THULE ITALIA

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THULE ITALIA
La Rivista di
THULE ITALIA
Percorsi di cultura
N°3 - LA TERRA
Trimestrale, anno XI
Progetto grafico e impaginazione
Giacomo Tognacci
Immagine di copertina
Veronica Piu
e-mail
[email protected]
SOMMARIO
Terra: madre e vita
di Monica Mainardi
pag. 5
La materialità del reale
di Pasquale Piraino
pag. 31
L’importanza della terra quale mito politico
e nella geopolitica contemporanea
di Gabriele Gruppo
pag. 89
Agricoltura organica, Blut und Boden
e socialismo contadino nella riflessione
di
Richard Walther Darré
di Maurizio Rossi
pag. 116
Le opere del Demiurgo: la Terra
di Stefania Labruzzo
pag. 129
«Terra in cui sono nato,
Terra povera e nuda,
Il tuo suolo è pietroso
Ed i tuoi campi ingrati;
Quando vi spingo
La mia vecchia carriola,
Sento il tuo dolce cuore
Battere fra le mie braccia.
Laggiù è il mio paese!
Terra in cui sono nato,
Terra povera e nuda,
Le tue cupe foreste
Piangono nel vento...»
Otto Rahn, La corte di Lucifero, SEB, 1989, pag. 171
«Se anche un giorno
Dio volesse
Per me, alla fine, una caduta mortale,
Non per questo rinuncerei a intraprendere
Con lo stesso sangue freddo e la stessa serenità
Quell’ultimo viaggio in montagna.
Che il ghiaccio e la pietra
Schiantino tanti nostri camerati:
Non è questo a darci dolore:
Noi siamo i prìncipi di questo mondo
E vogliamo restare prìncipi nell’Aldilà!»
Otto Rahn, La corte di Lucifero, SEB, 1989, pag 159
Terra: Madre e Vita
di Monica Mainardi
«La Terra per la sua estensione, la sua solidità, la varietà dei suoi rilievi e della sua vegetazione forma un’unità cosmica viva e attiva popolata di forze e satura di sacro». (Mircea Eliade)
La terra: la Madre, la Vita. Con i suoi tre regni – minerale, vegetale e animale – la terra è considerata da molte tradizioni il più sacro e
divino tra gli elementi, in quanto simboleggia la materia primordiale.
È materia pura (contrapposta allo spirito – che è l’aria, il cielo). La terra si oppone simbolicamente al cielo/aria come “principio passivo” al
“principio attivo”; aspetto femminile all’aspetto maschile della manifestazione; oscurità alla luce; yin allo yang; “tamas” – ossia la tendenza discendente – a “sattva” – la tendenza discendente. Secondo lo Yi
ching rappresenta l’esagramma “k’un”, la perfezione passiva che riceve
l’azione del principio attivo “ch’ien”. Essa sostiene, mentre il cielo copre. In molte raffigurazioni antiche è personificata solitamente da una
Dea Madre (Gaia, in Grecia; Tellus, in area latina; Nerthus, in area tedesca; Papa: in Polinesia), più di rado da un uomo (Geb, in Egitto). Le
“nozze sacre” (Hieros gamos) fra cielo e terra sono oggetto di molti
miti e riti arcaici, in particolare nei culti della fertilità e nei Misteri della
dea Demetra. Nella concezione cosmica della Cina, la terra è un quadrato – paragonato alla cassetta quadrangolare di un carro – e il cielo è
una volta circolare a baldacchino. Ai punti cardinali della terra ci sono
spesso quattro pilastri o alberi, protetti da custodi sovrannaturali – per
esempio, presso i Maya nello Yucatan quattro alberi Ceiba o Kapok (Yaxché, Ceiba pentandra) – e nel sacro centro un asse del mondo o un
albero cosmico. Le quattro regioni del mondo (o meglio cinque, visto
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che il centro è un luogo sacro a se stante) vengono associate spesso a determinati colori. Come punto cardinale essa simboleggia il Nord; come
stagione è l’inverno. Quando la terra trema ciò è sempre visto come un
manifestarsi di forze divine ostili agli uomini, che mettono in pericolo
l’ordine cosmico e devono essere placate.
Tutti gli esseri viventi nascono da lei perché è femmina e madre, ma è
totalmente sottomessa al principio attivo del cielo. Rappresenta il grembo indispensabile senza il quale nulla può essere prodotto o riportato in
vita: la terra è l’unica vera casa dell’uomo. Le sue virtù sono dolcezza e
sottomissione, fermezza pacata e duratura. Oltre che l’umiltà – da cui
discende etimologicamente l’“humus”, verso cui essa declina e di cui è
fatto l’uomo. Essa è materna e al contempo nutriente, ma anche pratica, concreta, solida e potente. Fertile e creativa, nutriente e rigogliosa,
racchiude in sé le caratteristiche del ventre materno che accoglie la vita
e la nutre, e ha come sue peculiari qualità la costanza, la pazienza e la
forza. Essa rappresenta il luogo cosmico in cui si svolge la vita umana,
ed è anche ciò che permette la produzione dei mezzi di sussistenza (la
terra fertile).
La terra è la sostanza universale, Prakriti, il caos primordiale, e, secondo la Genesi, la materia prima separata dalle acque; essa è la materia con
cui il Creatore ha modellato l’uomo. Essa è anche la vergine penetrata dalla vanga o dall’aratro, fecondata dalla pioggia e dal sangue, che
sono il seme del Cielo. La terra è una matrice che concepisce le sorgenti,
i minerali e i metalli.
La terra rappresenta la funzione materna: Tellus Mater. Giobbe esclama, prostrandosi al suolo: «Nudo uscii dal ventre di mia madre e nudo
là ritornerò» (1.21), assimilando la terra al grembo materno.
Anche nella religione vedica essa simboleggia la madre, sorgente
dell’essere e della vita, protettrice contro ogni forma di annientamento.
Secondo i riti funerari vedici, vengono recitate alcune frasi nel momento in cui l’urna cineraria viene messa nella terra: «Va sotto questa Terra;
tua madre, dai vasti soggiorni, dai buoni favori! Morbida come lana a
chi seppe dare, che essa ti preservi dal Nulla! Forma una volta per lui e
non annientarlo; ricevilo, Terra, accoglilo! Coprilo con un lembo della
tua veste come una madre che protegge il figlio» (Rig Veda, Grhyasutra,
4, 1).
Alcune tribù africane hanno come consuetudine quella di mangiare la
terra, quale simbolo di identificazione. Il sacrificatore assaggia la terra;
La terra
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la donna incinta la mangia. Dalla terra mangiata nasce il fuoco. Si dice
allora che «il ventre si accende».
La Terra è il simbolo della vita, di tutta la vita. Naturalmente anche gli
altri elementi – aria, acqua e fuoco – sono elementi molto importanti,
ma la Terra è il legante di tutti. La terra incarna il concetto di casa, di appartenenza, rappresenta la saggezza tribale e ancestrale, semplice ma
non semplicistica, profonda eppure così luminosa e a portata di mano.
Paragonata alla madre, la terra è simbolo di fecondità e di rigenerazione. «Essa partorisce tutti gli esseri, li nutre, e poi ne riceve nuovamente
il germe fecondo» (Eschilo, Coefore, 127-128). Il mito narra di un’umanità nata dai sassi (le “ossa della terra”) – un mito diffuso in aree assolutamente distanti tra loro, quali, per esempio, la Grecia antica e il Perù
incaico. Secondo la teogonia di Esiodo, la terra (Gaia) partorì anche tutti gli dèi. Gli dèi imitarono questa prima ierogamia, poi gli uomini, gli
animali; la terra si rivelò quindi all’origine di ogni vita, e così le fu dato
il nome di Grande Madre.
Secondo le culture matriarcali, essa è il principio femminile per eccellenza sottoposto a una continua fecondazione da parte del fuoco (interno ed esterno), dell’acqua, delle influenze astrali. Nelle sue viscere,
accoglie e trasforma il seme del dio – l’elemento maschile –, il seme al
quale la madre – l’elemento femminile – dà potenza. La terra è quindi
dotata di potenza magica. Materia contrapposta allo spirito, ma contemporaneamente indispensabile all’equilibrio dell’universo.
Essa nutre l’uomo fin dalla sua comparsa, è umida e fertile, e sono
queste caratteristiche che l’hanno fatta identificare dagli uomini come
elemento femminile. Nella stragrande maggioranza delle tradizioni
religiose, nelle cosmogonie, in essa viene posto il germe iniziale delle
cose – di tutte le cose –, che nel suo interno sono portate a maturazione:
il germe dei metalli (il mercurio vivo, padre di tutti i metalli), nel suo
ricettacolo sotterraneo può maturare fino alla perfezione (l’oro). Agrippa affermava che la terra racchiude le semenze d’ogni cosa e contiene
in sé tutte le virtù seminali, il che l’ha fatta chiamare animale, vegetale
e minerale. È suscettibile d’ogni tipo di fecondità, nonché il punto di
partenza d’un accrescimento illimitato d’ogni cosa. Purché le sia concesso di ristorare le sue forze e di restare esposta all’aria, non tarda a
ridiventare fertile e feconda.
Essa è quindi l’utero necessario allo sviluppo della vita, ma è anche
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fredda tomba, che raccoglie i resti dei suoi figli. Essa è inizio e fine. Infatti, è associata alla morte, alla rinascita, alla sepoltura. Nella Bibbia è
scritto che l’uomo viene dalla Terra e alla Terra ritornerà come polvere,
simbolo della transitorietà di tutte le trasformazioni compresa quella
finale di tutti gli esseri viventi. L’essere umano tende a rivedere nei riti
funerari il “ritorno al ventre della madre”, sin dall’antichità. Gli uomini
di Neanderthal seppellivano i morti in posizione fetale, con le gambe
e le braccia raccolte al petto. In questo modo si credeva che l’uomo potesse ripercorrere la sua vita al contrario, trovando nel buio abbraccio
della terra il calore stesso che aveva conosciuto nell’utero. E nell’antica
simbologia celtica, la terra è una forza unificante, tant’è che quando un
uomo/donna trapassava, lui/lei non si sarebbe riunito con il proprio
clan celeste a meno che l’elemento terra (preferibilmente dal loro luogo
di nascita) non avesse toccato i loro corpi defunti. Il suolo natio era
quindi necessario per coprire i resti fisici del morto, e questo faceva
sì che s’intraprendessero dei viaggi dell’ultimo riposo per riportare i
defunti nelle loro terre (quando possibile) e dare loro in codesto modo
un eterno riposo. La terra consacra dunque ciò che sostiene, riunisce e
ristabilisce tutte le cose che hanno bisogno del suo effetto equilibrante.
La terra, dimora e luogo d’origine dell’umanità, è stata spesso venerata come un elemento simbolico, dotato di una propria valenza spirituale, da diverse tradizioni di pensiero.
Nella ritualistica sciamanica, strettamente legata al simbolismo della
terra è la cosiddetta “capanna del sudore”: si tratta di una costruzione
circolare in intelaiatura di rami intrecciati a cupola al cui centro viene
scavata una grossa buca che ospiterà delle pietre incandescenti aggiunte man mano da un addetto al fuoco, che si premurerà di mantenerle a
una temperatura molto elevata. I partecipanti al rito, dopo una breve
purificazione, s’introducono completamente nudi all’interno della capanna, rivivendo una simbolica gestazione e il periodo passato all’interno del ventre materno. Questo rito è palesemente legato alla terra, al
buio e al calore della sicurezza; e richiama le divinità ctonie della terra,
della morte e della rinascita.
Nelle attività magiche, la terra ha sempre “governato” tutti gli incantesimi e i rituali legati al lavoro, agli affari, alla stabilità e alla fertilità:
gli aborigeni australiani professano un rito per il quale gli uomini adulti si stendono sulla terra e la fecondano con il loro seme, in segno di ringraziamento per i frutti che costantemente essa fornisce loro per vivere.
La terra
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Nella tradizione magica pagana, un rituale legato a questo elemento
poteva essere quello semplice di seppellire un oggetto simbolico di un
determinato proprio bisogno o desiderio che si voleva si concretizzasse; o ancora gesti semplici e umili, come quello di tracciare simboli e
disegni nella polvere. Così come accadeva con l’acqua, si credeva che la
terra fosse in grado di trasportare l’informazione e accogliere e conservare in sé le preghiere e i bisogni di chi la onorava nei rituali.
Ad arricchire il significato simbolico e iniziatico della terra contribuiscono poi le forze naturali che fanno parte di essa. I principali elementi
esoterici della terra sono: la caverna, la valle, l’erba, la montagna, la
foresta, gli alberi e i rami.
La caverna consente l’accesso nelle viscere della terra ed è quindi
un passaggio per l’“oltremondo”. Solitamente, le caverne sono luoghi
oscuri e talvolta pericolosi, dove la luce del sole non giunge e quindi più a contatto con le potenze telluriche. Sono altresì popolate dai
Nani, custodi delle ricchezze della Terra. Nella sua funzione di matrice
la caverna è usata nei riti iniziatici di passaggio, dall’oscurità alla luce,
dall’ignoranza alla conoscenza.
L’immagine della valle richiama l’utero della terra, ricettacolo delle
forze celesti. Rappresenta dunque un luogo di fecondità e di trasformazione.
L’erba e la sua crescita esprimono l’attività delle forze vegetative della
terra che vengono raccolte e rese disponibili a fini medicamentosi e terapeutici, oltre che magico-rituali.
La montagna è la manifestazione dell’immobilità e dell’immutabilità:
è un luogo che favorisce la calma e la contemplazione. Inoltre, è un
luogo altamente sacro, dato che nelle tradizioni mitologiche è abituale
dimora degli dèi. Simbolicamente, rappresenta l’ascensione spirituale.
Infatti, maggiore è l’altezza della montagna, maggiore è la vicinanza ai
cieli.
La foresta è luogo sacro e iniziatico per eccellenza. Legati a boschi e
foreste esistevano culti veri e propri, a tal punto che le leggi cristiane
nell’Uppland svedese ne proibirono il credo e le pratiche. Essa mostra
la natura nella sua straordinaria ricchezza, ma anche nella sua terribile
ostilità, in quanto è un luogo oscuro dove non penetra la luce. Come
aspetto iniziatico, la foresta è un luogo nel quale ci si ritira e ci si apparta per incontrare spiriti e dèi, ma anche per un periodo di rigenerazione, in attesa di entrare nel nuovo ciclo di vita, dopo aver superato
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le difficoltà interiori. Quindi la foresta rappresenta in modo allegorico
l’accesso alla conoscenza, alla verità e ai misteri, che rendono l’iniziato
partecipe di una saggezza durevole nel tempo. Ma è anche fonte di vita
e luogo di protezione, così come si allude nel mito nordico nel quale Lif
e Lifthrasir trovano rifugio durante il Crepuscolo degli Dèi, nutrendosi
di rugiada in attesa dell’inizio del nuovo ciclo.
L’albero partecipa ai tre strati che costituiscono l’universo: il “Mondo di Sotto”, rappresentato dalle radici che sprofondano nella terra; il
“Mondo di Mezzo”, raffigurato dal tronco; il “Mondo di Sopra”, quello
degli dèi, con i rami che elevano verso il cielo. Correlato strettamente
con la concezione del cosmo, l’albero è l’immagine dell’ascesa verticale verso l’Alto e, come tale, è un elemento fondamentale e di grandissima importanza nelle civiltà antiche. L’albero assume in sé i concetti
di saggezza, sacralità e potenza divina, oltre che mezzo di trasporto
attraverso gli stati dell’essere e del cosmo. Nei miti nordici, il guerriero o l’eroe vengono spesso paragonati a un albero, a simboleggiare la
nobiltà dell’essere.
I rami nutriti dalla linfa che sale dalle radici, con i loro frutti, possiedono la forza vitale dell’albero stesso. Nel Carme di Sigrdrifa, all’interno dell’Edda poetica, ai rami è connessa la “medicina delle rune”, una
scienza che verrà poi insegnata dalla Valkiria Sigrdrifa (solitamente
identificata con Brunilde) a Sigfrido. E a questo proposito, si noti che
spesso nella tradizione del Nord, così come in molte altre tradizioni
antiche, la Conoscenza viene trasmessa dall’elemento femminile a colui
che supera le prove iniziatiche che gli vengono poste dinnanzi.
La terra tra filosofia e mito
La terra è uno dei quattro elementi della filosofia greca antica. Essa è
comunemente associata alle qualità della praticità, dell’approccio materialista e della moderazione. Ed era attinente anche agli aspetti fisici e
sensuali della vita. Con Empedocle di Agrigento (495 - 435 a.C.), la terra
divenne uno dei quattro elementi classici, insieme al fuoco, all’aria e
all’acqua. Elementi che Empedocle chiamava “radici”. Platone (427-347
a.C.) accolse nella sua filosofia la dottrina dei quattro elementi di Empedocle e nel Timeo, il suo dialogo cosmologico, associò la terra al cubo
– che è formato da sei facce quadrate – e la collocò, all’interno dei cosiddetti “solidi platonici”, tra il fuoco (costituito da quattro lati triangolari)
La terra
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e l’aria (rappresentata da otto facce triangolari). Per Aristotele (384 - 322
a.C.) – che fornì nella sua Fisica una diversa spiegazione per i quattro
elementi, basata su coppie complementari, disposte concentricamente
intorno al centro dell’universo, a formare la sfera sublunare – la terra
è sia fredda sia secca, e fra le “sfere elementari” essa occupa un posto
intermedio tra il fuoco e l’acqua. Ai suoi antipodi, è posta l’aria.
Alchemicamente, l’elemento Terra viene invece indicato con un triangolo equilatero con vertice verso il basso e tagliato da una linea orizzontale, a indicare quindi che non è un elemento dinamico. Indica la
riflessione. Tant’è che per i filosofi mistici la terra era simbolo di
prudenza, che caratterizza la disposizione particolare dell’individuo di essere pronto e docile a
ricevere tutto ciò che è necessario
all’illuminazione.
Nell’Opera Alchemica, all’elemento terra corrisponde la prima
fase, ossia la “nigredo”, che è correlata alla materia, al nero, ed è
assimilabile al piombo, all’uomo
materiale
Le corrispondenze della terra
La Madre Terra da un testo alchemico del
nel regno animale sono svariate.
XVII secolo.
In molte culture la Terra poggia
sulle spalle o sul dorso di alcuni
animali: in Egitto, su uno scarabeo; nel sud-est dell’Asia, sull’epico elefante; in Giappone, su un pesce gigante; nel Sudamerica e Centroamerica, su un serpente; in India, su una tartaruga. E i terremoti venivano
spiegati tramite il movimento improvviso di questi animali geofori.
E alla terra sono associati vari animali. Tutte le creature con gli zoccoli,
come i cervi, i cavalli, i bisonti, i tori, i buoi, oppure con possenti zampe
ungulate, come gli orsi e i lupi, sono sotto la sua tutela. E connessi a
essa sono anche tutti gli animali che strisciano, primi tra tutti i serpenti,
e i ragni.
Nel regno vegetale le correlazioni con l’elemento terra sono invece con
il frassino, la quercia, il pino, il biancospino, il grano, l’avena, il riso,
l’erba medica, l’orzo, il cotone, la serpentina, l’artemisia, il vetiver.
La Terra è stata spesso personificata come una divinità, il più delle
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volte – anche se non esclusivamente – da una divinità femminile (probabilmente in quanto considerata generatrice di vita). E a essa sono
correlati vari miti. Secondo la mitologia greca, Prometeo plasmò – su
ordine di Zeus – i primi uomini dalla terra, a partire da un composto
fangoso, animandoli poi con il fuoco divino. Esattamente come dal fango la Genesi racconta vengono modellati da Dio il primo uomo e anche
la prima donna.
La Grande Madre
Ma parlando del rapporto terra-divinità non
si può non partire dalla Grande Madre, ossia
la divinità femminile primordiale, nella quale
vengono incarnati degli aspetti fondamentali della vita umana – la fertilità e la generazione della vita, la terra nella sua capacità di
produrre cibo e acqua, e l’aspetto peculiare di
mediazione tra il divino e l’umano – e che è
presente in quasi tutte le forme cultuali e le
mitologie conosciute. Il culto della Dea Madre
risale a tempi antichissimi: al Neolitico (dal
7000 al 3500 a.C.) e, forse, addirittura al PaLa Venere di Willendorf
leolitico, se si interpretano in questo senso le (Paleolitico, 24.000–22.000
A.C.).
tante statuette di donne panciute e con grandi
seni che sono state ritrovate in tutta Europa.
A queste figure, che vengono definite “steatopigie” (cioè “dalle grosse
natiche”, dal greco στεας, “grasso”, e πυγε, “natica”), spesso è stato
dato il nome di “Veneri”, proprio in connessione con il culto della dea.
Una delle più celebri è certamente la Venere di Willendorf, risalente a
25.000-26.000 anni fa e rinvenuta nel 1908 dall’archeologo Josef Szombathy in un sito archeologico risalente al Paleolitico, presso Willendorf,
in Austria (e oggi conservata al Naturhistorisches Museum di Vienna).
Con l’evolversi della civiltà, gli attributi e le caratteristiche che inizialmente erano raggruppati in una sola divinità femminile, cominciarono
a essere specializzati e moltiplicati attraverso divinità distinte. Così abbiamo alcune dee più tipicamente rappresentative dell’amore di tipo
sessuale (come Ishtar, Astarthe, Afrodite o Venere), altre più legate alla
fertilità (come Ecate), altre ancora legate alla caccia (Artemide, Diana),
La terra
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e infine associate alla prosperità dei
campi e ai cicli delle stagioni (come Demetra, Cerere, Persefone, Proserpina).
Persefone e Proserpina, al pari della
romana Bona Dea e dell’etrusca Mater
Matuta, sono anche collegate all’oltretomba e alla morte: questo perché il
ciclo di stagioni è collegato a quello della morte e della rinascita, cioè il seme
ha bisogno di morire per generare una
nuova pianta, che al termine del ciclo
darà altri semi. Ecco perché la dea incarna spesso un aspetto notturno e lunare,
che in alcune culture è stato travisato e
Diana cacciatrice, di Guillaume
reso come un aspetto negativo e maleSeignac (1870-1924).
fico. In realtà, esso non rappresenta altro che un principio fondamentale della
natura, e tutti i contadini sanno che il raccolto sarà migliore se piantano
i semi nel periodo in cui la luna è in fase di plenilunio.
Il culto della Grande Madre ha un carattere fortemente tellurico. La
terra, infatti, incarna da sempre l’aspetto femminile e sacro della divinità, perché genera le piante, produce i frutti e permette alla vita di
perpetuarsi. E poiché la madre è anche “grembo”, molti dei culti tributati alla Grande Madre si svolgevano in cavità sotterranee (ipogei). E la
divinità era strettamente connessa con le energie telluriche sotterranee:
uno dei tanti simboli utilizzato per indicare queste correnti telluriche è
quello del serpente, ed è per questo motivo che in molte raffigurazioni
delle dee madri compare questo animale.
In quasi tutte le civiltà preistoriche d’Europa vi erano numerosi boschi
sacri consacrati alla Grande Madre. Per i Latini era sacro il bosco di
Nemi, chiamato Nemus Dianae, o più semplicemente Nemus (il termine latino “Nemus”, sottintende il luogo protetto dove avvenivano riunioni collettive tra uomini e sacerdoti che rappresentavano gli dèi). E
per i Celti il bosco sacro era il “nemeo”, termine che deriva senza alcun
dubbio dalla radice “nemus”, a dimostrazione che il culto degli alberi
e dei boschi sacri era davvero diffuso capillarmente in tutta l’Europa.
Questi boschi sacri sono stati certamente i più antichi santuari, i primi
veri templi dedicati alla Dea Madre, fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo e che egli cercava in tutti i modi di ingraziarsi attraverso
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rituali magici durante i quali la terra veniva ingerita o utilizzata per
mascherarsi o per tingere il corpo. L’uso di consumare sacralmente un
tipo di pane composto di argilla come corpo di un dio era certamente
praticato nella Sardegna antica; forse in origine lo si impastava nella
forma di un idolo e veniva mangiato durante
celebrazioni che avevano componenti lunari
come la fecondità e la fertilità.
Un altro aspetto importante del culto della
Grande Madre è quello della fertilità. E a esso
si connettono le cosiddette “pietre della fertilità”, ossia rocce la cui proprietà era quella di assicurare la fertilità alle donne che vi venissero
in contatto. La più famosa roccia di questo tipo
è il monolito di Baalbek, in Libano, che è la pietra lavorata dall’uomo più grande del mondo
e che in arabo viene chiamata “Hajjar el-Houble”, ossia la “Roccia della Partoriente”. Molte
altre pietre di questo tipo hanno la forma di Statua di marmo di Cibele,
proveniente da Nicea in
un uovo, proprio a significare simbolicamente Bitinia (Musei archeologici
la generazione della vita. Le donne bretoni già
di Istanbul).
in epoche preistoriche si strofinavano il ventre
con polvere raccolta sulla roccia dei dolmen o
con l’acqua trattenuta dagli anfratti della pietra per propiziare le loro
capacità di generare, così come si credeva che sedersi su certe pietre
“calde” potesse rinvigorire gli organi genitali di coloro che si apprestavano a mettere al mondo dei discendenti.
Infine, non bisogna dimenticare le pietre nere, del colore delle viscere
della terra (ispirato al limo che rendeva fertili le terre d’Egitto dopo le
piene del Nilo). La dea Cibele, a Pessinunte, veniva adorata sotto forma
di una pietra conica di colore nero, che è un Omphalos a tutti gli effetti
(e che divenne il Lapis Niger posto dai Romani al centro del Foro). Gli
stessi aspetti simbolici compaiono anche nei culti pagani di derivazione
celtica, dove troviamo le Sheela-Na-Gig, sculture rappresentanti delle donne nude che mostrano una vulva ingigantita. Queste immagini
sono diffuse soprattutto in Inghilterra e in Irlanda, e sono praticamente
inesistenti in altri Paesi, anche perché nella maggior parte dei casi l’intransigente cultura cattolica ha provveduto alla loro rimozione o cancellazione (così come è stato fatto per le tante immagini falliche, che
non hanno nulla di osceno ma rappresentano l’aspetto fondamentale
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delle generazione della vita, nella controparte
maschile). Nella cultura cristiana, l’aspetto della fertilità è incarnato in una variante peculiare
dell’iconografia mariana che è quella delle Madonne Nere – che spesso si trovano in luoghi
che furono di culto della Grande Madre.
Sono molti i simboli associati alla Grande Madre, alla femminilità e altri aspetti a essa legati. Dal triangolo con la punta verso il basso e Il simbolo dell’elemento
il trattino orizzontale che lo interseca (simbolo
terra.
alchemico della Terra) al serpente (simbolo delle energie telluriche), dall’uovo alla pietra nera, dalla Madonna Nera
alla Sheela-Na-Gig. A essi vanno poi ancora aggiunti: la caverna – che
simbolicamente è identificata con un glifo a forma di ferro di cavallo
(mantenuto persino nelle moderne legende
cartografiche) – e l’acqua – simboleggiata da
una linea a zig-zag (una successione dei simboli della Lama e del Calice) oppure ondulata,
o da un triangolo equilatero con la punta rivolta verso il basso (molto simile al simbolo della
Terra). E ancora: la spirale – che può indicare
il vortice delle acque in movimento o quello, più simbolico, delle energie telluriche nei
punti nodali – e tutti i simboli da essa derivati,
come la doppia spirale, il Triskelion celtico e il
Labirinto. Vi è infine la “coppella”, ossia un incavo emisferico – generalmente del diametro
La Sheela na Gig situata
di pochi centimetri – ricavato dall’uomo sulla
nella chiesa SS Mary &
superficie di basi rocciose normalmente piane
David’s di Kilpeck (Hereo poco ripide che si può ritrovare nei più anfordshire).
tichi petroglifi del Neolitico e che non è altro
che l’ennesima metafora per indicare l’utero e
il ventre. Questo simbolismo del ventre si è successivamente tramutato
nella Coppa, nel Calice, nel Vaso (da cui poi è seguita l’allegoria del
Graal).
Tra gli altri animali sacri alle varie dee madri troviamo il leone (che era
sacro a Cibele: da qui deriva il significato delle tante bocche di fontane
foggiate come la testa di questo animale), la civetta (sacra a Minerva)
e gli animali simili, protagonisti della notte: il gufo, il barbagianni, la
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strige; l’orso (sacro ad Artemide). Nel mondo animale sono poi da ricordare tutti gli animali che hanno a che fare con l’acqua, come la rana,
l’anguilla (che ricorda il serpente di terra), gli uccelli acquatici (l’anatra,
il cigno, la gru, l’oca). Inoltre, abbiamo il ragno – al centro della sua tela
spiraliforme –, l’ariete – per le sue corna a forma di spirale –, la chiocciola – per il guscio della stessa forma –, la gallina (nel suo aspetto materno di chioccia, custode dei pulcini), la gatta, la leonessa, la pantera, e
ancora la mucca (per il latte), ma anche il toro e il bisonte (figure legate,
come il serpente, alle energie della terra, e che richiamano la falce lunare nella forma delle corna).
E così come i simboli, sono tanti anche i nomi che la Grande Madre
ha assunto attraverso i luoghi e le culture, pur mantenendo sempre il
principio che ella rappresentava: fu Inanna per i Sumeri, Ishtar per gli
Accadi, Astarthe per i Fenici, Anahita per i Persiani, Anat presso Ugarit, Ninhursag in Mesopotamia (V millennio a.C.), Atargatis in Siria,
Iside in Egitto, Artemide/Diana a Efeso, Baubo a Priene, Afrodite/Venere a Cipro, Rea o Dictinna a Creta, Demetra a Eleusi, Orthia a Sparta,
Bendis in Tracia, Cibele a Pessinunte, Ma
in Cappadocia, Gea/Gaia e Atena per i
Greci, Brigit in Irlanda, Dana/Anu per i
Celti, Bellona o Bona Dea per i Romani,
Mater Matuta presso gli Etruschi, Vacuna per i Sabini, Tanit per i Cartaginesi,
Quan-Yin o Guan Yin in Cina, Kannon
o Kanzeon in Giappone, Gwan-eum o
Gwan-se-eum in Corea, Avalokitesvara
in Tibet, Durga (Kali/Parvati/Sarasvati/Lakshmi) in India, Lada in Russia.
I mille nomi divini della terra
In Grecia, Gaia (o Gea) era la dea primordiale della terra. Nella Teogonia,
Esiodo parla di Gea come sorta dal
Caos, dando vita alle forze naturali del
mondo: mari, montagne e cielo (Urano).
Unendosi a Urano generò sei Titani e sei
Gaia (1875), di Anselm Feuerbach.
La terra
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Titanidi, seguiti dai Ciclopi e dagli Ecatonchiri.
Con il fratello, Tartaro, diede vita all’orrenda figura di Tifone. Crono si rivoltò contro il padre
e si alleò con Gea, infliggendogli la mutilazione
dei genitali. Dal sangue che ne sgorgò, nacque
una nuova generazione di mostri: nacquero i Giganti, le Erinni e Afrodite (nata dalla spuma del
mare dove erano precipitati gli organi maschili
di Urano). Gea e i suoi figli non si opposero soltanto a Urano, ma anche agli dèi, simboleggiando l’ira della Terra per le offese compiute contro
di essa. L’antica Grecia traeva il suo sostentamento dall’agricoltura, ogni appezzamento di
terra coltivata e resa fertile si vedeva attribuire
un potere magico, da cui derivava questo culto
per la Madre Terra. Per tale motivo, Gea fu la
prima dispensatrice di oracoli. Quando Apollo
volle costituire il proprio oracolo a Delfi, fu costretto a uccidere il simbolo di Gea, il serpente,
Proserpina (1873–77), di
che egli voleva soppiantare. Nelle opere omeriDante Gabriel Rossetti
che, Gea viene
(Tate Gallery, London).
presa a testimone dei giuramenti: a lei non può sfuggire nulla
di quanto accada sulla terra. Considerata madre di Zeus, Gaia ebbe grande
importanza anche ad Atene, in quanto
madre di Erittonio, progenitore della
gente dell’Attica, e come protettrice
della crescita dei bambini; in epoca
storica poi fu considerata una divinità
politica, protettrice della terra intesa
come patria, luogo di nascita.
Ma in Grecia, Gaia-la Terra-la Grande Madre, venne anche rappresentata
nella triplice forma di Persefone (fanciulla/vergine), Demetra (madre/generatrice), ed Ecate (vecchia/morte), Il ritorno di Persefone (1891), di Frederic
Leighton.
dove troviamo una correlazione tra le
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età della vita che queste tre dee rappresentavano. Persefone, (dal greco
Περσεφόνη, Persephónē), detta anche Kore, (dal greco Κόρη, giovinetta), Kora, o Core, è una figura della mitologia greca, fondamentale nei
Misteri Eleusini, che è entrata in quella romana come Proserpina. Sposa
di Ade, era la dea minore degli Inferi e regina dell’oltretomba. Figlia di
Zeus e di Demetra, viene rapita giovinetta e vergine dal marito Ade e,
secondo il mito, nei 6 mesi dell’anno (autunno ed inverno) che passava nel regno dei morti, Persefone svolgeva la stessa funzione del suo
consorte Ade, cioè governare su tutto l’oltretomba; negli altri 6 mesi
(primavera ed estate) ella andava sulla terra da sua madre Demetra, e
qui Persefone non svolgeva alcuna funzione. Ma è chiaro che Persefone rappresentava il ciclo delle stagioni. Demetra (in greco: Δημήτηρ,
“Madre terra” o forse “Madre dispensatrice”, probabilmente dal nome
indoeuropeo della Madre terra *dheghom mather), era sorella di Zeus,
e nella mitologia greca era la dea del grano e dell’agricoltura, costante
nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, protettrice del matrimonio e delle leggi
sacre. Rappresenta la terra nella funzione di madre e negli Inni omerici
viene invocata come la “portatrice di stagioni”. Con la figlia Persefone,
Demetra (che nella mitologia romana diverrà Cerere) è una figura centrale nelle celebrazioni dei Misteri eleusini. Ecate è infine una dea della
religione greca e romana, ma di origine pre-indoeuropea. Era una divinità psicopompa, in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli
uomini, quello degli dèi e il regno dei Morti. Spesso è raffigurata con
delle torce in mano, proprio per questa sua capacità di accompagnare
anche i vivi nel regno dei morti (la Sibilla Cumana, a lei consacrata,
traeva da Ecate la capacità di dare responsi provenienti, appunto, dagli
spiriti o dagli dèi). Rappresentava la terra nella sua età senile e nel passaggio alla morte, indispensabile per la rinascita.
