella sua storia millenaria e che questi sono più che sufficienti per saziare la domanda mondiale, almeno sul lungo termine, ma solo in chiave teorica, date le limitazioni economiche a contorno. Risulta allora utile lo studio di fonti energetiche alternative, a patto però che queste siano analizzate alla luce del contesto nel quale devono agire e che non vengano considerate “ottime” a prescindere da ogni analisi che non tenga conto delle problematiche tecniche delle reti e dei meccanismi d’incentivazione degli investimenti per i privati; un breve, ma corretto studio, consente di dire allo scrivente che allo stato attuale delle cose si potrebbe giungere, con i corretti investimenti, a un notevole risparmio di fonti fossili, quindi d’indipendenza dall’estero (effetto ampiamente positivo per tutta la comunità nazionale), ma non alla loro completa sostituzione. Vogliamo allora concludere questo scritto con una frase dello scrittore Thich Nhat Hanh, tratta dal suo libro “Il miracolo della presenza mentale” , che ben si adatta al tema trattato: “Mi piace camminare da solo per i viottoli di campagna, fra piante di riso ed erbe selvatiche, poggiando un piede dopo l’altro con attenzione, consapevole di camminare su questa meravigliosa terra. In quei momenti, l’esistenza è qualcosa di prodigioso e misterioso. Di solito si pensa che sia un miracolo camminare sull’acqua o nell’aria. Io credo invece che il vero miracolo sia poter camminare sulla terra”. Bibliografia Edda, Snorri Sturluson, Adelphi. La felicità duratura, Epicuro, Mondadori. Viaggio nella filosofia, volume primo, Mauro Imbimbo, Palumbo Edito- 88 Rivista Thule Italia re. Storia della filosofia, volume terzo, tomo terzo, Giovanni Reale, editrice La scuola. Letteratura greca, volume secondo, Dario del Corno, Principato. Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche, Oscar Mondadori. La scrittura e l’interpretazione, tomo terzo volume primo, Romano Luperini, Palumbo Editore. La scrittura e l’interpretazione, tomo terzo volume secondo, Romano Luperini, Palumbo Editore. Operette morali, Giacomo Leopardi, Nuovi Oscar classici Mondadori I malavoglia, Giovanni Verga, Einaudi. Per i dati su petrolio e gas naturale: http://www.eni.com/it_IT/azienda/cultura-energia/world-oil-gas-review/world-oil-gas-review-2013. shtml (aggiornati al 31 dicembre 2013). L’importanza della terra quale mito politico e nella geopolitica contemporanea di Gabriele Gruppo Un compito veramente importante c’è stato affidato nel redigere questo articolo. In quanto esso si dovrà offrire, secondo il nostro fine, una sintesi esaustiva di quelle dinamiche che legano la terra, sia nella sua accezione materiale sia in quella metapolitica, a quei fenomeni storici e ideologici che riteniamo pregni di significato per quella che potrebbe ben essere definita una vera cultura alternativa e identitaria, rispetto a ciò che oggi impera in tutta la sua grossolana superficialità. Infatti, nella visione dell’attuale epoca postmoderna, la terra è vista come un mero oggetto economico, o tutt’al più come l’ambiente, l’habitat, da preservare in modo puramente “meccanico” e materiale, visione questa che contraddistingue tutte le forme di ecologismo più o meno militante. Pur non volendo in questo articolo addentrarci, in modo troppo specifico, negli aspetti metafisici più complessi dell’antichità riguardanti il concetto terra, non possiamo che constatare quanto esso nell’epoca odierna abbia perso ormai completamente ogni ancoraggio con dei principi superiori, che ne davano in passato un’importanza pregna di significati, caratterizzante e unica per i popoli e le nazioni. Basti pensare alla disinvoltura con cui l’uomo del XXI secolo trasforma radicalmente il proprio spazio ambientale, in base a delle necessità materialistiche contingenti, senza badare alle ripercussioni nel lungo termine di tali scelte. L’urbanizzazione dei popoli, e lo sviluppo infrastrutturale dei territori, rappresentano indici di crescita economica e di progresso, poco si considerano però formule di intervento meno invasive, volte anche a un più equilibrato rapporto uomo/terra. Molto più che nell’antichità, 90 Rivista Thule Italia nell’era della globalizzazione non sembrano dover essere posti dei limiti ai mutamenti cui è sottoposto l’ambiente che ci circonda, destinato a essere plasmato secondo criteri utilitaristici incalzanti, che non tengono minimamente in considerazione quanto anche la terra (o lo spazio terrestre) non sia un bene infinito, ma destinato a esaurire le proprie capacità di soddisfare i bisogni della popolazione mondiale cui, secondo noi, dovrebbe essere posto un freno prima che si avveri l’irreparabile discesa agli inferi della lotta per “un pezzo di pane”. Non siamo certo dei beceri oscurantisti, avversi al progresso o alla modernità, e nemmeno degli ecologisti da salotto, esegeti di una natura immutabile e intoccabile. Tuttavia, riteniamo che nell’antichità, e financo nel più recente passato, l’approccio tra uomo e terra fosse non soltanto più equilibrato e simbiotico, ma anche maggiormente volto a degli aspetti trascendenti che permeavano, in modo a volte perfino inconscio, tale rapporto. La politica e la geopolitica delle grandi civiltà d’Europa, di cui dovremmo essere gli eredi diretti, riflettevano nelle epoche antecedenti sicuramente tale importante condizionamento, così come il sorgere della nobiltà feudale o la costituzione di quella kultur contadina che caratterizzò il Vecchio Continente per secoli. Lo sfruttamento della terra, dunque, era certamente pratico ma anche rivolto alla sua conservazione e preservazione. Ritenere tale questione quale semplice richiamo al “passatismo” o una sorta di “nostalgismo” tradizional/ecologista per ciò che non s’è vissuto, e non come un valido punto di riferimento per un’alternativa concreta al declino che sta attraversando l’Europa contemporanea, rappresenta pura e semplice miopia suicida. Rincorrere perciò l’utopia di un progresso senza limiti, così come più volte detto in vari modi negli articoli di quest’anno, non può che condannare noi e la nostra progenie alla distruzione della civiltà europea e al servilismo nei riguardi di dogmi e assiomi portati dal neoliberismo e dal mondialismo. Per far fronte a tale nefasta prospettiva non basta però la mera “difesa” del folklore, o perseverare in battaglie di retroguardia portate in auge da un certo tipo di populismo, difensore degli interessi economici, seppur legittimi, delle nazioni, o attraverso proposte fondate su argomenti di natura socio/economica, anch’essi legittimi, tuttavia spesso La terra 91 privi di una visione del mondo veramente rivoluzionaria e realmente identitaria. Tali fenomeni possono essere certamente dei punti di partenza, validi nell’immediato, ma la loro superficialità li rende deboli e alla lunga inefficaci. Per dar vita a dei veri progetti che possano liberare l’Europa da certe illusioni, serve quindi pianificare una rieducazione dei popoli a quei principi che erano fonte di ordine e di vita. Per far ciò, appare evidente la necessità di riproporre un equilibrio tra terra e organizzazione dei popoli europei, tra terra ed economia europea, e anche tra terra e identità delle nazioni d’Europa. Aspetti fondamentali e concreti nella loro essenza, che non possono essere relegati a un semplice passato storicizzato, ma ritornare vivi e vitali, se vogliamo salvarci da un genocidio prima di tutto culturale, e anche da un dissolvimento fisico delle nostre caratteristiche peculiari. Alcune delle proposte offerte dal Programma del Movimento di Transizione Nazionale, non ancora purtroppo comprese da molti nella loro portata realmente radicale e rivoluzionaria, offrono in tal senso uno spunto validissimo da cui partire, per offrire ad esempio, al popolo italiano, un approccio allo stesso tempo nuovo e antico con il territorio di cui dispone. Un territorio che si dimostra sempre più fragile, per via degli abusi cui è stato sottoposto negli “anni ruggenti” del benessere diffuso e della crescita economica priva di lunga prospettiva. Dal Programma del MTN: In materia economica 9. Razionalizzazione territoriale. Dovranno essere poste in essere iniziative a carattere sociale ed economico, che incentivino il ripopolamento di quei territori che soffrono per l’eccessiva urbanizzazione delle forze lavoratrici giovanili. Servirà un’articolata iniziativa statale di lungo raggio temporale, che renda adeguatamente vivibili da un punto di vista occupazionale e di servizi di pubblica utilità, località provinciali o comunque lontane dai grandi centri urbani. La finalità di tale progetto avrà i seguenti obiettivi: a. rendere più armonica la dislocazione della popolazione italiana lungo l’asse della penisola; b. smantellare parte delle attuali periferie e attuare una loro riconversione in polmoni naturali per i grandi centri urbani; 92 Rivista Thule Italia c. creazione di microbacini occupazionali diversificati, ad uso delle necessità territoriali. Dal Programma del MTN: In materia di lavoro 12. Lavoro agricolo. Assecondare la naturale aspirazione di molti giovani per il ritorno al lavoro sulla terra. Lo Stato agevola e defiscalizza il lavoro agricolo e dota le aziende agrarie di nuova costituzione di un adeguato capitale in impianti e macchinari. Verrà istituita un’apposita Cassa Rurale per la concessione di crediti senza interesse (e in parte a fondo perduto) alle aziende agricole. Dal Programma del MTN: In materia di politica ambientale 1. La salvaguardia del territorio quale bene comune dovrà essere una delle priorità. 2. Verificare qualsiasi struttura abusiva costruita prima dell’entrata in vigore del Programma e intervenire a seconda dei casi: a. all’abbattimento, qualora trattasi di seconda casa, senza indennizzo alcuno; b. all’abbattimento, qualora trattasi di prima casa, con indennizzo parziale. 3. Controllo delle attività industriali e dei loro scarichi. Qualora non in regola ci sarà un tempo per porsi in regola superato il quale senza aver adempiuto alle azioni richieste l’attività verrà confiscata. 4. L’incendio doloso, l’inquinamento delle acque, lo sfruttamento illegale del territorio verrà perseguito con pene esemplari. 5. La raccolta differenziata dei rifiuti dovrà essere applicata sull’intero territorio. 6. Costruzione d’impianti di termovalorizzazione e di conversione affiancati dall’apertura di nuove discariche in luoghi senza vincolo paesaggistico. 7. Sarà prioritaria l’opera di rimboschimento, sia quale barriera naturale per prevenire alcune catastrofi ambientali (es. frane), sia per la produzione di carta che dovrà tornare ad avere un ruolo privilegiato La terra 93 rispetto all’abuso della plastica. 8. Dovrà essere prioritaria la ricerca e lo sfruttamento di fonti energetiche pulite (solare, eolica, idroelettrica). 9. Dovrà essere compiuto ogni sforzo per ridurre l’inquinamento atmosferico e in tale ottica dovrà essere fortemente limitato il trasporto su gomma a favore del trasporto su rotaia. Su strada dovranno circolare solo mezzi che compiono brevi tratti, mentre i TIR e altri veicoli commerciali verranno caricati sui treni. Eccezione potrebbe essere rappresentata dai deperibili. L’Italia, la sua struttura idrogeologica, le sue peculiarità territoriali, e l’effettivo impatto che le attività umane hanno sia in ambito di sviluppo delle risorse, sia di tutela dai rischi di una loro errata amministrazione, necessita quindi di un vero e proprio progetto articolato di lungo termine, che garantisca allo stesso tempo quel carattere utilitaristico fondamentale per le popolazioni che vi abitano, ma ne fornisca soprattutto il giusto approccio conservativo, senza le sperequazioni viste negli ultimi cinquant’anni. Siamo convinti che molte delle criticità presenti nel territorio italiano possano essere gestite senza nulla togliere alle ambizioni di sviluppo economico e sociale dei territori, o dello Stato che li amministra. Affidandosi soprattutto a una vera rieducazione generazionale, che ponga in auge la necessità di ripristinare un corretto rapporto uomo/ambiente, attraverso principi che già furono propri alle nostre genti. Oltre che con l’elaborazione di un impianto legislativo che sia chiaro nelle fonti e altrettanto chiaro nelle finalità. Una proposta che abbia una valenza organizzativa nuova e forte, in cui non debbano essere contemplate “scappatoie” o lassismo di alcun genere, fattori che, invece, sembrano aver favorito sia la diseducazione del popolo italiano nei confronti del proprio territorio di pertinenza, sia il sorgere di quelle disarmonie gestionali e di amministrazione, che molti danni hanno causato; sia in termini economici, sia etici e valoriali. Quel che affermiamo stride molto con l’approccio diffuso verso tali tematiche, e comunque non risulta in sintonia nemmeno rispetto a un certo ecologismo “alla moda”. Qui non si tratta più di semplice organizzazione utilitaristica, in senso stretto, e nemmeno è nostra intenzione proporre idilliaci sogni di una natura incontaminata entro riserve turistiche o di folklore. Parlare di etica e di principi che coinvolgano il territorio e le popolazioni che ne 94 Rivista Thule Italia fruiscono, tocca punti poco noti o bistrattati. Parlare di etica e di principi vuol dire responsabilizzare la nazione intera e le sue articolazioni statali, in una gestione consapevole dell’Italia, quale spazio geografico e di destino, su fondamenta valoriali che traggono spunto dalla tradizione e dagli insegnamenti già presenti nella nostra storia, attraverso un doveroso adattamento di tempi e modalità, indispensabile per renderne fruibile alla comunità nazionale l’importanza intrinseca. Per questo motivo il presente articolo parte con quella che potremmo ben definire una pars construens, capace di offrire un quadro di sintesi della visione del mondo che anima le nostre proposte in merito. Senza tale doverosa premessa ideologica non potrebbero spiegarsi i punti che tratteremo di seguito. Il legame tra terra e popolo va per noi oltre le questioni di natura politica o economica. Tale legame deve anche trascendere verso una sfera superiore, e al contempo essere capace di soddisfare la necessità di affermare l’identità di un territorio e dei suoi abitanti, in una scala gerarchica che coinvolge prima di tutto l’aspetto che potremmo definire “locale”, per arrivare alla complessità dell’ideale di nazione. Nella visione ideologica che ci contraddistingue lo Stato, organico e gerarchico, è per noi essenziale nel raggiungimento dell’armonia tra terra e popolo, in quanto a esso spetta il compito, difficile ma nobilissimo, di preservare e sviluppare la consapevolezza nazionale verso il territorio d’appartenenza, fornire gli strumenti per la realizzazione di tale simbiosi, e per approntare le dovute difese contro ogni formula inquinante, culturale o ideologica, che possa risultare disgregativa o universalistica. Non si può più immaginare uno sviluppo senza dei precisi limiti. Limiti che non andrebbero certo a intaccare il diritto alla prosperità cui anela ogni popolo. Tuttavia secondo noi, come sempre affermato in modo coerente, a ogni diritto deve essere per prima cosa affiancato un dovere, da compiere quale strumento per ottenere un diritto. Il dovere delle classi dirigenti di preservare il territorio da minacce e sprechi, e il dovere di ogni famiglia nell’educare le future generazioni al rispetto per quel che l’Italia naturalmente offre, sono per noi i primi più importanti cardini etico/ideologici che lo Stato nuovo, che auspichiamo sorga dalle macerie della democrazia rappresentativa, possa fornire al nostro popolo quale formula di responsabilità politica ed educativa totalitaria. La terra 95 L’Italia contemporanea non è “semplicemente” piegata dalla crisi economica, o dal declino del benessere diffuso. Manca ormai completamente il senso di morigeratezza nello sfruttamento di quel che la penisola offre in termini materiali. Manca una visione superiore della terra e della sua importanza quale viatico identitario. Ciò a causa di una cultura che predilige produrre il superfluo, sfruttare ogni cosa, e consumare nell’immediato. Guardando con attenzione anche al quotidiano, semplice e