Nell’antica Roma, accanto a Proserpina, Cerere ed Ecate – e ancor prima di loro – troviamo Tellus, la dea della terra e protettrice della fecondità, dei morti e contro i terremoti. Il suo culto, probabilmente più
antico della religione ufficiale romana, pare ricollegarsi direttamente a
quello della Grande Madre. Veniva celebrato il 15 aprile con la festa delle Fordicidia; con il tempo, tuttavia, venne associato a quello di Cerere
sino a fondersi con esso. Tellus – sempre con Cerere – è citata da Ovidio
come una delle “madri delle messi” (“frugum matres”).
Nell’Antico Egitto, nel Pantheon degli dèi, il dio Ptah, il grande de-
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miurgo, è una divinità sia maschile che femminile; un testo proveniente
da Menfi, a riguardo dice: “Ptah è il padre e la madre degli dei ed il
suo soprannome è ‘La Donna’. È lui la matrice in cui si differenziano
i semi di ciò che nasce, è lui che fa spuntare
l’orzo dall’uomo e il grano dalla donna...”.
Più tardi, fu Geb a diventare una dea madre,
raffigurazione dell’argilla, della torba, della
materia primordiale, della terra nutrice, coltivabile e feconda. Geb, o Seb, era infatti il dio
della terra – in contrasto con la maggior parte
delle altre mitologie, per le quali è una persoLa dea del cielo Nut sovrasta nificazione femminile. Egli è figlio di Tefnut,
l’umidità, e di Shu, l’aria, nonché marito di
il marito, il dio della terra
Geb (con testa di serpente).
Nut, il cielo, dalla quale ebbe quattro figli:
Osiride, Iside, Seth e Nefti. Nell’iconografia
è solitamente raffigurato disteso a terra, sormontato da Shu, che sostiene Nut inarcata su di lui. In altre immagini è
un uomo barbuto, con l’emblema di un’oca sulla testa, che simboleggia
il geroglifico del suo nome (a volte è infatti detto il “grande starnazzatore”). Geb governò il mondo antico, ricco e fecondo, fin quando si
stancò di regnare, e il suo posto venne preso dai suoi figli litigiosi Osiride e Seth. Geb venne associato anche al mondo degli Inferi, in quanto
si credeva che intrappolasse le anime per impedire loro di ascendere al
cielo. In età ellenistica, Geb venne identificato con il dio greco Crono.
In Cina la creazione della terra è opera di P’ankou. Secondo il Chou Yi Ki, un testo risalente alla
fine del VI secolo d.C., questa è la versione: “Gli
esseri viventi cominciarono con P’an-kou, che è
l’antenato di 10.000 esseri dell’universo. Quando
P’an-kou morì, la sua testa divenne un picco sacro,
i suoi occhi divennero il sole e la luna, il suo adipe
i fiumi e i mari, mentre i suoi capelli e i suoi peli
divennero la vegetazione”.
In India, la Terra a volte è Lakshmi, dea della fecondità e della prosperità – e comunemente considerata consorte di Viṣṇu, e madre con lui di Kama,
la divinità dell’amore –, il cui simbolo è l’oro, a
volte è Kali, la dea nera e sanguinante dei sacrifici,
La dea nera Kali.
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detta anche Bhumi, “il seno materno”.
Per i Maya, invece, la Terra era Itzam Cab,
l’iguana-terra, lo “spirito-dell’acqua-terra-coccodrillo”. Mentre tra gli Aztechi troviamo Tlazolteotl, la dea protettrice della fertilità e della
sessualità, della nascita nonché dea-madre. Veniva definita “mangiatrice di ciò che è sporco”
perché faceva visita alle persone che, giunte al
termine della loro vita, le confessavano i propri
peccati. Lei poi mangiava questa “sporcizia” (i
peccati). Secondo la mitologia azteca, Tlazolteotl è madre di Centeotl, il dio del mais, ed è
Lakshmi, la divinità
induista dell’abbondanza, associata alla Luna. E accanto a lei non bisogna
della luce, della saggezza scordare Cihuacoatl, la “donna serpente”, dea
e del destino.
della fertilità, protettrice delle madri, in particolare delle donne che morivano di parto. Fu lei
che aiutò Quetzalcoatl, il dio “serpente piumato”, a dare origine alla attuale fase dell’umanità macinando
le ossa delle generazioni umane precedenti
e mischiandole con il proprio sangue.
E nelle Ande era fondamentale il culto di
Pachamama, la dea della fertilità, che nutriva la terra e dispensava salute attraverso il
regno vegetale.
Nel paganesimo germanico la dea associata alla madre terra e alla fertilità è Nertus,
come veniamo a sapere da un passaggio di Raffigurazione della dea azteca Tlazoteotl.
Tacito, che in Germania racconta un rito religioso dedicato a questa divinità dai popoli
germanici settentrionali:
«Dopo i Longobardi vengono Reudigni, Auioni, Angli, Varni, Eudosi,
Suardoni e Nuitoni, tutti ben protetti da fiumi e foreste. Non c’è nulla
di importante da dire riguardo a questi popoli tranne il fatto che tutti
adorano Nerthus, che rappresenta la Madre-Terra. Credono che lei si
interessi degli affari degli uomini e che li guidi. Su un’isola nell’oceano
si trova un bosco sacro in cui si trova un santo carro coperto da un drappo. Solo a un sacerdote è permesso di toccarlo. Egli è in grado di sentire
La terra
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la presenza della dea
quando si trova nel
santuario, e la accompagna con grande
riverenza mentre si
muove sul carro trainato da tori. Si festeggia ovunque quando
decide di fare l’onore
di presentarsi. Nessuno va in guerra, nesNerthus (1905), di Emil Doepler.
suno usa armi, si vive
in pace e quiete finché
la dea, avendone avuto abbastanza della compagnia degli uomini, viene infine riaccompagnata dallo stesso sacerdote presso il suo tempio.
Dopodiché il carro, il drappo e, se mi credete, la divinità stessa fanno il
bagno in una misteriosa vasca. Questo rito viene svolto da schiavi che,
appena finito il compito, vengono affogati nel lago. In questo modo il
mistero viene mantenuto, e rimane la beata ignoranza riguardo al suo
aspetto, concesso solo a chi è destinato a morire».
Nella mitologia norrena, la dea della terra è Jörð (“Terra”), una delle
dee della stirpe degli Æsir. Figlia di Nótt (la dea della notte, figlia del
gigante Nǫrfi) e di Annarr (nome dietro al quale si cela forse lo stesso
Odino), ebbe dal dio Odino il dio Thor. Era la personificazione della terra non civilizzata. E collegata alla terra, nel suo aspetto di fertilità troviamo anche Freyja: figlia di Njörðr (dio della stirpe dei Vanir, del vento e
dei naviganti) e della gigantessa Skaði, sorella di Freyr (dio della bellezza e della fecondità)
e moglie di Óðr, ha
molte manifestazioni
ed è considerata la
dea dell’amore, della
seduzione, della fertilità, della guerra e
delle virtù profetiche.
Freyja, di John Bauer (1882–1918).
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Gli incantesimi della Terra
La Terra veniva utilizzata soprattutto per incantesimi di guarigione, e
in generale si associavano a tale elemento capacità curative: era infatti
convinzione che si potesse trasferire la malattia a una sostanza, generalmente di origine organica, che poi veniva seppellita e il male veniva
così neutralizzato dal potere della terra. Capitava così che per eliminare
una malattia, o per risanare una ferita, si usasse sfregare la parte affetta
con una fetta di mela, di patata o di qualche erba ritenuta curativa – e
tale rituale deve presumibilmente essere sorto per la casualità di aver
constatato dei miglioramenti per via di capacità disinfiammatorie di alcune piante utilizzate. Similmente, si faceva stendere il malato su zone
di terra fresca e smossa, e sono facilmente immaginabili le origini di tali
convinzioni: la terra era l’elemento dal quale l’uomo vedeva sbocciare
la vita; tutto ciò di cui l’uomo aveva bisogno per il suo sostentamento
spuntava dal terreno, sia il cibo sia le piante utilizzate per gli infusi e
le pozioni, e si credeva dunque che la terra possedesse forte vitalità e
che si potesse giovare delle sue vibrazioni positive e vitali entrando in
contatto con essa.
Per guarire e fortificare, o per compiere riti d’iniziazione, nell’antichità venivano praticati anche sotterramenti simbolici, analoghi all’immersione battesimale. L’idea era quella di rigenerarsi tramite il contatto con le forze della terra, morire a una forma di vita per rinascere in
un’altra.
Soprattutto in Oriente, vi era la tradizione di costruire le case intorno
ad alberi, e spesso la prima cosa che veniva fatta prima di edificare
un’abitazione era quella di piantare il seme di una pianta. Le popolazioni dell’Europa pagana che adoravano gli spiriti della natura solevano
affidare le proprie necessità e desideri al seme di un albero, che se accudito da germoglio a fusto, avrebbe reso il desiderio realtà. E, ancora, era
pratica ricorrente raccogliere in un fazzoletto verde della terra dov’erano stati precedentemente tracciati simboli magici e rune, e portarlo con
sé per protezione; similmente veniva fatto con delle bottiglie, poste in
seguito sui davanzali delle finestre, per impedire al male di entrare. E
la terra veniva gettata alle spalle dei bambini che giocavano, per evitare
che spiriti malvagi si insinuassero nei loro giochi (una tradizione che
ha probabilmente generato il rito superstizioso – giunto fino a noi – di
gettarsi alle spalle un pizzico di sale per scongiurare la malasorte). Nei
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tempi passati, si credeva in sostanza che la terra confondesse gli spiriti
malvagi e i demoni, e che essi fossero costretti a dover contare ogni
singolo granello di terra posto davanti a un’abitazione o attorno a un
essere umano, prima di poter penetrare nella casa o entrare in contatto
con la persona stessa.
La zolla e la donna sono spesso assimilate nella letteratura: solco seminato/aratura rimandano alla penetrazione sessuale, le messi al parto, il
lavoro agricolo all’atto generatore, la raccolta di frutti all’allattamento,
il vomere dell’aratro al fallo dell’uomo. Ecco quindi che anche alcune credenze sono strettamente legate a questo rapporto. In Africa così
come in Asia, si crede infatti che le donne sterili rischiano di rendere
sterile la terra familiare, e il marito per questo motivo le può ripudiare.
Le donne incinte se gettano i grani nei solchi arricchiscono i raccolti:
esse sono infatti sorgente di fecondità. «Le vostre donne – dice il Corano
– sono per voi come i campi» (11,233). E in un solco seminato, a primavera, Giasone si unì a Demetra (Odissea, V, 125).
Per gli Aztechi, la dea Terra ha due aspetti opposti: essa è la Madre
Nutritrice che ci permette di vivere con la sua vegetazione; ma reclama
anche i morti di cui si nutre, e in questo caso è distruttrice.
Presso i Maya, il glifo della terra è la dea Luna, regina dei cicli e della
fecondità. L’antica dea Maya – lunare e terrestre – ha una funzione primordiale: presiede alla nascita, alle origini di tutte le cose, all’inizio di
ogni manifestazione.
Per Giudei e Cristiani, la denominazione di “Terra Santa” si applica
alla Palestina; ma essa ha diversi omologhi anche in altre tradizioni,
dove riceve i nomi di: “Terra dei Santi”, “Terra dei Beati”, “Terra d’Immortalità”, eccetera. In tutti questi casi si tratta di centri spirituali che
corrispondono al Centro del Mondo proprio di ciascuna tradizione,
a sua volta riflesso del centro primordiale o del Paradiso terrestre. Si
possono quindi paragonare alla terra promessa ebraico-cristiana, ma
attraverso una ricerca di ordine spirituale, e alla Terra nera (Kemi) degli
Egizi.
La “Terra pura“ di Platone corrisponde a quello che noi immaginiamo
come Terra Santa. Nel caso dell’amidismo, la terra pura (in giapponese Jodo), detta dal monaco buddista Shinran “Terra di retribuzione”
(Hodo) è il paradiso occidentale di Amida (ossia, il Buddha celestiale
particolarmente venerato nell’amidismo), ed è – in definitiva – anche
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Rivista Thule Italia
una “Terra dei Beati”.
La terra non è poi estranea alle origini. Così quando un gruppo vuole
rigenerarsi spiritualmente pratica una sorta di “ritorno verso la terra
natale”. Da qui la tradizione dei vari pellegrinaggi nei “luoghi sacri”.
Con il suo carattere sacro e materno, la terra interviene spesso nelle
varie società come “garante dei giuramenti”. Poiché il giuramento è il
legame vitale del gruppo, la terra è madre e nutrice di ogni società.
L’irlandese possiede, così come il latino, due parole per designare la
terra: “talamh” – che corrisponde a “tellus” e indica la terra in quanto
elemento contrapposto all’aria e all’acqua – e “tir” – ossia “terra”, che la
indica quale espressione geografica. Il druido aveva potere anche sulla
terra-elemento: prima della battaglia di Mag Tured, un druido dei Tuatha Dé Danann promette a Lug che getterà una montagna sui Fomori e
che metterà al suo servizio le prime dodici montagne d’Irlanda. Nella
mitologia irlandese, la terra è personificata da Tailtiu non come donna,
ma come nutrice di Lug, il dio celtico della luce, che veniva chiamato
“dio delle mille arti” e la cui festa ricorre il 1° agosto.
La terra fa anche parte dei garanti del giuramento celtico, che si può
paragonare al giuramento dell’angelo Ammaele a Iside: «Te lo giuro
per il cielo, la terra, la luce e le tenebre, te lo giuro per il fuoco, l’acqua,
l’aria e la terra, giuro per l’altezza del cielo, per la profondità della terra
e del Tartaro; te lo giuro per Ermes, per Anubis, per gli ululati di Kerkoros, per il serpente che custodisce il tempio; te lo giuro per la zattera
e il nocchiero di Acheronte; te lo giuro per le tre Necessità, per i Flagelli
e per la Spada». (Collection des Anciens Alchimistes Grecs, I, Parigi, 1887,
29-30).
Riti e miti della terra
La terra è madre che accoglie, dalla quale si spera di ritornare e della
quale si porta nel cuore sempre quel qualcosa che fa sospirare di malinconia quando si è lontani. La terra è quindi anche simbolo di affetto
culturale e di radici in senso lato. Non per niente si tende a parlare di
“Albero genealogico” quando si ricostruisce la storia di una famiglia.
E fin dagli albori per le varie genti la terra accoglie dentro sé il profondo significato della fertilità; un aspetto facilmente comprensibile,
La terra
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dato che il cibo prodotto dai campi è il sostentamento base su cui tutti
i popoli di cultura agreste hanno basato il loro benessere. Un raccolto disastroso avrebbe causato con facilità una carestia. E l’abbondanza
delle messi andava propiziata. La fertilizzazione del terreno, in qualsiasi modo essa potesse essere invocata, era quindi un rito fondamentale
nelle liturgie di origine agreste. Troviamo infatti moltissimi rituali portati a favorire la fertilità mediante offerte di ogni tipo, prima tra tutte
quella del sangue, ma anche del latte o del miele.
Nel mito celtico, la festa rituale di Imbolc, che cadeva tradizionalmente il 1º febbraio, nel punto mediano tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera (anche se la celebrazione iniziava al tramonto del
giorno precedente, in quanto il calendario celtico faceva iniziare il giorno appunto dal tramonto del sole), è strettamente legata all’elemento
terra. Il termine in lingua gaelica significa “Nel grembo”, e si riferisce al
risveglio della primavera dopo il lungo e freddo inverno. Nel grembo,
il seme che ha atteso al caldo sotto lo strato di neve finalmente germina
e sboccia, dando vita a un nuovo ciclo.
Ma i riti per la fertilità dei campi si ritrovano anche in età contemporanea: lo stesso rituale dei fuochi di Beltane a inizio maggio – con i falò
accesi in cima ai colli attraverso cui far passare il bestiame del villaggio
per purificarlo e in segno di buon augurio, e il salto propiziatorio sul
fuoco di uomini e donne –, il palo di maggio e la corona di fiori, oppure
le figure antropomorfe costruite con il grano che vengono intrecciate a
Lughnasadh – la festa gaelica del 1° agosto, che celebra il raccolto e il
pane, e che ricorda il sacrificio (sotto forma di grano) del dio Lug, il dio
della luce: nel suo ciclo di morte (per dare nutrimento alla popolazione)
e di rinascita – sono tutti sacrifici propiziatori per la fertilità dei campi.
Nel Medioevo appaiono poi anche le curiose figure dei “ben andanti”:
ossia, persone nate con il sacco amniotico sopra il volto (i cosiddetti
“nati con la camicia”) che sostenevano in particolari giorni dell’anno
di recarsi nottetempo nei campi aperti, armati di mazze di finocchio, a
lottare contro misteriosi stregoni. Il tutto per salvare il raccolto dell’anno in entrata. Questo fenomeno è tipico delle zone del Friuli Venezia
Giulia, ma sotto altri nomi si possono trovare figure simili anche in altre
parti d’Europa.
La fertilità è dunque uno degli aspetti fondamentali dell’elemento terra, soprattutto in un mondo dove un raccolto povero poteva significare la morte per centinaia di persone. Il simbolismo stesso della morte
creato nel Medioevo – ossia, lo scheletro con la falce – ha chiare origini
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di tipo agreste. La falce è quella utilizzata per mietere il grano, e la
cupa morte diventa allora “la mietitrice”. Ma la stessa morte è legata
a doppio filo con l’elemento terra. La terra è infatti colei che dà e colei
che prende. Essa dispensa nutrimento con una mano, ma prende la vita
con l’altra. Non a caso l’oscurità e il buio degli Inferi sono stati sempre
collegati a luoghi sotterranei.
Publio Virgilio Marone, nel sesto libro dell’Eneide, racconta il viaggio
che fece Enea nel regno degli Inferi. Virgilio ci parla di un enorme olmo
sotto le cui foglie sono gettati i sogni fallaci. Infatti, i miti greci parlano
degli Inferi come di un luogo sotterraneo dove soltanto i morti (e alcuni
simbolici eroi) possono accedere.
E uno dei miti più vicini e strettamente legati alla terra è quello di Ade
e Persefone. La giovane Kore, figlia di Demetra, dea del raccolto, stava
cogliendo dei fiori nei pressi di Enna, nel mezzo della Sicilia, assieme
ad alcune ninfe, quando vide correre verso di sé la figura imperiosa e
inquietante del dio degli Inferi Ade, che, stanco dell’oscurità del proprio regno sotterraneo, aveva deciso di aggirarsi alla luce del sole. A
nulla valse la fuga di Kore; le braccia d’acciaio del dio la afferrarono
subito e la inchiodarono sulla biga trainata da cavalli di fuoco. Soltanto
una delle ninfe si oppose e tentò di difendere la compagna, cercando di
frenare i cavalli: Ciane, che per questo affronto fu trasformata da Ade
in una fonte che tuttora fornisce l’acqua al territorio di Siracusa. Dopo
la scomparsa della figlia, Demetra, dilaniata dal dolore, si aggirò per il
mondo alla ricerca della giovane perduta. Cercò la figlia per nove giorni e nove notti, vagando senza tregua fino ai confini del mondo. Solo il
decimo giorno Ecate, la dea della Notte, impietosita, rivelò a Demetra
di aver assistito al rapimento della giovane Kore, ora divenuta Persefone regina degli Inferi. Demetra andò allora da Elios, il dio del Sole, che
le rivelò la complicità di Zeus, il padre degli dèi e dio del Cielo, nel rapimento della giovane ragazza. Essendo la dea della fertilità e dell’agricoltura, Demetra reagì disperata all’inganno e alla conseguente perdita
della figlia, rendendo la terra sterile e infruttuosa. Le persone e gli animali morirono come mosche. A niente valsero le suppliche e i sacrifici
degli uomini: Demetra era irremovibile. Zeus così, per scongiurare la
carestia e l’estinzione della razza umana, decise di intervenire e inviò
Hermes a intercedere per la liberazione di Kore, una richiesta alla quale
Ade non si poté opporre. Lasciando andare la sposa, il dio le chiese
però di non mangiare nulla, dandole nel contempo un melograno tra le
La terra
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mani. Uscendo la ragazza – ignara del fatto che chi mangia i frutti negli
inferi è costretto a rimanervi per l’eternità – violò il patto, nutrendosi
di sei semi del frutto donatole. Ade, con l’inganno, aveva quindi legato
per sempre a sé Persefone. Con l’ulteriore mediazione di Zeus, si giunse però a un accordo: visto che Kore/Persefone non aveva mangiato un
frutto intero, sarebbe rimasta nell‘Oltretomba soltanto per un numero
di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell’anno. Così Persefone avrebbe vissuto
sei mesi con il marito negli Inferi e sei mesi con la madre sulla Terra.
Demetra, da allora, accoglie
con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra,
facendo rifiorire la natura
in primavera e in estate.
Un altro aspetto della
terra è la ricchezza celata,
misteriosa e segreta. Nelle
sue viscere, infatti, prendono forma le gemme e nelle
sue profondità risiedono le
vene di minerale prezioso.
Per non parlare poi del petrolio, il sangue nero della
terra, che nel mondo attuaTeseo e il Minotauro (1826), di Étienne-Jules Ramey
le è la più grande fonte di
(Giardino delle Tuileries, Parigi).
guadagno su larga scala
che l’umanità abbia mai conosciuto. La terra trattiene quindi dentro il suo grembo tesori inestimabili. E, infatti, è proprio nella terra che in genere ci si sente più al sicuro
nasconderli. Era nella terra che venivano sepolti i forzieri, e nella terra
venivano scavate le tombe, nascosti i tesori in antichità.
Nella favola Alì Babà e i Quaranta Ladroni, contenuta nelle Mille e una
Notte, si narra di una grotta segreta dove era possibile accedere solo
mediante una parola d’ordine e dove i malvagi ladroni depositavano il
loro inestimabile bottino. Ecco che l’elemento terra qui prende di nuovo il sopravvento come “grembo che accoglie tesori” e che mantiene il
segreto degli stessi. Infatti, non era possibile accedere al tesoro se non
se ne conosceva la parola d’ordine. Ma anche nella favola di Aladino e
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la lampada incantata, sempre tratta da Le Mille e una Notte, il mago spalanca con la magia una caverna che dà nel sottosuolo, dove risiede un
tesoro di origini misteriose e nel quale invita Aladino a entrare a patto
di non toccare nulla, poiché desidera che lui gli porti soltanto la vecchia
lampada magica.
La terra può non solo contenere tesori ma può anche custodire segreti
e misteri, come il labirinto fatto costruire da Minosse, dove il Minotauro era confinato. Il mito narra che mentre Europa, figlia di Fenice
e di Telefassa, era intenta a giocare con le sue ancelle, le apparve un
torello candido come la neve che altri non era che Zeus. Questi, dopo
averla fatta montare sulla sua groppa, la portò a Creta dove si unì a lei
e poco dopo da questa unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone. Quando Zeus lasciò Europa, quest’ultima sposò Asterione, re di
Creta e, poiché le loro nozze si rivelarono sterili, Asterione adottò i tre
figli di Europa e li nominò suoi eredi legittimi. Alla morte di Asterione, Minosse rivendicò per sé il trono di Creta, dichiarando che quello
era il volere degli dèi, e per essere certo di riuscire nell’impresa pregò
Poseidone di fare uscire qualcosa dalle acque del mare con la promessa
di offrirlo poi in sacrificio al dio a testimonianza del volere degli dèi.
Ma Minosse non rispettò i patti e così il dio del mari, infuriato, lo punì,
instillando in Pasifae, la regina sua moglie, una passione sfrenata per il
toro bianco. Confessata questa sua morbosa attrazione a Dedalo, il famoso architetto in esilio da Atene, questi la assecondò, costruendo per
lei una vacca di legno cava ricoperta da una pelle bovina, entro la quale
la regina poteva introdursi per soddisfare il suo appetito. Dall’unione
dei due venne generato il Minotauro, una creatura metà uomo e metà
toro. Minosse, esterrefatto, ordinò a Dedalo di costruire un profondo labirinto al centro del quale fu confinato il mostro. Ogni anno, sette vergini e sette fanciulli venivano introdotti all’interno del labirinto, affinché
potessero fungere da sacrificio alla creatura. Al terzo anno, durante la
ricorrenza dei sacrifici, Teseo, re di Atene, giunse a Creta per fermare quest’orrenda tradizione, spacciandosi per uno dei fanciulli destinati al pasto del mostro. S’innamorò però della figlia del re Minosse,
Arianna, la quale, venuta a conoscenza dei suoi propositi nei riguardi
dell’uccisione del Minotauro, consultò Dedalo per aiutarlo. Il problema, infatti, non era solo l’uccisione in se stessa, quanto uscire vivi dalle
profondità dell’opera dell’architetto ateniese. Dedalo consigliò quindi
alla principessa di donare un rocchetto di filo al giovane, così che po-
La terra
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tesse srotolarlo mentre si aggirava nel labirinto per poter ritrovare la
strada verso l’uscita. Il labirinto di Cnosso, infatti, si snodava come un
budello contorto dal quale il nobile Teseo non poteva sperare di uscire
se non fosse stato per l’intelligente trovata di Dedalo. Una volta ucciso
il mostro, riarrotolando il rocchetto riuscì così a riguadagnare l’uscita.
Un viaggio – quello di Teseo all’interno del labirinto scavato nelle profondità di Cnosso – che è chiaramente di tipo iniziatico e che riconduce
all’esplorazione dei misteri della superbia umana, nel momento in cui
decide di sfidare gli dèi.
La terra è quindi mistero, oltre che viaggio e ricchezza. Il mistero delle
profondità, dei vulcani, fonti di distruzione, dei terremoti, delle voragini che si aprono fagocitando in sé tutto ciò che capita. Lo si vede bene
in Viaggio al centro della Terra di Jules Verne, che narra di una spedizione
basata sul ritrovamento di una pergamena in caratteri runici con un codice cifrato scritta da un alchimista danese del XVI secolo, tal Arne Saknussemm. Il viaggio conduce il professor Otto Lidenbrock e il nipote
Axel (lo scopritore della pergamena), insieme a una guida assunta per il
caso, fino al centro stesso della terra, e lì incontreranno dinosauri e altre
creature misteriose e fantastiche. Nel romanzo, Verne cerca di svelare il
mistero che condiziona gli scienziati di tutto il mondo: l’ipotesi di che
cosa possa risiedere al centro della terra. E il cuore stesso è infine lo
scranno dove siede l’anima ancestrale del nostro pianeta: Gaia.
E la terra, nel suo misterioso “dare quando lo desidera”, si ritrova
nelle stesse rune. Che per i popoli del Nord non erano soltanto un alfabeto, ma anche un metodo divinatorio e un mezzo di comunicazione
con gli dèi. E che derivano dagli stessi dèi. Per acquisire la saggezza,
Odino viaggiò infatti fino ai confini estremi del mondo, dove sorgeva il
frassino Yggdrasill, l’albero della vita che sostiene tra i suoi rami i nove
mondi. Ma prima di poter accedere ai misteri e alla conoscenza detenuta da Yggdrasill, Odino dovette sottoporsi ad alcune prove, fra le quali
abbeverarsi dalla fonte che scaturiva dalle radici stesse dell’Albero della Vita: Mímisbrunnr, nota anche come la “fonte della Saggezza”; e per
poterlo fare fu costretto a sacrificare un occhio. Poi, feritosi con la sua
lancia, Odino dovette restare impiccato a testa in giù all’albero per nove
giorni e nove notti, fino al momento in cui gli giunse infine in dono la
Saggezza nella forma delle rune, donate in seguito dal dio agli uomini.
La connessione tra la terra e le rune è dovuta al fatto che per tradizione
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Rivista Thule Italia
esse devono essere incise nella corteccia o nella pietra, ossia in alcuni
elementi tradizionalmente correlati alla “Grande Madre”.
A Demetra Eleusinia
«Dea, madre di tutto, demone dai molti nomi,
augusta Demetra, che nutri i fanciulli, dispensatrice di felicità,
dea che doni la ricchezza, nutri le spighe, tutto doni,
che ti allieti della pace e dei lavori dalle molte fatiche,
protettrice della semina, accumulatrice di spighe, custode dell’aia, dai
frutti verdeggianti,
che abiti nelle sante valli di Eleusi,
desiderabile, amabile, nutrice di tutti i mortali,
che per prima aggiogasti all’aratro i buoi muscolosi
e ai mortali mandi la desiderabile vita molto felice,
che favorisci la vegetazione, vivi con Bromio, splendidamente onorata,
portatrice di fiaccola, santa, ti allieti delle falci estive,
tu ctonia, tu che appari, tu favorevole a tutti;
dalla bella prole, amante dei bambini, augusta, fanciulla che nutri i fanciulli,
che hai attaccato il carro imbrigliando draghi
gridando evoè intorno al tuo trono con volute circolari,
unigenita, dea dalla molta prole, venerabilissima per i mortali,
che hai molte forme di sacre fronde e ricche di fiori.
Vieni, beata, santa, carica di frutti estivi,
portando Pace e l’amabile Legalità
e ricchezza che fa felici e insieme Salute sovrana».
(Inno Orfico n. XL, da Inni Orfici, ed. Lorenzo Valla)
La materialità del reale
di Pasquale Piraino
La terra è insieme all’aria l’elemento di più facile ricognizione, ma a
differenza di quest’ultima (eterea e impalpabile) presenta delle caratteristiche facilmente avvertibili dai sensi corporei. Tra tutti gli elementi
la terra è probabilmente quello più connesso alle riflessioni materiali:
basta prestare orecchio a quella fonte di conoscenza che sono i detti popolari — a volte riflesso della sapienza vera e propria — per rendersene
conto: si pensi all’espressione “stare con i piedi a terra”, più che indicativa dell’attitudine a considerare strettamente ciò che i sensi sentono,
frenando la propensione alla riflessione verso quanto sta oltre le pure
informazioni captate senza fantasticare su lontani mondi sconosciuti
“iperuranici” . Se riflettiamo sull’origine dell’uomo narrata nell’Antico
Testamento notiamo che Dio donò all’essere umano due nature: una materiale e l’altra spirituale. La seconda costituita dallo spirito divino che
Dio infuse tramite il suo soffio per animare la seconda metà dell’uomo:
il corpo. Mentre quest’ultimo, strumento primo tramite il quale è dato
all’uomo il potere di conoscere e di osservare tutto il piano fisico della realtà, fu ottenuto — sempre secondo la fonte veterotestamentaria
— impastando proprio della terra. Nella visione fornita dalla Genesi,
il corpo umano è, quindi, quanto di più materiale esista, poiché nato
dalla stessa terra che con i suoi grani è simbolo di tutto quell’insieme di
particelle e corpuscoli che uniti formano il reale. Pertanto, seppur nella
visione giudaica la caratteristica materiale dell’uomo viene a incarnarsi
proprio nel corpo, il quale è fatto della stessa materia di tutto il creato,
bisogna stare bene attenti a trarre le giuste conclusioni dopo la lettura di certe analisi, visto che la componente materiale rappresenta solo
una parte della diade, essendo l’altra costituita proprio dalla dimensione spirituale che lungi dall’essere accessoria è invece un dono che
Dio elargisce all’uomo per renderlo “a sua immagine e somiglianza”
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Rivista Thule Italia
ovvero a sé eguale, un essere in potenza del tutto pari al Dio creatore.
Eppure, in quel particolarissimo testo che è la Genesi, Dio, poco dopo
aver creato Adamo — un essere a sé eguale — lo bandisce dall’Eden, in
seguito al noto Peccato originale, enunciando a lui e alla sua compagna
Eva la nota maledizione: “Polvere siete e polvere ritornerete”, negando
quindi all’Uomo ogni possibile immortalità e condannandolo, di fatto,
a disgregarsi interamente come la materia della quale è formato. Non si
vuole qui trattare dei contrasti ideologici presenti nel Vecchio Testamento, testo sicuramente problematico da analizzare visti i rimaneggiamenti che ha subito nel corso dei secoli e i macroscopici errori di traduzione dall’ebraico, verso i quali oggi nessun Papa evidentemente risulta
interessato a far luce, ma bisogna però sottolineare che sarà Cristo a
riportare una visione equilibrata all’interno della dottrina schizofrenica e peccaminosa ebraica che bandisce come impura ogni aspirazione
verso la materialità dei sensi. In particolare egli ridarà piena dignità
alla componente fisica umana identificando la natura dell’uomo come
un’intima unione di corpo e spirito, perfettamente armonizzati tra loro
al punto che, nella visione escatologica che egli fornisce, alla fine dei
tempi i corpi, anche quelli decomposti, risorgeranno in gloria e splendore, potenziati in tutte le loro capacità, tornando in unione con le rispettive anime: in Luca, 20, 34-36 viene chiaramente detto che i corpi
“nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli”.
La visione giudaica e quella cristiana non risultando comunque esaustive di tutto il panorama dei miti relativi alla creazione dell’uomo,
presentano delle costanti rilevabili anche in contesti culturali geograficamente molto distanti da quelli medio orientali. Analizziamo, per
esempio, il mito norreno: nell’Edda l’uomo e la donna primordiali sono
creati da una triade divina. Come nel caso visto precedentemente, la
natura strettamente corporea dell’essere umano nasce non solo dalla
stessa materia di cui consiste la terra, ma addirittura risulta figlia del
terreno stricto sensu: gli dei infatti creano i corpi umani servendosi dei
tronchi di due alberi, il frassino (che darà corporeità al primo uomo) e
l’ontano (che invece formerà la prima donna). Nel mito norreno quindi la parentela tra la componente materiale dell’uomo e la terra è per
certi versi meno diretta che nell’Antico Testamento, ma non per questo
meno forte, visto che l’albero può svilupparsi solo se affonda le sue
radici in un confortevole terreno. Mentre nella Bibbia viene fornita una
visione fisica che rende l’uomo pari alla terra, poiché fatto con essa,
l’Edda fornisce un quadro diverso, indicando il corpo dell’uomo come
La terra
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qualcosa che si è generato dal grembo della terra (quasi come un seme
che prima di germogliare va sepolto nel terreno) e quindi non parte
di qualcosa di inanimato, ma figlio di un essere capace già da solo di
creare la vita, anche se non propriamente senziente. Similmente al Dio
giudaico, la triade norrena fornirà al corpo dell’uomo dei doni grazie ai
quali risulterà differenziato dal restante regno animale, strumenti che
egli userà per compiere l’opera divina di studio e manipolazione del
mondo. Tutti e tre, allo stesso modo del Dio degli ebrei, soffiano la vita
nei due tronchi: Odino dona lo spirito, Hoenir l’anima e Lodur il calore
vitale, inteso non solo come il calore fisico, ma come la capacità posseduta da un cuore capace di ascoltare la voce delle altre anime. Si vuole
inoltre qui riportare la versione di Snorri secondo la quale fu la triade
composta da Odino, Vili e Vé a creare l’uomo dopo avere smembrato il
gigante Ymir e ordinato l’universo. In particolare Odino donò all’uomo
lo spirito e la vita, Vili la saggezza, il movimento e la parola mentre Vé
la forma e i sensi fisici. Al di là delle leggere differenze il lettore noterà,
tuttavia, la stretta concordanza che lega le due versioni del mito: se la
componente divina passa tramite il soffio e la voce, simboli dell’aria
(elemento in qualche modo antagonista alla terra), quella umana viene generata a partire dalla materia e la terra che, pertanto, non è solo
madre del corpo, ma anche simbolo della natura prettamente animale
a questo collegata.
Questo collegamento tra la terra e l’essenza materiale dell’uomo permane anche nel mito greco secondo cui la creazione dei primi esseri
umani è attribuita non più a un Dio, ma a un titano — Prometeo —,
figura antagonista degli dèi olimpici. I titani rappresentano probabilmente l’incarnazione di tutta una serie di credenze religiose a base naturalista che esisteva nell’antica Grecia in un tempo precedente all’instaurarsi del culto degli dèi olimpici. L’antagonismo tra queste due
forme di culti, quello naturalista e quello antropomorfo, è testimoniato
in chiave simbolica nella Titanomachia, ovvero la guerra tra gli dèi e i
titani, alla fine della quale quest’ultimi vennero confinati da Zeus nel
Tartaro, il baratro più profondo dell’oltretomba, condannati a eterni
supplizi. All’interno del vastissimo panorama mitologico greco si possono enumerare svariate figure di titani, ma si può dire — senza tema
di smentita — che l’essenza di ogni titano va ricollegata a una specifica
forza naturale che esso incarna. In particolare queste protodeità rappresentano le forze primordiali libere della natura nella loro essenza
più caotica: non a caso è Zeus che dopo la sconfitta dei titani imbriglia
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Rivista Thule Italia
queste forze, dando forma e ordine al mondo che prima era caos in costante mutamento. Quindi, mentre le divinità olimpiche rappresentano
forze ordinatrici (basti pensare ad Helios, che conducendo regolarmente il carro del Sole nel cielo scandisce i ritmi del giorno), i titani sono il
simbolo delle forze primigenie e dello stato del mondo naturale prima
che a questo fosse impresso un ordine. Alla luce di quanto detto, risulta perciò interessante che la creazione dell’uomo non sia avvenuta per
mano di un dio, ma di un titano, Prometeo. Ancora una volta egli dà
forma al corpo dell’uomo impastando il fango: ritorna — quindi, prepotentemente — il tema già prima accennato dello stretto legame tra la
terra e la componente materiale dell’uomo; nel mito greco però vi è un
quid in più, rappresentato dal fatto che non è un dio ordinatore, come
quello della Genesi, a creare il corpo, ma un essere superumano: il corpo
dell’uomo, pertanto, non è più visto solo come un legame con la terra e
il mondo sensibile della natura, ma addirittura come la casa di tutte le
componenti più arcaiche della natura che rendono l’uomo una fiera tra
le fiere. Laddove il mito giudaico e quello norreno indicano sic et simpliciter una matrice di provenienza dal mondo naturale, il mito greco,
tramite la mano plasmatrice del titano Prometeo, fornisce un quadro
più completo che spiega la provenienza di tutte le caratteristiche che,
piaccia o meno, rendono l’uomo l’animale più pericoloso dell’ecosistema terracqueo: desiderio di dominio, aspirazione alla sottomissione dell’altro e volontà plasmatrice. Tutto ciò che è collegato alla sfera
istintuale trova spiegazione nel collegamento tra il carattere umano e le
componenti titaniche del cosmo. Ma il titano non riuscì comunque ad
animare l’uomo prima di infondergli il fuoco divino: ecco allora venir
rimarcato, ancora una volta, lo stretto collegamento tra le due componenti dell’uomo, quella naturale-animale e quella spirituale-divina, che
fa da contraltare alla prima e permette di trasmutare le forze caotiche
dell’istinto in capacità e abilità messe al servizio dell’intelletto, secondo un meccanismo per nulla dissimile dalla sublimazione psicanalitica.
Quindi, il mito greco, pur riconoscendo e dando base ontologica a tutte
le caratteristiche più “animali” che coabitano nell’animo umano, rimarca il fatto che l’essere creato non poteva vivere senza essere bilanciato
dalle componenti opposte a quelle titaniche, rappresentate dal fuoco
degli dèi olimpici, incarnanti le forze ordinatrici presenti in quel medesimo animo umano.
Molto più complicati da analizzare risultano i miti indù. Di fatto, l’immensa mole di testi filosofici e religiosi porta a un’apparente suprema-
La terra
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zia della componente spirituale sopra quella materiale e la componente
umana legata alla terra, l’elemento simbolo del mondo che possiamo
conoscere tramite i sensi corporei, rappresenta un ostacolo al pieno sviluppo delle capacità umane. Tutto il mondo naturale viene riconosciuto come saṃsāra, l’oceano delle esistenze delle vite materiali imperniate sulla sofferenza. Ciò che l’uomo può conoscere con le sue capacità
sensoriali corporee è quindi il velo di Maya, una finta conoscenza che
distorce e rende incomprensibile quella vera: un velo appunto posto sopra la vera essenza delle cose per nasconderle alla vista. Appare che in
nessun altro mito, come in quello indù, il mondo fisico risulti tanto svilito, venendo rappresentato quasi come una scoria della creazione. In
realtà, a ben vedere, questi concetti si manifestano come estremamente
fallaci, giacché il mondo terreno, naturale, ha sì una valenza negativa,
ma rappresenta l’ambiente in cui ogni uomo è chiamato a sviluppare
la propria essenza spirituale, una vera e propria palestra nella quale
ogni essere deve migliorare sé stesso tramite lo sforzo e la sofferenza.
Quindi, se da una parte i miti indù disconoscono il valore positivo della
diade spirito-materia, dall’altra tuttavia la ritengono un elemento essenziale al fine della corretta crescita dello spirito dell’uomo, più di un
mero ambiente dove espiare i propri mali.
Quanto scritto fa quindi capire che l’elemento terreno, fisiologicamente simbolico della componente materiale dell’uomo, non implica
nulla di materialistico, trovando invece piena realizzazione tramite la
riunione al suo opposto spirituale. Nel presente scritto analizzeremo
alcuni dei valori simbolici della terra proprio a partire dal suo stretto
collegamento con le filosofie più materiali che per prime hanno cercato
di liberare l’uomo dalle catene di dèi dispotici in nome del ritorno ai
sani valori terreni e naturali, quindi guarderemo a questo simbolo nelle
sue valenze più condizionatrici e vincolanti per la vita umana, non prima però di aver trattato della valenza simbolica che ha ricoperto nella
letteratura tardo romantica la terra vista come madre dell’uomo. Infine,
daremo qualche accenno alle energie che il nostro pianeta ci dona ogni
giorno.
L’elemento terra risulta strettamente collegato alla natura. Non sono
mancate, nel corso dello sviluppo storico e sociale dell’umanità, correnti culturali che hanno dipinto quest’ultima come una madre amorevole
per l’uomo, un rifugio sempre disponibile per chi vuole evadere dalla
civiltà, un regno nel quale poter ritrovare i ritmi appunto “naturali”
che venivano seguiti dall’uomo prima dell’organizzazione sociale in
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Rivista Thule Italia
centri abitativi sempre più grandi. La natura quindi (insieme alla terra
per via ancora più astratta) rappresentava l’insieme dei valori salutari
e primordiali dell’umanità, la madre dalla quale il bambino apprende
dapprima la sua identità culturale per poi, in seguito, durante la sua
crescita morale, creare la propria. Eppure, parallelamente a tale visione
ideale, la terra ha sempre rappresentato anche un aspetto più materiale teso a indirizzare lo sguardo dell’uomo verso la sfera dei valori
riguardanti la vita pratica, emancipandolo da ogni pensiero metafisico e ultraterreno. È come se l’attaccamento al mondo naturale abbia
portato l’uomo ad allontanarsi dalla sfera divina, facendo degenerare
la sfera materiale in materialista. I primi
sviluppi di questa caratteristica del pensiero umano sono rintracciabili nel panorama filosofico greco che costituisce la
base del pensiero occidentale. Trattando
di terra e di materialismo, non possiamo
non volgere lo sguardo al pensiero di
Epicuro, la cui base filosofica è costituita
dalla dottrina atomista elaborata da un
altro filosofo greco, Democrito. Secondo
tale corrente filosofica la base fondante
della realtà è da ricercarsi nell’atomo,
dal greco ἄτομος - àtomos -, indivisibile. Per il pensatore greco tutta la realtà
era costituita, in ultima analisi, da particelle prime indistruttibili che si muovevano nel vuoto, la cui alternanza tra
azioni di aggregazione e di disfacimento
creava tutto il mondo, uomo compreso.
Democrito non era andato troppo lonEpicuro, copia romana dall’oritano dalla realtà scientifica, poiché oggi
ginale greco, presso il British
Museum di Londra.
è ormai nota la struttura atomica della
materia. D’altronde, porgendo lo sguardo al mondo naturale, abilità nella quale
l’uomo greco era ineguagliabile, non si può non notare come tutto sia
riconducibile a minuscole particelle: la stessa terra sulla quale l’uomo
cammina altro non è che il risultato di un’erosione, durata millenni,
di grandi rocce ridotte adesso in minuscoli grani. Da qui, pertanto, lo
stretto collegamento tra l’atomismo e la terra, visto che qualsiasi terre-
La terra
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no, osservato da vicino, altro non è che un insieme di minuscoli granelli
di polvere, che legandosi tra loro e impastandosi, creano conglomerati
più grossi, che a loro volta si legano tra loro, creando aggregati sempre
più grandi. La posizione atomista portò Democrito a immaginare un
universo formato da soli atomi che seguivano le leggi del moto descritte
dalla fisica, quindi già in questo pensatore si manifestava la prima vena
materialista, arrivando egli a negare finanche l’umano libero arbitrio: se
l’uomo è fatto da atomi che si muovono secondo leggi meccanicistiche,
allora l’unica azione possibile è quella di seguire i binari tracciati da
dette leggi. La strada tracciata da Democrito, qui brevemente riassunta,
è quella che sarà seguita e ampliata da Epicuro.
Epicuro nacque nel 342 a.C. a Samo, poco dopo la morte di Platone. Il
suo nome in greco significa “soccorritore” e gli venne imposto in onore
al dio Apollo. Già giovanissimo, a soli quattordici anni, iniziò lo studio
della filosofia: i suoi esordi risalgono ai primi rapporti con i platonici, in particolare con Panfilo, ma già pochi anni dopo si registra il suo
avvicinamento alla scuola di pensiero di Democrito tramite il maestro
Nausifane. Nel 306 a.C. si trasferì ad Atene, dove fondò la propria scuola chiamata “Giardino” (Képos in greco), che fungeva per lui anche da
casa. In realtà la scelta di Atene non fu casuale: lì Epicuro aveva svolto
il servizio militare obbligatorio (l’efebato) e suo padre era un vecchio
colono ateniese inviato a Samo, quindi Epicuro, pur essendo nativo colono, era un cittadino ateniese a tutti gli effetti. Inoltre a Samo si scatenò
una rivolta che spinse i vecchi cittadini a esiliare i coloni ateniesi: così
Epicuro fu costretto a ripiegare sulla vecchia patria paterna e tornò ad
Atene. Le testimonianze del tempo, riconducibili agli scritti di Diogene
Laerzio e di Tito Lucrezio Caro, attestano l’estrema apertura che contraddistinse la scuola di Epicuro. Di fatto egli pensò il suo sistema filosofico come una cura a tutti i mali che affliggono la vita dell’uomo e rese
disponibili le sue lezioni a chiunque fosse interessato alla conoscenza
del suo sapere, persino agli schiavi. Nel Giardino, infatti, egli non solo
insegnava la sua dottrina, ma viveva insieme a uomini e donne di ogni
censo: questa sua estrema apertura mentale viene giustificata dal fatto
che egli fu tra i primi filosofi a ideare un principio di egualitarismo tra
gli uomini. Nel Giardino insegnò e visse per tutta la sua vita sino al
270 a.C., anno in cui morì — all’età di settantadue anni — a causa delle
complicanze causate dai calcoli renali.
Il compito che Epicuro si pose, animante tutta la sua filosofia, era costituito dall’indicare all’uomo una via che lo allontanasse dall’infelici-
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Rivista Thule Italia
tà: egli pensava pertanto alla sua filosofia come a una cura necessaria
per liberare l’uomo dal male. Da qui proviene la denominazione “quadrifarmaco” ovvero cura per i quattro mali, che lui intendeva attuare dimostrando che “non sono da temere gli dèi, non è cosa di cui si
debba stare in sospetto la morte; il bene è facile da procurarsi; facile a
tollerarsi è il male”. La filosofia di Epicuro è, quindi, tutta incentrata
primariamente sullo studio della Natura e secondo poi alla liberazione
dell’uomo da ogni preoccupante prospettiva ultraterrena, indirizzando il suo sguardo verso la vita terrestre e liberandolo dalla morsa di
despoti del cielo che ne tengono l’animo in ostaggio. Il suo pensiero
è notevole soprattutto perché risulta rappresentare il primo tentativo
atto a svincolare l’uomo dalle pesanti catene del metafisico — in nome
di un ritorno alla frugalità del vivere comune —, il tutto rimarcando
fortemente l’impossibilità per l’uomo della vita immortale e sottolineandone la sua mortalità: in tal senso egli allora può pienamente essere
definito un materialista.
Epicuro muove i primi passi del suo pensiero da tesi che ricordano la
filosofia di Parmenide. Non analizzeremo il pensiero di questo filosofo,
ma possiamo enunciare ciò che da Epicuro ne venne assorbito: in particolare, secondo il nostro filosofo, nulla deriva dal nulla e nulla può dissolversi nel nulla. Questi presupposti rappresentano il noto principio
fisico che vieta la creazione e la distruzione dell’energia: in questo mondo siamo incapaci di creare o distruggere la materia (che altro non è che
energia condensata o lenta), ma possiamo solo trasformarne la forma.
È sempre interessante notare che laddove oggi sussiste la presenza di
individui davvero geniali che enunciano la possibilità di creare energia
a costo zero, l’uomo greco già millenni fa conosceva il più grande limite
posto alla capacità creativa umana. Da queste due premesse Epicuro
fa discendere la seguente conclusione: ovvero, poiché dal nulla non si
può generare niente e, inoltre, niente può essere dissolto sino a scomparire nel nulla, allora sicuramente l’essere è eterno. Questa è una vera
e propria dimostrazione per assurdo che implica come assunzione che
se il nulla non può esistere, allora solo l’essere è presente nell’universo
conoscibile. Cosa si intenda per “essere” va oltre i compiti del presente
scritto, ma basti sapere che la scienza dell’essere, l’ontologia, rappresenta una branca a sé del sapere filosofico. Possiamo però chiarire cosa
rappresenti l’essere per Epicuro: egli sostiene sia il pensiero di Talete,
che distingueva tra essenza e sostanza, sia le riflessioni di Eraclito sul
divenire, ma arriva a fondere insieme questi concetti, pensando che è
La terra
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indubbiamente vero che il mutamento è il meccanismo alla base della
realtà e che questo si esplica nella generazione e nella corruzione ovvero nell’eterno alternarsi di vita e morte, ma essendo impossibile creare
dal nulla, quindi passare dal nulla all’essere, deve esistere qualcosa che
permane sempre immutato, capace di attraversare tutti i cambiamenti senza mai modificarsi: secondo Epicuro questo qualcosa è proprio
l’essere, che può considerarsi come ciò che è sempre esistito e sempre
esisterà.
Il filosofo passa poi all’osservazione dei corpi e, in particolare, egli
nota come questi siano in continuo movimento, mai troppo a lungo
fermi in un dato luogo. Egli pensa che, non potendo esistere il nulla,
necessariamente ogni corpo, per quanto possa essere diviso in piccole
parti sempre più invisibili, non potendo dissolversi, deve essere formato da realtà non osservabili, ma comunque presenti e indivisibili,
dei “mattoncini” che unendosi danno origine ai corpi e che comunque,
quando questi si dissolvono disgregandosi, non spariscono, ma continuano a esistere. Proprio come Democrito, Epicuro chiama queste particelle atomi. Egli non può dimostrare direttamente la loro esistenza,
ma può comunque risalire a questi per via indiretta, un po’ come per
l’essere: se gli atomi non esistessero, il mondo fisico sarebbe discontinuo
e frammentato e il nulla potrebbe esistere, ma per quanto scritto prima
il nulla non esiste e il mondo fisico è fortemente coeso, quindi gli atomi
esistono. Il loro moto li porta a unirsi e questo infinito concentrarsi e diradarsi — ovvero l’alternarsi di unioni e scissioni — causa la nascita e la
morte non solo di questo mondo, ma di tutti gli infiniti mondi esistenti
accanto al nostro. La teoria di Epicuro si mostra, pertanto, estremamente all’avanguardia ed egli, secoli fa, concepisce già l’esistenza non solo
degli atomi, ma del fatto che è la loro aggregazione che crea le sostanze
(ciò che lui designa generalmente come corpi) e soprattutto riconosce
come atomi diversi possano generare mondi (ed esseri viventi) diversi.
La straordinarietà della fisica di Epicuro non consiste solo in questo,
ma anche nel fatto che egli ha letteralmente divorato i tempi storici del
progresso scientifico sostenendo con mezzi puramente logici non solo
l’esistenza degli atomi, ma anche il fatto che essi debbano possedere
una natura diversa che li porta ad avere forma e pesi differenti a seconda dell’elemento d’appartenenza: il lettore si rende bene conto come il
passo dal pensiero di Epicuro alla moderna chimica sia effettivamente
davvero breve.
Il nostro filosofo cerca anche una spiegazione al meccanismo di aggre-
40
Rivista Thule Italia
gazione degli atomi. Noi non abbiamo alcuna sua fonte che ci riferisca
la spiegazione da lui ideata, ma ne troviamo notizia negli scritti di Diogene Laerzio, Cicerone, Plutarco e soprattutto Lucrezio. Egli concepisce
la teoria della parénklesis — parola greca che sta per deviazione —: questa consiste nell’osservazione che in virtù del loro peso gli atomi sono
sempre impegnati in una continua discesa verso il basso. Non seguono
però traiettorie rette e, a causa di reciproche attrazioni, di tanto in tanto
subiscono delle deviazioni che li costringono ad urtarsi tra loro e a unirsi in conglomerati sempre più grandi. Per quanto questa teoria possa risultare fantasiosa, bisogna notare quanto, ancora una volta, sia davvero
mirabile e grande la capacità di immaginare una forza d’attrazione tra
gli atomi da parte di uomini che (apparentemente) non avevano idea
alcuna di elettroni e protoni.
Epicuro enuncia che tutta la conoscenza del mondo naturale si fonda
sulle sensazioni visive, tattili e, in generale, su quelle che l’uomo raccoglie tramite i sensi corporei. Queste, però, altro non sono che immagini
emesse dagli atomi (i quali vibrano ogni qual volta i nostri sensi entrano in contatto con loro) e poi conservate nella memoria. In questo modo
Epicuro spiega anche il manifestarsi nella mente dei ricordi, enunciando che questi altro non sono che l’immagine che ci è stata trasmessa e
che noi abbiamo conservato, interiorizzandola. Proprio a partire dalle
sensazioni, Epicuro segue un semplice ragionamento volto a convalidare la possibilità per la mente umana di conoscere correttamente il
mondo. Egli, infatti, afferma contro coloro che credono che le sensazioni siano illusorie, che queste sono invece sempre vere e mai fonte
d’illusione. Una simile frase potrebbe cozzare pesantemente contro la
realtà dei fatti — basti pensare a un cucchiaino messo in un bicchiere
pieno d’acqua: i nostri occhi lo vedranno storto e spezzato mentre in
realtà questo è perfettamente integro. Come conciliare l’affermazione di Epicuro circa la veridicità delle sensazioni contro un’esperienza
come questa? Il nostro filosofo risponderebbe che l’errore non sta nella
sensazione, ma nell’informazione che l’osservatore estrapola da essa
o meglio nell’opinione che egli crea nella propria mente. Contro tutti
gli astrattismi volti a umiliare la natura organica e corporea dell’uomo,
Epicuro ancora una volta rimarca invece la validità delle sensazioni che
l’essere umano raccoglie dal mondo naturale, sottolineando la stretta
connessione tra la sensazione e l’oggetto che l’ha provocata. Egli, però,
ammette che le sensazioni debbano essere sottoposte a controllo, così da
poterne ricavare un’informazione esatta e non contraddittoria: tornan-
La terra
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do all’esempio precedente, una sana riflessione porterà l’osservatore a
dire che il cucchiaino nel bicchiere non è spezzato, ma che è presente un
fenomeno di rifrazione che modifica l’aspetto dell’oggetto.
Epicuro, nella sua analisi volta alla riconferma della veridicità del
mondo fisico, compie un’ulteriore distinzione tra oggetti evidenti, controllabili e nascosti. I primi sono quelli che forniscono un’informazione
corretta così per come ci appaiono, senza bisogno di controllo alcuno;
i secondi sono invece costituiti da tutti quelli che generano sensazioni
sulle quali occorre indagare e riflettere prima di potere estrarre un’informazione esatta: è il caso del cucchiaino rifratto di prima. Infine gli
oggetti nascosti: questi non possono essere percepiti direttamente dai
nostri sensi, ma se ne possono comunque cogliere degli indizi che, correttamente analizzati, conducono la ragione all’osservazione della loro
esistenza e all’informazione che questa fornisce. È il caso delle stelle,
per esempio, oppure degli atomi: Epicuro, con i mezzi del tempo, non
poteva mostrare direttamente la loro esistenza eppure, tramite una dimostrazione per assurdo (tutta consistente nella posizione che dall’essere non si produce il nulla), è riuscito a farsi un’idea così vicina alla
realtà della loro natura.
Quanto scritto basta per esporre la fisica epicurea, che affonda le sue
radici nel mondo naturale e lo studia con occhio amorevole e non con
l’arroganza di chi rigetta tutto ciò che non è in grado di capire. Pertanto, possiamo ora esporre il messaggio principale della sua filosofia: la
liberazione dell’uomo dall’infelicità. In realtà, il primo passo che Epicuro vuole compiere è quello di svincolare la mente umana dalle catene
costituite dai credi religiosi, che tolgono all’uomo la libertà intellettuale
ostacolandone la crescita morale. Egli però non annulla le divinità, ma
ne ridimensiona il campo d’influenza: in particolare Epicuro sostiene
che “Gli dèi esistono. Ne abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non
esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni
fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui
che rinnega gli dèi del volgo, ma chi applica le opinioni del volgo agli
dèi” (Epicuro, Lettera a Meneceo). Epicuro quindi non stravolge la credenza nelle divinità, ma condanna l’attribuire a queste comportamenti
antropomorfi come la benevolenza e l’iracondia. Egli sostiene che gli
dèi sono fatti della stessa materia degli uomini (gli atomi), ma possiedono in più l’abilità di non disgregarsi che assicura loro l’immortalità.
Essi vivono negli intermundia, spazi vuoti tra un mondo e l’altro, nei
quali conducono una vita eterna e beata. Il punto principale dell’analisi
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epicurea è che gli dèi, in virtù della loro condizione felice, non si occupano degli uomini né per il loro bene né per il loro male, disinteressandosi del tutto degli esseri inferiori o persino essendo all’oscuro della
loro esistenza. Quindi se esiste un essere divino questo deve trovarsi
in uno stato di beatitudine tale da non poter essere perturbato: ciò vuol
dire che il dio non si occupa degli uomini e non pretende nulla da loro;
non è allora sbagliato pensare che la paura degli uomini verso la divinità sia del tutto immotivata ed è sciocco preoccuparsi di seguire uno stile
di vita tale da ingraziarsi il suo volere. L’unica strada verso la felicità
comincia con lasciarsi gli dèi alle spalle e amare la vita liberamente e
senza catene di sorta che blocchino l’azione dell’uomo in precetti vuoti
e privi di significato.
La seconda componente del quadrifarmaco epicureo è finalizzata alla
liberazione dalla paura della morte. Epicuro afferma che l’uomo è dotato di un’anima, ma questa — essendo composta da atomi e non essendo divina — è destinata a disgregarsi insieme al corpo. Ma la morte,
di per sé, non è qualcosa da temere: “Abituati a pensare che la morte
non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà
di sentire, di cui la morte è appunto privazione. […] Stolto chi afferma
di temere la morte non perché gli arrecherà dolore sopravvenendo, ma
perché arrecherà dolore il fatto di sapere che verrà: ciò che non fa soffrire quando sopravviene, è vano che ci addolori nell’attesa” . Epicuro
quindi sostiene che se la morte priva l’uomo delle sue capacità sensorie,
allora il suo sopraggiungere non può essere avvertito, quindi il passaggio dalla vita alla morte non può essere temibile, dato che non è doloroso. Continua infatti così: “Essa non ha alcun significato né per i viventi
né per i morti, perché per gli uni non è niente e, quanto agli altri, essi
non sono più”. In questo passo dell’epistola a Meneceo erompe tutto
il materialismo epicureo: c’è una sola vita (quella sensibile) e non ne
esistono altre dopo la morte dalle quali attendersi premi o dannazioni
in base alla condotta terrena. Posto questo per Epicuro è più importante quindi stare attenti al presente, godere appieno della vita, ricordando di assaporare tutto, poiché non esiste alcun mondo ultraterreno. La
transizione dalla vita alla morte inoltre non è da temere, visto che non
conduce in alcun luogo pieno di dolore e neanche ci si rende conto del
momento in cui avviene. Risulta strettamente connesso a questo passo
del quadrifarmaco il terzo proposito di Epicuro: la liberazione dal dolore. Non c’è nulla di più facile secondo il filosofo greco che liberarsi dalla
paura verso il dolore: infatti, l’esperienza assicura che questo è solo
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di due tipi ovvero intenso, ma di breve durata e debole, ma di lunga
durata. In ogni caso quindi il dolore è facilmente sopportabile e data la
sua fisiologia non rappresenta nulla di temibile. Ciò che invece bisogna
allontanare è la paura, sentimento che acuisce il dolore, aumentandone
il potenziale e rendendolo intollerabile. Ecco allora il terzo consiglio
di Epicuro: accettare il dolore senza preoccuparsi anzitempo dei suoi
sviluppi e tenendo a mente che in ogni caso se è intenso dura poco, se è
duraturo invece è poco intenso, non rappresentando mai nulla che una
mente ben preparata non sia in grado di gestire.
Infine, l’ultimo concetto che spiana la strada verso la felicità è costituito dal riconoscere che il piacere è semplice da procurasi. Epicuro sino
a questo punto del suo pensiero sostiene di avere liberato gli uomini
dalla paura del dolore, dimostrando che questo non può essere causato
né dagli dèi incuranti, né dalla morte e neppure può essere patito in
una futura vita ultraterrena e che, una volta vinta la paura, risulta essere una sensazione facilmente dominabile. Il nostro filosofo nota poi
che tutti gli uomini hanno dei desideri, anzi sono proprio degli esseri
desideranti. L’oggetto dei desideri secondo Epicuro è, in ultima istanza, il piacere personale. A differenza delle filosofie platoniche e aristoteliche, quella di Epicuro identifica il soddisfacimento del desiderio,
quindi il piacere, come bene primo e scollega del tutto la ricerca di questo dall’esercizio della ragione: giusto per fare un esempio, per Platone l’Idea del bene poteva essere vista solo dopo avere sviluppato una
ragione tale da permetterne la visione intellettiva. Per Epicuro, invece,
le cose non stanno così e il bene è una condizione del piacere: questo
quindi è un fine e non un mezzo. Tutto ciò comunque non implica che
l’uomo debba vivere smodatamente alla ricerca della soddisfazione di
tutti i suoi piaceri, giacché non tutti hanno la necessità di dover essere
soddisfatti. In particolare, egli distingue tra desideri naturali e vani: nei
primi egli inoltre differenzia i desideri necessari da quelli non necessari. Un tipico desiderio naturale e necessario è quello dell’alimentazione, che degenera in non necessario se si considera il desiderio per cibi
costosi e raffinati. Un desiderio vano è invece quello verso il potere e la
ricchezza. Epicuro indica, seguendo una linea di pensiero estremamente pratica, la nocività intrinseca nei desideri vani: prendendo l’esempio
del desiderio di ricchezza, il compimento di questo potrebbe provocare
tali contrasti, intrighi e contese da fare in modo che l’individuo, nella
sua ricerca, ne esca irrimediabilmente danneggiato. Similmente accade
per i desideri non necessari e, in generale, queste due categorie di desi-
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deri, con pesi diversi, rappresentano piaceri apparenti, di breve durata,
ma nefasti negli effetti. Quindi, conclude Epicuro, il piacere è facile a
procurarsi se, riflettendo prima di agire, ci si abitua a evitare la ricerca
dei beni voluttuari e allettanti, ma di difficile appagamento, indirizzando il proprio sguardo alla realizzazione dei propri desideri naturali e
necessari, i soli che provocano una sensazione di benessere duratura e
non dannosa.
L’uomo tratteggiato da Epicuro è una persona felice — in quanto non
agitata dalle passioni —, che vive nell’equilibrio della ricerca di un piacere che non lo assoggetta al desiderio stesso. L’epicureo è quindi lontano dagli astrattismi celesti, incentra il suo sguardo sulla terra dove
vive, dimentico degli dèi come questi lo sono di lui e scevro dalla paura
dell’oltretomba. Calcolando le sue azioni e prevedendo le reazioni sta
lontano dalla paura, l’unica cosa che può acuire il suo dolore. Qui sta
la saggezza epicurea e il nocciolo ultimo del suo quadrifarmaco, una
medicina capace di rinvigorire la natura materiale dell’uomo e di riallacciarne il collegamento con la terra, dalla quale egli proviene.
Il contrasto tra la componente aerea e spirituale e quella terrena e materiale, aspetti costituenti entrambi la natura dell’essere umano — secondo quanto brevemente visto prima sotto la luce religiosa e, in seguito, sorto chiaramente per la prima volta nel pensiero di Epicuro — ha
accompagnato la vita intellettuale dell’uomo, alternando fasi dove un
aspetto predominava ad altre dove lo stesso veniva ampiamente svilito. È come se la collettività umana, o per meglio dire la massa, fosse
incapace di sviluppare una visione equilibrata che porti a una concezione organica e più armonica della vita, preferendo passare da una
posizione estrema, quindi fallace, all’altra. In ogni caso, nonostante la
schizofrenia delle masse, permane in alcuni singoli individui una certa
capacità di discernimento che li porta ad assumere, a volte in maniera
innata e talvolta come risposta all’ambiente sociale, degli atteggiamenti
estremamente critici e, al contempo, costruttivi. In questo senso, ovvero
nell’ottica di un pensatore che rispose vigorosamente al prevalere della
sfera religiosa su quella propriamente umana, vogliamo qui proporre
l’esempio di un altro filosofo che ha indagato sui valori morali dell’uomo: Friedrich Nietzsche. Non creda il lettore che l’esempio di Nietzsche
non sia altamente costruttivo, poichè è una triste abitudine — della carente scuola odierna — ridurre il pensiero di questo illustre filosofo al
“super uomo che uccide Dio e quindi può tutto”. Invero, il pensiero
di Nietzsche è molto più complesso di quel che possa sembrare e non
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andrebbe tanto studiato tramite il filtro didattico, ma letto direttamente
dalle sue opere, compito che viene lasciato alla sensibilità personale e al
proprio bisogno di crescita interiore. Noi analizzeremo il pensiero del
filosofo sottolineando quanto il concetto della “morte di Dio” non sia
assolutamente il messaggio di un
nuovo ateismo, ma un invito ad
abbandonare culti ormai morti
poiché sviliti e corrotti in nome di
una nuova religione che inizia la
sua etica proprio dall’uomo nuovo, dall’uomo che deve venire
(l’Übermensch) che “ama la vita”
e “ricerca il senso della terra” .
Friedrich Nietzsche nasce a
Rocken, una frazione della cittadina di Lutzen in Sassonia, il
15 ottobre del 1844. Proviene da
una stirpe di pastori protestanti
e suo padre viene ricordato come
un uomo reazionario fortemente
amante del regime monarchico.