banale quanto si vuole, ma che è specchio fedele della nostra civilizzazione, non possiamo che constatare con preoccupazione quanto scarsa sia la consapevolezza generale nell’avvertire il pericolo imminente, tanto nell’immediato, quanto per il futuro. Ogni nuova speculazione edilizia, ogni grande opera inutile nella sostanza, se non addirittura finalizzata a soddisfare unicamente consorterie di potere economico, ogni degrado ambientale portato sia dalla malavita, sia dalla deriva consumistica della nostra società, ognuno di questi fattori rappresenta uno dei chiodi che serviranno per chiudere il coperchio della bara che stiamo più o meno consapevolmente edificando al posto della nostra patria. Essere fieri della propria terra non deve più essere un vacuo esercizio di retorica, per qualche solone petulante e ignorante, impegnato a raccogliere voti durante i ludi elettorali. Essere fieri della propria terra deve rappresentare la parte integrante di una visione tanto superiore quanto materiale di essa, coagulata in un progetto politico che non contempli più l’interesse particolare, ma abbia quale punto di riferimento la comunità nazionale, e la partecipazione del singolo a un’armonica condivisione di responsabilità e diritti. In fondo questo è il punto saliente, se veramente intendiamo ridare al nostro territorio una dignità e un’importanza organica, sentita in tutti i livelli della società italiana. Non appaia dunque “fuori tema” questa nostra premessa. In quanto senza una consapevolezza condivisa di quel che è stato presso i nostri antenati il territorio, e di quel che deve essere l’approccio che dovremo tenere in quanto comunità nazionale, saranno inutili i tentativi di redigere nuove leggi, o di far applicare regolamenti diversi da quelli oggi in vigore; sarà tempo perso, in quanto resterà tutto lettera morta presso il popolo, che manterrà inalterati certi infausti e deleteri atteggiamenti. Deve, dunque, essere tracciato un limes chiaro e invalicabile su questo 96 Rivista Thule Italia tema, da chi vorrebbe sostituire l’attuale sistema di governare e guidare il popolo, attraverso una vera proposta che comprenda quali siano i rischi insiti nell’epoca attuale, e che fornisca gli strumenti per elaborare un’antitesi costruttiva a quel che impera quale visione del mondo e, anche nella più banale quotidianità, dovrà essere posto tale obbiettivo. Partendo dal passato tracceremo quindi un filo logico che dimostri quanto errate siano le attuali condizioni e orientamenti volti a rendere la terra solamente un luogo da sfruttare, una merce come tante il cui valore deve essere solamente dettato dal mercato e non dai popoli che vi abitano. Quel che andremo a trattare di seguito non sarà dunque semplicemente storia erudita, o geopolitica, di per sé già molto importanti, quanto una pietra di paragone positiva, se si vorrà affrontare con forza la lotta per riappropriarci della nostra terra; quale entità fisica, e quale fonte di vita e di identità. “Il nostro popolo tiene nelle sue mani il proprio destino. Ma questa scelta esige una decisione chiara e netta che non lasci posto a nessun equivoco”. Walther Darré, La nuova nobiltà di sangue e suolo. Quel che è stato: Europa, terra, identità La storia d’Europa, fin dagli albori, è stata segnata da un profondo radicamento dei suoi popoli, e delle élite che li governavano, con la terra. Partendo dalla più remota antichità troviamo come i miti fondativi di grandi civiltà quali Atene, Sparta e Roma, poggiavano sul concetto di terrigenia, ovvero sul legame intercorso tra la nascita di un’identità specifica e il suo essere legato a un connubio sangue/suolo. Le poleis di Atene e Sparta definivano l’identità dei loro popoli non soltanto dall’essere autoctoni del territorio che abitavano, ma anche dalla loro “nascita”, o formazione, tramite un intervento divino sul territorio stesso. I dori, progenitori degli spartiati, discendenti diretti di Eracle secondo il mito più diffuso, nel conquistare la regione in cui sarebbe sorta la loro polis, e soggiogando popolazioni già presenti (successivamente portan- La terra 97 do per esse alla definizione di iloti) avrebbero semplicemente fatto valere i loro diritti divini, tornando nelle terre che Zeus aveva loro concesso attraverso Eracle. Ciò in un connubio che caratterizzò tutta la storia di tale stirpe guerriera, che si sentiva portatrice di un compito, che non era semplicemente la conquista della terra, ma una conferma del suo legame intrinseco con precetti metafisici e metapolitici, così come prefigura tutta la struttura organizzativa di Sparta. Il mito della fondazione di Atene appare ancor più esemplificativo. Il mito racconta infatti che, quando la città che sarebbe poi divenuta Atene era stata appena fondata, il Fato supremo aveva stabilito che sarebbe diventata ricca, prospera e la più potente di tutta la Grecia. Atena decise, quindi, di prenderla sotto la sua custodia. Tuttavia, anche Poseidone la voleva sotto la sua protezione, poiché la cittadina era molto vicina al mare, indi soggetta Il mito della fondazione di Atene. anche a suoi favori. Atena e Poseidone entrarono in un conflitto insanabile, in quanto nessuno dei due voleva concedere la giovane città all’altra divinità. Pur interpellando Zeus, nemmeno egli riuscì a metterli d’accordo. Così Atena propose di lasciar decidere ai cittadini chi ne avrebbe preso la custodia. Atena e Poseidone riunirono il popolo della città sull’Acropoli e dissero che ciascuno dei due avrebbe concesso un dono: il regalo giudicato migliore avrebbe fatto vincere la rispettiva divinità. Poseidone fece comparire un magnifico cavallo, mentre Atena fece nascere dal terreno un ulivo. A quel punto dalla folla si fece avanti uno degli anziani più autorevoli, cui spettava il compito di decidere. Egli sentenziò che entrambi i doni erano degni di essere scelti e avevano un significato. Il cavallo rappresentava la forza, il coraggio e la guerra. Mentre l’ulivo la prudenza, la serenità e la sapienza. L’anziano disse che la guerra poteva portare ricchezze e potere, ma era incerta nei suoi effetti finali; 98 Rivista Thule Italia la sapienza, invece, sebbene concedesse beni meno immediati, questi risultavano alla lunga essere più sicuri e duraturi. Tutti i cittadini concordarono con le parole dell’anziano e scelsero il dono di Atena, che diede infine il suo nome alla città. L’ulivo, quindi, fu scelto, simbolo di prosperità che nasce dalla terra e che, con le sue radici, pone stabilità e floridezza durature se ben amministrate. Tale sodalizio sarebbe stato portatore per il popolo ateniese di quel carattere specifico che ne avrebbe garantito la supremazia. Anche in questo caso la simbiosi tra identità e terra si palesa in tutta la sua evidenza. Non solo, il carattere trascendente della “scelta” del popolo ricaduta sull’ulivo — che preferisce una connotazione stanziale, rispetto a quella nomade, quest’ultima rappresentata tanto dal cavallo quanto dalla divinità dei mari — rende ancora meglio l’idea di come tale mito sia frutto della mutazione delle stirpi d’Attica, giunte, quale antica migrazione indoeuropea, a un punto di arrivo similare a quello degli spartiati della Laconia, seppur con differenti e, spesso, divergenti approcci politici e di kultur. Altro mito interessante è quello della fondazione di Tebe nella regione di Beozia. L’eroe Kadmos generò letteralmente i tebani dai denti strappati a un drago sacro al dio Ares da lui ucciso, e seminati in terra, su consiglio di Atena. Anche in questo caso l’autoctonia dei tebani trae la sua origine da un connubio tra sangue e suolo, in cui l’intervento divino — quello di Atena — donerà un alone metafisico indissolubile, che porterà al rafforzamento dell’identitarismo della polis tebana lungo tutta la sua storia, nel tentativo di rivaleggiare sia con Sparta che con Atene per l’egemonia su tutta la Grecia. Il rapporto poi tra Roma, la sua fondazione, e il complesso intreccio di miti e di mitologhèmi che la riguardano, rappresenta un ulteriore valido supporto alle nostre convinzioni. L’Urbe ha nella terra la sua matrice d’origine, intrecciata con quegli eroi che fin da Enea avevano gettato i semi della sua comparsa, insieme con le divinità che svolgono in tutti questi miti funzioni di supporto metafisico. Romolo e Remo hanno nella terra la loro fonte di salvezza, sia attraverso il Ruminal, l’albero di fico sacro a Giove, sia grazie alla ben più famosa lupa, i cui connotati simbolici rappresentano senza alcun dubbio la terra, nella sua forma selvaggia e in quella positiva, in una dualità tipica del mondo antico. Gli stessi gemelli divini hanno poi in due colli di La terra 99 Roma la loro rappresentazione territoriale; Romolo presiede il Palatino, mentre Remo l’Aventino. Lo scontro tra i due è dunque altrettanto rappresentativo. Romolo, che intenRomolo nell’atto di tracciare il limes della sua città. de stanziarsi stabilmente là dove gli Dei hanno concesso, traccia un solco con l’aratro, indicando con ciò la sua volontà di fondare una nuova identità su basi solide. Remo, che forse rappresenta ancora lo spirito nomade, cerca di violare il limes della futura comunità di popolo voluto dal fratello, trovando così la morte in uno scontro altamente simbolico. Roma ha portato lungo tutti i secoli della sua parabola di grandezza i tratti distintivi di questo mito fondativo, capace di coagulare la forza delle gens latine attraverso un rapporto stretto tra autoctonia e identitarismo. Il connubio tra Roma, il suo popolo primigenio, e la sua storia di potenza e di conquista, è andato dissolvendosi di pari passo con il venir meno di quelle fondamenta che ne erano state la forza propulsiva. L’abisso esistente tra i principi, che muovevano la Repubblica delle gens latine, e l’universalismo, presente in gran parte del periodo imperiale, può essere ascritto tra le cause del declino cui Roma andò incontro in modo irreversibile. Quando Roma divenne una sorta di “idea”, e non più forza viva e vitale legata insieme attraverso il connubio sangue/suolo, perse la sua identità, prima ancora di essere sostituita da altre capitali imperiali; come Bisanzio, Ravenna, Milano e Treviri, durante l’ultima fase dell’Impero. Nell’alveo etnico germanico, invece, il legame tra terra e identità si sviluppa in modo diverso. Le stirpi di Germania, che non travolsero l’Impero di Roma, così come troppo spesso si pensa, ma ne soppiantarono l’élite politico/guerriera ormai scomparsa tra il IV e il V secolo d.C., furono gli ultimi rappresentanti di quel nucleo indoeuropeo delle origini, collocato nell’area dell’Urheimat; una regione comprendente la Germania settentrionale, fino a lambire la Polonia ad est, e l’Olanda a ovest, la Danimarca e la 100 Rivista Thule Italia Svezia meridionale. Il retaggio mitico di questa terra delle origini, lo si riscontra in tutto il panorama della kultur indoeuropea, forte e votata alla dominazione, tratti distintivi di cui abbiamo fatto cenno anche nei precedenti esempi riguardanti l’autoctonia e la terrigenia di elleni e romani, e che giunse financo nelle più ancestrali migrazioni che toccarono l’Iran e l’India. Essa ha caratterizzato una sorta di “unità” metafisica e di religiosità, che comprendeva sì l’aspetto prettamente spirituale, ma soprattutto il I germani e l’Urheimat. tratto distintivo di fierezza di quei popoli giunti dall’Urheimat, che andarono spesso a soggiogare civiltà antecedenti, influenzandone così ogni aspetto organico, politico e culturale, che sarebbe giunto successivamente a noi. La comparsa poi dei germani sulla scena della storia europea tra la tarda antichità e l’Alto Medioevo, ha favorito più di ogni altro la formazione delle attuali differenziazioni etniche presenti soprattutto negli Stati/nazione dell’Europa occidentale. E il loro radicamento territoriale è stato il frutto di tutta una serie di “concessioni” all’interno delle province già romane, che gli ormai effimeri Imperatori dell’Urbe offrivano alle tribù barbare, e ai loro re, che di fatto ingrossavano le fila delle vecchie legioni, o che si sostituivano a esse in tutto e per tutto. La nascita della nobiltà europea, e le origini etniche di gran parte dell’Europa occidentale, non sono altro che il frutto di un accordo politico tra un potere in declino e un altro in ascesa, dove la terra rappresentava il punto d’incontro tra queste due realtà, capaci di compenetrarsi e di divenire alla fine un tutt’uno. Con il prevalere del monoteismo cristiano andò poi ad aggiungersi anche una connotazione religiosa a tale mutamento continentale, che andrà per giunta a rafforzare il ruolo della La terra 101 nuova élite dominante, desiderosa di porre termine al caos migratorio entro i confini dell’antico Impero, rendendo stanziali tutte le popolazioni presenti nei così detti “Regni romano/barbarici”. La terra dunque quale fonte di stabilità politica, oltre che indirizzata alla formazione identitaria dei popoli; in quanto solamente attraverso di essa l’uomo può stabilire in maniera certa e ben definita la propria organizzazione politica, lo sviluppo di una kultur vitale, e il ripristino del connubio con principi e valori sia trascendenti che secolari. Spesso la terra e i suoi simboli furono utilizzati per l’incoronazione dei sovrani d’Europa; come nel caso della Pietra di Scone o Pietra del Destino per i Re inglesi, o l’atto di consacrazione delle terre del Regno d’Ungheria da parte di ogni nuovo sovrano che ascendeva al trono di Stefano I. Esempi di come non si debba sottovalutare il ruolo identitario e unificante portato dalla terra. Capace di essere non soltanto “materia” e “risorsa” da sfruttare, ma soprattutto collante essenziale tra i popoli e le loro élite/guida. L’Europa sembrava aver perduto nel corso dei secoli e fino all’epoca moderna questa forza vitale, in sé politica e spirituale, la quale rimase sottotraccia comunque, pronta a essere rivalutata da chi aveva ancora in sé quel carattere ideologico capace di richiamare principi e valori ancestrali. Solamente nel XX secolo il Nazionalsocialismo ha tentato di ripristinare il legame terra/popolo in tutta la sua efficacia, grazie a una straordinaria capacità di comprensione e intuizione dei suoi capi e dei suoi intellettuali, i quali avevano compreso quale era il fatidico “anello mancante”, che legasse ancora una volta il popolo — tutto il popolo — intorno a una grande idea unificatrice e identitaria, che aveva proprio nella terra la sua fonte di forza e di legittimazione storica. L’opera compiuta da Walter Darré in tal senso rappresenta un esempio di come si potesse riportare la terra a un ruolo non soltanto meramente materiale, ma di collante fondamentale per l’identitarismo etnico e culturale. In quanto solamente attraverso il suo essere nuovamente soggetto identitario e non più oggetto economico, finalizzato allo sfruttamento delle sue risorse, poteva offrire al popolo (il Volk) l’opportunità di mantenere inalterate le proprie caratteristiche peculiari e tramandarle alle generazioni future. Il Nazionalsocialismo ha avuto senza dubbio il merito di riportare in auge tale tematica, seppur nel paradossale contesto di una nazione alta- 102 Rivista Thule Italia mente industrializzata quale era, ed è ancora, la Germania. Eppure proprio il connubio sangue/terra rappresentava l’architrave ideologico di tale visione del mondo, in cui accanto alla tecnologia più raffinata poteva, e doveva, trovare posto un ruolo nuovo per il contadinato, che della terra è sempre stato custode. Per questo motivo non può dirsi impossibile anche nell’attuale epoca un reintegro valoriale attraverso di essa, seppur le condizioni in cui versa l’Europa, da un punto di vista etico, e spesso anche etnico, siano ben più carenti rispetto al fattore umano con cui si doveva confrontare il Nazionalsocialismo. Walther Darré. Nel prossimo capitolo forniremo un valido esempio di come, attraverso il prevalere di certe forze e di una visione del mondo prettamente materialistica, la terra sia ormai degradata a passiva “merce di scambio”, nella logica della domanda e dell’offerta tipica del liberismo più radicale. Riferimenti bibliografici Enrico Montanari: “Il Mito dell’Autoctonia”. Julius Evola: “La Tradizione di Roma”. Karl Ferdinand Werner: “La nascita della Nobiltà”. Walter Darrè: “La nuova Nobiltà di Sangue e Suolo”. La “fame” di terra del XXI secolo: il land grabbing L’accaparramento di terre nei Paesi in via di sviluppo e nelle nazioni così dette “emergenti”, che hanno una rilevanza strettamente regionale, e anche quale fenomeno recente in aree d’Europa, in particolare nella parte orientale di essa, definito land grabbing, è una forma di investimento che consiste nell’acquisizione o nel leasing di terreni a uso agricolo e pastorale da parte di soggetti che operano a livello globale. Tale La terra 103 fenomeno vede la sua intensità straordinariamente aumentata negli ultimi anni, in particolare a seguito della crisi finanziaria del 2007/2008, che non ha coinvolto soltanto il settore finanziario/speculativo puro, ma anche quello delle commodities alimentari, incentivando molti attori economici, sia di Stati con grandi risorse finanziarie (Cina, monarchie del Golfo Persico, ecc.) sia di multinazionali private, a cercare una formula adatta per stabilizzare i prezzi di tali beni sui mercati. Gli investimenti di Fondi sovrani e di gruppi privati nelle nazioni più appetibili, localizzate in Africa, America latina e Sud-Est asiatico, sono fondamentali nell’ottica neoliberista per lo sviluppo delle economie locali e per l’innestarsi di nuove formule di consumo presso popoli ancora “vergini”, tali fini giustificano in quest’ottica gli sforzi da parte dei governi di queste nazioni ad attrarre quanti più investitori possibili, senza tuttavia badare al rischio insito in tali rapporti economici. Questi ultimi, infatti, rappresentano una sorta di colonialismo — posto in vesti nuove — maggiormente accettabile poiché non viola “formalmente” l’indipendenza delle nazioni soggette al land grabbing, ma rientra nella filosofia della domanda/offerta di beni e servizi insita nelle logiche del libero mercato. Land grabbing. 104 Rivista Thule Italia Esistono ormai già da tempo molte informazioni dettagliate e report, sui volumi di denaro e sulle modalità di questi investimenti, e i dati che abbiamo scoperto offrono una panoramica complessiva di un fenomeno in grande ascesa, le cui ricadute tuttavia non sono ancora state correttamente quantificate, in quanto esse tendono a svilupparsi nella loro pienezza nel medio/lungo termine. Le transazioni “sulla terra” nelle nazioni in via di sviluppo, riguardano delle considerevoli quantità di terreni inutilizzati o sfruttati per l’agricoltura di sussistenza delle popolazioni locali, e favoriscono di condizioni climatiche ottimali alla crescita di molte colture o per il pascolo di immense mandrie di bestiame. Il land grabbing, e in generale tutti gli investimenti dei principali players economici in nazioni in fase di sviluppo, sono triplicati nell’ultimo decennio raggiungendo l’apice di circa 630 miliardi di dollari nel 2008, poco prima che gli effetti della crisi finanziaria statunitense contagiassero tutto il sistema globalizzato, rendendo necessarie politiche più prudenti, in particolare da parte di nazioni e attori privati che avevano subito solo parzialmente il tracollo partito dall’Atlantico. Prendendo in considerazione soltanto gli investimenti in agricoltura, notiamo come essi siano ormai assurti concretamente ad alternativa d’investimento al riparo dai rischi di tracolli o bolle speculative, in quanto la nazione investitrice o la multinazionale investitrice pone i propri capitali in beni certi e durevoli, che possono essere migliorati attraverso una valorizzazione tecnologica e logistica, e un’implemento della redditività. Inoltre, non sempre gli investitori sono rappresentati da imprese specializzate nel settore agricolo, ma possono essere società a elevata capitalizzazione che cercano di diversificare le proprie opportunità di guadagno. Il principale investitore agricolo cinese, per esempio, non è altro che una costola del Ministero della Difesa di Pechino, cui è stato affidato il compito di specializzarsi in questo tipo di transazioni finanziarie. C’è poi da considerare il lato “politico” dei rapporti che intercorrono nell’ambito del land grabbing. Infatti, sono le principali nazioni emergenti, come Cina, Corea del Sud, Malaysia, Brasile, Emirati Arabi e Arabia Saudita, a detenere il primato di questo fenomeno, rispetto a un Occidente partito decisamente in ritardo, forse per via della sua condizione di rallentamento economico, e di forte necessità di attrarre capitali. In più occasioni, nei nostri passati articoli su questa rivista, abbiamo La terra 105 posto molta attenzione sulla presenza della Cina come investitore in Africa. Una presenza esponenziale che è stata frutto degli stretti legami economici e politici tessuti negli ultimi decenni da Pechino, in particolare in Sud Africa e Sudan, ma anche in molti Stati sub sahariani quali Zambia, Nigeria, Etiopia, Angola, Mozambico e il Congo, il cui stato di guerra civile endemica riflette lo scontro in atto tra diversi attori geopolitici extra africani. Le ragioni di questo successo sono da ascriversi a una sorta di neo-terzomondismo pragmatico, in cui non è più l’aspetto ideologico a prevalere, bensì l’instaurarsi di rapporti economici privilegiati, in cui la Cina rappresenta per queste realtà un modello vincente dietro cui accodarsi, e un esempio di sviluppo in antitesi con ciò che l’Occidente aveva proposto, e a volte imposto, durante l’ultima parte del XX secolo. Due sono le ragioni principali in grado di spiegare l’accaparramento di terra in aree appetibili; la necessità di attuare strategie che assicurino l’approvvigionamento alimentare nel medio/lungo termine, fornendo una barriera contro le speculazioni finanziarie di questo settore, e dall’altro nell’aumentata richiesta di derrate agricole da destinare alla produzione agroenergetica (biodiesel e olio di colza). Le due crisi sull’offerta di molte commodity agricole nel 2008 e nel 2012, con la relativa impennata dei prezzi tra Stati produttori e Stati consumatori, di fronte all’incremento demografico, la crescita economica dei nuovi Stati consumatori (e conseguente incremento della domanda e cambiamento delle preferenze alimentari così come avviene in Cina già da anni), l’esaurimento delle risorse naturali, il continuo degrado dei suoli e la ridotta disponibilità di fonti idriche, hanno nell’insieme incrementato la necessità di molti Stati importatori di rafforzare le proprie politiche di sviluppo e commercio agricolo, per assicurarsi l’autosufficienza alimentare. Per queste ragioni tali governi mirano ad aumentare le proprie disponibilità di terre extranazionali da mettere in produzione, al fine di incrementare e stabilizzare la propria offerta alimentare interna. Ciò anche in conseguenza alla volontà annunciata da molti Stati esportatori di seguire politiche protezionistiche, che meglio tutelino i loro interessi, incoraggiando pertanto gli Stati importatori a trovare alternative al commercio internazionale mediante l’acquisizione diretta di terre, attraverso una “filiera corta” e senza più intermediazioni di sorta. 106 Rivista Thule Italia Un importante ruolo nel favorire il land grabbing è giocato anche dai rendimenti futuri attesi per i sussidi previsti dal Protocollo di Kyoto al fine di sviluppare serbatoi di carbone vegetale, mediante processi di afforestazione e di riforestazione, o per incentivare nuove politiche di sviluppo “sostenibile”, capace sia di fornire una stabilità economica, sia il rispetto dei Protocolli di Kyoto, così come, ad esempio, sta avvenendo in Germania, dove il Governo Merkel ha già da tempo posto in essere un ambizioso piano chiamato “Energiewende”, nato ufficialmente nel 2003, che ha come obbiettivo di promuovere un modello incentrato sull’utilizzo delle fonti rinnovabili. Per quanto riguarda le nazioni in via di sviluppo direttamente coinvolte negli investimenti in terra, il loro interesse è focalizzato sulle potenziali ricadute economiche, non soltanto in termini di sviluppo rurale, ma soprattutto infrastrutturale, occupazionale ed economico. Infatti, non sono tanto le rendite affittuarie, o derivanti dalla vendita fondiaria, al centro dei benefici attesi, quanto le attese sui progetti di investimento consequenziali alla transazione. Spesso gli stessi contratti stipulati contengono come clausola fondamentale lo sviluppo di qualche infrastruttura, come per esempio è avvenuto nell’accordo intergovernativo tra Siria e Sudan, prima che in Siria scoppiasse la guerra civile, dove in cambio di una superficie di quasi 13 mila ettari (in affitto per 50 anni), lo Stato arabo si era impegnato a sviluppare un efficiente sistema irriguo in territorio sudanese, posto al di fuori dell’area interessata dalla transazione. O in Kenya, dove lo Stato del Qatar ha negoziato una concessione per un’area di 40 mila ettari, impegnandosi con Nairobi a costruire un porto nell’isola di Lamu. Il trasferimento dei diritti d’uso e/o di proprietà sulla terra a favore degli investitori esteri, potrebbe avere svariate conseguenze negative in futuro, rispetto ai benefici immediati. Queste, per esempio, possono essere rappresentate dagli impatti sull’ambiente per il cambio della destinazione d’uso verso sistemi produttivi intensivi, o al rischio concreto del peggioramento delle condizioni di accesso al cibo per le popolazioni locali in conseguenza alla perdita del controllo diretto sulle attività agricole produttive di sussistenza e alla possibilità di produzioni con metodi meno invasivi. Questi aspetti attualmente non sembrano destare preoccupazioni eccessive, e non hanno ancora portato a una considerazione reale relativa La terra 107 ai pericoli di una nuova forma di colonialismo in cui sono gli Stati a economia emergente ad assumere il ruolo di nuovi “conquistatori”. La configurazione dei diritti sulla proprietà fondiaria nelle nazioni soggette al land grabbing risulta essere piuttosto complessa e varia all’interno dei singoli Stati, o addirittura diversificata all’interno di essi. La proprietà può riguardare diversi soggetti privati, comunità, tribù, e gli stessi Governi, oppure si può presentare una situazione di libero accesso, priva di vincoli specifici. Gli accordi sulle acquisizioni di terra sono strettamente dipendenti dalla forma di proprietà, e generalmente si sviluppano su una serie di contratti multipli che vedono coinvolti diversi attori, caratterizzando uno scenario altamente burocratico, se non di vero e proprio caos legislativo. Questo porta a delle asimmetrie del potere contrattuale, spostandolo a favore degli investitori esterni, spesso rappresentati da una singola entità legale e quindi con un’unica strategia negoziale. A ciò, inoltre, si aggiunge la mancanza di trasparenza che spesso caratterizza questi accordi, aggravata dalla mancanza di dati ufficiali sulle trattative effettuate e di registri specifici della proprietà fondiaria, alimentando i già forti rischi di corruzione che caratterizzano molti Stati sia in Africa sia in Asia o in America latina. In alcuni contesti però, diverse organizzazioni internazionali hanno approfondito gli elementi di rischio, in grado di favorire una situazione paritetica tra “domanda” e “offerta”, al fine di minimizzare le eventuali ricadute negative del fenomeno. Porre il land grabbing in un’ottica paritetica, infatti, potrebbe riconoscere le grandi opportunità di sviluppo per i territori coinvolti, attraverso la sottoscrizione di accordi bilaterali e multilaterali tra Stati finanziatori e Stati in via di sviluppo, istituendo alcuni strumenti specifici in sede contrattuale, basati su un “codice di condotta”. Nel settembre del 2009, per esempio, il Governo giapponese, in cooperazione con la Banca Mondiale, la FAO, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD) e la conferenza delle Nazioni Unite per lo sviluppo e il commercio (UNCTAD), hanno delineato sette principi fondamentali per garantire investimenti internazionali per un’agricoltura responsabile. Tuttavia questo episodio non è stato praticamente imitato in nessun altro caso. Forse perché attori come la Cina o le nazioni del Golfo Persico non temono nessun tipo di rimostranza internazionale, o di critica interna, per quanto concerne i loro rapporti economici con altre nazioni geopoliticamente più deboli. 108 Rivista Thule Italia Sempre in Africa, tra il 2010 e il 2013, circa 20 milioni di ettari sono stati oggetto di contrattazioni estere, e in particolare nelle regioni subsahariane. L’Africa rappresenta il continente con la più alta percentuale al mondo di terre fertili coltivabili, le quali spesso sono sottoutilizzate o inutilizzate. Il Continente Nero è poi destinatario della maggior parte degli investimenti relativi al land grabbing, che coprono ormai il 70% di tali transazioni su scala mondiale. Va poi aggiunto che circa la metà del territorio subsahariano è caratterizzato da suoli aridi in cui prevalgono sistemi di agricoltura estensivi, che in molti casi rappresentano la principale occupazione delle popolazioni residenti. Sulla base delle informazioni che abbiamo raccolto, quindi, considerando soltanto gli investimenti in terra superiori ai 1000 ettari, tra il 2004 e il 2009, Etiopia, Ghana, Madagascar, Mali e Sudan, hanno siglato con nazioni estere progetti di investimento per quasi 3 milioni di ettari, per un totale di 920 milioni di dollari, la maggior parte dei quali implementati successivamente da compagnie private, legate comunque alle nazioni acquirenti. Questa tendenza sembra confermata anche in altri Stati africani, così come in tutto il Sud/Est asiatico, in Argentina e in Ucraina, facendo diventare tale fenomeno estremamente globalizzato. Sempre considerando l’Africa come esempio saliente, troviamo che le destinazioni d’uso dei suoli riguardano sia colture agroalimentari (1,36 milioni di ettari), che agroenergetiche (1,1 milioni di ettari), anche se esiste una forte variabilità tra i diversi casi. In Etiopia ad esempio il 98% dei progetti registrati riguarda le produzioni agroalimentari, e solo il 2% le bioenergetiche, mentre in Mozambico e in Tanzania sembrano prevalere i progetti riguardanti produzioni destinate alla conversione in biocarburanti. Tuttavia, il confine non è così netto se si pensa che la destinazione energetica possa riguardare anche le stesse colture alimentari (per esempio il mais, il frumento e la canna da zucchero). Infine, per quanto concerne lo sbocco sui mercati, sembra che la via principale sia quella dell’esportazione, questo in particolare in Ghana, dove i terreni sono quasi esclusivamente coltivati per produzioni destinate all’esportazione (oltre il 75%), mentre in Madagascar e in Etiopia cresce la quota di terra che ospita le produzioni destinate ai mercati locali e regionali. La terra 109 Nel caso del Sudan, i dati sono eccessivamente discordanti e imprecisi anche se pure in questo caso sembra confermata una certa tendenza verso l’esportazione. In termini sintetici le esportazioni dominano nel caso di produzioni agroenergetiche mentre sono meno pronunciate per quelle alimentari. L’espansione del comparto dei biocarburanti è un tema di grande attualità, soprattutto in conseguenza agli effetti scaturiti negli ultimi anni dall’incremento dei prezzi del petrolio e dell’inflazione alimentare e alle attese future riguardanti la loro produzione. Secondo le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, nel 2014 è prevista una crescita sostenuta di combustibili alimentari, che porterà alla produzione mondiale di quasi 2 milioni di barili al giorno (circa 125 miliardi di litri annui). I principali produttori mondiali di bioetanolo sono il Brasile e gli USA (la cui produzione è orientata principalmente al consumo domestico), con una quota pari al 75% circa, mentre per quanto riguarda il biodiesel, la produzione è maggiormente concentrata nell’Unione Europea, con la Germania e la Francia in testa, seguite da Spagna e Polonia, cui si aggiungono gli Stati Uniti, l’Indonesia, la Malaysia e l’Argentina. Sul piano internazionale, i principali esportatori sono il Brasile e la Cina per l’etanolo, gli USA, l’Indonesia, la Malaysia e l’Argentina per il biodiesel. Tra i principali