La giovinezza del filosofo trascorre serena, senza grosse problematiche ed egli si occupa dello Friedrich Nietzsche fotografato da Walter
studio della filologia classica, seKaufmann nel 1882.
guendo dei corsi prima a Bonn e
poi a Lipsia. La sua carriera accademica è tanto folgorante che nel 1869,
a soli 24 anni, riceve la cattedra di filologia classica presso l’università
di Basilea. La carriera letteraria del filosofo inizia invece nel 1872 con la
pubblicazione de La nascita della tragedia. Nel 1879 per dichiarati motivi
di salute, ma in realtà per il fatto che la carriera accademica non lo soddisfava pienamente, egli lascia l’insegnamento ed inizia un lungo pellegrinaggio in giro per l’Europa che lo impegnerà per praticamente tutta
la vita. Durante il soggiorno a Rapallo, nel 1883, egli inizia la stesura del
suo capolavoro: Così parlò Zarathustra, testo che ultimerà due anni più
tardi a Roma. Occorre dire che il lavoro letterario e filosofico sostenuto
da Nietzsche fu veramente enorme, dato che in pochissimi anni egli
pubblicò svariati testi e saggi, occupandosi di dare forma organica a
tutte quelle intuizioni interiori che nascevano nel suo spirito. A questa
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fatica intellettuale va aggiunta la fatica fisica insita nel sostenere tanti
viaggi e continui spostamenti da un luogo all’altro. Per terzo si consideri poi la grande delusione d’amore che egli provò verso Lou Salomè,
una giovane russa di 24 anni: Nietzsche si innamorò di lei a tal punto
da volerla sposare, ma la slava rifiutò la proposta di Nietzsche per sposare Paul Rèe, un amico del filosofo. Il colpo fu tremendo e non stupisce
che, dopo questo avvenimento, il temperamento di Friedrich subì dei
notevoli cambiamenti. A questo quadro si aggiungano infine i grandi
sforzi economici che egli dovette sostenere per stampare i propri libri
(a causa della mancanza di finanziatori esterni) che purtroppo faticavano a riscuotere successo presso il pubblico europeo. Stanco e dai nervi
spossati a causa della faticosa vita che egli si ostinava a condurre si
trasferisce a Torino, dove sembra acquisire un’apparente stabilità. Qui
egli comincia a comporre la sua ultima opera dal suggestivo titolo Volontà di potenza, ma non riesce a portarla a termine: il 3 gennaio del 1889
cade infatti preda della pazzia. Le ipotesi circa il collasso della mente di
Nietzsche sono due e argomentano la prima un esaurimento nervoso
(giustificabile col tenore di vita eccessivamente sfibrante) e la seconda
un tumore cerebrale, malattia della quale potrebbe avere sofferto anche
il padre di Friedrich che morì in condizioni mentali simili a quelle del
figlio. Dichiarato incapace di intendere e di volere viene affidato alle
cure della sorella che lo porta a vivere con sé a Weimar. Muore di polmonite il 25 agosto del 1900 e, a causa delle oscure tenebre della follia
nella quale è caduto, non si rende conto che i suoi testi, sui quali tanto
aveva scommesso in termini di lavoro mentale e sacrificio economico,
riscuotono successo in tutta Europa.
Nietzsche durante la sua giovinezza lesse e rimase notevolmente impressionato dall’opera Il mondo come volontà e rappresentazione del filosofo tedesco Schopenhauer. Egli, in particolare, condivise la sua visione
pessimistica della vita, intesa come trionfo di dolore e pervasa da una
caotica irrazionalità. Nietzsche cerca quindi di sintetizzare le impressioni filosofiche ricevute con i suoi studi riguardanti la filologia classica
e da questo intento vede la luce, nel 1872, La nascita della tragedia. Così
come noi in questo testo abbiamo identificato i due poli antitetici, quello
terrestre e quello aereo, allo stesso modo egli ritrova questi all’interno
del mondo della tragedia greca. Per il lettore che non conosce il mondo tragico possiamo tracciare a grandi linee una piccola descrizione:
le tragedie erano rappresentazioni musicate in versi che raccontavano
delle storie a sfondo mitologico (ispirate a miti di base ampiamente
La terra
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conosciuti, ma mutati dal tragediografo in base al messaggio che egli
voleva inviare al pubblico). La struttura basilare delle tragedie spesso
presentava inizialmente una situazione ideale, che rapidamente degenerava, terminando appunto in maniera “tragica”. Tipica del mondo
narrativo delle tragedie greche è l’assenza di motivi razionali capaci di
spiegare il concatenarsi degli eventi, che invece si susseguono sempre
più veloci sino alle conclusioni ultime; in questo ambiente si muove la
figura dell’eroe tragico, il protagonista della storia, che generalmente
assiste inerme alla distruzione del suo mondo (che può essere la propria famiglia, la città d’appartenenza o il suo onore) senza poter fare
assolutamente nulla per fermare l’accelerazione degenerativa che tutto
consuma: questa figura è la perfetta incarnazione dell’uomo in balìa
dei colpi del destino. Infine, un altro elemento fondamentale delle rappresentazioni tragiche è la presenza di un coro che accompagna e commenta gli eventi. Spesso è nei dialoghi
tra l’eroe tragico e il coro che il tragediografo sviluppa le tematiche morali
ed esistenziali della propria narrazione,
utilizzando questa forma di dialogo teatrale come strumento tramite il quale
inviare al pubblico il suo messaggio. Riteniamo questi elementi sufficienti per
poter capire cosa Nietzsche elaborò dal
mondo tragico greco, ma rimando il lettore interessato all’approfondimento di
un testo indicato in bibliografia.
Nietzsche osservò che lo sviluppo della tragedia — incarnata inizialmente
nella figura di Eschilo, ritenuto unanimemente l’iniziatore del genere tragico — rappresentò nel mondo greco dei
presocratici, ovvero nella Grecia antecedente alla nascita del pensiero filosofico
Busto di Eschilo
di Socrate, l’esplosione del senso d’accettazione della vita, della comprensione della fragilità insita nella condizione umana e contemporaneamente
della sua esaltazione. Nella tragedia l’uomo greco riusciva a rendersi
conto della sua condizione esistenziale appunto perché poteva godere
di un punto di vista esteriore agli eventi narrati, riusciva a diventare
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spettatore di avvenimenti sì esasperati, ma il cui nucleo rappresentava
emozioni con le quali spesso aveva a che fare. Così, guardando certe
situazioni dall’esterno, le poteva studiare, le interiorizzava e accettava,
uscendo dal teatro non con un senso di sconforto o di tristezza interiore, ma gioioso, perché capace di accettare la vita semplicemente così
com’è, senza volontà alcuna di recriminazione verso le sue ingiustizie,
ma anzi amando anche queste. Nietzsche vide in questo una scelta coraggiosa, un senso della terra (contrapposto all’inseguimento degli dèi
e della loro benevolenza) che porta a un’esaltazione dei valori vitali.
Egli, perciò, riconobbe nel mondo greco presocratico la manifestazione
più pura di un ideale (da noi definito appunto come senso della terra)
da lui chiamato spirito di Dioniso. In questo dio greco egli vede l’immagine dell’ebbrezza, quindi della forza istintiva e fisica, della salute:
l’esaltazione quindi poetica di tutti i valori materiali prima della loro
degenerazione in materialistici. Lo spirito di Dioniso pertanto marcava
un’umanità che testimoniava una piena armonia tra la natura interiore
ed esteriore, capace di accettare l’una e l’altra senza desiderio di porvi
modifica alcuna. Accanto a questo spirito però Nietzsche trova quello
dell’Apollineo, che egli identifica come l’ispiratore delle visioni di sogno, eteree e metafisiche, una tendenza che porta l’uomo a essere moderato e misurato, che lo spinge a negare sé stesso nella ricerca del proprio
miglioramento; se il Dionisiaco si manifesta nel movimento caotico,
l’Apollineo si fissa in figure ferme ed equilibrate. Questi spiriti secondo
Nietzsche si manifestano pienamente nel mondo artistico, ma in forme
differenti: l’apollineo nell’arte figurativa, il dionisiaco in quella musicale. Quindi egli denota che se da una parte è vero che il loro contrasto
è presente nel mondo greco, dall’altra bisogna assumere che la contrapposizione di questi due poli dialettici ha fatto da agente propulsivo
per tutto il panorama culturale ellenistico. Infatti, egli così scrive: “Lo
sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco
[…] nel mondo greco esiste un enorme contrasto, enorme per l’origine
e per il fine, tra l’arte figurativa, quella di Apollo, e l’arte non figurativa
della musica, che è propriamente quella di Dioniso. I due istinti vanno
perlopiù in aperta discordia […] fino a quando in virtù di un miracolo
compaiono accoppiati l’uno con l’altro”: ciò accade nella tragedia greca,
dove la musica viene combinata alla rappresentazione e lo spirito fermo dell’apollineo, figurativo, viene posto in movimento incarnandosi
nella figura dell’attore al ritmo della musicalità dionisiaca. L’esposizione di Nietzsche prosegue oltre ed egli nota come la rottura di questo
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equilibrio e la perdita dell’amore per la vita siano dovuti all’irrompere
sulla scena di uomini che hanno fatto dell’apollineo la bandiera della
propria vita, giungendo alla mortificazione di quei valori vitali prima
esaltati. Il primo di questi fu il tragediografo Euripide, che eliminò dalla tragedia l’elemento dionisiaco in favore di riflessioni cervellotiche e
moraliste. Poi fu Socrate, la cui pretesa di dominare e capire tutto con la
sola ragione e di svilire l’esperienza nel mondo fisico e le informazioni
procurate dai sensi (in perfetta opposizione con il pensiero di Epicuro)
portò la vera decadenza, la morte del dionisiaco e lo sbilanciamento
verso la visione rarefatta, aerea ed immota apollinea. Infine Platone,
che svilì la Terra e tutto l’universo a mera ombra di un mondo superiore, l’Iperuranio, il più aereo di tutti, invisibile ai sensi fisici e godibile
solo con lo spirito. Il mondo greco, pertanto, si era del tutto distaccato
da quell’accettazione coraggiosa della vita che tanto l’aveva distinto,
abbandonò sé stesso e incominciò a detestare il suo stesso riflesso in
nome della ricerca di un continuo perfezionamento interiore che però,
scevro dal contrappeso dionisiaco, diventava irrefrenabile incapacità
di accettare il mondo, distruggendo ciò che legava l’uomo alla natura.
Scrive quindi Nietzsche che “Socrate fu un equivoco. Tutta la morale
del perfezionamento fu un equivoco […] la razionalità a ogni costo […]
era solamente una diversa malattia”. Nel finale della sua prima opera,
Nietzsche alza lo sguardo verso gli orizzonti morali che lo terranno impegnato per tutta la vita, conscio però di aver trovato sia la condizione
ideale per l’uomo sia la causa del decadimento che continua ad attanagliare la condizione umana: la negazione del dionisiaco.
A partire da questo momento, secondo Nietzsche, l’umanità iniziò
un processo di degenerazione, privandosi da sola della propria libertà
per piegarsi a vuoti esseri del cielo, a divinità del tutto inesistenti. La
morale del perfezionamento, logica conseguenza del predominio dello
spirito apollineo, ha rappresentato in realtà la morte dei valori positivi.
In quest’ambiente declinante i deboli hanno giocato secondo Nietzsche
il ruolo delle volpi: nella Genealogia della morale, infatti, egli sottolinea
come gli schiavi, ovvero i deformi e i malriusciti, abbiano tradotto in
ipocriti ideali morali il loro odio per la forza, per la bellezza e la gioia
di vivere e, in generale, per tutto ciò che veniva loro negato in virtù
del loro status di malati. In questo modo ipocrita, svilendo il mondo
terrestre e tacciandolo per peccaminoso, essi riescono a dominare sui
forti, gli individui sani che sarebbero naturalmente portati ad amare la
natura, la vita in sé e per sé e l’ebbrezza, ma che invece — incatenati
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da finti precetti morali — si mettono da soli in ceppi riducendosi alla
stessa immobilità dei malati. Tale è stato il diffondersi del degrado che
neanche l’avvento di individui eccezionali, gli oltreuomini — ovvero
personalità particolarmente ben disposte in spirito da liberarsi dalla
morale comune del risentimento per abbracciare il dionisiaco — è riuscito a riportare l’equilibrio e a smascherare l’inganno della falsa morale degli schiavi. Tra questi, per esempio, vi è Cristo, che Nietzsche
non esita a definire come un “libero spirito” e “l’uomo più nobile”, arrivando anche a scrivere che “il simbolo della Croce è il più sublime
che sia mai esistito”. Eppure, nonostante la presenza di queste menti
illuminate, qualcosa andò storto nel processo dello sviluppo umano.
Nietzsche riesce a spiegare questo colossale errore, nel quale il mondo
occidentale è caduto, spingendosi ben oltre dove era giunto Epicuro: se
il filosofo greco proclamava il disinteresse degli dèi verso gli uomini,
lui nella Gaia scienza proclama, per bocca di un folle: “Che ne è di Dio?
Io ve lo dirò. Noi l’abbiamo ucciso; io e voi”. In questo passo Nietzsche
proclama la morte di Dio e la fine dei valori ad esso collegati: l’uomo
perde ogni punto di riferimento e diventa come una zattera in balìa
del mare in tempesta, solo con sé stesso. Insieme a Dio, tuttavia, è destinato a morire anche l’uomo vecchio e a nascere un uomo che vada
oltre i vecchi valori, l’Übermensch, l’oltreuomo. Ma come è morto Dio e
quale sarà il nuovo spirito dell’Übermensch? Questo verrà ampiamente
trattato da Nietzsche nella sua opera più intrinsecamente costruttiva, il
Così parlò Zarathustra.
In questo testo, che rappresenta il suo capolavoro, Nietzsche non solo
chiarisce il significato della morte di Dio, ma si preoccupa anche di dare
una nuova etica per una rinata umanità capace di assorbirla: dove gli
scritti passati rappresentano la critica più forte e distruttiva, lo Zarathustra indica invece la parte positiva della filosofia di Nietzsche, ovvero
quella propriamente costruttiva. Il nome del libro (e del suo protagonista) non è casuale: esistette infatti nel passato un filosofo persiano di
nome Zoroastro, il quale per primo riformò il sistema religioso persiano individuando due profondi principi alberganti nell’animo umano,
quello del bene e quello del male. Nella finzione narrativa del testo, costui ritorna per compiere la stessa operazione eseguita millenni prima,
ma rovesciando al contempo i criteri di giudizio. Dietro la figura di Zarathustra, un vero e proprio profeta dell’uomo nuovo, si cela la persona
dello stesso filosofo tedesco. La morte di Dio, secondo lui, è un evento
di portata cosmica, del quale tutti gli uomini sono responsabili. Questo
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però non indica il fatto che essi abbiano ucciso un essere immortale o
perfetto, bensì che essi lo hanno dimenticato. Prima, nella Grecia antica,
il Dionisiaco imperava e gli uomini vivevano — indifferenti ai despoti
celesti — una vita felice sulla terra, poi vennero i grandi malati, primo
tra tutti Platone, a mortificare questo mondo in virtù di eteree vette
invisibili, infine sinanche Cristo, un uomo che indicò agli uomini la via
da seguire (quella del coraggio e dell’azione) vide svilita tutta la sua
opera da parte della chiesa cattolica. Questa rappresentò il vero anticristo in quanto sovvertì il messaggio iniziale di Cristo e trasformò lui, il
più libero di tutti gli uomini, in un simbolo di sofferenza e di malattia.
“La chiesa non lasciò nulla d’intatto nel suo pervertimento, ha fatto di
ogni valore un disvalore e di ogni verità una menzogna”, tanto arriva
a scrivere Nietzsche. Così, in seguito, nacque la morale degli schiavi,
legittimata da basi metafisiche inventate e su mondi superiori (come il
paradiso o l’inferno) creati dai deboli solo per “calunniare e insudiciare
questo mondo”. Infine, nota Zarathustra, dopo questa fase dell’umanità sorse la società ottocentesca imbevuta di positivismo. Il Dio degli schiavi e dei malfermi, quella sorta di grande paralitico universale appeso alla croce, dovette cedere il passo a nuovi valori: la società
imbevuta della filosofia positivista era diventata estremamente critica
verso la sfera religiosa e così si era lasciata quel falso dio alle spalle,
ma continuava a manifestare ancora, dietro la maschera borghese, atteggiamenti più che religiosi e “umani, troppo umani”: la ferma convinzione nello sviluppo storico creò le nuove credenze nel progresso e
nel socialismo e, ancora una volta, gli uomini legavano il proprio sano
istinto alla vita dietro leggi e prassi sociali. Eppure, in virtù di questi
valori il vecchio dio era stato ormai dimenticato e sepolto nel passato,
quindi era morto, sostituito dalla morale borghese. Zarathustra enuncia che l’uomo è rimasto “solo”: esclusa la figura divina, che fungeva
da custode dell’ordine morale, ogni legge etica che l’umanità accoglie
si fonda sul nulla, su una posizione presa oggi e possibilmente lasciata
cadere domani. La morte di Dio annuncia agli uomini da una parte
la loro nuova libertà, ma dall’altra toglie l’unico punto di riferimento che ha orientato la loro vita. Occorre allora una trasmutazione dei
valori che implica un ritorno allo spirito dionisiaco della terra. Ma da
dove partire? Dove l’uomo deve porre lo sguardo per tornare a essere
sé stesso e, al contempo, superarsi? Per rispondere a queste domande
basta osservare con occhio amorevole la natura: proprio il mondo manifesta un’unica necessità, che Nietzsche vive come una vera e propria
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intuizione e non riesce bene a spiegare, che è la ferma volontà nel ripetere sé stesso all’infinito, manifestazione di una forza che lo porta a
perpetuare nell’eternità la propria stessa esistenza senza mai cambiare.
Proprio perché il mondo naturale (di cui l’uomo fa parte) è la manifestazione fisica del dionisiaco e la sua incarnazione, esso è dominato
dalla volontà di amare sé stesso, di accettarsi così com’è, pertanto di
ripetersi all’infinito. Lo sviluppo storico per Zarathustra non è quindi rettilineo: non esiste alcuna fine apocalittica (mera bugia religiosa)
né alcun progresso dell’umanità (bugia ugualmente odiosa proclamata
da uomini falsi) poiché “tutte le cose eternamente ritornano e noi con
esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi”. Questa è la
dottrina cosmologica dell’eterno ritorno e a questa si collega la prima
caratteristica dell’Übermensch, dell’oltreuomo, dell’uomo che deve venire: l’amor fati, l’atteggiamento di chi accetta la vita entusiasticamente
in tutti i suoi aspetti, sino a quelli più tragici, il carattere che marchia
l’uomo che ama a tal punto la terra e la natura da non provare alcun
desiderio di modifica o di cambiamento, ovvero di perfezionamento,
ma che abbraccia entusiasticamente la realtà così per come la osserva. Il
messaggio di Nietzsche, quindi, è ancora più radicale e forte di quello
di Epicuro: non solo Dio non esiste, non solo la felicità dell’uomo è insita nel ricercare il necessario e nel sopportare il dolore, ma occorre anche
amare questo sinceramente. Zarathustra enuncia, perciò, la trasformazione dell’uomo in superuomo: questi ama la vita e “crea il senso della
terra”. La trasformazione, che altro non è che un cambio di punto di
vista morale, viene spiegata tramite delle figure metaforiche: l’uomo
comune è un cammello, simbolo della natura dello schiavo che lavora
pesantemente portando carichi sulla sua schiena; quest’uomo “piega
le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato”. Ma il cammello, nel deserto più solitario, solo con sé stesso muta e diviene leone,
che con aspra violenza lotta contro la morale convenzionale. Il leone al
grido di “io voglio” uccide il drago “tu devi” che incontra nel deserto,
simbolo di tutte le istituzioni, religiose e non, che pongono un freno alla
sua volontà, araldo del dio inesistente. Nietzsche è chiaro nello scrivere
che la calma della bestia da soma “che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione” non basta a liberarsi, poiché serve la forza vitale e violenta
del leone per “crearsi la libertà per una nuova creazione”. Infine, il leone — ucciso il drago — diviene bambino. Egli è “Innocenza, e oblio, un
nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto”.
Il bambino finalmente libero rappresenta la nuova umanità che danza
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allegramente, dimentica degli dèi falsi e amante di ogni sua esperienza,
che assapora come se dovesse ripetersi all’infinito. La volontà del superuomo fanciullo è potenza, perché libera da ogni precetto. Ecco allora
il messaggio di Zarathustra, il più grande inno di gioia verso il mondo
che l’uomo vive giornalmente: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli
alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!
Un tempo il sacrilegio contro il cielo era il massimo sacrilegio, ma Dio
è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrilegi. Commettere il
sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile”.
Quanto scritto basta per dimostrare quanto costruttiva in realtà sia la
filosofia di Nietzsche e come questa spinga con forza verso la rivalutazione della vita terrena dell’uomo. D’altronde, il messaggio di Zarathustra consiste nello spingere oltre le ultime conclusioni i concetti visti
nascere in Epicuro, annullando del tutto la divinità e proclamando non
solo l’amore per il necessario, ma per ogni cosa in generale, compreso
ciò che causa dolore. Nelle pagine dello Zarathustra, anche nelle parti
più scure dove il filosofo mostra senza riserve tutta la corruzione del
mondo, rimane una sorta di sottofondo idilliaco, una chiamata potente
alla natura che rappresenta la prima accogliente casa per l’uomo. Lo
stesso profeta giunge in città per portare la nuova dottrina agli uomini,
ma egli ne ha avuto intuizione nella sua dimora, immersa nell’ambiente naturale e lontanissima dalla civiltà umana: è espresso chiaramente,
nella prima pagina del libro, che Zarathustra abbandonò il paese natio
per vivere da solo in montagna. Per Nietzsche, quindi, la Natura non
solo rappresenta l’ambiente primo dell’uomo, ma soprattutto una fonte
di risposte capace di saziare le domande dello spirito dell’uomo e di
riempirne la sua essenza, depurandolo dalla corruzione della quale egli
si è da solo avvelenato. In generale, nella millenaria storia umana, non
sono stati pochi i pensatori che hanno guardato al mondo naturale con
sguardo simile a quello del filosofo tedesco, ma occorre notare anche
l’esistenza di notevoli correnti di pensiero che hanno spinto l’uomo in
una direzione del tutto opposta: a pensare alla Natura come un essere
sì senziente, ma assolutamente insensibile all’uomo, incapace o addirittura negligente nel rispondere a ogni sua richiesta. Il lettore noti bene
che questa visione altamente pessimistica della natura, cioé della condizione umana, non è volta a negare la componente fisica dell’uomo
in virtù di un’esaltazione di quella spirituale, ma invece focalizza la
sua attenzione sul fatto che proprio l’uomo in quanto “animale intelligente” non può trovare alcuna accoglienza nel mondo della natura, in
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Rivista Thule Italia
quanto la sua condizione di apparente superiorità lo rende incapace di
vivere “spensierato” o meglio incosciente come tutti gli altri animali.
Da questo punto di vista la natura non è più madre per l’uomo, perché
egli in virtù della sua condizione di
essere pienamente cosciente non fa
più parte del regno naturale, essendo divenuto quasi un essere estraneo, se non sgradito. Proprio su
questi temi, i pensieri più profondi
sono stati elaborati da Giacomo Leopardi.
Le riflessioni di Leopardi e, in generale tutte le sue opere, manifestano un’attualità contenutistica tanto
forte da far quasi sentire una sorta
di vena pulsante di vita scorrere
lungo i testi. Provando a compiere
un azzardatissimo paragone con
Giacomo Leopardi, di A. Ferrazzi, olio
Nietzsche, si nota come la riflessiosu tela.
ne sulla natura, la condizione artificiale in cui vive l’uomo moderno
e il bisogno della ricerca di nuovi valori, rappresentino le basi comuni
dalle quali questi due grandi “maestri del sospetto” hanno mosso le
loro riflessioni. Eppure le conclusioni ultime alle quali sono giunti sono
totalmente differenti: se Nietzsche, infatti, fornisce una risposta che è
essenzialmente di natura ottimistica, quella di Giacomo Leopardi è assolutamente negativa e manifesta una forza dialettica probabilmente
meno evidente, ma non per questo meno violenta: Leopardi non usa
frasi ad effetto, ma anzi scrive volutamente con uno stile artificioso e
morto che rispecchia lo stato che lui più avvertiva nella società civile.
Il vigore del pensiero di Leopardi si esprime nella fortissima carica distruttiva che annienta tutti i miti della civiltà moderna e, proprio come
Nietzsche, abbatte brutalmente il falso idolo costituito dall’idea del progresso. Egli elimina ogni velo di finzione per svelare la tragicità della
condizione umana, dimostrando come del tutto false siano le credenze
nei mondi spirituali. Laddove Nietzsche riconosceva lo spirito presente
nell’uomo (cercandone la liberazione), Leopardi enuncia invece che “il
corpo è l’uomo”. La critica di Leopardi però presenta un momento costruttivo (sarebbe errato scrivere una parte, data la sua presenza appena
La terra
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accennata) nel quale l’uomo può, nonostante tutto, realizzare sé stesso:
questo si attua nella ricerca della conoscenza e del vero, che conduce
l’uomo a rendersi cosciente della sua misera condizione. Sarebbe del
tutto superficiale descrivere Leopardi come un nichilista o uno scettico,
poiché egli — pur notando l’insensatezza della vita e di tutti i valori
che l’umanità ha costruito come sovraimpalcature psichiche — non si
arrende, ma continua nella sua personale ricerca di significato, dato che
la crisi dei valori, ieri come oggi, non deve rappresentare una giustificazione per l’inedia, ma anzi una spinta a dare un significato a un mondo
che sembra non avere più senso. Prima di proseguire oltre nell’analisi
del pensiero di Leopardi occorre però fornire qualche notizia biografica
sulla sua vita.
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno del 1798, figlio primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Vive
un’infanzia ritirata e secondo l’uso nobiliare dell’epoca non frequenta
scuole pubbliche, ma riceve un’istruzione privata da dei precettori cattolici, i cui insegnamenti da una parte soddisfano l’amore per il mondo
classico che Monaldo voleva trasmettere ai figli e dall’altra il freddo
bigottismo religioso della contessa Adelaide. Durante questi primissimi anni di studio l’amore per la conoscenza porterà Giacomo ad approfittare della vastissima biblioteca paterna ricca di classici, testi letterari italiani e stranieri, fornita anche di molte opere degli illuministi
francesi, grazie alla quale Giacomo riesce a conquistare una sicurezza
intellettuale e una vastità di conoscenze davvero impressionante. Già a
soli dieci anni egli riesce a scrivere non solo in italiano, ma anche in latino e dimostra di sapere padroneggiare la riflessione filosofica al punto
da scrivere dei piccoli trattati. Tra il 1809 ed il 1816 viene inquadrato il
periodo nel quale Leopardi dedicherà sempre più tempo allo studio,
stressandosi (fisicamente e mentalmente) al punto da patire i primi sintomi dei disturbi fisiologici che lo accompagneranno per tutta la vita.
Nel frattempo comincia le prime traduzione dei classici (come Omero
ed Orazio) e dà inizio ai primi tentativi di scrittura poetica, ma il suo
amore rimane essenzialmente legato alla filologia. Il 1816 rappresenta
però l’anno della svolta per Leopardi: egli infatti comincia ad avvertire la ristrettezza culturale dell’ambiente familiare, la sua insufficienza
affettiva e l’arretratezza (sotto ogni punto di vista) dei genitori: questa
presa di coscienza lo porta a riconsiderare la stessa conoscenza che egli
ha acquisito in questi anni e Giacomo capisce bene come quella che lui
ha accumulato altro non rappresenti se non mera erudizione ovvero
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Rivista Thule Italia
amore per ciò che è stato creato da altri; a questo egli vuole sostituire la
ricerca di una più forte consapevolezza dei valori artistici che non sia
una semplice lezione appresa da un libro. I rapporti con i familiari cominciano da questo momento a incrinarsi sempre di più, sino a culminare in una crisi costituita nel tentativo di fuga da Recanati sventato dal
padre all’ultimo momento. Giacomo vorrebbe a tutti i costi sottrarsi al
cupo ambiente recanatese, ma l’occasione per assaporare la libertà non
giungerà prima del 1823, anno nel quale gli è permesso di trasferirsi a
Roma dal fratello di sua madre. Rimane deluso dalla città ed è costretto
a far ritorno per breve tempo a Recanati, ma subito dopo riparte e comincia a muoversi tra Milano e Bologna, fermandosi infine a Firenze.
Nel 1827 vengono pubblicate le Operette morali, una raccolta formata da
ventiquattro racconti a tema filosofico-esistenziale. In seguito torna per
l’ultima volta a Recanati dove affronta dei mesi fatti sì di depressione,
ma anche densi di lavori: pubblica infatti altri quattro grandi canti, tra i
quali ricordiamo il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sul quale
torneremo nel prosieguo di questo scritto. Nel frattempo, grazie alle
numerose amicizie che egli aveva stretto, riesce a ottenere una somma
di denaro che gli permette di lasciare di nuovo Recanati e di trasferirsi a
Firenze, dove nel 1831 esce la prima edizione dei Canti. Nel 1833 si trasferisce infine insieme all’amico Ranieri a Napoli, ma le sue condizioni
fisiche cominciano pian piano a peggiorare, sino a divenire critiche. Eppure Leopardi sente di dover intervenire nella vita culturale dell’epoca:
lungi dall’essere un uomo ritirato, egli vuole imprimere la sua firma
nel mondo sociale, anzi lo vuole cambiare e. a tal scopo, scrive dei testi nei quali si scaglia con violenza contro il mito del progresso (nella
Palinodia al marchese Gino Capponi), contro il vuoto mondo sociale
(nei Pensieri) e, infine, contro le lotte liberali (nei Paralipomeni della
Batracomiomachia). Compone infine l’ultimo canto, La ginestra o il fiore
del deserto che rappresenta il suo ultimo messaggio inviato all’umanità.
Muore a Napoli il 14 giugno del 1837, a soli trentanove anni, a causa di
un peggioramento dei suoi problemi polmonari.
Leopardi espresse buona parte delle sue speculazioni filosofiche nelle
Operette Morali, una raccolta composta da ventiquattro testi in prosa
d’argomento filosofico, espressi in forma di racconto o di dialogo. Di
questi noi analizzeremo il Dialogo della natura con un Islandese, testo che
ben si collega ai temi trattati in questo scritto, riprendendo sia le riflessioni circa il disinteresse degli dèi verso gli uomini e la loro condizione
viste in Epicuro sia la sorta di divinizzazione della Natura che si intui-
La terra
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sce nel pensiero di Nietzsche culminante nell’episteme costituito
dall’intuizione dell’Eterno Ritorno, nel quale però le conclusioni ultime, pur partendo da premesse simili, risultano del tutto antitetiche. Già
nel titolo Leopardi vuole dare un chiaro messaggio: quello che andremo a leggere non è un dialogo tra un essere onnipotente (la Natura) e
un suo eguale, ma riguarda invece un uomo qualunque, del quale non
si specifica altro che la sua nazionalità perché, per l’appunto, non c’è
altro che lo identifichi, non avendo nemmeno un nome: è l’uomo assolutamente comune e per questo la sua esperienza può essere universalizzata a tutto il genere umano. Eppure l’autore ci manda un chiaro
messaggio: pur nella sua assoluta normalità quest’uomo possiede una
caratteristica peculiare, egli è un islandese, un abitante di un’isola caratterizzata dalle condizioni di vita estremamente proibitive a causa della
conformazione del territorio (noto per la presenza di geyser e vulcani)
e dal clima estremamente freddo. Egli ha vissuto, quindi, sin dalla sua
nascita, in un ambiente naturale per nulla confortevole, anzi estremamente disagevole, imparando a conoscere sin da subito la vita precaria
che gli uomini conducono. Il testo inizia proprio con il racconto del
viaggio intorno al mondo che l’Islandese ha compiuto e di come, una
volta giunto all’interno del continente africano, egli abbia incontrato un
gigante, di proporzioni simili alle sculture dell’isola di Pasqua, ma
dall’aspetto femminile. Risulta importantissima la descrizione del volto di questo gigante, “mezzo tra il bello ed il terribile”: proprio come la
Natura, capace di fornire all’uomo i più sublimi paesaggi, ma al contempo di spazzare via la sua vita per mezzo di cicloni e altre calamità.
L’uomo si presenta al gigante enunciando di essere fuggito, per tutta la
sua vita, dalla natura. Possiamo immediatamente identificare il primo
capovolgimento di senso: laddove, specie nell’era del progresso, l’uomo ricercava rifugio nella natura, un luogo dove riscoprire sé stesso, il
nostro Islandese invece la fugge, ne ha paura. Verrebbe da domandarsi
il motivo di tanto terrore e, in effetti, la Natura chiede all’uomo, con
fare vago, perché egli scappasse da lei. La risposta dell’Islandese costituisce la maggior parte del dialogo e rappresenta un vero e proprio
grido d’accusa verso la Natura. Egli esordisce dicendo che “sin dalla
prima gioventù fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattono continuamente gli uni contro gli
altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano”. Il significato di queste
parole è sin troppo chiaro e d’altronde chi meglio di un abitante
dell’Islanda, isola già identificata da Voltaire come estremamente pro-
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Rivista Thule Italia
vante per gli uomini, può conoscere bene questi pensieri. Così lui decise di tirarsi fuori dalla lotta per la sopravvivenza e di non recare danno
a nessun uomo, in modo da non attirare su di sé alcuna ritorsione da
parte degli altri esseri umani e di non ricercare più alcun piacere, dato
che questo conduce inevitabilmente al dolore. Egli specifica che non
vuole vivere in ozio, astenersi dalle fatiche corporali, ma semplicemente vivere “in quiete”. L’etica epicurea risulta schiacciata sotto il peso
della dura realtà: tutt’altro che facile a procurarsi, il piacere porta in sé
la sofferenza. Non bisogna d’altronde pensare a nulla di fuori dal comune per giustificare questa posizione di Leopardi, si pensi già a quanto oggi possa essere difficile il solo alimentarsi e quanto sia fortunato
chi vi riesce senza grande fatica. D’altronde, sin dall’inizio del testo,
Leopardi è crudelmente chiaro: mentre per alcuni uomini il soddisfacimento dei propri desideri vitali è sofferenza, altri lottano per accaparrarsi oggetti che non danno alcuna soddisfazione. Torniamo però al
nostro Islandese. Dopo che egli decise di vivere tramite il sudore della
propria fatica accontentandosi solo del minimo, si accorse come il disagio non passava e come proprio l’ambiente naturale gli fosse profondamente ostile: “io non poteva mantenermi però senza patimento: perché
la lunghezza del verno, l’intensità del freddo e l’ardore estremo della
state […] mi travagliavano di continuo [..] Né anche potea conservare
quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i
miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla [il vulcano Hekla,nell’Islanda meridionale, ndt], il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come
sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi”. Vita
infelice quella dell’Islandese, al punto da convincerlo a lasciare la sua
inospitale terra: egli pensò che forse doveva esistere un qualche luogo
destinato dalla Natura alla vita degli uomini. Allora ciò che vale per gli
altri animali, ovvero il fatto che alcuni vivano bene in certi habitat e
male in altri, doveva valere in egual modo per l’uomo: forse la difficoltà e la miseria della vita erano soltanto delle conseguenze dovute a errori commessi dall’umanità, una giusta risposta alla sua ubris che la
condusse ad allontanarsi dal luogo a lei predestinato. L’Islandese, guidato da questi pensieri, cominciò un lungo viaggio alla ricerca della
patria eletta per l’umanità; eppure, dopo le sue lunghe peregrinazioni,
egli testimonia che: “io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso
dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza
dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più
La terra
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luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è
quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata
a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria”. L’Islandese non
trovò in tutta la terra nessun luogo fatto apposta per assicurare una
serena esistenza all’uomo, ma ovunque osservò solo una continua lotta
tra uomo e Natura, dove la prima attaccava anche quelle civiltà che,
ancora allo stato tribale, alcun danno le avevano arrecato. La lunga
esposizione dell’Islandese rappresenta un climax ascendente, il cui inizio è rappresentato dall’esposizione del suo pensiero, ma che degenera
velocemente in un elenco e in un accumulo di sofferenze e di disgrazie.