importatori compaiono l’UE e il Giappone per il biodiesel; gli Usa, il Giappone, la Corea del Sud, il Canada e l’UE per l’etanolo. Per quanto riguarda le materie prime utilizzate, queste dipendono principalmente dalle disponibilità domestiche degli stessi produttori, così per esempio nel caso dell’etanolo in Brasile si utilizza quasi esclusivamente canna da zucchero, mentre negli USA il mais. La produzione in Europa di biodiesel deriva principalmente dall’olio di colza, anche se negli stabilimenti stanno progressivamente aumentando gli usi di olio di palma e altre oleifere provenienti da paesi tropicali, tendenza dimostrata anche dalle sempre più consistenti importazioni. In questo momento il commercio internazionale dei biocarburanti è ancora poco sviluppato, anche se è prevista in futuro una crescita dei flussi commerciali soprattutto in quei paesi come l’UE e gli USA che hanno implementato specifiche politiche energetiche orientate all’utilizzo su larga scala dei biocombustibili. In quest’ottica il commercio potrà riguardare non solo il prodotto finito, ma anche la ricerca della materia prima più competitiva consentendo a uno Stato l’utilizzo di agroenergie anche senza aver sviluppato una filiera bioenergetica in- 110 Rivista Thule Italia terna o viceversa, di sviluppare una specifica filiera agroindustriale per la produzione di materia prima. Su questa base diversi Stati delle fasce tropicali, e in generale dell’emisfero meridionale, possiedono molti più vantaggi comparati sotto l’aspetto climatico e della disponibilità di terra, oltre che per il basso costo del lavoro. Questa consapevolezza ha incoraggiato molti governi di nazioni tropicali ad attivare tutta una serie di misure orientate a incoraggiare investimenti per le produzioni agroenergetiche. L’espansione del comparto agroenergetico degli ultimi anni ha interessato principalmente gli Stati avanzati per ragioni legate a specifiche scelte politiche volte a incentivare la crescita di questo comparto. Tuttavia, molti sono i progetti pilota varati negli Stati emergenti come in Brasile, Cina, India e Tailandia. Nello specifico, il land grabbing interseca la politica commerciale delle materie prime alimentari, nel momento in cui gli investitori intendono esportare i beni agricoli prodotti nei loro paesi di origine. In ambito WTO gli investimenti diretti che incidono sugli scambi commerciali sono disciplinati dalle misure previste nei TRIM (Trade Related Investment Measures) che prevedono l’impossibilità di accordi che possono entrare in contrasto con quanto prescritto da diversi capitolati del GATT sulle restrizioni temporanee alle esportazioni domestiche in Stati africani in cui si sviluppa il biodiesel. La terra 111 caso, ad esempio, di crisi alimentari. Alcuni Stati però, sembra siano disposti a rinunciare a questi diritti bypassando le norme WTO. Ciò pone l’attenzione su quelle tematiche di sviluppo delle nazioni più povere, e non soltanto sull’attrazione di investimenti diretti (compresi quelli in terreni agricoli), ma soprattutto sulla effettiva capacità che questi soggetti hanno di capitalizzare gli effetti di ricaduta positiva. Questo, in particolare nel caso delle produzioni agroenergetiche, e più in generale di tutto il settore agricolo, impone la formulazione e l’implementazione di politiche di sviluppo rurale al fine di garantire benefici ai sistemi locali. Su questa base, la configurazione dei diritti sulla terra gioca forse il ruolo più importante. In particolare, un aspetto determinante è l’eccessiva complessità della proprietà fondiaria che in molti Stati in via di sviluppo spesso è consequenziale alla precedente storia coloniale, richiamando l’esigenza di una riforma fondiaria, che nessun Governo locale sembra tuttavia essere intenzionato a intraprendere. Nel caso specifico dell’Africa subsahariana, per esempio, non esiste una specifica politica fondiaria e in molti Stati i diritti di proprietà sono allocati mediante un processo consuetudinario che riconosce il possesso o a pochi individui legittimati (per ragioni religiose, dinastiche, ecc.), oppure appartengono direttamente ai governi centrali. Questi a loro volta hanno un interesse strategico nel mantenimento in produzione dei terreni agricoli, per il quale sono disposti anche al trasferimento della proprietà. Ciò in parte spiega alcune politiche fondiarie seguite, orientate più a “riforme tecniche” piuttosto che a riforme agrarie vere e proprie, consentendo l’accesso alla terra soltanto a chi fosse in grado di garantire una continuità produttiva e uno sviluppo su larga scala. Senza alcun dubbio il processo di accaparramento da parte di investitori esteri rispecchia questo atteggiamento, e cioè l’interesse alla messa in produzione delle terre e le ricadute positive attese dagli investimenti infrastrutturali. Alla luce di quanto esposto e giungendo alla conclusione del ragionamento iniziale, l’aumento di interesse verso gli investimenti in terreni agricoli può essere letto in parte come una conseguenza dell’eccessivo grado di liberalizzazione dei mercati agricoli mondiali, che vedono da un lato la “virtualizzazione” del valore intrinseco dei prodotti agricoli, e dall’altro molti Stati emergenti e in via di sviluppo competere 112 Rivista Thule Italia per la conquista di una sicurezza concreta nell’approvvigionamento di derrate alimentari, in uno scenario decisamente caotico. A questo poi, va anche ad aggiungersi l’aumentata richiesta di derrate agricole orientate per la produzione agroenergetica, fattore che probabilmente ha incoraggiato molti Stati importatori ad assicurare le proprie riserve adottando politiche di espansione fondiaria all’estero, piuttosto che affidarsi al commercio internazionale. In particolare questa strategia sembra essere seguita da molti Stati emergenti, avvantaggiati non solo dai rapporti preferenziali consolidati con le nazioni in via di sviluppo, nell’ambito di una cooperazione Sud-Sud, ma anche dal loro diverso approccio nell’implementare accordi bilaterali, incentrati sulle ricadute di sviluppo di infrastrutture sociali ed economiche nel breve/termine con gli Stati ricchi di terreni privi di utilizzo, oltre che sui benefici derivanti dal consolidamento di rapporti commerciali e sul controllo di risorse naturali strategiche (per esempio petrolio, miniere, terreni, risorse idriche), derivanti da tali rapporti. Cosa che surclassa ormai i datati sistemi di approccio tenuti dall’Occidente. Servirebbe, secondo noi, affrontare quindi la questione sul piano internazionale, soprattutto sulle conseguenze che questo nuovo modello di espansione può avere nella futura “geoeconomia”, e sull’effettivo impatto sociale negli Stati in via di sviluppo, considerando che questi accordi difficilmente seguono regole poggianti su dei principi ideologici, ma puramente economici. Provando allora a ipotizzare una possibile soluzione, che possa rilanciare l’Occidente quale interlocutore credibile, certamente sarebbe utile stabilire un quadro paritetico definito dall’implementazione di un codice di condotta responsabile negli investimenti, di cui abbiamo fatto cenno, che potrebbe essere già importante ma insufficiente se non affiancato da una “visione del mondo” realmente alternativa a quella vigente. Fonti del capitolo Transnational Institute: “Political Dynamics of Land Grabbing”. Ejolt Report: “The Many Face of Land Grabbing”. La terra 113 Uno sguardo al presente e al futuro Chi è sensibile a certe tematiche non potrà non aver già notato il contrasto esistente tra “quel che è stato”, e “quello che è oggi” il carattere della terra nell’ambito della postmodernità. Un contrasto insanabile, senza possibilità di mediazione alcuna, se non per quella che può essere una flebile speranza che, nell’ambito del mondo globalizzato, si possa comprendere quanto pericolosa sia la china intrapresa, non soltanto in ambito europeo, cosa già di per sé gravissima, ma coinvolgente tutti i popoli del mondo. L’aver ceduto alle invasive istanze del mercato, dei suoi apostoli e delle sue effimere divinità, ha portato un colpo duro a quel legame che la terra offriva alle diverse culture, alla diversità tra le gens che popolano il globo, gettando una fosca ombra sul futuro. Se dovessimo scegliere tra i promettenti rischi insiti, per esempio, nel fenomeno del land grabbing e il tentativo, anch’esso avventuroso, di riportare almeno in Europa quella forza identitaria portata dalla terra, la nostra decisione cadrebbe senza indugio su quel che può rappresentare un percorso duro, difficile, ma dall’importanza fondamentale. Così come gli ateniesi del mito scelsero l’ulivo, simbolo di radicamento, al cavallo, simbolo del vagare senza sosta, anche noi riteniamo che solamente attraverso il radicamento, o meglio, a un nuovo radicamento dei popoli, si potrà offrire una valida alternativa alla china cui siamo fatalmente destinati seguendo i miraggi del liberismo. Dal passato il futuro. Il problema è che lo spirito di autoconservazione, che anima i singoli individui, viene confuso con le condizioni di benessere diffuso in cui gli occidentali sono vissuti dalla metà del secolo scorso a oggi, e che sta coinvolgendo altre realtà mondiali. Questo pro- 114 Rivista Thule Italia voca un verace e automatico conservatorismo spicciolo generalizzato. Le proposte di eventuale soluzione alle problematiche contemporanee risentono di questa condizione esistenziale. Proposte che mirano sostanzialmente a trovare consenso all’interno del sistema, utilizzando i suoi strumenti e attraverso le sue strutture. Nulla di nuovo; sovente è capitato nella storia moderna che a una criticità si sia risposto in questo modo. Quel che però è mutato risulta essere proprio lo spazio di manovra, in via di esaurimento, di questa filosofia e della conseguente prassi. Quindi non si tratta di accettare o meno un ritorno al feudalesimo o al Medioevo da parte dell’europeo del XX secolo, quanto arrivare consapevolmente a capire, e far capire, che non ci sono vie di fuga facili, o semplicistici richiami a quello che è stata per il pianeta la concezione della terra, capaci di modificare il processo di decadenza in corso, senza prima una presa di coscienza del loro intrinseco valore. Per dirla con termini semplici: nessuno oggi vuol più dare credito all’ipotesi che principi e valori ancestrali possano trovare applicazione nel XXI secolo, ma solamente essi ci salveranno dalla catastrofe. In quanto, viste le condizioni di criticità in cui versa il nostro sistema, il mondo intero sta diventando semplicemente mercato. E ciò dovrebbe spaventare chiunque. Chi oggi ha maturato prima di altri la visione del difficile avvenire che ci attende, può solo apparire quindi un pessimista agli occhi delle masse, e contare semplicemente sul fatto che nelle condizioni di stasi attuale potrà ambire a un seguito circoscritto. Poco importa però, non sarà nell’immediato che i frutti di una semina come la nostra potranno essere raccolti. Non serve scomodare Platone e il mito della caverna per trovare da parte nostra delle motivazioni alla presa di posizione che in questo articolo abbiamo cercato di sintetizzare, quanto piuttosto avere e mantenere forza nell’agire in un quadro ancora dai contorni sfuocati, dove la maggior parte di coloro che ci circondano si rifiutano di accettare una realtà forse già percepita, ma coscientemente, appunto, rifiutata per via della sua difficoltà nell’essere coraggiosamente accolta. Il coraggio presso le masse si concretizza nei momenti di maggior tensione. Masse ancora fiduciose nell’avvenire, forse più per pigrizia che per consapevole adesione, non vorranno nemmeno contemplare l’eventualità che possano concretizzarsi contingenze storiche in cui saranno messi in gioco non tanto gli orpelli del benessere e dello sviluppo infinito, quan- La terra 115 to i fondamentali stessi di esso, attraverso una radicale involuzione del sistema che l’ha sviluppato e garantito. Non intendiamo cercare d’inventare nulla di nuovo, elaborando pirotecniche idee belle, appunto, come un fuoco d’artificio, ma altrettanto limitate nell’eventuale fase applicativa. Occorreva basarsi su quel che c’è, e non su quel che vorremmo ci fosse (non ci stancheremo mai di ripeterlo), per questo abbiamo calibrato le nostre proposte, precedentemente esposte, sull’eventualità di doverle sviluppare in un quadro storico non certo ottimale. Se vogliamo ambire a un futuro che non sia delegato a potenze prive di radici, apolidi, sprezzanti ogni valore superiore insito nella natura e nell’uomo, allora serve riappropriarsi prima di tutto di quel che è più prossimo alla nostra identità: quella terra che ogni popolo e ogni singolo deve sentire come propria, come unica, come portatrice di vita e prosperità, sia materiale che immateriale. Senza questa consapevolezza, non soltanto la terra sarà degradata a merce di scambio, ma anche noi, uomini e popoli, non saremo altro che una voce in un bilancio di qualche tecnocrate globalizzato. Agricoltura organica, Blut und Boden e socialismo contadino nella riflessione di Richard Walther Darré prefazione di Maurizio Rossi al libro edito dalla Ritter “La nuova Nobiltà di Sangue e Suolo” «Il suolo forma una parte del diritto familiare, cui occorre accordare la protezione dello Stato. Questa è una concezione che interessa sia il piccolo contadino sia il medio coltivatore o il grande proprietario terriero, secondo le particolarità della regione ed i bisogni dell’economia del popolo. Essa ha cura che le famiglie possano ambientarsi e radicarsi nel territorio. È la concezione che permette, ad esempio, di lasciare in vita il vecchio viale alberato perché la sua veduta pittoresca piaceva già al padre o al nonno, pur se dal punto di vista economico il permanere di tale viale non è giustificato. Per sua essenza, questa concezione è in grado di subordinare ogni innovazione tecnica alle leggi vitali dell’esistenza; essa ha tale sentimento e tale comprensione delle forme e dello stile, che nessuna dissonanza può distruggere la sua immagine delle forme della vita. Considerata nel complesso, questa è una concezione che, di nuovo, si rivela utile alle leggi della vita e agli uomini e che, per il sentimento che essa ha delle condizioni della nostra vita, rimane ancorata al terreno delle realtà terrestri, appunto perché considera il denaro e l’economia semplicemente come i suoi servitori, i servitori della famiglia e del popolo». Richard Walther Darré Argomenti quali il destino storico del “Contadinato” e il futuro assetto del complesso universo dell’agricoltura sono diventati quanto mai di scottante attualità nelle coscienze dell’opinione pubblica europea e mondiale, soprattutto quando emergono, in tutta la loro disarmante evidenza, le incapacità politiche croniche manifestate, in merito, dalle La terra 117 amministrazioni politiche dei singoli governi nazionali sui provvedimenti da adottare per tutelare il comparto e garantirne un armonico sviluppo. Soprattutto, poi, quando i popoli si trovano a scoprire che, loro malgrado, le risorse essenziali per la loro sopravvivenza alimentare vengono costantemente sottoposte alla ormai collaudata e perversa logica dell’esasperato profitto capitalista, il tutto ad opera di una raffinata e potente consorteria di oligarchie affaristiche transnazionali che le controllano a livello globale. In questo drammatico scenario, la produzione e la commercializzazione mondiale degli alimenti, la stessa organizzazione della vita agricola, appare più che evidente che non sono più da tempo vincolate alla naturale applicazione dei dettami relativi al perseguimento del bene comune e quindi del bene sociale dei popoli e delle nazioni, ma invece alla più cruda logica dell’accumulo di un sempre maggiore profitto capitalista. Secondo recenti e più che note statistiche prodotte dall’organismo della FAO (l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura), solamente poche grandi Holding mondialiste controllano e manipolano la maggior parte della distribuzione mondiale degli alimenti primari, accentuando in questa maniera quei feroci processi speculativi che sono tra le principali cause della fame che si sta estendendo in tutto il pianeta. Insomma delle autentiche piovre transnazionali dell’alimentazione, che capeggiano mondialmente la commercializzazione degli alimenti e che, oltre a con- 118 Rivista Thule Italia trollare la distribuzione e le fonti di produzione dei prodotti, possiedono anche tutti i diritti, su scala mondiale, sulle semenze e sulle materie agricole. Dietro questa favolosa e redditizia speculazione, attuata con la rapina indiscriminata delle risorse essenziali per la sopravvivenza alimentare dei popoli, si trovano inoltre i principali organismi bancari e finanziari di Wall Street, che da sempre svolgono un ruolo determinante nella speculazione nei mercati agricoli. In questo fronte dell’affarismo agro-alimentare e finanziario (causa diretta della crisi economica, della fame e dell’inflazione mondiale) si trovano contemporaneamente in prima linea anche le tristemente note Goldman Sachs e Morgan Stanley, ovvero i “gioielli di famiglia” della più grande speculazione finanziaria istituzionalizzata del capitalismo mondialista di matrice sionista, con appunto sede in Wall Street. Sono proprio costoro ad adoperarsi con ogni mezzo a loro disposizione affinché i prezzi dei prodotti non vengano fissati solo per rispondere alla domanda al consumo, ma principalmente per assolvere alle illecite pretese economiche di profitto e alla domanda speculativa dei mercati finanziari agro-alimentari, strangolando di conseguenza le economie nazionali sempre più prostrate, avvilendo i popoli e portando così all’impoverimento progressivo del mondo contadino continuamente umiliato. A fronte di questa preoccupante situazione ci appare, quindi, più che meritevole d’attenzione l’iniziativa di contro-potere culturale e di contro-informazione intrapresa dalle Edizioni Ritter nel volere ripubblicare un classico della letteratura politica nazionalsocialista riguardante la politica rurale e l’organica natura del contadinato, La nuova nobiltà di sangue e suolo, di Richard Walther Darré, il Reichbauernführer della Germania Nazionalsocialista. Un’interessante e stimolante opera che torna finalmente a disposizione dei lettori a distanza di ben trentadue anni dalla prima edizione italiana che venne pubblicata a cura delle Edizioni di Ar. Ancora oggi, gli scritti politici di colui che volle essere il difensore della dignità dei contadini e della cui grande levatura etica e riconosciuta onestà intellettuale nessuno ha mai potuto dubitare, si presentano quanto mai di pressante attualità, mantengono inalterati quei caratteri di freschezza idealistica e di una formidabile e lucida chiamata alla mobilitazione, stimoli quanto mai necessari per non soccombere impotenti, inesorabilmente schiacciati dalla sterilità di questa società consapevolmente votata al suicidio, del suo “pensiero debole” che desertifica le menti e inaridisce i cuori. Il pensiero politico di Walther La terra 119 Darré torna a parlarci di critica alla civilizzazione urbana, industriale e totalmente meccanizzata, distruttrice dell’anima del popolo, di severa critica alla società borghese e della spazzatura etnica che la componeva, dell’ascesa dell’economia capitalistica mondiale che ebbe conseguenze drammatiche su tutto il mondo contadino. Tornano, attraverso i suoi scritti, i richiami alla storica lotta anti-plutocratica che i ceti contadini, da sempre, avevano portato avanti contro le potenti oligarchie dell’usurocrazia bancaria e finanziaria all’insegna dell’indissolubile comunione organica fra la Stirpe, la cultura popolare, il sangue e il suolo, della rivoluzionaria strategia di accerchiamento delle campagne sulle città, della prospettiva di un’economia autarchica volta al benessere del popolo e della Comunità e non al profitto capitalista e di un’agricoltura risanata a livello umano e spirituale, di rinnovati entusiasmi e legami comunitari, di tradizioni tramandate e di concrete e fattive solidarietà cementate dalla consapevolezza di avere radici certe e profonde e quindi un destino di lotta e di vittoria. Quella vittoria che i contadini tedeschi, guidati dal loro Reichbauernführer Walther Darré, conseguirono nel 1933, con la nascita di quella nuova realtà politica e istituzionale che la propaganda di allora soleva definire come la Volksgemeinschaft nazionalsocialista dei lavoratori, dei contadini e dei soldati. Richard Walther Darré nacque il 14 luglio 1895 in Argentina, in un quartiere di Buenos Aires, dove frequentò la locale scuola tedesca per l’istruzione primaria, successivamente nel 1905, per volontà della famiglia verrà inviato in Germania a proseguire gli studi, affinché potesse ricevere una vera educazione tedesca e non rischiasse di subire, rimanendo in Argentina, le pericolose fascinazioni di un americanismo culturale di matrice statunitense che già si faceva fortemente sentire nel continente sud-americano. Si ritrovò quindi a frequentare il Deutsche Kolonialschule a Witzenhausen, almeno fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, avvenimento che lo vedrà partire come volontario nell’esercito e destinato a battersi sul fronte occidentale per tutta la durata del conflitto, guadagnandosi la “Croce di Ferro”. Come molti altri combattenti di rientro dalle trincee sarà costretto poi a misurarsi con l’umiliazione cocente della sconfitta e le conseguenze politiche del disonorevole trattato di pace di Versailles. Circostanze che lo segneranno nell’anima e contribuiranno non poco a far maturare in lui una diversa percezione della vita e della politica e soprattutto una radicale critica del sistema liberal-democratico istaurato dalla Repubblica di Weimar. Avrà anche la 120 Rivista Thule Italia possibilità di far parte a Berlino di unità dei Freikorps impegnate nella repressione dell’insurrezione spartachista. Smobilitato e ritornato alla vita civile terminerà gli studi presso il Deutsche Kolonialschule e si iscriverà alla facoltà di scienze naturali dell’Università di Halle per intraprendere gli studi in agronomia e zootecnia e dove conseguirà la laurea in agraria. In questo periodo avrà anche modo di poter approfondire le sue conoscenze sulla politica sociale e sulle concezioni economiche del liberalismo e del marxismo, sugli influssi della filosofia sul pensiero razziale, sulla storia moderna e sul pensiero filosofico e politico di Platone, con un particolare occhio di riguardo nei confronti dell’ordinamento politico, della forma della vita pubblica e della fisionomia spirituale della Sparta dorica. Walther Darre era rimasto particolarmente impressionato e interessato dalla ferma volontà politica manifestata dagli spartani nel volere preservare nel tempo la loro omogeneità razziale attraverso l’adozione di severe norme comportamentali ed educative, che ebbero il merito di connotare in seguito Sparta come il primo Stato razziale a base eugenetica della Storia e che consentirono, agli spartani, di conservare gelosamente un grado di purezza razziale maggiore che altrove, in più la stessa organizzazione agricola voluta dallo Stato spartano, che suddivideva gli appezzamenti di terra coltivabile in possesso degli spartani in poderi ereditari, i Kleroi, di eguali dimensioni e assolutamente non soggetti a commercializzazione, rappresentava un autentico valore aggiunto, poiché poteva garantire socialmente la stabilità e il sostentamento delle famiglie, promuovere la procreazione di una discendenza numerosa e soprattutto sana e contribuire così efficacemente alla salvaguardia della tenuta razziale dello Stato. Nella concezione storica di Walther Darre, l’esempio luminoso rappresentato dall’ordinamento di Sparta trovava anche una sua logica corrispondenza nell’etica prussiana del dovere e nello spirito di abnegazione al servizio dell’autorità statale, ambedue non erano state altro che differenti manifestazioni della medesima immagine di una civiltà aristocratica costruita su fondamenta contadine e guerriere: «Si può dire che il nazionalsocialismo sia la continuazione nei compiti del nostro secolo dell’idea prussiana di Stato. Con ciò diventa però anche di nuovo attuale per il nazionalsocialismo lo Stato spartano, poiché l’uguaglianza tra il concetto di Stato prussiano e quello spartano sulla base dell’eroismo e nella sovrapposizione del Tutto ali ‘individuo singolo è troppo evidente per non essere già stata notata». Un’analoga interpretazione di natura biologico-razziale delle vicen- La terra 121 de storiche venne, da Darré, applicata anche nella rivisitazione della civiltà romana, considerata non più nel suo insieme, ma come l’espressione di due momenti ben distinti, vennero quindi analizzati e posti in contrapposizione fra loro, alla luce di tale interpretazione, la Roma repubblicana, magnificata come “nordico-contadina” e la Roma imperiale vista invece come “semitico-capitalista”. Il periodo della Roma repubblicana appariva come il depositario di una originaria purezza razziale di matrice nordica radicata nel ceto contadino e legittimata da vincoli sacrali, dove la stessa ripartizione della terra ricalcava quella in uso a Sparta, dove la famiglia contadina rappresentava il centro dell’organizzazione sociale, culturale e spirituale, dove il cittadino romano rivestiva contemporaneamente il duplice ruolo di contadino e di soldato: «Ai penati, non al padrone della casa, appartiene il focolare con i suoi dintorni, il suolo su cui la famiglia ha la sua casa, i suoi campi, i suoi pascoli. Da ciò si deduce automaticamente l’esistenza, in origine, dell’insediamento separato dei romani antichi, analogo a quello osservato da Tacito per i germani del suo tempo. L’intero territorio di questo insediamento familiare era inalienabile». Le trasformazioni negative della società romana avvennero, per Darré, al momento in cui progressivamente incominciavano l’immiserimento del ceto contadino e, al contempo, il crescente arricchimento della nobiltà senatoria. Le guerre puniche rappresentarono una drammatica chiave di svolta, perché il Contadinate pur avendo sostenuto con disciplina le imprese belliche si ritrovò esausto, dissanguato e sempre più impoverito, mentre la nobiltà senatoria si trovò ad arricchirsi sempre più con l’acquisizione di nuovi possedimenti e l’accrescimento del suo potere attraverso l’introduzione dei latifondi ad economia schiavistica: «La denordicizzazione comincia nel momento in cui Roma, dopo la vittoria su Cartagine, abbandona le sue fondamenta contadine per trasformarsi in un popolo che pensa in termini di economia mondiale e di commercio, con tutti i lati oscuri connessi ad una struttura statale capitalistica». Pertanto, anche in virtù di tali valutazioni a carattere storico, da cui ne trarrà un grande insegnamento, l’entusiasta sostenitore della centralità del ruralismo politico ci terrà a precisare che: «Noi vogliamo mantenerci fermi soprattutto al principio che la specificità del nostro Stato non deve essere determinata né da territori stranieri, come nel caso dei grandi imperi coloniali, né da popolazioni estranee al nostro popolo e legate al potere dello Stato solo da un rapporto di dipendenza. Noi vogliamo che il nostro Stato abbia il suo centro nella sua terra e nel suo popolo e che su questa base sviluppi la sua 122 Rivista Thule Italia autoconcezione». Da questi approfondimenti e dalle conseguenti riflessioni, nascerà in Walther Darré la ferma decisione di apportare il proprio contributo alla rinascita politica e spirituale della Germania e soprattutto al riscatto del mondo contadino, la cui dignità storica e il cui divenire politico avvertiva pericolosamente minacciato da perniciosi processi di snaturamento e di omologazione volti a cancellare i tanti valori che, nonostante tutto, ancora resistevano in termini di usi, costumi e tradizioni comunitarie e familiari all’assalto del mondo liberale e alla rapacità capitalistica che ne proveniva. Un’aggressione mirata ad introdurre nell’universo contadino nuovi e disgreganti modelli comportamentali ed economici e scelte mercantilistiche di consumo funzionali al ruolo subalterno che il contadinato e l’intera agricoltura avrebbero dovuto assumere per essere infine totalmente inglobati nell’area di mercato e di profitto gestita dai monopoli capitalistici e regolamentata dalle speculazioni dell’Alta finanza. Il liberalismo. Il capitalismo e il marxismo, che nel frattempo cercava di incunearsi strumentalizzando le miserie dei contadini, erano i nemici mortali delle masse contadine tedesche. Partendo da una concezione organicistica, ed anti-utilitaristica della comunità popolare e del mondo contadino, le cui radici affondavano nella migliore tradizione tedesca del socialismo nazionale coniugato con il pensiero razzista, Walther Darré iniziò un percorso politico il cui radicalismo non poteva che portarlo poi all’adesione convinta al movimento nazionalsocialista e quindi alla formulazione di un programma agricolo-socialista volto alla rinascita del ceto contadino, architrave bio-politica della comunità, e al rilancio dell’agricoltura, con la netta consapevolezza che: «Morte dei contadini significa morte del popolo! Se non le riesce di mantenere in un contadinato fiorente la sorgente dì vita del popolo, la Germania è condannata senza speranza ad una lenta estinzione. Sotto l’influsso del liberalismo, cioè della lotta sfrenata di tutti contro tutti in conseguenza di una concezione egoistica della vita, la Germania si è trasformata sempre più in un popolo morente, oggi già in un popolo senza gioventù». I suoi convincimenti politici lo spingeranno pertanto a frequentare inizialmente gli ambienti Völkisch del Bund Artam, la Lega degli Artamani, un’organizzazione fondata, nel 1923, da Willibald Wentschel che propagandava il progetto della costituzione di una corporazione eroica dei lavoratori dei campi. Un progetto che era caratterizzato dall’adozione di una concezione del mondo di matrice nazionalpopolare, talvolta pervasa da sfumature romantiche, che incentivava il ritorno alla terra, il La terra 123 rigetto del mercantilismo borghese e l’allontanamento dalla dimensione cittadina, la riscoperta delle virtù razziali del contadinata, i principi del sangue e del suolo e lo sviluppo per la gioventù di un servizio di lavoro volontario nell’agricoltura da compiersi in comunità rurali il più possibile autarchiche. In particolare, Walther Darré apprezzerà molto le critiche che venivano mosse dagli Artamani nei confronti della “dimensione cittadina”, anche lui nutriva una profonda avversione nei confronti della mentalità borghese e dell’agglomerato metropolitano che non esitava a definire come un luogo parassitario, umanamente alienante, demograficamente sterile e debilitante della forza popolare: «Se ci è consentito usare questa similitudine, si può dire che il sangue del popolo sgorga dai poderi contadini come da una fonte, per andare presto o tardi a disseccarsi nelle città. Questa legge non vale per quei popoli che, al pari del popolo ebreo, hanno caratteri di tipo nomadico. Per il sangue germanico, invece, essa ha validità assoluta e può essere definita come la ferrea legge del destino dell’umanità germanica». Conoscerà inoltre gli intellettuali nazionalsocialisti Paul SchultzeNaumburg e Hans Friedrich Günther che lo avvicineranno ad Heinrich Himmler, ed infine avverrà l’incontro che rappresenterà la svolta decisiva della sua vita e l’ingresso definitivo nella militanza politica, il colloquio con Adolf Hitler. Il Capo del movimento nazionalsocialista riconoscerà immediatamente il valore di Walther Darré, le sue evidenti qualità politiche e culturali, la sua profonda onestà intellettuale e soprattutto le sue qualificate e specifiche competenze riguardo alla questione contadina, conferendogli ufficialmente l’incarico della creazione dell’Agrarpolitischer Apparat del Partito Nazionalsocialista, la branca propagandistica deputata alla conquista ideologica e politica del mondo rurale. Entrerà poi anche nei ranghi della SS, dove assumerà la direzione del Rasse und Siedlungshauptamt, l’Ufficio centrale per la Razza e l’insediamento. Sorsero, grazie al dinamismo organizzativo manifestato da Walther Darré, pubblicazioni specifiche rivolte alle popolazioni delle campagne come il settimanale “Nationalsozialistische Landpost” capillarmente