L’Islandese proseguirà nella sua lunga “requisitoria” elencando tutte le
calamità naturali che ha visto ed affrontato: terremoti, esplosioni vulcaniche, straripamento dei fiumi; infine, farà tristemente notare come, a
causa dell’ambiente circostante, la condizione umana sia estremamente
fragile: “In qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente
da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse
malattie”. Il tono dell’Islandese diventa infine accusatorio quando,
dopo avere compreso che sulla terra non esiste alcun luogo pienamente
confortevole per l’uomo e come non ci sia verso di vivere senza disagi,
esclama che “mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli
uomini”. È un’accusa fortissima questa che Leopardi scaglia contro la
Natura e, seppur ampiamente motivata, suona quasi come un grido di
disperazione da parte di chi si è accorto che l’uomo in realtà è condannato alla sofferenza. La risposta della Natura all’Islandese è assolutamente semplice e diretta, ma incredibilmente spiazzante. Ella infatti
risponde: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia
mezzo, io non me n’avveggo”. In queste poche righe si esprime tutta la
mordente critica leopardiana: di fronte alle concezioni antropocentriche del mondo, ai miti titanici e luciferini che dipingono l’essere umano
come un dio, un ordinatore del caos e, addirittura, come la ragione per
la quale il mondo è stato creato, Leopardi sottolinea come l’uomo, alla
vista della Natura, è nulla. La prospettiva di Epicuro (quella rappresentante gli dèi come esseri beati e per questo disinteressati alle condizioni
degli uomini) è stata portata alle ultime conseguenze: la Natura, sorta
di divinità panteista, non si accorge degli uomini e per questo li distrugge in maniera non affatto dissimile da quella di un uomo che camminando sul terreno schiaccia delle formiche: lui neanche si accorge di
loro, stava semplicemente proseguendo per la sua strada. Ecco allora
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Rivista Thule Italia
che l’uomo gioca la parte della formica ogni qual volta la Natura si scatena ed è in questo modo che Leopardi rappresenta le vittime delle catastrofi naturali. Di fronte al progressismo borghese e al mito dello sviluppo, la risposta di Leopardi è ancora più tagliente: il mondo non è
assolutamente stato creato per l’uomo. Tutto il dialogo dell’Islandese
assume pertanto un nuovo tono: laddove prima della risposta della Natura questo sembrava un’accusa, esso rappresenta in realtà una chiara
esposizione di come la terra sia apatica (sino a essere avvertita come
ostile) all’umanità e di quanto la sua condizione sia precaria, nucleo
tematico rafforzato dalla terribile sentenza esclamata dal gigante-Natura. Leopardi però manifesta una continua tensione alla ricerca pure davanti a intuizioni tanto preoccupanti. La filosofia dello scrittore infatti
non si adagia, oziosa, su di un nichilismo puro, ma manifesta un senso
del sospetto che non si ferma nemmeno davanti alla scoperta di verità
tanto agghiaccianti. L’Islandese allora chiede perché la Natura ha creato l’uomo per porlo in una simile condizione, dato che egli non ha mai
chiesto di essere creato. Lui paragona sé stesso e l’umanità a un ospite
invitato in casa di un amico per il solo fine di essere ignorato e trattato
in cattiva maniera: è vero che la casa dell’amico non è stata fatta per lui,
ma è dovere dell’ospitante fare in modo che il suo ospite non abbia
problemi durante il soggiorno. Arguisce allora: “non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno
vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi
noccia?”. La risposta, l’ultima che La Natura darà all’Islandese, è ancora più terrificante della precedente: essa gli dice che “Tu mostri non
aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione”. Ecco allora cosa è l’Eterno Ritorno secondo
Leopardi, ecco a cosa è legata la condizione di ogni essere vivente: a un
eterno ciclo di morte e resurrezione, una spirale infinita che ruota attorno al perno della sofferenza. In questa spirale il mondo si conserva,
sempre uguale a sé stesso, e la condizione dell’uomo è di dolore perché
“risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento”. A questo punto Leopardi ha esposto pienamente l’illuminazione
alla quale era giunto: la Natura, questa sorta di enorme dea-gigante,
non nutre alcun interesse verso l’uomo e questo la porta a causargli
infinite sofferenze senza neanche accorgersene; non c’è quindi alcun
progresso nella condizione umana e alcuna giustizia, queste sono mere
illusioni create dall’uomo, nient’altro che vuote sublimazioni ovvero
bugie. D’altronde come dare torto a Leopardi? Senza volere scadere in
La terra
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fantasie apocalittiche, proprio mentre l’umanità conduce le sue stupide
lotte giornaliere potrebbe essere annientata del tutto e non per questo il
mondo cesserebbe di esistere: ecco allora che l’antropocentrismo e
l’idea borghese di progresso sono solo delle colossali menzogne. Allo
stesso modo lo scrittore previene Nietzsche, facendo notare che l’Eterno Ritorno esiste, si può facilmente constatare, ma lungi dall’essere
qualcosa in cui compenetrarsi rappresenta solo una tensione negativa
tra due poli (quello creativo e quello distruttivo) che schiaccia l’uomo
come un elastico perennemente teso e compresso tra la morte e la vita,
il cui movimento è solo sofferenza. Eppure, nonostante la sua critica
all’intera condizione umana sia tanto forte, Leopardi non si appiattisce
su una posizione rinunciataria, ma continua a cercare un senso, a porsi
delle domande: è come se, nonostante egli avesse espresso questa sua
verità esistenziale, egli sentisse di non doversi fermare, ma di continuare nella sua ricerca. Il dialogo così continua con l’Islandese che erompe
in un’ultima, disperata, domanda: “A chi piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le
cose che lo compongono?”. Questa richiesta di senso verrà ricambiata
non con una risposta, ma con una conferma dei meccanismi prima
espressi: la Natura, disinteressata, lascerà che egli soccomba travolto da
un turbine di sabbia (oppure sbranato da dei leoni, in ogni caso sarà
sconfitto da un evento “naturale”) e il povero Islandese così entrerà a
far parte di quella ruota fatta di “produzione e distruzione”. Dopo avere terminato la lettura dell’Operetta rimane nel lettore una sorta di tensione interiore, causata proprio dal fatto che questa ricerca di senso non
trova risposta e rimane sospesa in una tensione che non trova sfogo.
Leopardi, proprio alla fine dello scritto esposto, si distacca profondamente dal materialismo di stile settecentesco: è vero che egli non rinuncia a questa prospettiva filosofica, ma ugualmente va oltre, cercando
delle alternative alle leggi meccanicistiche della fisica, per lui non sufficienti. Questo perché laddove i materialisti vedevano la natura come
un regno retto da leggi ponderabili dalla mente umana, per lui questa è
solo il dominio dell’indifferenza e dell’insensatezza. All’uomo allora,
secondo Leopardi, non resta altra possibilità che esprimere la propria
dignità in una vigorosa denuncia della drammatica verità e continuare
la ricerca non con la presunzione di chi crede di potere risolvere l’enigma e trovare ciò che non esiste, ovvero il senso dell’esistenza, ma con la
dignità che nasce dallo sfidare la natura mediante la propria ricerca e le
proprie capacità intellettuali.
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Rivista Thule Italia
La stessa tensione intellettuale si avverte chiaramente anche nel Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia. Questo componimento poetico
fa parte della serie dei canti pisano-recanatesi ed è datato tra l’ottobre
del 1829 e l’aprile del 1830. Risulta particolare in quanto Leopardi sceglie di affidare l’esposizione del suo pensiero non a sé stesso (come nei
precedenti canti), ma a un personaggio generico (un pastore girovago)
così da fare in modo che il messaggio che egli vuole comunicare non
sia espresso solo sulla base della sua personale esperienza, ma che partendo da questa riesca a mantenere un valore universale. Il canto, che
collocato in un intervallo temporale successivo alla composizione del
Dialogo, si riaggancia a questo per le tematiche trattate, ma presenta
una situazione ancora più esasperata: descrive infatti un pastore che,
di notte, interroga la Luna circa la precarietà della condizione umana.
La Luna rappresenta chiaramente la natura, l’ambiente esterno all’uomo ovvero la biosfera della quale egli fa parte; il testo comincia proprio con delle domande incalzanti: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi,
che fai/ silenziosa luna?”. Questa non è una domanda oziosa, un mero
esercizio filosofico, ma rappresenta invece una struggente richiesta di
significato, una domanda di senso indirizzata direttamente al paesaggio naturale impersonato nel simbolo più classico di tutti, la Luna. La
domanda però, ridondante in tutto il testo, non avrà alcuna risposta.
La luna è muta, non risponde, si limita a osservare: già dall’inizio del
testo essa è descritta come “silenziosa”, quindi indifferente. Essa quindi
rappresenta la natura, fredda e muta verso l’uomo moderno che è incapace di analizzarla per trovare risposte ai suoi interrogativi esistenziali.
In questo lungo monologo il pastore avanzerà delle proprie riflessioni,
che egli da solo confuterà mettendole a raffronto con l’esperienza diretta, elencando i lunghi dolori e le sofferenze che senza giustificazione
alcuna affliggono la vita dell’uomo. Leopardi è diretto nel rappresentare la vita come una lunga rincorsa verso quella grande illusione che
è il premio divino, atteso nell’oltretomba; la realtà però è che dopo “il
tanto affaticar” ciò che aspetta l’uomo è “abisso orrido, immenso,/ov’ei
precipitando, il tutto obblia”. Egli non utilizza termini risonanti o frasi a effetto, ma non di meno la sua critica è meno violenta: lascia che
siano i fatti a esprimere da soli il vero, sostituendo alle fantasticherie
religiose la deduzione rigorosa dell’esperienza. Anche in questo testo
la ricerca leopardiana non si ferma, ma rimane aperta, in maniera ancora più marcata rispetto al Dialogo a causa del fatto che la Luna non
risponde, anzi probabilmente neanche si accorge del pastore. Eppure
La terra
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Leopardi non si ferma comunque a un semplice nichilismo e, proprio
nel finale del testo, lancia un potente messaggio al lettore. Va notato innanzitutto che nonostante il canto presenti una critica tanto aggressiva
verso la condizione umana da annullare anche l’idealizzazione divina,
il pastore (quindi Leopardi) si ostina a ricercare delle alternative valide al pessimismo suggerito dalla speculazione intellettuale. Inoltre egli
trova due esempi di vita beata, due possibilità di non dolore: la vita
del gregge e quella degli astri. Entrambe potrebbero essere allettanti,
il gregge infatti vive nell’assenza di bisogni, in una pace che deriva
dal semplice seguire l’istinto: questa forse è una finta pace, nascente
dall’inconsapevolezza del lasciarsi vivere senza ragionare o riflettere
“che la miseria tua, credo, non sai”, ma di fatto assicura una vita serena perché incosciente; gli astri invece rappresentano una condizione
beata perché dotati del perfetto sapere, simboleggiati tutti nella Luna
alla quale il pastore dice “tu per certo,/ giovinetta immortal, conosci il
tutto”, guarda tutto dall’alto perché grazie al sapere assoluto ha guadagnato questa esistenza di vita beata. Eppure la condizione di Leopardi, anzi in generale quella dell’uomo pienamente consapevole, non si
incarna in nessuno dei due esempi: entrambi rappresentano una vita
volutamente comoda e due casi comunque oziosi, quindi negativi. Ecco
allora il messaggio più forte e costruttivo che Leopardi invia al lettore:
l’uomo pienamente cosciente di sé, della propria dignità e della propria
intelligenza, pur conoscendo l’assenza di senso di una vita alla quale è
chiamato solo per lottare contro una terra a lui indifferente, non deve
fermare la propria ricerca, tacere il dovere di interrogarsi circa il senso
della sua vita, compiendo il gesto tracotante di paragonare sé stesso
alla pienezza degli astri o abbassando la sua condizione al rango delle
pecore, negando in entrambi i casi (per presunzione nel primo, per inedia nel secondo) l’esistenza di domande che necessitano una risposta.
Probabilmente la conclusione “definitiva” in questo percorso di ricerca
di significato esistenziale non verrà mai raggiunta, perché non esiste.
Risulta comunque ontologicamente doveroso scrivere che l’uomo sia
cosciente che la sua vita ha una via di realizzazione, una possibilità
remota di riscatto: questa è la ricerca del Sapere. Così, alla fine di questo canto, sembrano risuonare nei secoli i versi di Dante “Considerate
la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir
virtute e canoscenza”.
A questo punto dell’analisi tra il simbolismo della terra e la cultura umana, la tematica appena trattata, inerente al vastissimo mondo
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Rivista Thule Italia
letterario italiano, risulta davvero interessante in quanto sembra quasi
inglobare in sé e dare nuove risposte agli interrogativi posti da Nietzsche ed Epicuro, lasciando comunque aperti nuovi campi di ricerca.
Spostiamo adesso il nostro sguardo verso il mondo scientifico: secondo
la teoria dell’evoluzionismo, elaborata da Charles Darwin, l’ambiente
naturale condiziona le specie viventi sino al punto da indurre i loro
organismi a un lento e graduale cambiamento, atto a renderle più abili
a operare nell’ambiente di riferimento. Non approfondiremo oltre una
teoria scientifica sin troppo nota e abusata (che inoltre non manca di
lasciare dei grandi interrogativi senza risposta), ma ragioniamo circa
l’eventualità che l’ambiente condizioni effettivamente l’organismo di
un essere vivente: basta prendere un po’ di sole per indurre il proprio
corpo a produrre quelle sostanze che inscuriscono la pelle, provocando l’abbronzatura. Analizziamo quindi un caso meno banale: si pensi
al fatto che, quando un uomo si trasferisce in una località montuosa,
ad alta quota, il suo organismo aumenta il numero di globuli rossi del
sangue, così da compensare la minore presenza di ossigeno nell’aria
tramite un maggior numero di “operai ematici” pronti a trasferire il gas
vitale dai polmoni a tutte le zone periferiche del corpo. Adesso si rifletta su questa domanda: il fatto che l’ambiente influisca sull’organismo
delle persone non potrebbe anche ripercuotersi sul loro comportamento? Sino a che punto la nostra linea d’azione è libera dai condizionamenti e dagli stimoli che l’ambiente ci invia e quando questo diventa il
fattore determinante della nostra condotta? La linea di pensiero di chi si
appresta ad analizzare i comportamenti delle persone non deve essere
guidata da idee fantascientifiche (ipotizzando, per esempio, una sorta
di controllo mentale delle persone in base al movimento delle stelle nel
cielo), ma deve guardare invece alle circostanze più comuni per constatare se l’ipotesi espressa sia corretta. In questo caso è facile notare come
un clima eccessivamente caldo possa mutare il comportamento di un
individuo solitamente pacato sino a renderlo nervoso ed irascibile. Si
potrebbero enunciare svariati esempi relativi a modificazioni comportamentali dovute a condizioni ambientali fuori dalla consuetudine del
soggetto, ma resta il concetto di base: l’ambiente condiziona pesantemente la condotta umana. Volendo continuare questo genere di analisi,
distaccandoci però dal campo freddamente scientifico, torna di nuovo
utile lo studio della letteratura italiana e, in particolare, di una corrente
sviluppatasi nel corso dell’Ottocento: il verismo.
Lo spirito di questo canone letterario si pone, in un certo senso, a metà
La terra
65
tra le due visioni dell’elemento sinora trattate. Esso infatti risulta tanto
distante dalle serene analisi di Epicuro e dalla gioiosa accettazione di
Nietzsche quanto dal disilluso pessimismo di Leopardi. Se con il termine “terra” si intende non solo l’elemento materiale per eccellenza,
legato quindi al vivere corporeo dell’uomo, ma tutto l’ambiente che lo
circonda, allora il verismo si pone in un prospettiva esattamente mediana che si prefigura lo scopo di rappresentare proprio la componente
materiale della vita, quella non bassa (popolare nel senso negativo del
termine), ma comune, ovvero scene o racconti di semplice vita vissuta,
senza però rinunciare a una fredda e distaccata analisi. Sul piano filosofico il verismo presenta aspetti comuni al positivismo, al materialismo
e al determinismo: dalla prima corrente di pensiero esso trae la convinzione che la verità sia oggettiva e scientifica. Lo studio dei fenomeni e
degli accadimenti mondani quindi non deve essere eseguito in base alle
proprie emozioni personali, ma con il freddo e distaccato occhio dello
studioso che si limita a registrare i fatti studiandoli nella loro crudezza. Gli influssi materialistici sono quelli che emergono dalle riflessioni
che l’autore fa seguire all’esposizione dei fatti: se ne ricava, infatti, un
ritratto dell’uomo che lo porta a coincidere con un animale (sociale, ma
pur sempre tale) visto in dipendenza del suo egoismo e dei suoi bisogni
materiali. Infine, questa corrente letteraria è determinista perché non
riconosce l’esistenza del libero arbitrio, ma constata il ruolo di arbitro
svolto da precise leggi che vincolano il soggetto, il quale di fatto è vittima dell’ambiente che lo circonda. È particolare, inoltre, l’influenza che
il darwinismo ha assunto in questa corrente letteraria: i veristi, sulla
scia dello stesso pensiero di Darwin, per quanto esposto prima fanno
coincidere l’essere umano all’animale, quindi come tale lo vedono vincolato non solo dall’ambiente circostante, ma anche dalle leggi della
razza e dell’ereditarietà. Essi quindi strutturano i nuovi canoni letterari
rifiutando innanzitutto la poetica romantica (la quale è stata portatrice di una conoscenza basata sul sentimento e non sull’analisi fredda
e oggettiva) e trattano le loro narrazioni come esposizioni di carattere
scientifico, affermando il metodo dell’impersonalità della narrazione;
questo consiste nel fatto che l’autore non debba fare sentire il proprio
intervento nella narrazione, ma solamente riportare nella maniera il
più verosimile e distaccata possibile l’esposizione dei fatti. Nell’analisi verista viene anche del tutto modificata l’idea del Bello: questo non
può essere identificato dai canoni tradizionali, ma solo dall’aderenza
di un dato racconto alla realtà. Il Vero quindi è sempre nobile e morale,
66
Rivista Thule Italia
anche se rivoltante o volgare. A partire da queste posizioni ideologiche
viene radicalmente modificata anche la figura dello scrittore, che viene
a coincidere con quella di uno scienziato sociale.
Queste premesse ideologiche si traducono sul piano della narrazione
in uno stile molto particolare. Innanzitutto, le vicende narrate non sono
mai estremamente fantasiose o incredibili, ma si pongono su un livello
di grande vicinanza alla realtà. Inoltre, i contenuti veristi rappresentano tutti i livelli della società, soffermandosi spesso sulla descrizione dei
ceti sociali più bassi in quanto ritenuti più genuini nei loro comportamenti. Dovendo lo stile letterario descrivere queste classi con aderenza
al vero ne deriva un linguaggio che imita quello parlato e che non rifugge dall’uso del dialetto o del gergo popolare. Viene altresì posta una
particolare attenzione alla psicologia dei personaggi: questa non è spiegata, ma analizzata dall’esterno e sta al lettore dedurla dai loro gesti e
dalle loro azioni; è quindi suo il compito dello studio della mentalità
dei personaggi, dato che l’autore non la spiegherà mai: egli diviene così
assolutamente neutrale, un mero registratore di eventi.
Dati questi contenuti ideologici resta da definire quale sia il migliore
campo a partire dal quale l’autore debba cominciare il proprio studio. È
stato scritto come l’occhio vada indirizzato verso i ceti meno abbienti:
questo perché il verismo voleva cogliere e studiare le cause e gli effetti
dell’ambiente naturale (e sociale) che vincolano le scelte dell’uomo, rendendo di fatto illusorio il libero arbitrio; ecco allora che questa analisi
è più facile da condursi nelle classi meno agiate, giacché esse, vivendo
a stretto contatto con l’ambiente naturale ed eseguendo lavori manuali
che li obbligano a maneggiare la materia, riescono più agevoli ed intuitive da analizzare. Secondo uno scrittore siciliano, Giovanni Verga,
esse sono anche più genuine, poiché a parer suo maggiore è lo sviluppo
civile che un uomo raggiunge, più rilevante diviene quindi la sua attitudine a nascondere i reali sentimenti e dissimulare le radici materiali
che li determinano. Ecco che nell’uomo volgare, incivile, si palesa pienamente quell’influenza naturale dell’ambiente esterno che lo scrittore
verista vuole studiare e rendere manifesta, non come qualcosa da temere (come l’analisi leopardiana suggeriva) o come una fonte d’ispirazione (come indicato da Zarathustra), ma semplicemente per quello che è:
una sorgente di freni che limita e costringe la volontà umana.
Queste idee, specialmente la mancanza di libertà insita nell’essere
materiale — ovvero animale — dell’uomo e la sua consequenziale condizionabilità da parte dell’ambiente esterno, si palesano chiaramente
La terra
67
nel romanzo verista. Qui, tra le varie e notevoli opere prodotte dagli
scrittori italiani analizzeremo quello
considerato come il capolavoro di
Verga, I Malavoglia. Prima di proseguire però forniamo qualche notizia
biografica dell’autore.
Giovanni Verga nasce a Catania il
2 settembre del 1840, rampollo di
una famiglia di proprietari terrieri
e di ascendenze nobiliari (suo padre godeva del titolo di cavaliere).
Giovanissimo, appena sedicenne,
prova a scrivere un primo romanzo
che rispecchia l’atmosfera culturale
romantico-risorgimentale italiana,
intitolato Amore e Patria. Appena
ventenne egli è testimone di un
evento che influenzerà tutta la sua
Giovanni Verga in età matura.
vita potendo assistere al passaggio
delle truppe garibaldine. Episodio
questo che eserciterà su di lui un magnetismo tanto potente da renderlo un fervente sostenitore dei valori del tardo romanticismo italiano e
del Risorgimento. Dopo gli anni siciliani, caratterizzati dalla stesura di
romanzi principalmente incentrati sul tema patriottico, inizia per Verga
una fase che lo porterà ad allontanarsi dagli ambienti meridionali verso
il nord Italia. Egli prima è a Firenze, dove compone il romanzo epistolare Storia di una capinera, nel quale ancora rimangono forti i temi della
letteratura romantica e un atteggiamento narrativo volto a fini moralisti, ma si comincia a delineare un interesse per l’analisi delle situazioni
sociali più difficili e particolari. In seguito, si trasferisce a Milano, che
allora era non solo la capitale culturale d’Italia, ricchissima di salotti
letterari presso i quali gli intellettuali del tempo potevano confrontarsi
e accrescere la loro formazione, ma anche la capitale economica: egli
così, lontano dall’economicamente arretrata Sicilia, può studiare i meccanismi finanziari, le leggi del mercato e del lavoro che tanto influenzano la condotta e le attitudini delle persone, cercando di analizzare il
comportamento da queste assunto in base agli andamenti del mondo
dell’economia. Egli ha un’intuizione che lo conduce ad abbandonare
68
Rivista Thule Italia
definitivamente i precedenti schemi romantici ai quali era ancora vicino
e, in particolare, capisce che l’ideale d’arte, in un mondo dominato dal
denaro e popolato da uomini che vivono per accumularlo — laddove
predominano le banche e le imprese —, è ormai un lusso inutile. Il punto di svolta definitivo è marcato dall’incontro con Luigi Capuana, altro
intellettuale siciliano che a Milano cercherà di costituire un gruppo di
nuove menti capaci di creare il romanzo moderno, seguendo i principi
ispiranti la letteratura Naturalista francese. Questa corrente letteraria
presenta molte assonanze con il verismo italiano, ma di fatto quest’ultimo se ne distacca grazie agli originali contributi che gli intellettuali
italiani hanno apportato. Sulla scia di queste nuove spinte ideologiche
Verga decide di riscrivere di sana pianta un romanzo sul quale aveva
lavorato in quegli anni, intitolato Padron ‘Ntoni. Egli unendo le suggestioni nate dai canoni naturalisti alle proprie intuizioni scriverà così I
Malavoglia, primo romanzo verista e, insieme al Mastro-don Gesualdo,
il testo più contenutisticamente ricco della sua produzione letteraria.
Verga però risulta un personaggio difficilmente inquadrabile sotto ogni
punto di vista: era una persona schiva, piuttosto solitaria e malinconica, eppure si trovava al centro dell’attività dell’avanguardia letteraria
italiana. Egli cercava (e probabilmente vi riuscì) di creare il romanzo
nuovo, ma al contempo, capendo che questo non poteva essere apprezzato dal grande pubblico, continuava a scrivere nell’ambito di un secondo filone narrativo, più “digeribile” dal mondo alto-borghese: è un
po’ come se egli patisse lo stesso potente condizionamento da parte
dell’ambiente esterno che i suoi personaggi sono costretti a subire e su
questa scia egli, pur conoscendo tutte le negatività derivanti dal mondo
economico, non riuscisse comunque a distaccarsi dall’interesse verso i
beni materiali. Da qui l’adesione al programma proposto dalla Destra
Storica volto al potenziamento del piano agrario così da ideare una valida alternativa allo strapotere del capitale degli industriali del Nord, a
tutto vantaggio dei nobili proprietari terrieri meridionali, classe della
quale Verga faceva parte. In seguito comunque egli si ritira dalla vita
politica, torna a Catania e si cristallizza su posizioni reazionarie, aprendosi comunque allo schema di un nazionalismo antisocialista. Ancora
una volta si legge un contrasto nella biografia di Verga: da una parte egli
vuole finire il grande lavoro di analisi del panorama sociale dell’Italia
moderna in chiave verista terminando il “ciclo dei Vinti”, gruppo di
cinque romanzi, i cui primi due sono I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo,
ma senza neanche avere terminato il terzo (La duchessa di Leyra) scrive
La terra
69
un romanzo ambientato nelle zolfatare siciliane (intitolato Dal tuo al
mio) nel quale abbandona i canoni veristi per rappresentare la lotta di
classe sotto una chiave d’interpretazione antisocialista. Nel 1920 viene
nominato senatore ed a Catania assiste a un roboante discorso nel quale
Pirandello lo contrappone a D’Annunzio. Muore il 24 gennaio del 1922,
mentre le sue opere veriste stanno cominciando a riscuotere i favori
della critica e del pubblico.
Nell’ottica del romanzo verista, di cui Verga rappresenta non solo un
ideatore, ma anche il maggiore esponente, un esempio tipico è quello
de I Malavoglia. La genesi di quest’opera viene datata al 1875, anno in
cui Verga comunica all’editore Treves di stare scrivendo una nuova novella ambientata nel mondo dei marinai intitolata Padron ‘Ntoni. Questa
novella probabilmente seguiva lo stesso filone ideologico (di tipo filantropico-sociale) che aveva caratterizzato un precedente lavoro, Nedda,
di ambientazione rurale. Probabilmente volendo cavalcare il successo
che la novella aveva raccolto Verga voleva proporre una nuova opera
tematicamente legata alla precedente. Nel 1878 però si registra l’interesse dell’autore per il Naturalismo francese e questo lo porterà a ideare
una nuova poetica, quella Verista, che di fatto si realizza nei Malavoglia, romanzo che nasce a partire dal Padron ‘Ntoni, ma che stravolse
completamente i canoni letterari del tempo.
Il titolo del romanzo rappresenta già un primo messaggio indirizzato
dall’autore al lettore: questo infatti è una “ngiuria” siciliana ovvero un
soprannome dato per contrasto a una persona o un gruppo da parte
della società. Il termine Malavoglia infatti identifica la famiglia dei Toscano di Aci Trezza, che a dispetto del soprannome sono invece una
laboriosissima famiglia di pescatori. L’autore così sin dal primissimo
principio dell’opera è chiaro nel voler assumere non l’ottica superiore
dello scrittore onnisciente, ma quella culturale e linguistica dei personaggi che animano la storia: è tipico della tecnica narrativa verghiana il far sparire il giudizio etico e morale dell’autore per far emergere
solo quello dei personaggi. Nella prefazione che Verga antecedette al
romanzo vero e proprio si riscontrano i punti principali del nuovo progetto letterario che egli, con I Malavoglia, voleva iniziare. Verga crede
che la forma letteraria attuale sia ormai da considerarsi superata poichè
non esiste più, nel mondo meccanicistico dominato dalla banche e dalle imprese, un’etica assoluta, da qui pertanto la necessità di ricercare
non una, ma svariate soluzioni stilistiche, ognuna adatta a rendere il
soggetto trattato e le varie forme che i fatti assumono. Da questa pri-
70
Rivista Thule Italia
ma assunzione deriva inoltre il successivo sfumare della persona del
narratore nelle voci dei diversi personaggi, che di fatto tramite il loro
punto di vista raccontano a turno la propria storia, contribuendo ognuno allo svolgersi del romanzo. Le posizioni filosofiche veriste sono già
state precedentemente chiarite ed è naturale che essendo “morta” la
figura del narratore onnisciente romantico, che segue gli avvenimenti
dall’alto, il nuovo narratore non può che essere interno alla narrazione,
quindi costituirsi tramite le plurime voci dei protagonisti della vicenda
narrata. Dalla morte del narratore derivano poi delle importanti scelte stilistiche: i personaggi non verranno più descritti tramite la voce
dell’autore, ma a mezzo delle discussioni corali o dei dialoghi tramite i
quali, pian piano, il lettore imparerà a riconoscerli ancora prima di sentire il loro nome. Quello che Verga vuole ottenere è un effetto essenzialmente realistico e tipico della vita comune: di solito nessuno conosce
immediatamente una persona, ma impara di lei tramite i suoi discorsi
o quello che ne dicono gli altri, arrivando sinanche a capire il soggetto del quale due persone stiano parlando grazie al solo intuito, senza
dovere accertarsi del suo nome. Dal punto di vista linguistico invece
l’assunzione degli “occhi dei personaggi” determina il dovere sviluppare il testo secondo uno stile opportuno che riproduca la prospettiva
popolare: si giustifica quindi l’ampio uso di metafore e proverbi siciliani che l’autore fa durante il racconto. Verga conclude queste riflessioni
esprimendo la consapevolezza di compiere un’azione di rottura, quasi
avanguardista, volta alla creazione di un nuovo genere di romanzo. Per
raggiungere questo obiettivo egli rinuncia a un successo facile tramite
l’offerta al pubblico “delle solite frasi lisciate da cinquant’anni” (come
egli stesso scrisse) per realizzare un’opera capace di rompere con un
passato ormai morto e di mostrare al pubblico la direzione presa dallo
sviluppo storico. Un altro letterato, Oscar Wilde, scrisse che Calibano
odia vedere il suo riflesso nello specchio: ugualmente I Malavoglia, nella
fase iniziale della sua ricezione, non sarà per nulla apprezzato dal pubblico letterario italiano.
Il romanzo comincia con queste parole: “Questo è lo studio sincero e
spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle
più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere”. Esso racconta, infatti, le vicissitudini della famiglia Toscano di Aci Trezza e di
come, a causa di uno scherzo della natura e di una società fortemente
chiusa, questa piombi nella rovina più totale, salvo riscattarsi alla fine.
Ma procediamo con ordine. I Toscano vengono chiamati dai compae-
La terra
71
sani col soprannome “Malavoglia”: fortemente antifrastico, in quanto
questa è una famiglia costituita da indefessi lavoratori. È formata dal
nonno, padron N’Toni, proprietario di una masseria (chiamata la casa
del Nespolo) e di una barca, utile per esercitare il mestiere di pescatore (chiamata Provvidenza, in quanto necessaria al soddisfacimento
dei bisogni della famiglia), dal figlio Bastianazzo, dalla nuora Maruzza
(chiamata dai compaesani la Longa e così identificata dall’autore) e dai
cinque nipoti N’Toni, Luca, Alessi, Mena e Lia. La vicenda viene messa
in moto dal matrimonio di Mena: per poterle procurare una dote Bastianazzo e padron N’Toni decidono di investire del denaro su di un grosso
carico di lupini, da trasportare in barca. Non possedendo la somma necessaria per comprare tutto il carico, i Malavoglia decidono di chiedere
il denaro in prestito a un usuraio del paese, zio Crocifisso (in Sicilia il
termine “zio” non è identificativo solo di un grado di parentela, ma
anche di una forma di rispetto) detto “Campana di Legno” per la sua
incapacità di ascoltare le condizioni di miseria nelle quali la sua stessa
opera di prestito a usura conduce le persone. La barca però, durante
il trasporto del carico, incappa in una tempesta e naufraga, perdendo
tutta la merce e causando la morte di Bastianazzo. Comincia così per i
Malavoglia un triste periodo fatto di estrema miseria, dal quale sembrano non potere uscire nonostanteil forte impegno di padron N’Toni
di tenere unita la famiglia sotto i due simboli della Casa del Nespolo,
rappresentante l’unità degli affetti e quasi una religione familiare, e
della barca Provvidenza, emblema primo di quell’attaccamento per il
lavoro e per i frutti che da questo derivano. Padron N’Toni è un vero e
proprio polo ideale contro il quale si scontra il suo opposto, l’usuraio
Campana di Legno, che rappresenta invece i valori dell’utile economico, del guadagno e dell’egoismo cinico. Questi due poli rappresentano
in qualche modo uno i valori antichi, quelli sui quali si basava l’esistenza non solo della Sicilia, ma dell’Italia tutta, l’altro i nuovi valori del
mondo moderno, che Verga tanto bene aveva visto e registrato nello
sviluppo industriale del Nord.
Nonostante la presenza di questo polo positivo interno alla famiglia le
cose per i Malavoglia non vanno per niente bene e i disvalori moderni
si incuneano nella vita di queste persone, modificandone la condotta
a causa di una “vaga bramosia dell’ignoto” come scrive Verga nell’introduzione, ovvero di un desiderio di mutare, di non accontentarsi
della propria posizione per andare in cerca d’altro. Luca infatti, pieno
di amore patriottico, muore nella battaglia di Lissa e soprattutto N’To-
72
Rivista Thule Italia
ni — incapace di amare il mondo dei valori tradizionali incarnato dal
nonno e animato da un desiderio di evasione — cercherà fortuna nelle
grandi città, entusiasmato dal progresso, dalla modernità e dai grandi
complessi industriali: lascerà la sua famiglia per tornare più povero di
prima. L’ambiente esterno non rimane muto alle disavventure di questa famiglia e da una parte la società di Aci Trezza non avrà pietà alcuna
nel criticare la condotta dei Malavoglia, tacciandoli quasi come degli
arrampicatori sociali che giustamente sono caduti in miseria, dall’altra la stessa natura influirà pesantemente sulla condizione familiare,
arrecando anzi il colpo di grazia: a causa di una tempesta si verifica
un secondo naufragio della Provvidenza che aggrava la salute del vecchio padron N’Toni, il quale per saldare il debito è costretto a vendere
la casa del Nespolo. Le sfortune della famiglia non terminano qui, in
quanto Lia viene insidiata dal brigadiere don Michele mentre N’Toni
peggiora la reputazione della sua famiglia praticando le bettole e gli
ambienti tipici della malavita di Aci Trezza. In particolare, sorpreso da
don Michele durante uno scarico di merce di contrabbando, egli accoltella il brigadiere, il quale durante il seguente processo renderà a tutti
nota la relazione con la giovane Lia. Così N’Toni verrà condannato a
cinque anni di carcere mentre Lia, ormai disonorata, fuggirà da casa e
si “perderà in città” (probabilmente l’autore allude alla prostituzione
della ragazza a Catania). Mena, considerandosi non rispettabile a causa
della condotta del fratello e della sorella, rifiuterà definitivamente la
proposta di matrimonio avanzatale da Alfio, sacrificando il suo amore
per non macchiare la reputazione del giovane. Possiamo considerare
chiusa la seconda parte del romanzo con la morte di padron N’Toni, il
quale ormai stremato trapassa in ospedale.
L’ultima parte del racconto si svolge in un arco di tempo lungo molti
anni, ma questi vengono quasi condensati in poche pagine. Sembra che
tolti gli elementi “disturbanti” l’equilibrio familiare, ovvero Campana
di Legno e N’Toni, entrambi rappresentanti i valori nocivi del progresso (accanto alla fredda ragione calcolatrice dell’usuraio sembra quasi,
almeno all’inizio, di avvertire gli ideali del borghese che si fa da solo,
tanto vagheggiati anche dal giovane Malavoglia), la famiglia Toscano
riesca a trovare un certo equilibrio. Il giovane Alessi infatti arriva a
riscattare la Casa del Nespolo e a sposare una vicina, Nunziata. Egli
riesce quindi a ricostituire l’ambiente familiare, creando quasi un collegamento con i valori del nonno padron N’Toni. Il romanzo termina con
N’Toni che, uscito dal carcere, si reca per un’ultima volta nella vecchia
La terra
73
casa dove è cresciuto, conscio del fatto di doverla abbandonare a causa
della sua condotta profondamente scorretta.
Tutto il romanzo si svolge quindi attorno all’analisi di come la ricerca
di una condizione di vita ritenuta migliore possa sconvolgere l’assetto
familiare e di quanto la natura, vista non solo come l’ambiente naturale, ma anche nell’insieme dell’ambiente sociale, possa influenzare il
comportamento degli individui sino a causarne una totale deviazione
dalle loro normali abitudini. Infatti è vero che è il primo naufragio della Provvidenza (causa anche della morte di Bastianazzo Malavoglia) a
mettere in moto gli eventi, ma gli accadimenti che conseguono a questa
disgrazia sono notevolmente influenzati dall’ambiente sociale dove i
personaggi si muovono. Invero le azioni dei Toscano/Malavoglia vengono notevolmente influenzate, anzi quasi del tutto determinate, dalle
loro relazioni con gli altri abitanti del paese: non è un caso infatti che
l’abbandono da parte del giovane N’Toni della morale e del sistema etico impersonato dal nonno si concretizzi proprio quando egli comincia a
praticare i bassi ambienti della cattiva gioventù di Aci Trezza. E rafforza
quanto scritto il fatto che N’Toni arrivi a falsi plasmare dal contrabbandiere Rocco Spatu al punto da divenire egli stesso contrabbandiere. Se
è vero che questo condizionamento è a dir poco lampante proprio nel
personaggio di N’Toni, occorre rimarcare che simili influenze (in negativo, ma anche in positivo) si trovano in tutti i Malavoglia: se il carabiniere don Michele non l’avesse oltraggiata in pubblico, probabilmente
la giovane Lia non sarebbe divenuta una prostituta e, allo stesso modo,
è la Nunziata che incarnando ella stessa i valori familiari e tradizionali
funge quasi da sostegno per Mena, la quale rappresenta quella parte
della famiglia Toscano ancora fedele al sistema di valori incarnato da
padron N’Toni. Possiamo scrivere che tutta la vita di Aci Trezza risulta
mossa dall’interazione tra due poli, manifestanti da una parte gli ideali
del guadagno e della vita moderna (via seguita, per esempio, da personaggi come Rocco Spatu e dal sensale Piedipapera) e l’altra i valori del
lavoro e dell’attaccamento alle tradizioni. Questo stesso bipolo viene
poi trasferito all’interno della famiglia Toscano e di fatto la tensione
derivante porta a una netta scissione tra i nipoti: Alessi e Mena da una
parte, Lia e N’Toni dall’altra. In questo sistema bipolare spiccano, come
scritto sopra, le due figure di padron N’Toni e dell’usuraio Campana
di Legno. Verga riesce quindi, con grande maestria, nella fredda analisi
degli eventi, studiando una storia per come i canoni veristi impongono,
ma nonostante tutto — proprio nella scelta dello stile letterario — la-
74
Rivista Thule Italia
sciando trapelare la sua posizione a favore del sistema etico della Sicilia tradizionale: ogni qual volta egli rappresenta e racconta degli stati
d’animo dei personaggi “positivi” utilizza un registro lirico-simbolico,
mentre quando descrive il mondo di Trezza e i comportamenti dei personaggi più meschini adotta uno stile grottesco, potremmo dire comico
e caricaturale.
Il lettore, per quanto esposto sopra, non si lasci ingannare dalla conclusione del romanzo: è vero infatti che N’Toni, che può essere visto
come un traditore dei valori della sua famiglia, abbandona Trezza e che
Alessi riesce a recuperare una sana condizione economica e a costruire
un proprio nucleo familiare che si pone in un’ottica contigua a quella
del nonno, ma questo non lascia comunque spazio a finali “positivi”.
Il capitolo finale — nel quale si concretizza l’addio finale di N’Toni al
suo paese e a quanto rimane della sua famiglia — è, infatti, altamente
significativo e sembra quasi capovolgere l’idea che il lettore si è fatto di
questo ragazzo. La nostra analisi potrebbe portare il lettore a vederlo
come un personaggio negativo, ma le cose non stanno assolutamente
così: egli — a differenza dell’usuraio, di don Michele o di Rocco Spatu
— è una persona traviata, che avverte profondamente la scissione tra
i valori che hanno animato la sua giovinezza, cardini della sua educazione e i nuovi disvalori del mondo moderno che si stanno delineando
già nelle grandi città lontane dalla Sicilia. Egli, inoltre, non è fiero delle
sue scelte, anzi è la profonda vergogna che lui avverte, nascente dalla
consapevolezza che il suo agire ha violato la legge morale della sua
famiglia, che lo porta a capire che per lui, anche dopo avere saldato il
suo conto con la società tramite gli anni trascorsi in carcere, non c’è più
spazio in quell’ambiente, in quell’ordine arcaico che Trezza rappresenta. “Qui non posso più starci. Addio, perdonatemi tutti”: queste sono le
parole che rendono N’Toni non un uomo fiero delle sue azioni, ma un
essere scisso a causa dal moto del progresso, il quale viene quasi materializzato dal mare in tempesta che per due volte la Provvidenza ha
dovuto affrontare, le cui onde arrivano sino ad Aci Trezza, trascinando
al largo anche ‘Ntoni. Ecco, dunque, che nella sua persona possiamo
scorgere l’autore, il quale fu anche lui costretto ad abbandonare la Sicilia per vivere in quel mondo moderno che alla fine gli ha portato tanta
delusione e nell’esclusione di N’Toni dalla vita di Trezza si materializza l’isolamento del nuovo intellettuale, che nel mondo mercantilistico
dell’economia e del denaro non riesce più, come accadeva in epoca tardo romantica, a influire sullo sviluppo della nazione, ma può solo regi-
La terra
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strare il succedersi degli eventi: da qui nasce quindi la posizione verista. Questa chiave di lettura trova piena conferma se si riflette sul fatto
che l’addio di N’toni alla sua famiglia o di Verga al mondo siciliano rappresenta ancora di più il momento in cui il mondo tutto si distacca dal
suo passato per abbracciare qualcosa di nuovo e distruttivo allo stesso
tempo: non deve quindi sorprendere che l’addio di N’Toni, in chiusura
di romanzo, sia dipinto quasi a tinte lugubri, una sorta di commiato che
richiama un funerale, come sottolinea l’autore scrivendo che: “N’toni
si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero”. È allora
corretto chiudere questa parte dell’esposizione con un’analisi elaborata
da Romano Luperini: “In Verga manca la fiducia romantica nella storia
e nell’uomo che può costruirla e determinarla. L’uomo infatti è e sarà
sempre dominato dagli istinti e dagli interessi materiali. Questi ultimi
isolano ogni individuo dai proprio simili: se si eccettua la solidarietà familiare (presente peraltro solo nella famiglia dei Malavoglia) ciascuno
è solo con il proprio egoismo. La solidarietà di classe non esiste, e neppure esiste la possibilità di un futuro radicalmente diverso. Chi tenta di
mutare stato è un illuso destinato alla sconfitta”.
L’elemento terra porta lo stesso nome del pianeta che costituisce la
casa dell’umanità. È quantomeno curioso che gli antichi abbiano deciso di identificare il pianeta con l’elemento terreno, laddove invece la
superficie di questo pianeta è costituita per circa il 71% dall’acqua. La
causa di questo è probabilmente spiegabile tenendo a mente che nei secoli passati si credeva che la superficie terrestre fosse piatta e che le terre emerse fossero semplicemente circondate dal mare. Questo pianeta
risulta essere molto particolare all’interno del sistema solare, dato che
si può ragionevolmente assumere (allo stato attuale degli studi) che sia
l’unico al momento ospitante forme di vita intelligenti. Tale peculiarità
è stata permessa da un insieme di fortunati fattori (come la distanza dal
Sole, la velocità di rotazione, l’inclinazione dell’asse e il particolare insieme di gas che formano l’atmosfera) che si sono combinati in maniera
tale da permettere prima l’instaurarsi e poi lo sviluppo delle prime forme di vita, le quali hanno trovato non solo gli elementi necessari per la
loro crescita, ma anche le migliori condizioni ambientali. Dal punto di
vista scientifico il pianeta è costituito da un nucleo centrale caldissimo,
nel quale avvengono delle reazioni termonucleari che rilasciano una
grande quantità di calore ad altissima temperatura che mantiene allo
stato fuso tutto il materiale al di sotto della crosta terrestre, che il lettore
può immaginare come un insieme di zolle solide che galleggiano sopra
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Rivista Thule Italia
un mare di magma. Proprio per la sua conformazione fisica l’elemento
terreno risulta strettamente connesso al fuoco e, allora, non è casuale
che la Terra, grazie a trasformazioni lunghe milioni di anni, abbia creato il più grande e potente vettore energetico che ha permesso alla civiltà
umana di assurgere sino al livello odierno: gli idrocarburi o combustibili fossili, generalmente inquadrabili sotto la forma di petrolio e gas
naturale. Il lettore attento ricorderà che un articolo sugli idrocarburi è
già comparso nel precedente numero di questa rivista dedicato al fuoco: è bene allora rimarcare che questa parte dello scritto si pone in continuità tematica con il precedente elaborato, pur posando lo sguardo su
simili analisi iniziali sposta poi l’attenzione del lettore verso altri dati.
Gli idrocarburi sono delle molecole formate generalmente da atomi
di idrogeno e di carbonio: un esempio comune è il gas metano (CH4)
formato da un atomo di carbonio legato a 4 atomi di idrogeno. Queste
sostanze devono il loro pregio al fatto che la loro combustione è capace di produrre una grande quantità di energia termica. In generale si
può dire che la qualità di un idrocarburo (quindi la quantità di calore
ottenibile dalla sua combustione) aumenta all’aumentare del numero
degli atomi idrogeno (i responsabili della generazione del calore) mentre diviene tanto più dannoso tanti più atomi di carbonio sono presenti
(dato che da questi si genera la CO2 , noto gas inquinante): il pregio di
un idrocarburo è quindi dato dal rapporto H/C che dovrebbe essere il
più alto possibile.
Gli idrocarburi, da un punto di vista naturale, vengono generati dalla
stratificazione di sostanza organica (come, per esempio, resti animali
o vegetali) nel sottosuolo e dalla successiva decomposizione e sintesi
dei nuovi prodotti ad altissime pressioni e temperature. Il processo di
formazione di questi vettori energetici si svolge su di una scala temporale millenaria, quindi, pur essendo delle fonti energetiche rinnovabili,
queste non risultano essere sostenibili, dato che è vero che nel tempo si
ricostituiscono rendendosi disponibili al loro sfruttamento, ma non in
intervalli temporali tali che un loro utilizzo odierno non infici la capacità di sfruttamento delle future generazioni. Non porremo qui la nostra
attenzione agli idrocarburi in sé e per sé, ma li analizzeremo nell’ottica critica finalizzata alla conoscenza della quantità di petrolio e di gas
naturale che la Terra ha da offrirci dal suo grembo, dando un rapido
sguardo alle possibili alternative.
Nell’analisi quantitativa delle fonti energetiche sopra enunciate bisogna necessariamente affidarsi ai dati forniti dalle grandi compagnie
La terra
77
petrolifere
e
del gas. Nel
prosieguo di
questo scritto
noi ci affideremo alla Eni
World Oil and
Gas
Review,
rapporto gratuitamente scaricabile dal sito
dell’ENI. Prima
dell’analisi occorre chiedersi Andamento delle riserve mondiali di Petrolio (fonte Eni World Oil
se questi dati
and Gas Review.
siano o meno
affidabili. Una brutale risposta porterebbe a pensare che purtroppo il
cittadino può accedere solo a questi dati (o a simili diramati da altre
compagnie), pertanto la sua analisi può essere viziata dall’uniformità
delle fonti. Inoltre, viste le note leggi di domanda-offerta che regolano
in parte l’andamento del mercato del greggio, la diffusione di informazioni totalmente contrastanti con la realtà causerebbe danni monetari
alle stesse compagnie. Il mercato dei derivati, infatti, si regge nel breve termine sulle intuizioni o meglio sui presentimenti provocati negli
azionisti e nei compratori dalle informazioni circolanti, dai dati puri ai
quali ognuno riesce ad accedere (e in questi frangenti la conoscenza di
informazioni dona un grande potere), ma alla lunga è il mercato reale,
quello fisico, che detta le sue leggi. Quindi sarebbe sciocco dire che un
pozzo di petrolio vicino all’esaurimento è invece ancora ricco, perché
un’informazione del genere precluderebbe l’aumento del prezzo della fonte (tipico dei pozzi in esaurimento) e il successivo (e fisiologico)
esaurimento di detto pozzo provocherebbe delle perdite economiche
al proprietario. Non si pensi, comunque, che i dati che gratuitamente
questi enti ci forniscono siano assolutamente veri, poiché per quanto
scritto prima i mercati sono ampiamente influenzati dalle informazioni
circolanti: questi elementi quindi rappresentano una piccola leva che
le grandi industrie del petrolio possono utilizzare per variare leggermente lo stato delle cose. Il lettore allora sia scaltro nell’interpretare i
dati solo riguardo agli andamenti della fonte che essi forniscono ovvero
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Rivista Thule Italia
se la sua disponibilità sia in aumento o in diminuzione, diffidando al
contempo delle quantità che, oltre a essere spesso ingegneristicamente
inesatte, risultano anche ben camuffate così da orientare l’andamento
dei mercati internazionali.
Il petrolio ed il gas naturale sono non solo due fonti d’energia assolutamente insostituibili, ma anche due veri e propri beni primari, vista
l’influenza assoluta e unica che essi esercitano sul grado di sviluppo
della civiltà umana. La Terra sembra quasi avere incubato nel suo ventre per milioni di anni queste particolari sostanze in attesa che l’uomo,
una volta giunto a piena maturazione, potesse impiegarle al meglio
per stabilire un suo primato incontrastato quale dominatore del mondo naturale tutto. Non è un caso che noi abbiamo utilizzato il termine
“insostituibile”, dato che nel prosieguo verrà ampiamente dimostrata
la totale insostenibilità delle fonti rinnovabili, meglio conosciute come
“energie verdi” .
Dobbiamo innanzitutto chiarire come vengano distinte le fonti fossili
sopra citate: la quantità totale di petrolio e gas naturale viene divisa in
riserve, produzione e consumi. Il primo termine viene definito come
“la quantità di petrolio/gas tecnicamente ed economicamente estraibile”: questo implica, quindi, che le cosiddette riserve siano costituite
da ciò che noi siamo in grado di estrarre dal sottosuolo a un costo non
eccessivo, capace di rendere la vendita competitiva sul mercato. Il secondo termine invece indica “la quantità di petrolio/gas estratta dal
sottosuolo e successivamente rivenduta nei mercati”: questa definizione introduce quindi un concetto che spiega come non tutto il petrolio disponibile all’estrazione (le riserve) venga effettivamente estratto,
poichè quest’operazione pertiene solo a una piccola parte di questo,
ovvero alla porzione che viene integralmente venduta sul mercato. Il
terzo termine indica “la quantità di petrolio/gas naturale comprata e
successivamente immessa nel settore industriale”: si parla quindi di
quella parte che viene effettivamente utilizzata dalle industrie nazionali per i vari settori produttivi, quali per esempio la produzione di
energia elettrica.
I dati Eni forniscono alcune informazioni molto particolari. Guardiamo per prima cosa il gas naturale: secondo un dato ampiamente diffuso,
questa fonte fossile è ormai satura, ovvero il livello delle riserve mondiali non è in aumento, bensì in calo. Questo perché il gas naturale è una
fonte tale che lo sfruttamento di qualsiasi giacimento non è mai stato
tecnicamente o economicamente svantaggioso, quindi già da alcuni anni
La terra
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abbiamo saturato la nostra capacità d’estrazione. Discorso ben diverso,
invece, va fatto per il petrolio: la notizia che gli ambientalisti diffondono circa il suo prossimo
esaurimento è sostanzialmente un’informazione falsa e fuorviante.
Infatti i dati mostrano
chiaramente come le
riserve mondiali manifestino un andamento
nel tempo monotòno
crescente: se vogliamo
dar retta ai numeri, si è
Trivellazioni petrolifere nell’Artico.
passati dai 956.823 milioni di barili nel 1995 ai
1.401.525 milioni di barili nel 2012. Visti i tempi lunghissimi necessari
alla formazione del petrolio e i motivi sopra elencati, bene si comprenderà come quest’andamento crescente sia dovuto al fatto che l’avanzamento della tecnica ingegneristica permette lo sfruttamento di pozzi
prima non competitivi sul mercato e — date le odierne informazioni
e le attuali trivellazioni (specie nell’Artico) — non abbiamo pertanto
motivo di temere una prossima saturazione della fonte. Per motivi
prettamente euristici, tecnici e fisici siamo quindi sicuri che, almeno
per molti anni, la quantità di petrolio sarà più che sovrabbondante per
tutti coloro che potranno acquistarla. Il problema inerente le fonti fossili è
proprio quello relativo al costo: per il gas naturale possiamo dire che
gli andamenti mondiali (quindi su larghissima scala) sono più “prevedibili” rispetto a quelli relativi al greggio. Sino a molti anni fa, infatti,
il gas veniva trasmesso solo lungo grandi tubature, dette gasdotti, che
per motivi economici e tecnici potevano collegare solo produttori e importatori relativamente vicini. Guardando il caso di studio italiano, la
penisola era prima approvvigionata in gas naturale esclusivamente da
paesi sudafricani e nordeuropei. Grazie allo sviluppo delle tecnologie
di liquefazione e rigassificazione del gas (che permettono di liquefare
il gas presso la zona d’estrazione così da poterlo trasferire tramite navi
metaniere in tutto il mondo senza vincolo alcuno) questa fonte è stata
del tutto svincolata dalle limitazioni geografiche e soprattutto politiche tipiche dei gasdotti. Da questa succinta analisi circa la mancanza
(al momento prettamente virtuale) di vincoli geopolitici e data la sa-
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Rivista Thule Italia
turazione della fonte, deriva una certa debolezza dei venditori del gas
naturale sul mercato. Questi infatti hanno poco potere economico nei
confronti di una fonte che è sì molto sfruttata nel mondo, ma di cui è
noto che la quantità non risulta in aumento. Ecco allora che paesi come
il Qatar (primo al mondo nel settore delle riserve, ma praticamente assente dal punto di vista della produzione a causa della sua incapacità di
imporsi sul mercato) hanno dovuto abbassare notevolmente le loro richieste per potere vendere la loro fonte sul mercato mondiale. Si spiega
così come, dal lato gas, i compratori europei e nordamericani riescono
a far valere una piccola leva, grazie specialmente al fatto che i paesi
produttori possono interloquire quasi esclusivamente (perlomeno per
quello che riguarda le grosse quantità) con loro, poiché i Paesi economicamente emergenti (Cina prima tra tutti) risultano utilizzare generalmente impianti industriali non a gas ovvero a peggiore rendimento, ma
a minore costo d’impianto. Tutto ciò, sinora, ha fatto in modo che non
si verificassero grosse criticità lato gas, perlomeno a livello mondiale. Il
condizionale risulta però d’obbligo, dato che specie in ambito europeo
si è ancora molto dipendenti dai gasdotti, condizione che ha portato a
un certo immobilismo politico anche di fronte ad azioni politiche piuttosto spregiudicate.
Molto diverso è invece lo stato delle cose dal lato del petrolio. Questa
fonte risulta influenzare non solo gli interi mercati economici, ma anche la stabilità politica di molti Paesi e, in generale, la vera e propria
sopravvivenza di una nazione. Innanzitutto occorre dire che già solo
l’atto d’acquisto della fonte presso un Paese piuttosto che un altro è
una conseguenza di ben ponderate decisioni politiche. A riguardo ha
del clamoroso il caso del Venezuela, Paese che risulta essere il primo al
mondo dal punto di vista delle riserve possedute, ma che non riesce a
imporsi sul mercato; ciò per motivazioni geografiche e politiche, infatti
la posizione del Venezuela lo porta a poter interloquire principalmente
con gli U.S.A., ma questi ultimi, per motivi politici, preferiscono comprare la fonte loro necessaria da altri (anche a prezzo maggiore), pur
di non mettersi in una posizione di debolezza verso uno stato “nonamico”. Naturalmente alla lunga questo Stato sudamericano riuscirà
a vendere il suo petrolio (che al momento può stare ben al sicuro sotto
terra), ma al momento la popolazione venezuelana non gode di tutti
quei vantaggi che potrebbe ottenere in termini di benessere e di ricchezza da una fonte tanto ricca.
Non si creda, tuttavia, che nel mercato del petrolio i Paesi compratori
La terra
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godano dello stesso potere decisionale che si è (almeno virtualmente)
riscontrato nel mercato del gas naturale. Bisogna dire che i produttori
cercano, a tutt’oggi, di assecondare gli andamenti dell’economia mondiale facendo scendere il costo della fonte durante i periodi di recessione economica e mantenendolo costante (o addirittura provocandone un rialzo) durante i periodi di crescita del PIL mondiale. Perché i
produttori si comportano così? Sicuramente non per fini umanitari, ma
esclusivamente per motivazioni che riguardano la loro sopravvivenza
economica. Infatti, essi seguono l’andamento economico mondiale solo
per potere fare in modo che le vendite della loro fonte non subiscano
cali: i produttori anzi guardano positivamente a un aumento del PIL
mondiale solo perché questo permette loro di vendere il petrolio a un
prezzo maggiore. Ci si potrebbe chiedere perché, nonostante quanto
scritto sopra, il prezzo del greggio sia in costante aumento a dispetto
della crisi economica che ha investito l’Europa occidentale e l’America
del Nord: la risposta è assolutamente semplice. Prima il PIL mondiale
vedeva come uniche due forze motrici proprio queste due macrozone geografiche, ma dagli ultimi 10 anni circa a oggi si sono introdotte
nuove realtà nel panorama economico mondiale che, grazie all’esponenziale crescita dei loro mercati, hanno del tutto soppiantato il ruolo di guida dei mercati mondiali prima tenuto da queste macrozone.
Oggi, nonostante l’America e l’Europa siano in piena recessione, il PIL
mondiale è in crescita grazie allo sviluppo dei paese emergenti e così i
paesi venditori non solo non calmierano i prezzi, ma addirittura li aumentano, potendo contare su acquirenti che, in virtù dei loro mercati in
espansione, possono permettersi l’acquisto.
La grande e futura abbondanza di petrolio comporterà così che il greggio sarà, per moltissimo tempo, qdisponibile per chi avrà la capacità
d’acquisto. Si verificherà quindi nel mondo una vera e propria lotta per
la sopravvivenza, che vedrà il petrolio al centro dei contendenti e non
temiamo di scrivere che la mancata disponibilità condurrebbe, istantaneamente o quasi, uno Stato alla rovina. Il problema dell’approvvigionamento però non riguarda tutti gli Stati importatori, ma solo una
particolare fetta. Uno Stato, infatti, può soddisfare la propria richiesta
energetica in diversi modi: utilizzando i propri giacimenti (una nazione
potrebbe per esempio possedere riserve troppo esigue verso l’esportazione, ma sufficienti per il proprio approvvigionamento) oppure comprando tutta la quantità necessaria dall’estero. In mezzo a questi due
contesti estremi vi sono quegli Stati che in parte sfruttano giacimenti
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Rivista Thule Italia
endogeni e, in parte, si riforniscono presso i mercati. Una decisione su
quale percorso intraprendere per affrontare il piano energetico nazionale è fortemente politica e influenza la comunità nazionale in tutta la
sua sfera. Decidere così di prosciugare le fonti endogene in breve tempo, senza comprare nulla dall’estero (dove possibile) comporta sul breve termine una bassa pressione fiscale sulla comunità, ma provoca alla
lunga un rialzo immediato della tassazione — di difficile sopportazione
e sostenibilità non appena occorre approvvigionarsi dall’estero. Viceversa un’ottica volta all’acquisto dall’estero e al risparmio delle fonti
endogene porta sicuramente a degli oneri maggiori sulla popolazione,
ma assicura allo Stato una certa indipendenza dalle situazioni economiche congiunturali: per esempio, se il prezzo del petrolio diventa troppo
alto o l’approvvigionamento diviene difficile per motivi politici, allora
si può ricorrere ai propri pozzi.
La prima situazione è quella tipica degli U.S.A. che hanno deciso di
comprare quantità veramente esigue dall’estero e di sfruttare subito
i propri giacimenti (di petrolio e gas naturale). Secondo i dati forniti
dal report in questione l’America potrà continuare a sostenere questo
piano per un periodo di tempo compreso tra i 10 ed i 20 anni. Questo
significa che il governo statunitense passerà a breve da una situazione
nella quale compra poco dall’estero a un’altra che lo vedrà impegnato a
dover acquistare tutta la fonte necessaria per il suo sostentamento energetico, con conseguenza che la sua già disastrata economia possa subire
un vero e proprio colpo ferale destinato ad abbattere definitivamente il
Paese tutto e provocando la definitiva fine degli U.S.A. così per come
oggi li conosciamo. Allora il lettore deve capire che è un estremo atto di
responsabilità di un governo verso la popolazione quello di stabilire un
piano energetico sostenibile e improntato verso il risparmio delle fonti,
dato che innanzitutto viviamo in un mondo dove lo strapotere europeo
e soprattutto americano (sul piano economico) è ormai definitivamente
tramontato e non si possono assolutamente incolpare i Paesi produttori
di petrolio se si disinteressano delle condizioni di queste due macrozone mondiali: il loro unico bisogno, strettamente correlato alla loro
lotta per la sopravvivenza, è di trarre il massimo guadagno possibile
dall’unico bene che possiedono e di fare in modo che, quando questo
sarà esaurito, avranno sviluppato soluzioni adatte per il loro sostentamento. Noi europei non trovando solidarietà dal punto di vista dei
venditori non ne troveremo neanche tra i compratori, poiché è fisiologico che Paesi come la Cina, che hanno per secoli sopportato la forza
La terra
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del capitale occidentale, una volta che gli equilibri siano cambiati non si
facciano scrupoli dei danni che il loro potere economico sta provocando
negli altri Stati. Ugualmente allora si capirà come le azioni di certi Stati
che cercano di creare zone d’influenza in determinate aree geografiche
non rispondono che a un bisogno di sopravvivenza, nell’impossibilità
di agire secondo le leggi del mercato. È normale che uno Stato in difficoltà pensi al suo futuro e per questo non esiti nell’utilizzare mezzo
alcuno; deve invece provocare sdegno il fatto che il tutto si svolga sotto
il mantello della bugia e della menzogna, sotto ragioni che poco hanno
dell’umanitario e molto dell’infame e del bugiardo.
Per lo stato delle cose viene quindi da chiedersi se la Terra non offra
all’uomo altre fonti energetiche per il suo sostentamento. Purtroppo,
nonostante le tendenziose notizie messe in giro dai cosiddetti “verdi”,
al momento la dipendenza energetica da petrolio e gas naturale è assolutamente ineludibile. Ciò non solo a causa dell’immensa quantità
di energia della quale l’uomo ha giornalmente bisogno, ma anche per
motivi di natura tecnica ed economica che analizzeremo a breve.
Bisogna innanzitutto notare l’aleatorietà tipica delle fonti cosiddette
verdi, come l’energia solare, l’eolica o l’idroelettrica. A causa della loro
indeterminatezza non siamo in grado di sapere con assoluta certezza
quando e come un certo impianto possa produrre energia. Prendiamo,
per esempio, il caso di un sistema eolico. La velocità del vento (parametro fondamentale nella produzione di energia elettrica a partire da quella eolica) non è un dato il cui valore giornaliero è noto con esattezza,
ma risulta seguire una distribuzione di probabilità, in particolare quella
denominata Weibull. Questo significa che il vento potrebbe soffiare, in
un dato giorno, con un’intensità che risulta essere la più probabile, ma
non la più certa. Nonostante vengano sostenute, localmente, accurate campagne sperimentali volte alla raccolta dei dati utili per ricavare l’andamento statistico delle velocità del vento, si rimane comunque
all’interno del campo delle probabilità, ovvero non si ha mai l’assoluta
certezza che le cose vadano per come era previsto. Poniamoci allora la
domanda se siamo sicuri di volere dipendere in questo modo da una
fonte tanto “capricciosa”. Lo stesso ragionamento seguito per l’eolico
può essere fatto per la maggior parte delle altre fonti, come il solare o
l’idroelettrico. Vogliamo, inoltre, sottolineare che una delle principali
caratteristiche di una fonte d’energia è proprio la sua disponibilità a
essere sfruttata in un momento qualsiasi e da questo punto di vista gli
idrocarburi hanno dominato tanto a lungo la civiltà umana grazie al
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Rivista Thule Italia
loro facile stoccaggio e alla grande densità d’energia in essi racchiusa. Saremo chiari nel dire che non bisogna cadere in sciocche fantasie:
l’attuale civiltà umana abbisogna di energie sempre presenti e pronte
per l’utilizzo. Poniamoci una domanda provocatoria: siamo disposti a
ritardare di un paio d’ore una nostra qualsiasi attività a causa del fatto
che — per esempio — un cielo eccessivamente nuvoloso non permette al pannello fotovoltaico di produrre energia elettrica? E quali effetti
avrebbe questa aleatorietà delle fonti sui processi industriali? Ancora
prima di queste due domande occorre porsi un quesito ancora più importante: siamo noi in grado di gestire una produzione energetica tanto
discontinua?
Bisogna infatti fare i conti con la realtà rappresentata dalla rete elettrica nazionale, ovvero dall’insieme di elettrodotti che si occupano della
trasmissione di energia elettrica lungo tutto il territorio nazionale. È
ben noto che, al pari di un tubo percorso d’acqua, anche i fili conduttori dove scorre l’energia elettrica presentano delle ben precise capacità
che se superate portano alla rottura del conduttore (si pensi a un tubo
dove scorre troppa acqua: appena superato il limite questo si rompe,
per esempio bucandosi). Una rete elettrica, dovendo essere in grado
di assicurare la fornitura d’energia a tutte le utenze, occorre che sia dimensionata in modo tale da poter permettere il transito della massima
energia elettrica possibile. Una rete ideale quindi è come un tubo nel
quale possiamo far passare tutta l’acqua che vogliamo senza il pericolo di danneggiarlo. Naturalmente costruire un elettrodotto di capacità
infinita è tecnicamente impossibile, mentre realizzarlo con una capacità eccessivamente sovrabbondante rispetto ai reali utilizzi diventa
economicamente insostenibile. Le energie verdi in relazione alla rete
di elettrodotti diventano scomode per alcuni motivi. Il primo motivo
è legato alla loro natura aleatoria che causerebbe un dimensionamento
tecnico ed economico dell’elettrodotto estremamente difficile, se non
impossibile. Infatti, da una parte dovremmo dimensionare questo sulla
potenza massima prodotta dalle centrali alimentate da energia verde,
ma vista la natura stocastica di queste fonti tale picco non si verificherà
mai (è difficile che in un dato istante in tutto il territorio nazionale per
esempio ci sia un bel sole o un forte vento), al contempo però dovremmo pensare che il dimensionare questo sulla potenza media ci porterebbe immediatamente in una posizione di rischio, dato che potrebbe accadere che per più ore consecutive la potenza elettrica prodotta superi
la capacità dell’elettrodotto e questo porterebbe al suo danneggiamento
La terra
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e a problematiche per nulla secondarie o marginali, come il rischio di
black out.