diffuso fra gli agricoltori, una pubblicazione di buon livello che riscosse un’enorme gradimento per la vastità degli argomenti trattati e la rivista mensile a carattere ideologico “Deutsche Agrarpolitik, Monatsschrift fur Deutsches Bauertum”, che cambierà poi la denominazione in quella più famosa di “Odal, Monatsschrift fur Blut und Boden”, e che rappresenterà l’autorevole voce ufficiale, dopo il 1933, del Ministero dell’Agricoltura. Anche 124 Rivista Thule Italia nella sua numerosa produzione giornalistica, il capo della propaganda agraria, non verrà mai meno al compito di illustrare costantemente e dettagliatamente i motivi ideologici e programmatici che sostanziavano la politica nazionalsocialista rivolta ai contadini, come nel caso della presentazione ufficiale della rivista, dove rimarcherà la sua ferma opposizione ai principi dell’Illuminismo e alle idee liberali: «Vogliamo far diventare di nuovo il sangue e il suolo il fondamento di una politica agraria tedesca e inserire così questo mensile nella grande lotta per il sangue e il suolo, chiamata a far risorgere il contadinato e con ciò superare le idee del 1789, cioè le idee del liberalismo. Perché le idee del 1789 rappresentano una Weltanschauung che nega la razza, l’adesione al contadinato invece è il nucleo centrale di una Weltanschauung che riconosce il concetto di razza. Intorno al contadinato si scindono gli spiriti del liberalismo da quelli del pensiero völkisch». I risultati concreti non si fecero attendere, a seguito delle capillari ed efficaci campagne propagandistiche, spesso e volentieri condotte con iniziative di sensibilizzazione svolte porta a porta, da parte degli uomini dell’Agrarpolitischer Apparat, consensi sempre più massicci affluirono verso il NSDAP realizzando così quella necessaria saldatura fra istanze politiche, mobilitazione ideologica e consenso radicato nel territorio e contribuendo, altresì, ad accrescere il prestigio di Walther Darré nei confronti dei vertici del partito e soprattutto nei confronti delle moltitudini di contadini che lo avevano già eletto come il loro rappresentante di fiducia, ma il riconoscimento maggiore e definitivo, per l’impegno e le capacità profuse nella conquista del mondo contadino al Nazionalsocialismo, lo ricevette direttamente da Adolf Hitler: «L’inserimento di milioni di contadini nel nostro movimento è stata in primo luogo opera Sua. Lei ha così contribuito in modo sostanziale a creare i presupposti per la conquista legale del potere in Germania da parte del nazionalsocialismo». All’indomani della presa del potere per Walther Darré si concretizzeranno finalmente le possibilità per tradurre in fatti concreti tutto quello, che in precedenza, aveva potuto solamente teorizzare e propagandare, primo fra tutti portare fino in fondo l’offensiva contro i proprietari terrieri e i latifondisti. Gradualmente presero corpo i progetti relativi ad una agricoltura organica, le battaglie per il potenziamento della produzione agricola, le innovative e assolutamente d’avanguardia misure adottate per la tutela sociale e giuridica del contadinate, i provvedimenti legislativi promulgati a salvaguardia dei poderi contadini che divennero, grazie a questi, inalienabili, impignorabili e indivisibili. Nella concezione nazionalsocialista, l’agricoltura non doveva più La terra 125 essere concepita come un comparto produttivo ed economico scollegato ed avulso dal resto della società, ma come una superiore sintesi costruttiva integralmente partecipe del destino storico, culturale, sociale e razziale dell’intera comunità popolare, quindi una sintesi valida anche nel fondamentale contesto economico, di culture tradizionali arcaiche e di moderne discipline storiche, scientifiche, sociali e razziali che avrebbero trovato il loro compaginamento in una concezione del mondo totale e olistica, dove tutti gli aspetti più articolati e complessi che esse comprendevano ed esprimevano si sarebbero dovuti naturalmente riassumere in una complessiva immagine generale e organica rappresentata dalla univoca ed unanime volontà che promanava dalla Volksgemeinschaft nazionalsocialista, dove la secolare lotta all’improduttività speculativa del latifondo e le vitali esigenze di emancipazione dallo sfruttamento del contadi-nato da parte del capitalismo agrario sarebbero state armonicamente ricondotte al recupero della mistica sacrale della comunione organica tra il ceppo razziale ereditario e il suolo inteso come luogo di trasmissione della originaria memoria degli antenati della stirpe, il tutto attraverso l’adozione delle fortunate formule politiche che ri-conducevano ad una riscoperta aristocrazia popolare e contadina e nelle mobilitanti parole d’ordine del Blut und Boden, del Sangue e Suolo, il tutto salvaguardato altresì attraverso le pratiche organizzative proprie di un innovativo e moderno socialismo contadino coniugato a sua volta con una riattualizzazione politica di radicate tematiche culturali ed identitarie che rappresentavano un vero anello di organica e spirituale congiunzione fra tatti coloro che possedevano e lavoravano la terra e che, con il sudore versato, con le lacrime spese, gli indicibili sacrifici compiuti e il sangue generosamente donato dalle generazioni precedenti, avevano fatto in modo che la terra, il suolo nativo della stirpe, diventasse parte indissolubile del loro essere e il loro stesso essere parte integrante della terra. L’organizzazione pratica del socialismo contadino, fortemente voluta dal Nazionalsocialismo e in primo luogo da Walther Darré e rispondente alle priorità strategiche e alle necessità vitali della Volksgemeinschaft, ebbe il suo sviluppo principale nella creazione di un’unica grande corporazione agraria, il Reichsnährstand che incorporava e disciplinava gli interessi e gli obbiettivi della totalità dei contadini e delle aziende agricole, e di conseguenza attraverso la promulgazione di leggi e provvedimenti che regolamentavano i premi di produzione, i prezzi della merce, la qualità dei prodotti, disciplinavano i consorzi dei produttori e infine 126 Rivista Thule Italia pianificavano l’impostazione complessiva della produzione agricola. Il tutto avente come obbiettivi la realizzazione della piena giustizia sociale, l’autonomia alimentare della nazione e l’irrobustimento della forza popolare e razziale, proprio nella direzione anti-plutocratica voluta da Walther Darré e da lui stesso illustrata: «Noi riconosciamo l’iniziativa privata, riconosciamo il diritto di proprietà del lavoro contadino e creiamo il socialismo pratico garantendo l’alimentazione del popolo per mezzo del regolamento del mercato dei generi alimentari». L’insieme, comprensibilmente, veniva stabilito sulle base della Programmazione statale e delle direttive politiche e contemporaneamente corroborato da robuste iniezioni di richiami ad un cameratismo comunitario e socialista contadino che propagandava l’idea di un organico autogoverno del contadinato, avendo in tutto questo un chiaro esempio di come il Nazionalsocialismo riuscisse egregiamente a far convivere, al suo interno, la dottrina rivoluzionaria di un moderno dinamismo attivistico e socialista, conosciuto come Deutscher Sozialismus, la cui originale sostanza politica venne felicemente riassunta da Gregor Strasser: «Dalla destra prenderemo il nazionalismo che per sua disgrazia ha sposato il capitalismo, dalla sinistra prenderemo il socialismo, la cui unione con l’internazionalismo è disastrosa. Così formeremo questo socialismo nazionale, forza motrice di una nuova Germania e di una nuova Europa» con la volontà di restaurazione dei valori e dei principi che contraddistinguevano l’arcaica e tradizionale dimensione contadina. Pertanto una visione tradizionale del ruralismo politico e della dimensione contadina che veniva nuovamente interpretata come il fondamento granitico della Comunità del Popolo, il suo baricentro razziale destinato a perpetuarsi nelle generazioni a venire. Una insostituibile sorgente vitale del popolo destinata a combattere, per salvaguardare il benessere sociale e la tenuta razziale e politica del popolo e dello Stato, contro le degenerazioni societarie e culturali partorite da una modernità malsana e anarchica e contro le ideologie pervertitrici del liberalismo, del capitalismo e del marxismo che nei loro programmi avevano deciso l’estinzione definitiva del mondo contadino e l’affermazione di una concezione utilitaristica ed egoistica della vita. In pratica, nell’accezione nazionalsocialista, il ceto contadino essendo il trasmettitore di virtù etiche insostituibili doveva rappresentare il severo custode della dimensione biologica e del costume razziale trasmesso dalle generazioni precedenti e tramandato fin dalle più remote origini, l’insostituibile e responsabile detentore del fondamentale compito di garantire il so- La terra 127 stentamento del popolo, perché anche nell’autonomia alimentare, che solamente una sana agricoltura nazionale organizzata secondo i nuovi principi stabiliti dal diritto agrario nazionalsocialista poteva garantire, si esprimeva il significato di una economia organica finalmente affrancata dai condizionamenti e dalle pressioni della plutocrazia internazionale, una condizione essenziale che venne ulteriormente e autorevolmente confermata da Hans Frank, il decano della nuova giurisprudenza nazionalsocialista: «In questo diritto agrario sta il vero socialismo. Socialismo vuol dire assicurare ad ogni membro del popolo la partecipazione ai beni, frutto del cameratesco lavoro della comunità popolare. La terra è la parte più importante della produzione nazionale. E ‘merito di Walther Darré di avere elaborato questo concetto con irrefutabile chiarezza». Ed infine il ceto contadino doveva costituire la fonte perenne del ringiovanimento del sangue nordico del popolo, quel preziosissimo patrimonio genetico che era stato l’elemento germinale della Civiltà europea le cui radici affondavano nella lontana Grosse Wanderung, nel complesso di valori, di credenze, di costumi e di simboli che venne innestato nel tessuto europeo dalla migrazione dei popoli indo-europei dell’antichità e, di conseguenza, nel mito dell’originaria unità nordica delle popolazioni indo-europee. Il lascito di Walther Darré rimane a tutt’oggi una preziosissima eredità a beneficio dei popoli europei, un giacimento di idee-forza a disposizione degli spiriti liberi che non vogliono vedere consumata la loro esistenza nel frullatore omologante del Villaggio Globale, un patrimonio carico di significati e di responsabilità che non cesserà di testimoniare nel tempo la grandezza epocale della gigantesca e rivoluzionaria opera svolta dal carismatico difensore dell’onore contadino e il cui messaggio culturale e politico può ancora costituire motivo di insegnamento, di formazione e di riflessione. In fondo i problemi a cui i popoli europei dovranno fare fronte sono sempre i medesimi, proprio come avvenne nella Germania degli anni precedenti all’avvento del Nazionalsocialismo, l’agricoltura e quindi il Contadinate sono stati privati della loro condizione prioritaria di essenziale componente organica della nazione, e sono stati riconvertiti in una volgare merce di profitto capitalistico con un valore stabilito a priori dalla speculazione del libero mercato, pertanto la commercializzazione internazionale delle risorse alimentari, necessarie per la sopravvivenza, non si sviluppa più da tempo prestando attenzione alle prioritarie necessità della comunità, dalle cui terra provengono, ma prestando solamente attenzione alla perversa e incontrollata logica di profitto li- 128 Rivista Thule Italia berista delle Holding che interamente le controllano, quando Walther Darré invece, estremamente sensibile a queste problematiche, esaltava la centralità della dimensione umana nell’ambito economico e voleva eliminare il concetto dl profitto individuale per sostituirlo con quello di ricompensa per u lavoro svolto a favore della comunità popolare, vieppiù convinto che il Contadinate doveva essere “salvato” dalle preoccupazioni di natura prettamente economicistica: «Ci deve essere del tutto chiaro che l’agricoltore non è un imprenditore nel senso comune del termine. Il ceto alimentare non può e non deve partecipare al gioco della libera formazione dei prezzi; esso non deve essere esposto ai pericoli che vi sono collegati, perché la sua funzione per la nazione è straordinariamente importante». Ne risulta, per forza di cose, che la soluzione della crisi dell’agricoltura e del declino del mondo contadino si potrà trovare solamente nel superamento del meccanismo liberista di produzione fondato sul libero mercato e sul profitto incontrollato e nella sua sostituzione con un nuovo modello di sviluppo economico auto-centrato, gerarchico, popolare e socialista, proprio come venne genialmente prefigurato da Walther Darré, fondato su una produzione agricola autarchica, assoluta ed esclusivamente atta ad assolvere principalmente alle prioritarie necessità della comunità popolare e, soprattutto, nel riportare il mondo contadino ad essere la pietra angolare per la rieducazione culturale e la rinascita spirituale e politica del popolo, affinché possa portare a compimento la sua straordinariamente importante funzione. Le opere del Demiurgo: la Terra prefazione e traduzione di Stefania Labruzzo Col presentare al lettore il seguente lavoro, opera di quello che è stato probabilmente uno dei più eminenti studiosi nell’ambito esotericoreligioso degli ultimi secoli — René Guénon per l’appunto — lavoro apparso suddiviso in quattro articoli sulla rivista mensile La Gnose tra il 1909 e il 1910 (nello specifico nel numero 1 del novembre 1909, 2 del dicembre 1909, 3 del gennaio 1910 e 4 del febbraio dello stesso anno), non si vuole che aggiungere una tessera all’ampio mosaico che costituisce e descrive il tema stavolta qui trattato, la terra; una tessera in sé e per sé lapalissianamente assai poco empirica, visto che al centro non vi si troverà certo un’analisi scientifica del soggetto in questione, ma non per questo non di primaria importanza, dal momento che — secondo vari sistemi filosofico-religiosi — tutto ciò che “materialmente” esiste non può che avere un inizio, e un inizio non può che avere un Principio, un Ente da cui aver luogo; è quindi proprio sul celeberrimo “Ex nihilo nihil fit” di lucreziana memoria che possiamo asserire, large loquendo, si stagli la figura del Demiurgo. Creatore del mondo e di tutto quanto lo abita e lo costituisce, 130 Rivista Thule Italia dunque anche della terra, nonché di tutto quanto ad esso è collegato, quindi di tutto ciò che per natura, gnosticamente parlando, si oppone tragicamente alla perfezione del Pleroma, da cui egli stesso è separato, artefice e sovrano di quel mondo che non è che il regno del molteplice, dell’illusione, fulcro della nefasta e inevitabile scissione tra il Bene e il Male, dell’esiziale turbamento della superna Quies, possiamo a buon ragione affermare che il Demiurgo sia una delle immagini più complesse e controverse di tutta quanta la cultura gnostica, e non solo. Proprio in nome di questa complessità, non possiamo, quindi, che volontariamente limitarci, in tal sede, a questo esile schizzo introduttivo, dal momento che una ricostruzione per così dire soddisfacente di una simile figura richiederebbe non solo pagine e pagine, ma interi tomi; questo esile schizzo non vuole che rappresentare, dunque, in vista della lettura della seguente riflessione guénoniana, un più che esiguo trait d’union tra la terra e il suo creatore. La terra 131 René Guénon La Gnosi, novembre 1909, n° 1 IL DEMIURGO C’è un certo numero di problemi che hanno costantemente preoccupato gli uomini, ma non ve n’è forse uno che sia generalmente sembrato più difficile da risolvere di quello dell’origine del Male, con cui si sono scontrati, come contro un ostacolo insormontabile, la maggior parte dei filosofi, e soprattutto i teologi: «Si Deus est, unde Malum? Si non est, unde Bonum?». Questo dilemma è, infatti, insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera diretta di Dio, e che, di conseguenza, sono obbligati a renderlo ugualmente responsabile del Bene e del Male. Si dirà indubbiamente che tale responsabilità sia in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma se le creature possono scegliere tra il Bene e il Male è perché l’uno e l’altro esistono già, almeno in linea di principio, e, se talvolta sono capaci di decidersi a favore del Male invece di essere sempre inclini al Bene, è perché sono imperfette: come dunque ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri imperfetti? È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se fosse possibile, il Perfetto dovrebbe contenere in sé l’imperfetto allo stato di principio, e allora non sarebbe più il Perfetto. L’imperfetto non può dunque procedere dal Perfetto mediante emanazione; non potrebbe allora che risultare dalla creazione «ex nihilo»; ma come ammettere che qualcosa possa venire dal niente, o, in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia affatto un principio? D’altronde, ammettere la creazione «ex nihilo» sarebbe ammettere di conseguenza l’annientamento finale degli esseri creati, perché ciò che ha avuto un inizio deve 132 Rivista Thule Italia anche avere una fine, e niente è più illogico che parlare, in una simile ipotesi, d’immortalità; ma la creazione così intesa non è che un’assurdità, poiché è contraria al principio di causalità, che è impossibile per ogni uomo ragionevole in buona fede negare, e possiamo dire con Lucrezio: «Ex nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti». Non può esserci niente che non abbia un principio; ma qual è questo principio? E non c’è, in realtà, che un unico Principio di tutte le cose? Se si esamina l’Universo totale, è evidente che contenga tutte le cose, perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è necessariamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che sarebbe al di là di questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, e questa supposizione è assurda. Ciò che non ha limite può essere chiamato l’Infinito, e, siccome contiene tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose. D’altra parte, l’Infinito è necessariamente uno, perché due Infiniti che non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue, quindi, che non ci sia che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio è il Perfetto, perché l’Infinito non può essere tale che se è il Perfetto. Così, il Perfetto è il Principio supremo, la Causa prima; contiene tutte le cose in potenza e ha prodotto tutte le cose; ma allora, poiché non c’è che un Principio unico, cosa divengono tutte le opposizioni che si osservano abitualmente nell’Universo: l’Essere e il Non Essere, lo Spirito e la Materia, il Bene e il Male? Ci troviamo qui dunque di fronte alla domanda posta fin dall’inizio, e possiamo adesso formularla in un modo più generale: come ha potuto l’Unità creare la Dualità? Alcuni hanno creduto di dover ammettere due principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma tale ipotesi è scartata da quanto abbiamo precedentemente detto. Questi due principi, infatti, non possono essere ambedue infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se uno solo fosse infinito, sarebbe il principio dell’altro; se, infine, ambedue fossero finiti, non sarebbero veri principi, perché dire che ciò che è finito possa esistere di per se stesso è dire che qualcosa possa venire dal niente, poiché tutto ciò che è finito ha un inizio, logicamente, se non cronologicamente. In quest’ultimo caso, di conseguenza, essendo entrambi finiti, devono procedere da un principio comune, che è infinito, e siamo così ricondotti alla considerazione di un Principio unico. Molte dottrine che si considerano abitualmente come dualiste non sono, d’altra parte, tali che in apparenza; nel Manicheismo, come nella religione di Zoroastro, il dualismo non era che una dottrina puramente essoterica, che ricopriva la vera dottrina esoterica dell’Unità: La terra 133 Ormuzd e Ahriman sono generati da Zurvan Akarana, e devono confondersi in lui alla fine dei tempi. La Dualità è dunque necessariamente prodotta dall’Unità, poiché essa non può esistere di per sé; ma come può essere prodotta? Per capirlo, dobbiamo in primo luogo considerare la Dualità sotto il suo aspetto meno particolaristico, vale a dire l’opposizione tra l’Essere e il Non Essere; d’altronde, poiché l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti nella Perfezione totale, è innanzitutto necessario che tale opposizione non possa essere che apparente. Sarebbe dunque preferibile parlare solamente di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? Esiste in realtà indipendentemente da noi o non è semplicemente che il risultato del nostro modo di considerare le cose? Se per Non Essere non s’intende che il puro niente, è inutile parlarne, poiché cosa si può dire di ciò che è niente? Ma è del tutto diverso se si considera il Non Essere come possibilità di essere; l’Essere è la manifestazione del Non Essere così inteso, ed è contenuto allo stato potenziale in questo Non Essere. Il rapporto del Non Essere nei confronti dell’Essere è allora il rapporto del non manifestato nei confronti del manifestato, e si può dire che il non manifestato sia superiore al manifestato di cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il manifestato, oltre a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai manifestato. Allo stesso tempo, è evidente che sia impossibile parlare qui di una distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel non manifestato; non possiamo, tuttavia, concepire il non manifestato in maniera diretta, ma solo attraverso il manifestato; tale distinzione esiste dunque per noi, ma non esiste che per noi. Se è così per la Dualità sotto l’aspetto della distinzione dell’Essere e del Non Essere, deve essere, a maggior ragione, lo stesso per tutti gli altri aspetti della Dualità. Già con questo si vede quanto sia illusoria la distinzione tra lo Spirito e la Materia, su cui si è tuttavia, soprattutto nei tempi moderni, costruito un così gran numero di sistemi filosofici, come su una base incrollabile: se tale distinzione sparisse, non resterebbe niente di tutti questi sistemi. Possiamo inoltre osservare per inciso come la Dualità non possa esistere senza il Ternario, perché se il Principio supremo, differenziandosi, dà origine a due elementi, che, d’altra parte, non sono distinti che in quanto li consideriamo come tali, questi due elementi e il loro Principio comune formano un Ternario, in modo che, in realtà, è il Ternario e non il Binario a essere immediatamente prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale. 134 Rivista Thule Italia Torniamo adesso alla distinzione tra il Bene e il Male, che non è, anch’essa, che un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene al Male, si fa generalmente consistere il Bene nella Perfezione, o almeno, a un livello inferiore, in una tendenza alla Perfezione, e allora il Male non è altro che l’imperfetto; ma come potrebbe l’imperfetto opporsi al Perfetto? Abbiamo visto che il Perfetto è il Principio di tutte le cose, e che, d’altra parte, non possa produrre l’imperfetto, risulta quindi che in realtà l’imperfetto non esista, o che almeno non possa esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale; ma allora non può essere realmente imperfetto, e ciò che chiamiamo imperfezione non è che relatività. Così, ciò che chiamiamo errore non è che verità relativa, perché tutti gli errori devono essere compresi nella Verità totale, senza cui questa, essendo limitata da qualcosa che sarebbe al di fuori di essa, non sarebbe perfetta, cosa che equivarrebbe a dire che non sarebbe la Verità. Gli errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità totale; è dunque la frammentazione che produce la relatività, e, pertanto, si potrebbe dire che sia la causa del Male, se relatività fosse realmente sinonimo di imperfezione; ma il Male non è tale che se lo si distingue dal Bene. Se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è affatto realmente distinto, poiché vi è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista universale, il Male non esiste. Esisterà solamente se si considerano tutte le cose sotto un aspetto frammentario e analitico, separandole dal loro Principio comune, invece di considerarle sinteticamente come contenute in tale Principio, che è la Perfezione. È così che è creato l’imperfetto; distinguendo il Bene dal Male, li si crea entrambi mediante questa stessa distinzione, perché il Bene e il Male non sono tali che se li si oppone l’uno all’altro, e, se non c’è affatto Male, non è più opportuno parlare di Bene nel senso ordinario di questo termine, ma solo di Perfezione. È dunque la fatale illusione del Dualismo che realizza il Bene e il Male, e che, considerando le cose da un punto di vista particolare, sostituisce la Molteplicità all’Unità, e chiude così gli esseri su cui esercita il suo potere nel dominio della confusione e della divisione; tale dominio è l’Impero del Demiurgo. La terra 135 René Guénon La Gnosi, dicembre 1909, n° 2 IL DEMIURGO Quanto abbiamo detto a proposito della distinzione tra il Bene e il Male permette di comprendere il simbolo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose possono essere espresse. La frammentazione della Verità totale, o del Verbo, perché in fondo è la stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica alla segmentazione dell’Adamo Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adamo Protoplastes, vale a dire il primo formatore; la causa di tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza individuale. Questo Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui, inizialmente allo stato potenziale, e non diviene a lui esteriore che nella misura in cui l’uomo stesso la esteriorizza; questo istinto di separabilità, per la sua natura che è di provocare la divisione, spinge l’uomo a gustare il frutto dell’Albero della Scienza del Bene e del Male, vale a dire a creare la distinzione stessa tra il Bene e il Male. Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché ciò che gli era interiore è divenuto esteriore in seguito alla separazione che si è prodotta tra gli esseri; questi sono adesso rivestiti di forme che limitano e definiscono la loro esistenza individuale; e così l’uomo è stato il primo formatore. Ma anch’egli si trova ormai soggetto alle condizioni di questa esistenza individuale ed è anch’egli rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una tunica di pelle; è rinchiuso nel dominio del Bene e del Male, nell’Impero del Demiurgo. Da questa esposizione, d’altra parte molto sommaria e assai incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo; non è, in principio, che la volontà dell’uomo, in quanto realizza la distinzione tra il Bene e il Male. Ma poi l’uomo, limitato in quanto essere individuale da quella volontà che è la sua, la considera come qualcosa di esteriore a lui, e così essa diviene distinta da lui; inoltre, siccome essa si oppone agli sforzi che egli compie per uscire dal dominio in cui si è egli stesso rinchiuso, la guarda come una potenza ostile e la chiama Shathan o l’Avversario. Osserviamo, d’altra parte, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo a ogni istante, poiché questo non deve affatto essere considerato come verificatosi in un tem- 136 Rivista Thule Italia po determinato, che questo Avversario, diciamo, non è affatto malvagio in se stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario. Dal punto di vista più generale, il Demiurgo, divenuto una potenza distinta e considerato come tale, è il Principe di questo Mondo di cui si parla nel Vangelo di Giovanni; anche qui non è, strettamente parlando, né buono né malvagio, o piuttosto è l’uno e l’altro, poiché contiene in sé il Bene e il Male. Si considera il suo dominio come il Mondo inferiore, che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principale da cui è stato separato; ma occorre prestare attenzione a osservare che tale separazione non è mai assolutamente reale; non è reale che nella misura in cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo stato potenziale nell’Universo principale, ed è evidente che nessuna parte possa realmente uscire dal Tutto. È peraltro quanto impedisce che la caduta continui indefinitamente; ma questa non è che un’espressione del tutto simbolica e la profondità della caduta misura semplicemente il grado di separazione. Con questa restrizione, il Demiurgo si oppone all’Adamo Kadmon o all’Umanità principale, manifestazione del Verbo, ma solamente come un riflesso, perché non è affatto un’emanazione e non esiste che di per sé; è quanto è rappresentato dalla figura dei due vegliardi dello Zohar, e anche dai due triangoli opposti del Sigillo di Salomone. Siamo dunque portati a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso e invertito dell’Essere, perché in realtà non può essere altra cosa. Non è dunque un essere; ma, in base a quanto abbiamo precedentemente detto, può essere considerato come la collettività degli esseri nella misura in cui essi sono distinti, o, se si preferisce, in quanto hanno un’esistenza individuale. Siamo esseri distinti in quanto creiamo noi stessi la distinzione, che non esiste che nella misura in cui la creiamo; in quanto creiamo tale distinzione, siamo elementi del Demiurgo, e, in quanto esseri distinti, apparteniamo al dominio di quello stesso Demiurgo che è quanto chiamiamo la Creazione. Tutti gli elementi della Creazione, vale a dire le creature, sono dunque contenuti nel Demiurgo stesso, e infatti non può che trarli da se stesso, poiché la creazione ex nihilo è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce prima la divisione, e non ne è affatto realmente distinto, poiché non esiste che in quanto la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la divisione è la fonte dell’esistenza individuale ed è definita dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore e allora egli è identico all’Adamo Protoplastes, così come abbiamo visto. Si La terra 137 può anche dire che il Demiurgo crei la Materia, intendendo con questo termine il caos primordiale che è il coacervo di tutte le forme; poi organizza tale Materia caotica e tenebrosa dove regna la confusione facendo scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la creazione. Si deve adesso dire che la Creazione sia imperfetta? Sicuramente non la si può considerare perfetta; ma, se ci si pone dal punto di vista universale, essa non è che uno degli elementi costitutivi della Perfezione totale. Non è imperfetta che se la si considera analiticamente come separata dal suo Principio, ed è d’altronde nella stessa misura che è il dominio del Demiurgo; ma se l’imperfetto non è che un elemento del Perfetto, esso non è veramente imperfetto, e risulta quindi che in realtà il Demiurgo e il suo dominio non esistano dal punto di vista universale, non più della distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue anche che, dallo stesso punto di vista, la Materia non esista: l’apparenza materiale non è che illusione, pertanto non sarebbe d’altra parte necessario concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché sarebbe cadere in un’altra illusione, che è quella di un idealismo esagerato e mal compreso. Se la materia non esiste, sparisce quindi anche la distinzione tra lo Spirito e la Materia; tutto deve essere in realtà Spirito, ma intendendo questo termine in un senso del tutto diverso da quello che gli ha attribuito la maggior parte dei filosofi moderni. Questi, infatti, pur opponendo lo Spirito alla Materia, non lo considerano affatto come indipendente da ogni forma, e si può allora chiedersi in cosa esso si differenzi dalla Materia; se si dice che sia inesteso, mentre la Materia è estesa, come può essere rivestito di una forma ciò che è inesteso? Perché, d’altra parte, voler definire lo Spirito? Che sia con il pensiero o altrimenti, è sempre attraverso una forma che si cerca di definirlo, e allora non è più lo Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’essere particolare; ma è il Principio di tutti gli esseri, e così li contiene tutti; è per questo che tutto è Spirito. Quando l’uomo giunge alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso e tutte le cose con lo Spirito universale, e allora per lui scompare ogni distinzione, così da contemplare tutte le cose come in se stesso, e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte alla Verità come l’ombra di fronte al sole. Così, attraverso questa stessa conoscenza, l’uomo è affrancato dai vincoli della Materia e dell’esistenza individuale, non è più sottomesso alla dominazione del Principe del Mondo, non appartiene più all’Impero del Demiurgo. 