Ancora una volta, prima di chiederci se siamo in grado di costruire
un elettrodotto sovradimensionato — che sarà sottoutilizzato per quasi
tutta la sua vita utile e quindi rappresenterà un insensato esborso economico —, dobbiamo fare i conti con la realtà nostrana, la quale ci dice
che gli elettrodotti italiani risultano già ampiamente precari nel loro
“banale” funzionamento di collegamento tra centrali canoniche (dalla
potenza nominale certa e assoluta) e le utenze già senza l’aggravarsi
di variabili stocastiche. La nostra rete risulta essere dimensionalmente
ridotta rispetto al picco e non siamo in grado di gestire eventuali sbalzi
nella produzione elettrica senza pagare (a spese della comunità) opportune centrali affinchè fermino la produzione così da diminuire il carico localmente transitante, permettendo il passaggio della capacità in
esubero. È completamente fuori da ogni pensiero razionale sognare un
Paese servito esclusivamente da parchi di generazione elettrica alimentati a fonti rinnovabili. Rasenta poi il puro delirio ragionare nell’ottica
di tanti piccoli impianti domestici, ciascuno dei quali dovrebbe essere
teoricamente autosufficiente, ma realmente pronto ad assorbire o cedere alla rete la quantità d’energia in esubero o in deficit: noi italiani, ma
in generale la gran parte del mondo, non siamo assolutamente pronti a
gestire questo tipo di utenze elettriche.
È necessario, infine, ragionare su un ultimo aspetto del problema, che
riguarda prettamente il nostro territorio nazionale, relativo alle politiche energetiche. Da tempo chi produce energia elettrica tramite impianti alimentati a fonti sostenibili e rinnovabili viene premiato, ovvero incentivato tramite una remunerazione economica. Questa pratica viene
universalmente seguita per rendere l’investimento più invitante ai privati e trova la sua giustificazione nel fatto che la produzione d’energia
da fonti verdi provoca delle ricadute positive su tutta la collettività: diminuisce la percentuale d’inquinanti prodotti, diversifica i bacini d’approvvigionamento energetico (rendendo uno stato meno vincolato verso l’estero) e migliora il rendimento energetico nazionale. Queste sono
tutte motivazioni sin troppo sponsorizzate, ma che spiegano l’interesse
collettivo verso lo sviluppo di impianti alimentati a fonti rinnovabili.
Il piano energetico italiano presenta però delle notevoli criticità, che
portano in pratica a un’eccessiva incentivazione per i grossi impianti,
mentre per i piccoli impianti non finalizzati alla produzione di energia
elettrica di fatto i bonus sugli investimenti sono trascurabili o addirit-
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Rivista Thule Italia
tura inesistenti. Si consideri che l’incentivo viene monetizzato sotto
forma di un maggiore prezzo di vendita unitario dell’energia: ciò significa che chi produce da rinnovabili vende la propria energia all’autorità
competente (in Italia il GSE, Gestore dei Servizi Elettrici) a un prezzo
notevolmente maggiore rispetto a quello “standard” che si viene a formare sul mercato nazionale. Il GSE vende l’energia elettrica acquistata
dai produttori rinnovabili sul mercato elettrico, ma a un prezzo pari a
quello di mercato: questo vuol dire che l’ente
ricava una perdita, in
quanto vende qualcosa a un prezzo minore
di quello d’acquisto.
L’ente, allora, rientra da
questo deficit caricando
la perdita (quindi il valore dell’incentivo) sulle
componenti aggiuntive
del costo dell’energia
elettrica pagate dal Oneri dei meccanismi d’incentivazioni sulla comunità
singolo contribuente (il
nazionale (da fonte GSE)
lettore interessato potrebbe controllare nella
sua bolletta il costo dell’incentivo gravante su di lui leggendo l’importo riportato alla voce A3). Giusto per fornire qualche cifra, laddove in
Francia il costo per kWh di energia elettrica si può assumere pari a 5
c€ , in Italia già nei prossimi anni (a causa dell’installazione di nuovi
impianti alimentati a rinnovabili) 8 c€ rappresenteranno solo una parte
del costo unitario del kWh, il cui totale potrebbe anche essere tre volte superiore a quello pagato dai vicini francesi. Si comprende che tale
sistema d’incentivazione, che pesa annualmente sul bilancio nazionale
per cifre dell’ordine del centinaio di milioni di euro, non è economicamente sostenibile e che l’attuale piano energetico ha perso ogni interesse comunitario, finendo per privilegiare e gonfiare sino all’inverosimile gli interessi privati. Il lettore sappia che un imprenditore capace
di investire, per esempio, 1 milione di euro per la costruzione di una
centrale eolica, già nel giro di 12 mesi avrà pienamente recuperato l’investimento eseguito e per la restante vita utile dell’impianto non farà
altro che intascare denaro senza dovere svolgere, di fatto, alcun lavoro:
La terra
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in questa maniera investendo egli potrebbe ottenere una somma pari
a 10-15 volte l’esborso iniziale, tutto a spese della comunità nazionale.
Il meccanismo d’incentivazione è, senza tema di smentita, fallito poiché l’interesse e il guadagno del privato ha di gran lunga superato e
oscurato il beneficio per la collettività, giungendo al paradosso per il
quale una fonte fisicamente “sostenibile e rinnovabile” risulta economicamente dannosa e insostenibile per tutta la comunità.
I motivi sopra esposti sono ritenuti più che sufficienti per dimostrare
che, allo stato attuale delle cose, la fonte d’energia principale che la
terra ci offre è rappresentata dai combustibili fossili che essa ha curato
nel suo ventre nella sua storia millenaria e che questi sono più che sufficienti per saziare la domanda mondiale, almeno sul lungo termine,
ma solo in chiave teorica, date le limitazioni economiche a contorno.
Risulta allora utile lo studio di fonti energetiche alternative, a patto
però che queste siano analizzate alla luce del contesto nel quale devono
agire e che non vengano considerate “ottime” a prescindere da ogni
analisi che non tenga conto delle problematiche tecniche delle reti e dei
meccanismi d’incentivazione degli investimenti per i privati; un breve,
ma corretto studio, consente di dire allo scrivente che allo stato attuale
delle cose si potrebbe giungere, con i corretti investimenti, a un notevole risparmio di fonti fossili, quindi d’indipendenza dall’estero (effetto
ampiamente positivo per tutta la comunità nazionale), ma non alla loro
completa sostituzione.
Vogliamo allora concludere questo scritto con una frase dello scrittore
Thich Nhat Hanh, tratta dal suo libro “Il miracolo della presenza mentale” , che ben si adatta al tema trattato:
“Mi piace camminare da solo per i viottoli di campagna, fra piante
di riso ed erbe selvatiche, poggiando un piede dopo l’altro con attenzione, consapevole di camminare su questa meravigliosa terra. In quei
momenti, l’esistenza è qualcosa di prodigioso e misterioso. Di solito si
pensa che sia un miracolo camminare sull’acqua o nell’aria. Io credo
invece che il vero miracolo sia poter camminare sulla terra”.
Bibliografia
Edda, Snorri Sturluson, Adelphi.
La felicità duratura, Epicuro, Mondadori.
Viaggio nella filosofia, volume primo, Mauro Imbimbo, Palumbo Edito-
88
Rivista Thule Italia
re.
Storia della filosofia, volume terzo, tomo terzo, Giovanni Reale, editrice
La scuola.
Letteratura greca, volume secondo, Dario del Corno, Principato.
Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche, Oscar Mondadori.
La scrittura e l’interpretazione, tomo terzo volume primo, Romano Luperini, Palumbo Editore.
La scrittura e l’interpretazione, tomo terzo volume secondo, Romano Luperini, Palumbo Editore.
Operette morali, Giacomo Leopardi, Nuovi Oscar classici Mondadori
I malavoglia, Giovanni Verga, Einaudi.
Per i dati su petrolio e gas naturale: http://www.eni.com/it_IT/azienda/cultura-energia/world-oil-gas-review/world-oil-gas-review-2013.
shtml (aggiornati al 31 dicembre 2013).
L’importanza della terra quale mito politico e
nella geopolitica contemporanea
di Gabriele Gruppo
Un compito veramente importante c’è stato affidato nel redigere questo articolo. In quanto esso si dovrà offrire, secondo il nostro fine, una
sintesi esaustiva di quelle dinamiche che legano la terra, sia nella sua
accezione materiale sia in quella metapolitica, a quei fenomeni storici
e ideologici che riteniamo pregni di significato per quella che potrebbe
ben essere definita una vera cultura alternativa e identitaria, rispetto a ciò
che oggi impera in tutta la sua grossolana superficialità. Infatti, nella
visione dell’attuale epoca postmoderna, la terra è vista come un mero
oggetto economico, o tutt’al più come l’ambiente, l’habitat, da preservare in modo puramente “meccanico” e materiale, visione questa che
contraddistingue tutte le forme di ecologismo più o meno militante.
Pur non volendo in questo articolo addentrarci, in modo troppo specifico, negli aspetti metafisici più complessi dell’antichità riguardanti
il concetto terra, non possiamo che constatare quanto esso nell’epoca
odierna abbia perso ormai completamente ogni ancoraggio con dei
principi superiori, che ne davano in passato un’importanza pregna di significati, caratterizzante e unica per i popoli e le nazioni. Basti pensare
alla disinvoltura con cui l’uomo del XXI secolo trasforma radicalmente
il proprio spazio ambientale, in base a delle necessità materialistiche
contingenti, senza badare alle ripercussioni nel lungo termine di tali
scelte. L’urbanizzazione dei popoli, e lo sviluppo infrastrutturale dei
territori, rappresentano indici di crescita economica e di progresso, poco
si considerano però formule di intervento meno invasive, volte anche a
un più equilibrato rapporto uomo/terra. Molto più che nell’antichità,
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Rivista Thule Italia
nell’era della globalizzazione non sembrano dover essere posti dei limiti ai mutamenti cui è sottoposto l’ambiente che ci circonda, destinato a
essere plasmato secondo criteri utilitaristici incalzanti, che non tengono
minimamente in considerazione quanto anche la terra (o lo spazio terrestre) non sia un bene infinito, ma destinato a esaurire le proprie capacità di soddisfare i bisogni della popolazione mondiale cui, secondo
noi, dovrebbe essere posto un freno prima che si avveri l’irreparabile
discesa agli inferi della lotta per “un pezzo di pane”.
Non siamo certo dei beceri oscurantisti, avversi al progresso o alla
modernità, e nemmeno degli ecologisti da salotto, esegeti di una natura immutabile e intoccabile. Tuttavia, riteniamo che nell’antichità, e
financo nel più recente passato, l’approccio tra uomo e terra fosse non
soltanto più equilibrato e simbiotico, ma anche maggiormente volto a
degli aspetti trascendenti che permeavano, in modo a volte perfino inconscio, tale rapporto.
La politica e la geopolitica delle grandi civiltà d’Europa, di cui dovremmo essere gli eredi diretti, riflettevano nelle epoche antecedenti
sicuramente tale importante condizionamento, così come il sorgere della nobiltà feudale o la costituzione di quella kultur contadina che caratterizzò il Vecchio Continente per secoli. Lo sfruttamento della terra,
dunque, era certamente pratico ma anche rivolto alla sua conservazione e preservazione. Ritenere tale questione quale semplice richiamo al
“passatismo” o una sorta di “nostalgismo” tradizional/ecologista per
ciò che non s’è vissuto, e non come un valido punto di riferimento per
un’alternativa concreta al declino che sta attraversando l’Europa contemporanea, rappresenta pura e semplice miopia suicida. Rincorrere
perciò l’utopia di un progresso senza limiti, così come più volte detto
in vari modi negli articoli di quest’anno, non può che condannare noi e
la nostra progenie alla distruzione della civiltà europea e al servilismo
nei riguardi di dogmi e assiomi portati dal neoliberismo e dal mondialismo.
Per far fronte a tale nefasta prospettiva non basta però la mera “difesa” del folklore, o perseverare in battaglie di retroguardia portate in
auge da un certo tipo di populismo, difensore degli interessi economici,
seppur legittimi, delle nazioni, o attraverso proposte fondate su argomenti di natura socio/economica, anch’essi legittimi, tuttavia spesso
La terra
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privi di una visione del mondo veramente rivoluzionaria e realmente
identitaria. Tali fenomeni possono essere certamente dei punti di partenza, validi nell’immediato, ma la loro superficialità li rende deboli e
alla lunga inefficaci.
Per dar vita a dei veri progetti che possano liberare l’Europa da certe
illusioni, serve quindi pianificare una rieducazione dei popoli a quei
principi che erano fonte di ordine e di vita. Per far ciò, appare evidente
la necessità di riproporre un equilibrio tra terra e organizzazione dei
popoli europei, tra terra ed economia europea, e anche tra terra e identità delle nazioni d’Europa. Aspetti fondamentali e concreti nella loro
essenza, che non possono essere relegati a un semplice passato storicizzato, ma ritornare vivi e vitali, se vogliamo salvarci da un genocidio
prima di tutto culturale, e anche da un dissolvimento fisico delle nostre
caratteristiche peculiari.
Alcune delle proposte offerte dal Programma del Movimento di Transizione Nazionale, non ancora purtroppo comprese da molti nella loro
portata realmente radicale e rivoluzionaria, offrono in tal senso uno
spunto validissimo da cui partire, per offrire ad esempio, al popolo italiano, un approccio allo stesso tempo nuovo e antico con il territorio di
cui dispone. Un territorio che si dimostra sempre più fragile, per via
degli abusi cui è stato sottoposto negli “anni ruggenti” del benessere
diffuso e della crescita economica priva di lunga prospettiva.
Dal Programma del MTN: In materia economica
9. Razionalizzazione territoriale. Dovranno essere poste in essere iniziative a carattere sociale ed economico, che incentivino il ripopolamento di quei territori che soffrono per l’eccessiva urbanizzazione delle
forze lavoratrici giovanili. Servirà un’articolata iniziativa statale di lungo raggio temporale, che renda adeguatamente vivibili da un punto di
vista occupazionale e di servizi di pubblica utilità, località provinciali o
comunque lontane dai grandi centri urbani. La finalità di tale progetto
avrà i seguenti obiettivi:
a.
rendere più armonica la dislocazione della popolazione italiana lungo l’asse della penisola;
b.
smantellare parte delle attuali periferie e attuare una loro riconversione in polmoni naturali per i grandi centri urbani;
92
Rivista Thule Italia
c.
creazione di microbacini occupazionali diversificati, ad uso
delle necessità territoriali.
Dal Programma del MTN: In materia di lavoro
12. Lavoro agricolo. Assecondare la naturale aspirazione di molti giovani per il ritorno al lavoro sulla terra. Lo Stato agevola e defiscalizza
il lavoro agricolo e dota le aziende agrarie di nuova costituzione di un
adeguato capitale in impianti e macchinari. Verrà istituita un’apposita
Cassa Rurale per la concessione di crediti senza interesse (e in parte a
fondo perduto) alle aziende agricole.
Dal Programma del MTN: In materia di politica ambientale
1. La salvaguardia del territorio quale bene comune dovrà essere una
delle priorità.
2. Verificare qualsiasi struttura abusiva costruita prima dell’entrata in
vigore del Programma e intervenire a seconda dei casi:
a.
all’abbattimento, qualora trattasi di seconda casa, senza indennizzo alcuno;
b.
all’abbattimento, qualora trattasi di prima casa, con indennizzo parziale.
3. Controllo delle attività industriali e dei loro scarichi. Qualora non in
regola ci sarà un tempo per porsi in regola superato il quale senza aver
adempiuto alle azioni richieste l’attività verrà confiscata.
4. L’incendio doloso, l’inquinamento delle acque, lo sfruttamento illegale del territorio verrà perseguito con pene esemplari.
5. La raccolta differenziata dei rifiuti dovrà essere applicata sull’intero
territorio.
6. Costruzione d’impianti di termovalorizzazione e di conversione
affiancati dall’apertura di nuove discariche in luoghi senza vincolo paesaggistico.
7. Sarà prioritaria l’opera di rimboschimento, sia quale barriera naturale per prevenire alcune catastrofi ambientali (es. frane), sia per la
produzione di carta che dovrà tornare ad avere un ruolo privilegiato
La terra
93
rispetto all’abuso della plastica.
8. Dovrà essere prioritaria la ricerca e lo sfruttamento di fonti energetiche pulite (solare, eolica, idroelettrica).
9. Dovrà essere compiuto ogni sforzo per ridurre l’inquinamento atmosferico e in tale ottica dovrà essere fortemente limitato il trasporto
su gomma a favore del trasporto su rotaia. Su strada dovranno circolare
solo mezzi che compiono brevi tratti, mentre i TIR e altri veicoli commerciali verranno caricati sui treni. Eccezione potrebbe essere rappresentata dai deperibili.
L’Italia, la sua struttura idrogeologica, le sue peculiarità territoriali, e
l’effettivo impatto che le attività umane hanno sia in ambito di sviluppo
delle risorse, sia di tutela dai rischi di una loro errata amministrazione,
necessita quindi di un vero e proprio progetto articolato di lungo termine, che garantisca allo stesso tempo quel carattere utilitaristico fondamentale per le popolazioni che vi abitano, ma ne fornisca soprattutto il
giusto approccio conservativo, senza le sperequazioni viste negli ultimi
cinquant’anni.
Siamo convinti che molte delle criticità presenti nel territorio italiano
possano essere gestite senza nulla togliere alle ambizioni di sviluppo
economico e sociale dei territori, o dello Stato che li amministra. Affidandosi soprattutto a una vera rieducazione generazionale, che ponga
in auge la necessità di ripristinare un corretto rapporto uomo/ambiente, attraverso principi che già furono propri alle nostre genti. Oltre che
con l’elaborazione di un impianto legislativo che sia chiaro nelle fonti
e altrettanto chiaro nelle finalità. Una proposta che abbia una valenza organizzativa nuova e forte, in cui non debbano essere contemplate
“scappatoie” o lassismo di alcun genere, fattori che, invece, sembrano
aver favorito sia la diseducazione del popolo italiano nei confronti del
proprio territorio di pertinenza, sia il sorgere di quelle disarmonie gestionali e di amministrazione, che molti danni hanno causato; sia in
termini economici, sia etici e valoriali.
Quel che affermiamo stride molto con l’approccio diffuso verso tali
tematiche, e comunque non risulta in sintonia nemmeno rispetto a un
certo ecologismo “alla moda”.
Qui non si tratta più di semplice organizzazione utilitaristica, in senso stretto, e nemmeno è nostra intenzione proporre idilliaci sogni di
una natura incontaminata entro riserve turistiche o di folklore. Parlare
di etica e di principi che coinvolgano il territorio e le popolazioni che ne
94
Rivista Thule Italia
fruiscono, tocca punti poco noti o bistrattati. Parlare di etica e di principi
vuol dire responsabilizzare la nazione intera e le sue articolazioni statali, in una gestione consapevole dell’Italia, quale spazio geografico e di
destino, su fondamenta valoriali che traggono spunto dalla tradizione
e dagli insegnamenti già presenti nella nostra storia, attraverso un doveroso adattamento di tempi e modalità, indispensabile per renderne
fruibile alla comunità nazionale l’importanza intrinseca.
Per questo motivo il presente articolo parte con quella che potremmo
ben definire una pars construens, capace di offrire un quadro di sintesi
della visione del mondo che anima le nostre proposte in merito. Senza
tale doverosa premessa ideologica non potrebbero spiegarsi i punti che
tratteremo di seguito.
Il legame tra terra e popolo va per noi oltre le questioni di natura politica o economica. Tale legame deve anche trascendere verso una sfera superiore, e al contempo essere capace di soddisfare la necessità di
affermare l’identità di un territorio e dei suoi abitanti, in una scala gerarchica che coinvolge prima di tutto l’aspetto che potremmo definire
“locale”, per arrivare alla complessità dell’ideale di nazione. Nella visione ideologica che ci contraddistingue lo Stato, organico e gerarchico, è
per noi essenziale nel raggiungimento dell’armonia tra terra e popolo, in
quanto a esso spetta il compito, difficile ma nobilissimo, di preservare
e sviluppare la consapevolezza nazionale verso il territorio d’appartenenza, fornire gli strumenti per la realizzazione di tale simbiosi, e per
approntare le dovute difese contro ogni formula inquinante, culturale o
ideologica, che possa risultare disgregativa o universalistica.
Non si può più immaginare uno sviluppo senza dei precisi limiti. Limiti che non andrebbero certo a intaccare il diritto alla prosperità cui anela
ogni popolo. Tuttavia secondo noi, come sempre affermato in modo
coerente, a ogni diritto deve essere per prima cosa affiancato un dovere,
da compiere quale strumento per ottenere un diritto.
Il dovere delle classi dirigenti di preservare il territorio da minacce e
sprechi, e il dovere di ogni famiglia nell’educare le future generazioni al
rispetto per quel che l’Italia naturalmente offre, sono per noi i primi più
importanti cardini etico/ideologici che lo Stato nuovo, che auspichiamo
sorga dalle macerie della democrazia rappresentativa, possa fornire al
nostro popolo quale formula di responsabilità politica ed educativa totalitaria.
La terra
95
L’Italia contemporanea non è “semplicemente” piegata dalla crisi economica, o dal declino del benessere diffuso. Manca ormai completamente il senso di morigeratezza nello sfruttamento di quel che la penisola offre in termini materiali. Manca una visione superiore della terra e
della sua importanza quale viatico identitario. Ciò a causa di una cultura che predilige produrre il superfluo, sfruttare ogni cosa, e consumare
nell’immediato.
Guardando con attenzione anche al quotidiano, semplice e banale
quanto si vuole, ma che è specchio fedele della nostra civilizzazione,
non possiamo che constatare con preoccupazione quanto scarsa sia la
consapevolezza generale nell’avvertire il pericolo imminente, tanto
nell’immediato, quanto per il futuro.
Ogni nuova speculazione edilizia, ogni grande opera inutile nella sostanza, se non addirittura finalizzata a soddisfare unicamente consorterie di potere economico, ogni degrado ambientale portato sia dalla
malavita, sia dalla deriva consumistica della nostra società, ognuno di
questi fattori rappresenta uno dei chiodi che serviranno per chiudere il
coperchio della bara che stiamo più o meno consapevolmente edificando al posto della nostra patria.
Essere fieri della propria terra non deve più essere un vacuo esercizio
di retorica, per qualche solone petulante e ignorante, impegnato a raccogliere voti durante i ludi elettorali.
Essere fieri della propria terra deve rappresentare la parte integrante
di una visione tanto superiore quanto materiale di essa, coagulata in un
progetto politico che non contempli più l’interesse particolare, ma abbia quale punto di riferimento la comunità nazionale, e la partecipazione del singolo a un’armonica condivisione di responsabilità e diritti.
In fondo questo è il punto saliente, se veramente intendiamo ridare al
nostro territorio una dignità e un’importanza organica, sentita in tutti i
livelli della società italiana.
Non appaia dunque “fuori tema” questa nostra premessa. In quanto
senza una consapevolezza condivisa di quel che è stato presso i nostri
antenati il territorio, e di quel che deve essere l’approccio che dovremo
tenere in quanto comunità nazionale, saranno inutili i tentativi di redigere nuove leggi, o di far applicare regolamenti diversi da quelli oggi in
vigore; sarà tempo perso, in quanto resterà tutto lettera morta presso il
popolo, che manterrà inalterati certi infausti e deleteri atteggiamenti.
Deve, dunque, essere tracciato un limes chiaro e invalicabile su questo
96
Rivista Thule Italia
tema, da chi vorrebbe sostituire l’attuale sistema di governare e guidare
il popolo, attraverso una vera proposta che comprenda quali siano i
rischi insiti nell’epoca attuale, e che fornisca gli strumenti per elaborare
un’antitesi costruttiva a quel che impera quale visione del mondo e,
anche nella più banale quotidianità, dovrà essere posto tale obbiettivo.
Partendo dal passato tracceremo quindi un filo logico che dimostri
quanto errate siano le attuali condizioni e orientamenti volti a rendere
la terra solamente un luogo da sfruttare, una merce come tante il cui
valore deve essere solamente dettato dal mercato e non dai popoli che vi
abitano. Quel che andremo a trattare di seguito non sarà dunque semplicemente storia erudita, o geopolitica, di per sé già molto importanti,
quanto una pietra di paragone positiva, se si vorrà affrontare con forza
la lotta per riappropriarci della nostra terra; quale entità fisica, e quale
fonte di vita e di identità.
“Il nostro popolo tiene nelle sue mani il proprio destino. Ma questa scelta
esige una decisione chiara e netta che non lasci posto a nessun equivoco”.
Walther Darré, La nuova nobiltà di sangue e suolo.
Quel che è stato: Europa, terra, identità
La storia d’Europa, fin dagli albori, è stata segnata da un profondo
radicamento dei suoi popoli, e delle élite che li governavano, con la
terra.
Partendo dalla più remota antichità troviamo come i miti fondativi
di grandi civiltà quali Atene, Sparta e Roma, poggiavano sul concetto
di terrigenia, ovvero sul legame intercorso tra la nascita di un’identità
specifica e il suo essere legato a un connubio sangue/suolo.
Le poleis di Atene e Sparta definivano l’identità dei loro popoli non
soltanto dall’essere autoctoni del territorio che abitavano, ma anche
dalla loro “nascita”, o formazione, tramite un intervento divino sul territorio stesso.
I dori, progenitori degli spartiati, discendenti diretti di Eracle secondo
il mito più diffuso, nel conquistare la regione in cui sarebbe sorta la loro
polis, e soggiogando popolazioni già presenti (successivamente portan-
La terra
97
do per esse alla definizione di iloti) avrebbero semplicemente fatto valere i loro diritti divini, tornando nelle terre che Zeus aveva loro concesso
attraverso Eracle. Ciò in un connubio che caratterizzò tutta la storia di
tale stirpe guerriera, che si sentiva portatrice di un compito, che non era
semplicemente la conquista della terra, ma una conferma del suo legame intrinseco con precetti metafisici e metapolitici, così come prefigura
tutta la struttura organizzativa di Sparta.
Il mito della fondazione di Atene appare ancor più esemplificativo.
Il mito racconta infatti che,
quando la città che sarebbe
poi divenuta Atene era stata appena fondata, il Fato
supremo aveva stabilito
che sarebbe diventata ricca,
prospera e la più potente di
tutta la Grecia. Atena decise,
quindi, di prenderla sotto
la sua custodia. Tuttavia,
anche Poseidone la voleva
sotto la sua protezione, poiché la cittadina era molto
vicina al mare, indi soggetta
Il mito della fondazione di Atene.
anche a suoi favori. Atena e
Poseidone entrarono in un
conflitto insanabile, in quanto nessuno dei due voleva concedere la giovane città all’altra divinità.
Pur interpellando Zeus, nemmeno egli riuscì a metterli d’accordo. Così
Atena propose di lasciar decidere ai cittadini chi ne avrebbe preso la custodia. Atena e Poseidone riunirono il popolo della città sull’Acropoli
e dissero che ciascuno dei due avrebbe concesso un dono: il regalo giudicato migliore avrebbe fatto vincere la rispettiva divinità. Poseidone
fece comparire un magnifico cavallo, mentre Atena fece nascere dal terreno un ulivo. A quel punto dalla folla si fece avanti uno degli anziani
più autorevoli, cui spettava il compito di decidere. Egli sentenziò che
entrambi i doni erano degni di essere scelti e avevano un significato.
Il cavallo rappresentava la forza, il coraggio e la guerra. Mentre l’ulivo la prudenza, la serenità e la sapienza. L’anziano disse che la guerra
poteva portare ricchezze e potere, ma era incerta nei suoi effetti finali;
98
Rivista Thule Italia
la sapienza, invece, sebbene concedesse beni meno immediati, questi
risultavano alla lunga essere più sicuri e duraturi. Tutti i cittadini concordarono con le parole dell’anziano e scelsero il dono di Atena, che
diede infine il suo nome alla città.
L’ulivo, quindi, fu scelto, simbolo di prosperità che nasce dalla terra e
che, con le sue radici, pone stabilità e floridezza durature se ben amministrate. Tale sodalizio sarebbe stato portatore per il popolo ateniese di
quel carattere specifico che ne avrebbe garantito la supremazia.
Anche in questo caso la simbiosi tra identità e terra si palesa in tutta
la sua evidenza. Non solo, il carattere trascendente della “scelta” del
popolo ricaduta sull’ulivo — che preferisce una connotazione stanziale,
rispetto a quella nomade, quest’ultima rappresentata tanto dal cavallo
quanto dalla divinità dei mari — rende ancora meglio l’idea di come
tale mito sia frutto della mutazione delle stirpi d’Attica, giunte, quale
antica migrazione indoeuropea, a un punto di arrivo similare a quello
degli spartiati della Laconia, seppur con differenti e, spesso, divergenti
approcci politici e di kultur.
Altro mito interessante è quello della fondazione di Tebe nella regione
di Beozia. L’eroe Kadmos generò letteralmente i tebani dai denti strappati a un drago sacro al dio Ares da lui ucciso, e seminati in terra, su
consiglio di Atena. Anche in questo caso l’autoctonia dei tebani trae la
sua origine da un connubio tra sangue e suolo, in cui l’intervento divino
— quello di Atena — donerà un alone metafisico indissolubile, che porterà al rafforzamento dell’identitarismo della polis tebana lungo tutta la
sua storia, nel tentativo di rivaleggiare sia con Sparta che con Atene per
l’egemonia su tutta la Grecia.
Il rapporto poi tra Roma, la sua fondazione, e il complesso intreccio
di miti e di mitologhèmi che la riguardano, rappresenta un ulteriore
valido supporto alle nostre convinzioni.
L’Urbe ha nella terra la sua matrice d’origine, intrecciata con quegli
eroi che fin da Enea avevano gettato i semi della sua comparsa, insieme
con le divinità che svolgono in tutti questi miti funzioni di supporto
metafisico.
Romolo e Remo hanno nella terra la loro fonte di salvezza, sia attraverso il Ruminal, l’albero di fico sacro a Giove, sia grazie alla ben più famosa lupa, i cui connotati simbolici rappresentano senza alcun dubbio la
terra, nella sua forma selvaggia e in quella positiva, in una dualità tipica
del mondo antico. Gli stessi gemelli divini hanno poi in due colli di
La terra
99
Roma la loro rappresentazione territoriale; Romolo presiede
il Palatino, mentre
Remo l’Aventino.
Lo scontro tra i due
è dunque altrettanto
rappresentativo.
Romolo, che intenRomolo nell’atto di tracciare il limes della sua città.
de stanziarsi stabilmente là dove gli Dei
hanno concesso, traccia un solco con l’aratro, indicando con ciò la sua
volontà di fondare una nuova identità su basi solide. Remo, che forse
rappresenta ancora lo spirito nomade, cerca di violare il limes della futura comunità di popolo voluto dal fratello, trovando così la morte in
uno scontro altamente simbolico.
Roma ha portato lungo tutti i secoli della sua parabola di grandezza
i tratti distintivi di questo mito fondativo, capace di coagulare la forza
delle gens latine attraverso un rapporto stretto tra autoctonia e identitarismo. Il connubio tra Roma, il suo popolo primigenio, e la sua storia di
potenza e di conquista, è andato dissolvendosi di pari passo con il venir meno di quelle fondamenta che ne erano state la forza propulsiva.
L’abisso esistente tra i principi, che muovevano la Repubblica delle gens
latine, e l’universalismo, presente in gran parte del periodo imperiale,
può essere ascritto tra le cause del declino cui Roma andò incontro in
modo irreversibile. Quando Roma divenne una sorta di “idea”, e non
più forza viva e vitale legata insieme attraverso il connubio sangue/suolo, perse la sua identità, prima ancora di essere sostituita da altre capitali
imperiali; come Bisanzio, Ravenna, Milano e Treviri, durante l’ultima
fase dell’Impero.
Nell’alveo etnico germanico, invece, il legame tra terra e identità si sviluppa in modo diverso.
Le stirpi di Germania, che non travolsero l’Impero di Roma, così come
troppo spesso si pensa, ma ne soppiantarono l’élite politico/guerriera
ormai scomparsa tra il IV e il V secolo d.C., furono gli ultimi rappresentanti di quel nucleo indoeuropeo delle origini, collocato nell’area
dell’Urheimat; una regione comprendente la Germania settentrionale,
fino a lambire la Polonia ad est, e l’Olanda a ovest, la Danimarca e la
100
Rivista Thule Italia
Svezia meridionale.
Il retaggio mitico di questa terra delle origini, lo si riscontra in tutto
il panorama della kultur indoeuropea, forte e votata alla dominazione,
tratti distintivi di cui abbiamo fatto cenno anche nei precedenti esempi
riguardanti l’autoctonia e la terrigenia
di elleni e romani, e
che giunse financo
nelle più ancestrali
migrazioni che toccarono l’Iran e l’India. Essa ha caratterizzato una sorta
di “unità” metafisica e di religiosità,
che comprendeva
sì l’aspetto prettamente spirituale,
ma soprattutto il
I germani e l’Urheimat.
tratto distintivo di
fierezza di quei popoli giunti dall’Urheimat, che andarono spesso a soggiogare civiltà antecedenti, influenzandone così ogni aspetto organico, politico e culturale,
che sarebbe giunto successivamente a noi.
La comparsa poi dei germani sulla scena della storia europea tra la
tarda antichità e l’Alto Medioevo, ha favorito più di ogni altro la formazione delle attuali differenziazioni etniche presenti soprattutto negli
Stati/nazione dell’Europa occidentale. E il loro radicamento territoriale
è stato il frutto di tutta una serie di “concessioni” all’interno delle province già romane, che gli ormai effimeri Imperatori dell’Urbe offrivano
alle tribù barbare, e ai loro re, che di fatto ingrossavano le fila delle vecchie legioni, o che si sostituivano a esse in tutto e per tutto.