138 Rivista Thule Italia René Guénon La Gnosi, gennaio 1910, n° 3 IL DEMIURGO Da quanto precede risulta che l’uomo possa, fin dalla sua esistenza terrestre, affrancarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e che tale affrancamento si operi mediante la Gnosi, vale a dire mediante la Conoscenza integrale. Osserviamo, d’altronde, come tale Conoscenza non abbia niente in comune con la scienza analitica e non la presupponga affatto; è un’illusione troppo diffusa ai nostri giorni credere che non si possa giungere alla sintesi totale che attraverso l’analisi; la scienza ordinaria, invece, è del tutto relativa e, limitata al Mondo ilico, non esiste più di esso dal punto di vista universale. D’altra parte, dobbiamo anche osservare che i diversi Mondi, o, secondo l’espressione generalmente ammessa, i diversi piani dell’Universo, non siano affatto luoghi o regioni, ma modalità dell’esistenza o stati dell’essere. Questo permette di capire come un uomo che vive sulla terra possa in realtà appartenere non al Mondo ilico, ma al Mondo psichico o anche al Mondo pneumatico. È questo che costituisce la seconda nascita; questa, tuttavia, non è, strettamente parlando, che la nascita del Mondo psichico, tramite cui l’uomo diviene cosciente su due piani, ma senza raggiungere ancora il Mondo pneumatico, vale a dire senza identificarsi con lo Spirito universale. Quest’ultimo risultato non è ottenuto che da chi possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la quale viene per sempre liberato dalle nascite mortali; è ciò che si esprime dicendo che solo i Pneumatici vengono salvati. Lo stato degli Psichici non è, insomma, che uno stato transitorio; è quello dell’essere che è già La terra 139 pronto a ricevere la Luce, ma che non la percepisce ancora, che non ha preso coscienza della Verità una e immutabile. Quando parliamo di nascite mortali, intendiamo con questo le modificazioni dell’essere, il suo passaggio attraverso forme molteplici e mutevoli; non vi è niente che rassomigli alla dottrina della reincarnazione come la ammettono gli spiritisti e i teosofisti, dottrina riguardo alla quale avremo un giorno l’occasione di spiegarci. Il Pneumatico è liberato dalle nascite mortali, è cioè affrancato dalla forma, dunque dal Mondo demiurgico; non è più sottoposto al cambiamento, e, di conseguenza, è privo di azione; questo è un punto su cui torneremo successivamente. Lo Psichico, invece, non va oltre il Mondo della Formazione, che è simbolicamente designato come il primo Cielo o la sfera della Luna; da lì torna al Mondo terrestre, il che non significa che in realtà assumerà sulla Terra un nuovo corpo, ma semplicemente che debba rivestire nuove forme, qualunque esse siano, prima di ottenere la liberazione. Quanto abbiamo appena esposto mostra l’accordo, potremmo anche dire la reale identità, malgrado alcune differenze nell’espressione, tra la dottrina gnostica e le dottrine orientali, e più in particolare con il Vedānta, il più ortodosso di tutti i sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. È per questo che possiamo completare quanto abbiamo indicato a proposito dei diversi stati dell’essere traendo alcune citazioni dal Trattato della Conoscenza dello Spirito di Shankaracharya. «Non vi è alcun modo di ottenere la liberazione completa e finale che la Conoscenza; essa è il solo strumento che sciolga i vincoli delle passioni; senza la Conoscenza, la Beatitudine non può essere ottenuta. «Non essendo l’azione opposta all’ignoranza, non può allontanarla; ma la Conoscenza dissipa l’ignoranza, come la Luce dissipa le tenebre». L’ignoranza, è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre del Mondo ilico, legato all’apparenza illusoria della Materia e alle distinzioni individuali; attraverso la Conoscenza, che non appartiene affatto all’ambito dell’azione, ma gli è superiore, tutte queste illusioni, come abbiamo detto precedentemente, scompaiono. «Quando l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri viene allontanata, lo Spirito, col suo stesso splendore, risplende in lontananza in uno stato indiviso, come il Sole diffonde il suo chiarore quando le nubi sono disperse». Ma prima di giungere a questo livello, l’essere passa attraverso uno stadio intermedio, quello che corrisponde al Mondo psichico; crede al- 140 Rivista Thule Italia lora di essere non più il corpo materiale, ma l’anima individuale, perché per lui non è scomparsa alcuna distinzione, poiché non è ancora uscito dal dominio del Demiurgo. «Immaginandosi di essere l’anima individuale, l’uomo è colto da spavento, come una persona che scambia per errore un pezzo di corda per un serpente; ma la sua paura viene allontanata dalla percezione che egli non è l’anima, ma lo Spirito universale». Colui che ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, vale a dire del Mondo ilico, l’insieme delle manifestazioni grossolane o materiali, e del Mondo psichico, l’insieme delle manifestazioni sottili, è nato due volte, Dwidja; ma colui che è cosciente dell’Universo non manifestato o del Mondo senza forma, vale a dire del Mondo pneumatico, e che è giunto all’identificazione di se stesso con lo Spirito universale, Ātman, solo questi può essere detto Yogi, vale a dire unito allo Spirito universale. «Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose come restando in se stesso, e così, attraverso l’occhio della Conoscenza, percepisce che ogni cosa è Spirito». Notiamo per inciso che il Mondo ilico è paragonato allo stato di veglia, il Mondo psichico allo stato di sogno e il Mondo pneumatico al sonno profondo; dobbiamo ricordare, a tal riguardo, che il non manifestato è superiore al manifestato, poiché ne è il principio. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la dottrina gnostica, non vi è che il Pleroma, che può essere considerato come costituito dall’insieme degli attributi della Divinità. Non è un quarto Mondo, ma lo Spirito universale stesso, Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato né non manifestato, indefinibile, inconcepibile e incomprensibile. Lo Yogi o Pneumatico, perché in fondo è la stessa cosa, si percepisce non più come una forma grossolana né come una forma sottile, ma come un essere senza forma; s’identifica allora con lo Spirito universale, ed ecco in quali termini tale stato è descritto da Sankaratcharya. «Egli è Brahma, dopo il cui possesso non c’è niente da possedere; dopo il godimento della cui felicità non c’è alcuna felicità che possa essere desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non c’è alcuna conoscenza che possa essere ottenuta. «Egli è Brahma, la cui vista elimina quella di qualsiasi altro oggetto, l’identificazione con il quale impedisce ogni ulteriore nascita; dopo la cui percezione, non vi è più niente da percepire. «Egli è Brahma, che è diffuso ovunque, in tutto: nello spazio mediano, La terra 141 in ciò che è sopra e in ciò che è sotto; il vero, il vivente, il felice, senza dualità, indivisibile, eterno e uno. «Egli è Brahma, che è senza grandezza, inesteso, increato, incorruttibile, senza forma, senza qualità o carattere. «Egli è Brahma, da cui tutte le cose sono illuminate, la cui luce fa risplendere il Sole e tutti i corpi luminosi, ma che non è affatto reso manifesto dalla loro luce. «Penetra egli stesso la sua stessa essenza eterna e contempla il Mondo intero apparendo come Brahma. «Brahma non assomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma non c’è niente; tutto ciò che sembra esistere al di fuori di lui è un’illusione. «Di tutto ciò che viene visto, di tutto ciò che viene sentito, niente esiste che non sia Brahma, e, attraverso la conoscenza del principio, Brahma è contemplato come l’Essere vero, vivo, beato, senza dualità. «L’occhio della Conoscenza contempla l’Essere reale, vivo, felice che penetra tutto; ma l’occhio dell’ignoranza non lo scopre affatto, non lo vede affatto, come un uomo cieco non vede affatto la luce. «Quando il Sole della Conoscenza spirituale si leva nel cielo del cuore, caccia le tenebre, penetra tutto, abbraccia tutto, e illumina tutto». Osserviamo che il Brahma di cui si parla qui è il Brahma superiore; è necessario fare attenzione a distinguerlo dal Brahma inferiore, perché questo non è altro che il Demiurgo, considerato come il riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non c’è che il Brahma superiore, che contiene tutte le cose, e al di fuori del quale non c’è niente; il Demiurgo e la sua opera di divisione non esistono più. «Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo stesso spirito, un pellegrinaggio che non ha niente a che fare con la situazione, il posto o il tempo, che si svolge ovunque, in cui non si provano né il caldo né il freddo, che accorda una felicità perpetua e una liberazione da ogni pena; costui è senza azione; conosce tutte le cose e ottiene l’eterna Beatitudine». 142 Rivista Thule Italia René Guénon La Gnosi, febbraio 1910, n° 4 IL DEMIURGO Dopo aver caratterizzato i tre Mondi e gli stati dell’essere che vi corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile, cosa sia l’essere affrancato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo tornare di nuovo alla questione della distinzione tra il Bene e il Male, per trarre alcune conseguenze dall’esposizione precedente. Inizialmente si potrebbe essere tentati di dire questo: se la distinzione tra il Bene e il Male è del tutto illusoria, se in realtà non esiste, deve valere lo stesso per la morale, perché è evidente che la morale si fondi su questa distinzione, che essenzialmente la presuppone. Sarebbe andare oltre; la morale esiste, ma nella stessa misura della distinzione tra il Bene e il Male, vale a dire per tutto ciò che appartiene al dominio del Demiurgo; dal punto di vista universale, [essa, ndt] non avrebbe più alcuna ragione di essere. La morale, infatti, non può applicarsi che all’azione; ora l’azione presuppone il cambiamento, che non è possibile che nel formale o il manifestato; il Mondo senza forma è immutabile, superiore al mutamento, dunque anche all’azione, ed è per questo che l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo è senza azione. Ciò dimostra che occorre prestare attenzione a non confondere mai i diversi piani dell’Universo, perché quanto si dice dell’uno potrebbe non essere vero per l’altro. Così, la morale esiste necessariamente nel piano sociale, che è essenzialmente l’ambito dell’azione; ma non se ne può più parlare quando si considera il piano metafisico o universale, poiché allora non c’è più azione. Stabilito questo punto, dobbiamo far notare che l’essere che è superiore all’azione possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma è un’attività potenziale, dunque un’attività che non agisce affatto. Questo essere non è affatto immobile, come si potrebbe a torto dire, ma immutabile, vale a dire superiore al mutamento; s’identifica, infatti, con l’Essere, che è sempre identico a se stesso: secondo la formula biblica, «l’Essere è l’Essere». Questo deve essere accostato alla dottrina taoista, secondo cui l’Attività del Cielo è non-agente; il Saggio, che abbiamo designato La terra 143 come il Pneumatico o lo Yogi, può avere le parvenze dell’azione, come la Luna ha le parvenze del movimento quando le nuvole le passano davanti; ma il vento che caccia le nuvole non ha alcuna influenza sulla Luna. Analogamente, l’agitazione del Mondo demiurgico è priva d’influenza sul Pneumatico; a tal riguardo, possiamo ancora citare quanto dice Sankaratcharya. «Lo Yogi, avendo attraversato il mare delle passioni, si unisce alla Tranquillità e gioisce nello Spirito. «Avendo rinunciato a quei piaceri che nascono dagli oggetti esterni perituri e godendo le delizie spirituali, è calmo e sereno come la fiamma di una lampada e gioisce nella sua stessa essenza. «Durante la sua permanenza nel corpo, non è influenzato dalle sue proprietà, come il firmamento non è influenzato da ciò che fluttua al suo interno; conoscendo tutte le cose, rimane non-influenzato dalle contingenze». Possiamo così comprendere il vero significato del termine Nirvana, di cui si sono date tante false interpretazioni; questa parola significa letteralmente cessazione del respiro o dell’agitazione, dunque lo stato di un essere libero che non è più soggetto ad alcuna agitazione, che è definitivamente liberato dalla forma. È un errore molto diffuso, almeno in Occidente, quello di credere che non ci sia più niente quando non ci sia più forma, mentre in realtà è la forma che è niente e l’informale che è tutto; così, il Nirvana, ben lungi dall’essere l’annientamento come hanno sostenuto alcuni filosofi, è invece la pienezza dell’Essere. Da tutto quanto precede, si potrebbe concludere che non è affatto necessario agire; ma sarebbe anche inesatto, se non in linea di principio, almeno nell’applicazione che si vorrebbe farne. L’azione, infatti, è la condizione degli esseri individuali appartenenti all’Impero del Demiurgo; il Pneumatico o il Saggio è in realtà senza di azione, ma in quanto risiede in un corpo, ha le parvenze dell’azione; esteriormente è del tutto simile agli altri uomini, ma sa che questo non è che un’apparenza illusoria e questo basta perché sia realmente affrancato dall’azione, poiché è attraverso la Conoscenza che si ottiene la liberazione. Con il fatto stesso che sia affrancato dall’azione, non è più soggetto alla sofferenza, perché la sofferenza non è che un risultato dello sforzo, dunque dell’azione, ed è in questo che consiste ciò che chiamiamo imperfezione, sebbene non ci sia in realtà niente d’imperfetto. È evidente che l’azione non può esistere per colui che contempla tutte le cose in se stesso come esistente nello Spirito universale, senza alcuna 144 Rivista Thule Italia distinzione di oggetti individuali, come lo esprimono queste parole dei Veda: «Gli oggetti differiscono semplicemente per designazione, accidente e nome, come gli utensili terrestri ricevono diversi nomi sebbene siano solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte le forme, è essa stessa senza forma, ma le contiene tutte in potenza; tale è anche lo Spirito universale. L’azione implica il mutamento, vale a dire la distruzione incessante di forme che spariscono per essere sostituite da altre; sono le modificazioni che chiamiamo nascita e morte, i molteplici cambiamenti di stato che deve attraversare l’essere che non ha ancora raggiunto la liberazione o la trasformazione finale, usando la parola trasformazione nel suo significato etimologico, che è quello di passaggio al di là delle forma. L’attaccamento alle cose individuali, o alle forme essenzialmente transitorie e periture, è la caratteristica dell’ignoranza; le forme non sono niente per l’essere che è liberato dalla forma, ed è per questo che egli, anche durante la sua permanenza nel corpo, non è affatto influenzato dalle sue proprietà. «Così si muove, libero come il vento, perché i suoi movimenti non sono affatto ostacolati dalle passioni. «Quando le forme sono distrutte, lo Yogi e tutti gli altri entrano nell’essenza che tutto penetra. «Egli è senza qualità e senza di azione; imperituro, privo di volizione; felice, immutabile, senza figura; eternamente libero e puro. «Egli è come l’etere, che è diffuso ovunque, e che penetra allo stesso tempo l’esterno e l’interno delle cose; è incorruttibile, imperituro, è lo stesso in tutte le cose, puro, impassibile, senza forma, immutabile. «Egli è il grande Brahma, che è eterno, puro, libero, uno, incessantemente felice, non due, esistente, percipiente e senza fine». Questo è lo stato cui l’essere perviene attraverso la Conoscenza spirituale; così [egli, ndt] è liberato per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale, è liberato dall’Impero del Demiurgo.