La nascita della nobiltà europea, e le origini etniche di gran parte
dell’Europa occidentale, non sono altro che il frutto di un accordo politico tra un potere in declino e un altro in ascesa, dove la terra rappresentava il punto d’incontro tra queste due realtà, capaci di compenetrarsi
e di divenire alla fine un tutt’uno. Con il prevalere del monoteismo cristiano andò poi ad aggiungersi anche una connotazione religiosa a tale
mutamento continentale, che andrà per giunta a rafforzare il ruolo della
La terra
101
nuova élite dominante, desiderosa di porre termine al caos migratorio
entro i confini dell’antico Impero, rendendo stanziali tutte le popolazioni presenti nei così detti “Regni romano/barbarici”. La terra dunque
quale fonte di stabilità politica, oltre che indirizzata alla formazione
identitaria dei popoli; in quanto solamente attraverso di essa l’uomo
può stabilire in maniera certa e ben definita la propria organizzazione
politica, lo sviluppo di una kultur vitale, e il ripristino del connubio con
principi e valori sia trascendenti che secolari.
Spesso la terra e i suoi simboli furono utilizzati per l’incoronazione
dei sovrani d’Europa; come nel caso della Pietra di Scone o Pietra del
Destino per i Re inglesi, o l’atto di consacrazione delle terre del Regno
d’Ungheria da parte di ogni nuovo sovrano che ascendeva al trono di
Stefano I. Esempi di come non si debba sottovalutare il ruolo identitario
e unificante portato dalla terra. Capace di essere non soltanto “materia”
e “risorsa” da sfruttare, ma soprattutto collante essenziale tra i popoli
e le loro élite/guida.
L’Europa sembrava aver perduto nel corso dei secoli e fino all’epoca
moderna questa forza vitale, in sé politica e spirituale, la quale rimase
sottotraccia comunque, pronta a essere rivalutata da chi aveva ancora
in sé quel carattere ideologico capace di richiamare principi e valori ancestrali. Solamente nel XX secolo il Nazionalsocialismo ha tentato di
ripristinare il legame terra/popolo in tutta la sua efficacia, grazie a una
straordinaria capacità di comprensione e intuizione dei suoi capi e dei
suoi intellettuali, i quali avevano compreso quale era il fatidico “anello
mancante”, che legasse ancora una volta il popolo — tutto il popolo —
intorno a una grande idea unificatrice e identitaria, che aveva proprio
nella terra la sua fonte di forza e di legittimazione storica.
L’opera compiuta da Walter Darré in tal senso rappresenta un esempio di come si potesse riportare la terra a un ruolo non soltanto meramente materiale, ma di collante fondamentale per l’identitarismo etnico e culturale. In quanto solamente attraverso il suo essere nuovamente
soggetto identitario e non più oggetto economico, finalizzato allo sfruttamento delle sue risorse, poteva offrire al popolo (il Volk) l’opportunità
di mantenere inalterate le proprie caratteristiche peculiari e tramandarle alle generazioni future.
Il Nazionalsocialismo ha avuto senza dubbio il merito di riportare in
auge tale tematica, seppur nel paradossale contesto di una nazione alta-
102
Rivista Thule Italia
mente industrializzata quale era, ed è ancora,
la Germania.
Eppure proprio il connubio sangue/terra
rappresentava l’architrave ideologico di tale
visione del mondo, in cui accanto alla tecnologia più raffinata poteva, e doveva, trovare
posto un ruolo nuovo per il contadinato, che
della terra è sempre stato custode. Per questo motivo non può dirsi impossibile anche
nell’attuale epoca un reintegro valoriale attraverso di essa, seppur le condizioni in cui
versa l’Europa, da un punto di vista etico, e
spesso anche etnico, siano ben più carenti rispetto al fattore umano con cui si doveva confrontare il Nazionalsocialismo.
Walther Darré.
Nel prossimo capitolo forniremo un valido esempio di come, attraverso il prevalere di certe forze e di una visione del mondo prettamente
materialistica, la terra sia ormai degradata a passiva “merce di scambio”, nella logica della domanda e dell’offerta tipica del liberismo più
radicale.
Riferimenti bibliografici
Enrico Montanari: “Il Mito dell’Autoctonia”.
Julius Evola: “La Tradizione di Roma”.
Karl Ferdinand Werner: “La nascita della Nobiltà”.
Walter Darrè: “La nuova Nobiltà di Sangue e Suolo”.
La “fame” di terra del XXI secolo: il land grabbing
L’accaparramento di terre nei Paesi in via di sviluppo e nelle nazioni
così dette “emergenti”, che hanno una rilevanza strettamente regionale,
e anche quale fenomeno recente in aree d’Europa, in particolare nella
parte orientale di essa, definito land grabbing, è una forma di investimento che consiste nell’acquisizione o nel leasing di terreni a uso agricolo e pastorale da parte di soggetti che operano a livello globale. Tale
La terra
103
fenomeno vede la sua intensità straordinariamente aumentata negli ultimi anni, in particolare a seguito della crisi finanziaria del 2007/2008,
che non ha coinvolto soltanto il settore finanziario/speculativo puro,
ma anche quello delle commodities alimentari, incentivando molti attori
economici, sia di Stati con grandi risorse finanziarie (Cina, monarchie
del Golfo Persico, ecc.) sia di multinazionali private, a cercare una formula adatta per stabilizzare i prezzi di tali beni sui mercati.
Gli investimenti di Fondi sovrani e di gruppi privati nelle nazioni più
appetibili, localizzate in Africa, America latina e Sud-Est asiatico, sono
fondamentali nell’ottica neoliberista per lo sviluppo delle economie locali e per l’innestarsi di nuove formule di consumo presso popoli ancora “vergini”, tali fini giustificano in quest’ottica gli sforzi da parte dei
governi di queste nazioni ad attrarre quanti più investitori possibili,
senza tuttavia badare al rischio insito in tali rapporti economici. Questi
ultimi, infatti, rappresentano una sorta di colonialismo — posto in vesti
nuove — maggiormente accettabile poiché non viola “formalmente”
l’indipendenza delle nazioni soggette al land grabbing, ma rientra nella
filosofia della domanda/offerta di beni e servizi insita nelle logiche del
libero mercato.
Land grabbing.
104
Rivista Thule Italia
Esistono ormai già da tempo molte informazioni dettagliate e report,
sui volumi di denaro e sulle modalità di questi investimenti, e i dati
che abbiamo scoperto offrono una panoramica complessiva di un fenomeno in grande ascesa, le cui ricadute tuttavia non sono ancora state
correttamente quantificate, in quanto esse tendono a svilupparsi nella
loro pienezza nel medio/lungo termine.
Le transazioni “sulla terra” nelle nazioni in via di sviluppo, riguardano delle considerevoli quantità di terreni inutilizzati o sfruttati per
l’agricoltura di sussistenza delle popolazioni locali, e favoriscono di
condizioni climatiche ottimali alla crescita di molte colture o per il pascolo di immense mandrie di bestiame.
Il land grabbing, e in generale tutti gli investimenti dei principali players economici in nazioni in fase di sviluppo, sono triplicati nell’ultimo
decennio raggiungendo l’apice di circa 630 miliardi di dollari nel 2008,
poco prima che gli effetti della crisi finanziaria statunitense contagiassero tutto il sistema globalizzato, rendendo necessarie politiche più prudenti, in particolare da parte di nazioni e attori privati che avevano
subito solo parzialmente il tracollo partito dall’Atlantico. Prendendo in
considerazione soltanto gli investimenti in agricoltura, notiamo come
essi siano ormai assurti concretamente ad alternativa d’investimento
al riparo dai rischi di tracolli o bolle speculative, in quanto la nazione
investitrice o la multinazionale investitrice pone i propri capitali in beni
certi e durevoli, che possono essere migliorati attraverso una valorizzazione tecnologica e logistica, e un’implemento della redditività. Inoltre,
non sempre gli investitori sono rappresentati da imprese specializzate
nel settore agricolo, ma possono essere società a elevata capitalizzazione che cercano di diversificare le proprie opportunità di guadagno. Il
principale investitore agricolo cinese, per esempio, non è altro che una
costola del Ministero della Difesa di Pechino, cui è stato affidato il compito di specializzarsi in questo tipo di transazioni finanziarie.
C’è poi da considerare il lato “politico” dei rapporti che intercorrono
nell’ambito del land grabbing.
Infatti, sono le principali nazioni emergenti, come Cina, Corea del Sud,
Malaysia, Brasile, Emirati Arabi e Arabia Saudita, a detenere il primato
di questo fenomeno, rispetto a un Occidente partito decisamente in ritardo, forse per via della sua condizione di rallentamento economico, e
di forte necessità di attrarre capitali.
In più occasioni, nei nostri passati articoli su questa rivista, abbiamo
La terra
105
posto molta attenzione sulla presenza della Cina come investitore in
Africa. Una presenza esponenziale che è stata frutto degli stretti legami
economici e politici tessuti negli ultimi decenni da Pechino, in particolare in Sud Africa e Sudan, ma anche in molti Stati sub sahariani quali
Zambia, Nigeria, Etiopia, Angola, Mozambico e il Congo, il cui stato di
guerra civile endemica riflette lo scontro in atto tra diversi attori geopolitici extra africani.
Le ragioni di questo successo sono da ascriversi a una sorta di neo-terzomondismo pragmatico, in cui non è più l’aspetto ideologico a prevalere, bensì l’instaurarsi di rapporti economici privilegiati, in cui la Cina
rappresenta per queste realtà un modello vincente dietro cui accodarsi, e
un esempio di sviluppo in antitesi con ciò che l’Occidente aveva proposto, e a volte imposto, durante l’ultima parte del XX secolo.
Due sono le ragioni principali in grado di spiegare l’accaparramento
di terra in aree appetibili; la necessità di attuare strategie che assicurino
l’approvvigionamento alimentare nel medio/lungo termine, fornendo una barriera contro le speculazioni finanziarie di questo settore, e
dall’altro nell’aumentata richiesta di derrate agricole da destinare alla
produzione agroenergetica (biodiesel e olio di colza).
Le due crisi sull’offerta di molte commodity agricole nel 2008 e nel 2012,
con la relativa impennata dei prezzi tra Stati produttori e Stati consumatori, di fronte all’incremento demografico, la crescita economica dei
nuovi Stati consumatori (e conseguente incremento della domanda e
cambiamento delle preferenze alimentari così come avviene in Cina già
da anni), l’esaurimento delle risorse naturali, il continuo degrado dei
suoli e la ridotta disponibilità di fonti idriche, hanno nell’insieme incrementato la necessità di molti Stati importatori di rafforzare le proprie
politiche di sviluppo e commercio agricolo, per assicurarsi l’autosufficienza alimentare. Per queste ragioni tali governi mirano ad aumentare
le proprie disponibilità di terre extranazionali da mettere in produzione, al fine di incrementare e stabilizzare la propria offerta alimentare
interna. Ciò anche in conseguenza alla volontà annunciata da molti Stati esportatori di seguire politiche protezionistiche, che meglio tutelino
i loro interessi, incoraggiando pertanto gli Stati importatori a trovare
alternative al commercio internazionale mediante l’acquisizione diretta
di terre, attraverso una “filiera corta” e senza più intermediazioni di
sorta.
106
Rivista Thule Italia
Un importante ruolo nel favorire il land grabbing è giocato anche dai
rendimenti futuri attesi per i sussidi previsti dal Protocollo di Kyoto al
fine di sviluppare serbatoi di carbone vegetale, mediante processi di
afforestazione e di riforestazione, o per incentivare nuove politiche di
sviluppo “sostenibile”, capace sia di fornire una stabilità economica, sia
il rispetto dei Protocolli di Kyoto, così come, ad esempio, sta avvenendo in Germania, dove il Governo Merkel ha già da tempo posto in essere un ambizioso piano chiamato “Energiewende”, nato ufficialmente
nel 2003, che ha come obbiettivo di promuovere un modello incentrato
sull’utilizzo delle fonti rinnovabili.
Per quanto riguarda le nazioni in via di sviluppo direttamente coinvolte negli investimenti in terra, il loro interesse è focalizzato sulle potenziali ricadute economiche, non soltanto in termini di sviluppo rurale, ma soprattutto infrastrutturale, occupazionale ed economico.
Infatti, non sono tanto le rendite affittuarie, o derivanti dalla vendita
fondiaria, al centro dei benefici attesi, quanto le attese sui progetti di
investimento consequenziali alla transazione. Spesso gli stessi contratti
stipulati contengono come clausola fondamentale lo sviluppo di qualche infrastruttura, come per esempio è avvenuto nell’accordo intergovernativo tra Siria e Sudan, prima che in Siria scoppiasse la guerra civile, dove in cambio di una superficie di quasi 13 mila ettari (in affitto per
50 anni), lo Stato arabo si era impegnato a sviluppare un efficiente sistema irriguo in territorio sudanese, posto al di fuori dell’area interessata
dalla transazione. O in Kenya, dove lo Stato del Qatar ha negoziato una
concessione per un’area di 40 mila ettari, impegnandosi con Nairobi a
costruire un porto nell’isola di Lamu.
Il trasferimento dei diritti d’uso e/o di proprietà sulla terra a favore
degli investitori esteri, potrebbe avere svariate conseguenze negative
in futuro, rispetto ai benefici immediati. Queste, per esempio, possono
essere rappresentate dagli impatti sull’ambiente per il cambio della destinazione d’uso verso sistemi produttivi intensivi, o al rischio concreto
del peggioramento delle condizioni di accesso al cibo per le popolazioni locali in conseguenza alla perdita del controllo diretto sulle attività
agricole produttive di sussistenza e alla possibilità di produzioni con
metodi meno invasivi.
Questi aspetti attualmente non sembrano destare preoccupazioni eccessive, e non hanno ancora portato a una considerazione reale relativa
La terra
107
ai pericoli di una nuova forma di colonialismo in cui sono gli Stati a
economia emergente ad assumere il ruolo di nuovi “conquistatori”.
La configurazione dei diritti sulla proprietà fondiaria nelle nazioni soggette al land grabbing risulta essere piuttosto complessa e varia
all’interno dei singoli Stati, o addirittura diversificata all’interno di essi.
La proprietà può riguardare diversi soggetti privati, comunità, tribù,
e gli stessi Governi, oppure si può presentare una situazione di libero
accesso, priva di vincoli specifici. Gli accordi sulle acquisizioni di terra
sono strettamente dipendenti dalla forma di proprietà, e generalmente
si sviluppano su una serie di contratti multipli che vedono coinvolti
diversi attori, caratterizzando uno scenario altamente burocratico, se
non di vero e proprio caos legislativo. Questo porta a delle asimmetrie
del potere contrattuale, spostandolo a favore degli investitori esterni,
spesso rappresentati da una singola entità legale e quindi con un’unica
strategia negoziale. A ciò, inoltre, si aggiunge la mancanza di trasparenza che spesso caratterizza questi accordi, aggravata dalla mancanza
di dati ufficiali sulle trattative effettuate e di registri specifici della proprietà fondiaria, alimentando i già forti rischi di corruzione che caratterizzano molti Stati sia in Africa sia in Asia o in America latina.
In alcuni contesti però, diverse organizzazioni internazionali hanno
approfondito gli elementi di rischio, in grado di favorire una situazione
paritetica tra “domanda” e “offerta”, al fine di minimizzare le eventuali
ricadute negative del fenomeno.
Porre il land grabbing in un’ottica paritetica, infatti, potrebbe riconoscere le grandi opportunità di sviluppo per i territori coinvolti, attraverso
la sottoscrizione di accordi bilaterali e multilaterali tra Stati finanziatori e Stati in via di sviluppo, istituendo alcuni strumenti specifici in
sede contrattuale, basati su un “codice di condotta”. Nel settembre del
2009, per esempio, il Governo giapponese, in cooperazione con la Banca Mondiale, la FAO, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo
(IFAD) e la conferenza delle Nazioni Unite per lo sviluppo e il commercio (UNCTAD), hanno delineato sette principi fondamentali per garantire investimenti internazionali per un’agricoltura responsabile.
Tuttavia questo episodio non è stato praticamente imitato in nessun
altro caso. Forse perché attori come la Cina o le nazioni del Golfo Persico non temono nessun tipo di rimostranza internazionale, o di critica
interna, per quanto concerne i loro rapporti economici con altre nazioni
geopoliticamente più deboli.
108
Rivista Thule Italia
Sempre in Africa, tra il 2010 e il 2013, circa 20 milioni di ettari sono
stati oggetto di contrattazioni estere, e in particolare nelle regioni subsahariane.
L’Africa rappresenta il continente con la più alta percentuale al mondo di terre fertili coltivabili, le quali spesso sono sottoutilizzate o inutilizzate. Il Continente Nero è poi destinatario della maggior parte degli
investimenti relativi al land grabbing, che coprono ormai il 70% di tali
transazioni su scala mondiale.
Va poi aggiunto che circa la metà del territorio subsahariano è caratterizzato da suoli aridi in cui prevalgono sistemi di agricoltura estensivi,
che in molti casi rappresentano la principale occupazione delle popolazioni residenti.
Sulla base delle informazioni che abbiamo raccolto, quindi, considerando soltanto gli investimenti in terra superiori ai 1000 ettari, tra il
2004 e il 2009, Etiopia, Ghana, Madagascar, Mali e Sudan, hanno siglato
con nazioni estere progetti di investimento per quasi 3 milioni di ettari,
per un totale di 920 milioni di dollari, la maggior parte dei quali implementati successivamente da compagnie private, legate comunque alle
nazioni acquirenti.
Questa tendenza sembra confermata anche in altri Stati africani, così
come in tutto il Sud/Est asiatico, in Argentina e in Ucraina, facendo
diventare tale fenomeno estremamente globalizzato.
Sempre considerando l’Africa come esempio saliente, troviamo che le
destinazioni d’uso dei suoli riguardano sia colture agroalimentari (1,36
milioni di ettari), che agroenergetiche (1,1 milioni di ettari), anche se
esiste una forte variabilità tra i diversi casi. In Etiopia ad esempio il
98% dei progetti registrati riguarda le produzioni agroalimentari, e solo
il 2% le bioenergetiche, mentre in Mozambico e in Tanzania sembrano
prevalere i progetti riguardanti produzioni destinate alla conversione
in biocarburanti. Tuttavia, il confine non è così netto se si pensa che
la destinazione energetica possa riguardare anche le stesse colture alimentari (per esempio il mais, il frumento e la canna da zucchero).
Infine, per quanto concerne lo sbocco sui mercati, sembra che la via
principale sia quella dell’esportazione, questo in particolare in Ghana,
dove i terreni sono quasi esclusivamente coltivati per produzioni destinate all’esportazione (oltre il 75%), mentre in Madagascar e in Etiopia
cresce la quota di terra che ospita le produzioni destinate ai mercati
locali e regionali.
La terra
109
Nel caso del Sudan, i dati sono eccessivamente discordanti e imprecisi
anche se pure in questo caso sembra confermata una certa tendenza
verso l’esportazione. In termini sintetici le esportazioni dominano nel
caso di produzioni agroenergetiche mentre sono meno pronunciate per
quelle alimentari. L’espansione del comparto dei biocarburanti è un
tema di grande attualità, soprattutto in conseguenza agli effetti scaturiti negli ultimi anni dall’incremento dei prezzi del petrolio e dell’inflazione alimentare e alle attese future riguardanti la loro produzione.
Secondo le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, nel
2014 è prevista una crescita sostenuta di combustibili alimentari, che
porterà alla produzione mondiale di quasi 2 milioni di barili al giorno
(circa 125 miliardi di litri annui).
I principali produttori mondiali di bioetanolo sono il Brasile e gli USA
(la cui produzione è orientata principalmente al consumo domestico),
con una quota pari al 75% circa, mentre per quanto riguarda il biodiesel, la produzione è maggiormente concentrata nell’Unione Europea,
con la Germania e la Francia in testa, seguite da Spagna e Polonia, cui
si aggiungono gli Stati Uniti, l’Indonesia, la Malaysia e l’Argentina. Sul
piano internazionale, i principali esportatori sono il Brasile e la Cina
per l’etanolo, gli USA, l’Indonesia, la Malaysia e l’Argentina per il biodiesel. Tra i principali importatori compaiono l’UE e il Giappone per
il biodiesel; gli Usa, il Giappone, la Corea del Sud, il Canada e l’UE
per l’etanolo. Per quanto riguarda le materie prime utilizzate, queste
dipendono principalmente dalle disponibilità domestiche degli stessi
produttori, così per esempio nel caso dell’etanolo in Brasile si utilizza
quasi esclusivamente canna da zucchero, mentre negli USA il mais. La
produzione in Europa di biodiesel deriva principalmente dall’olio di
colza, anche se negli stabilimenti stanno progressivamente aumentando gli usi di olio di palma e altre oleifere provenienti da paesi tropicali,
tendenza dimostrata anche dalle sempre più consistenti importazioni.
In questo momento il commercio internazionale dei biocarburanti è
ancora poco sviluppato, anche se è prevista in futuro una crescita dei
flussi commerciali soprattutto in quei paesi come l’UE e gli USA che
hanno implementato specifiche politiche energetiche orientate all’utilizzo su larga scala dei biocombustibili. In quest’ottica il commercio
potrà riguardare non solo il prodotto finito, ma anche la ricerca della
materia prima più competitiva consentendo a uno Stato l’utilizzo di
agroenergie anche senza aver sviluppato una filiera bioenergetica in-
110
Rivista Thule Italia
terna o viceversa, di sviluppare una specifica filiera agroindustriale per
la produzione di materia prima. Su questa base diversi Stati delle fasce
tropicali, e in generale dell’emisfero meridionale, possiedono molti più
vantaggi comparati sotto l’aspetto climatico e della disponibilità di terra, oltre che per il basso costo del lavoro.
Questa consapevolezza ha incoraggiato molti governi di nazioni tropicali ad attivare tutta una serie di misure orientate a incoraggiare investimenti per le produzioni agroenergetiche.
L’espansione del comparto agroenergetico degli ultimi anni ha interessato principalmente gli Stati avanzati per ragioni legate a specifiche
scelte politiche volte a incentivare la crescita di questo comparto.
Tuttavia, molti sono i progetti pilota varati negli Stati emergenti come
in Brasile, Cina, India e Tailandia.
Nello specifico, il land grabbing interseca la politica commerciale delle
materie prime alimentari, nel momento in cui gli investitori intendono esportare i beni agricoli prodotti nei loro paesi di origine. In ambito WTO gli investimenti diretti che incidono sugli scambi commerciali sono disciplinati dalle misure previste nei TRIM (Trade Related
Investment Measures) che prevedono l’impossibilità di accordi che
possono entrare in contrasto con quanto prescritto da diversi capitolati
del GATT sulle restrizioni temporanee alle esportazioni domestiche in
Stati africani in cui si sviluppa il biodiesel.
La terra
111
caso, ad esempio, di crisi alimentari. Alcuni Stati però, sembra siano disposti a rinunciare a questi diritti bypassando le norme WTO. Ciò pone
l’attenzione su quelle tematiche di sviluppo delle nazioni più povere,
e non soltanto sull’attrazione di investimenti diretti (compresi quelli in
terreni agricoli), ma soprattutto sulla effettiva capacità che questi soggetti hanno di capitalizzare gli effetti di ricaduta positiva.
Questo, in particolare nel caso delle produzioni agroenergetiche, e
più in generale di tutto il settore agricolo, impone la formulazione e
l’implementazione di politiche di sviluppo rurale al fine di garantire
benefici ai sistemi locali.
Su questa base, la configurazione dei diritti sulla terra gioca forse il
ruolo più importante. In particolare, un aspetto determinante è l’eccessiva complessità della proprietà fondiaria che in molti Stati in via di sviluppo spesso è consequenziale alla precedente storia coloniale, richiamando l’esigenza di una riforma fondiaria, che nessun Governo locale
sembra tuttavia essere intenzionato a intraprendere. Nel caso specifico
dell’Africa subsahariana, per esempio, non esiste una specifica politica
fondiaria e in molti Stati i diritti di proprietà sono allocati mediante un
processo consuetudinario che riconosce il possesso o a pochi individui
legittimati (per ragioni religiose, dinastiche, ecc.), oppure appartengono direttamente ai governi centrali.
Questi a loro volta hanno un interesse strategico nel mantenimento
in produzione dei terreni agricoli, per il quale sono disposti anche al
trasferimento della proprietà. Ciò in parte spiega alcune politiche fondiarie seguite, orientate più a “riforme tecniche” piuttosto che a riforme
agrarie vere e proprie, consentendo l’accesso alla terra soltanto a chi
fosse in grado di garantire una continuità produttiva e uno sviluppo su
larga scala. Senza alcun dubbio il processo di accaparramento da parte
di investitori esteri rispecchia questo atteggiamento, e cioè l’interesse
alla messa in produzione delle terre e le ricadute positive attese dagli
investimenti infrastrutturali.
Alla luce di quanto esposto e giungendo alla conclusione del ragionamento iniziale, l’aumento di interesse verso gli investimenti in terreni
agricoli può essere letto in parte come una conseguenza dell’eccessivo
grado di liberalizzazione dei mercati agricoli mondiali, che vedono da
un lato la “virtualizzazione” del valore intrinseco dei prodotti agricoli, e dall’altro molti Stati emergenti e in via di sviluppo competere
112
Rivista Thule Italia
per la conquista di una sicurezza concreta nell’approvvigionamento
di derrate alimentari, in uno scenario decisamente caotico. A questo
poi, va anche ad aggiungersi l’aumentata richiesta di derrate agricole
orientate per la produzione agroenergetica, fattore che probabilmente
ha incoraggiato molti Stati importatori ad assicurare le proprie riserve adottando politiche di espansione fondiaria all’estero, piuttosto che
affidarsi al commercio internazionale. In particolare questa strategia
sembra essere seguita da molti Stati emergenti, avvantaggiati non solo
dai rapporti preferenziali consolidati con le nazioni in via di sviluppo,
nell’ambito di una cooperazione Sud-Sud, ma anche dal loro diverso
approccio nell’implementare accordi bilaterali, incentrati sulle ricadute
di sviluppo di infrastrutture sociali ed economiche nel breve/termine
con gli Stati ricchi di terreni privi di utilizzo, oltre che sui benefici derivanti dal consolidamento di rapporti commerciali e sul controllo di risorse naturali strategiche (per esempio petrolio, miniere, terreni, risorse
idriche), derivanti da tali rapporti. Cosa che surclassa ormai i datati
sistemi di approccio tenuti dall’Occidente.
Servirebbe, secondo noi, affrontare quindi la questione sul piano internazionale, soprattutto sulle conseguenze che questo nuovo modello
di espansione può avere nella futura “geoeconomia”, e sull’effettivo
impatto sociale negli Stati in via di sviluppo, considerando che questi
accordi difficilmente seguono regole poggianti su dei principi ideologici, ma puramente economici.
Provando allora a ipotizzare una possibile soluzione, che possa rilanciare l’Occidente quale interlocutore credibile, certamente sarebbe
utile stabilire un quadro paritetico definito dall’implementazione di
un codice di condotta responsabile negli investimenti, di cui abbiamo
fatto cenno, che potrebbe essere già importante ma insufficiente se non
affiancato da una “visione del mondo” realmente alternativa a quella
vigente.
Fonti del capitolo
Transnational Institute: “Political Dynamics of Land Grabbing”.
Ejolt Report: “The Many Face of Land Grabbing”.
La terra
113
Uno sguardo al presente e al futuro
Chi è sensibile a certe tematiche non potrà non aver già notato il contrasto esistente tra “quel che è stato”, e “quello che è oggi” il carattere
della terra nell’ambito della postmodernità. Un contrasto insanabile,
senza possibilità di mediazione alcuna, se non per quella che può essere una flebile speranza che, nell’ambito del mondo globalizzato, si possa comprendere quanto pericolosa sia la china intrapresa, non soltanto
in ambito europeo, cosa già di per sé gravissima, ma coinvolgente tutti
i popoli del mondo.
L’aver ceduto alle invasive istanze del mercato, dei suoi apostoli e delle
sue effimere divinità, ha portato un colpo duro a quel legame che la
terra offriva alle diverse culture, alla diversità tra le gens che popolano
il globo, gettando una fosca ombra sul futuro.
Se dovessimo scegliere tra i promettenti rischi insiti, per esempio, nel
fenomeno del land grabbing e il tentativo, anch’esso avventuroso, di riportare almeno in Europa quella forza identitaria portata dalla terra, la
nostra decisione cadrebbe senza indugio su quel che può rappresentare
un percorso duro, difficile, ma dall’importanza fondamentale.
Così come gli ateniesi del mito scelsero l’ulivo, simbolo di radicamento, al cavallo, simbolo del vagare senza sosta, anche noi riteniamo che
solamente attraverso il radicamento, o meglio, a un nuovo radicamento
dei popoli, si potrà offrire una valida alternativa alla china cui siamo
fatalmente destinati seguendo i miraggi del liberismo.
Dal passato il futuro.
Il problema è che lo spirito di autoconservazione, che anima i singoli
individui, viene confuso
con le condizioni di benessere diffuso in cui gli
occidentali sono vissuti dalla metà del secolo
scorso a oggi, e che sta
coinvolgendo altre realtà
mondiali. Questo pro-
114
Rivista Thule Italia
voca un verace e automatico conservatorismo spicciolo generalizzato.
Le proposte di eventuale soluzione alle problematiche contemporanee
risentono di questa condizione esistenziale. Proposte che mirano sostanzialmente a trovare consenso all’interno del sistema, utilizzando i
suoi strumenti e attraverso le sue strutture. Nulla di nuovo; sovente è
capitato nella storia moderna che a una criticità si sia risposto in questo modo. Quel che però è mutato risulta essere proprio lo spazio di
manovra, in via di esaurimento, di questa filosofia e della conseguente
prassi.
Quindi non si tratta di accettare o meno un ritorno al feudalesimo o
al Medioevo da parte dell’europeo del XX secolo, quanto arrivare consapevolmente a capire, e far capire, che non ci sono vie di fuga facili,
o semplicistici richiami a quello che è stata per il pianeta la concezione
della terra, capaci di modificare il processo di decadenza in corso, senza prima una presa di coscienza del loro intrinseco valore. Per dirla
con termini semplici: nessuno oggi vuol più dare credito all’ipotesi che
principi e valori ancestrali possano trovare applicazione nel XXI secolo, ma solamente essi ci salveranno dalla catastrofe. In quanto, viste le
condizioni di criticità in cui versa il nostro sistema, il mondo intero sta
diventando semplicemente mercato. E ciò dovrebbe spaventare chiunque.
Chi oggi ha maturato prima di altri la visione del difficile avvenire
che ci attende, può solo apparire quindi un pessimista agli occhi delle
masse, e contare semplicemente sul fatto che nelle condizioni di stasi
attuale potrà ambire a un seguito circoscritto. Poco importa però, non
sarà nell’immediato che i frutti di una semina come la nostra potranno
essere raccolti.
Non serve scomodare Platone e il mito della caverna per trovare da
parte nostra delle motivazioni alla presa di posizione che in questo articolo abbiamo cercato di sintetizzare, quanto piuttosto avere e mantenere forza nell’agire in un quadro ancora dai contorni sfuocati, dove la
maggior parte di coloro che ci circondano si rifiutano di accettare una
realtà forse già percepita, ma coscientemente, appunto, rifiutata per
via della sua difficoltà nell’essere coraggiosamente accolta. Il coraggio
presso le masse si concretizza nei momenti di maggior tensione. Masse
ancora fiduciose nell’avvenire, forse più per pigrizia che per consapevole adesione, non vorranno nemmeno contemplare l’eventualità che
possano concretizzarsi contingenze storiche in cui saranno messi in
gioco non tanto gli orpelli del benessere e dello sviluppo infinito, quan-
La terra
115
to i fondamentali stessi di esso, attraverso una radicale involuzione del
sistema che l’ha sviluppato e garantito.
Non intendiamo cercare d’inventare nulla di nuovo, elaborando pirotecniche idee belle, appunto, come un fuoco d’artificio, ma altrettanto
limitate nell’eventuale fase applicativa. Occorreva basarsi su quel che
c’è, e non su quel che vorremmo ci fosse (non ci stancheremo mai di
ripeterlo), per questo abbiamo calibrato le nostre proposte, precedentemente esposte, sull’eventualità di doverle sviluppare in un quadro
storico non certo ottimale.
Se vogliamo ambire a un futuro che non sia delegato a potenze prive
di radici, apolidi, sprezzanti ogni valore superiore insito nella natura e
nell’uomo, allora serve riappropriarsi prima di tutto di quel che è più
prossimo alla nostra identità: quella terra che ogni popolo e ogni singolo
deve sentire come propria, come unica, come portatrice di vita e prosperità, sia materiale che immateriale.
Senza questa consapevolezza, non soltanto la terra sarà degradata a
merce di scambio, ma anche noi, uomini e popoli, non saremo altro che
una voce in un bilancio di qualche tecnocrate globalizzato.
Agricoltura organica, Blut und Boden
e socialismo contadino nella riflessione di
Richard Walther Darré
prefazione di Maurizio Rossi
al libro edito dalla Ritter “La nuova Nobiltà di Sangue e Suolo”
«Il suolo forma una parte del diritto familiare, cui occorre accordare la protezione dello Stato. Questa è una concezione che interessa sia il piccolo contadino
sia il medio coltivatore o il grande proprietario terriero, secondo le particolarità
della regione ed i bisogni dell’economia del popolo. Essa ha cura che le famiglie
possano ambientarsi e radicarsi nel territorio. È la concezione che permette,
ad esempio, di lasciare in vita il vecchio viale alberato perché la sua veduta
pittoresca piaceva già al padre o al nonno, pur se dal punto di vista economico
il permanere di tale viale non è giustificato. Per sua essenza, questa concezione
è in grado di subordinare ogni innovazione tecnica alle leggi vitali dell’esistenza; essa ha tale sentimento e tale comprensione delle forme e dello stile, che
nessuna dissonanza può distruggere la sua immagine delle forme della vita.
Considerata nel complesso, questa è una concezione che, di nuovo, si rivela
utile alle leggi della vita e agli uomini e che, per il sentimento che essa ha delle
condizioni della nostra vita, rimane ancorata al terreno delle realtà terrestri,
appunto perché considera il denaro e l’economia semplicemente come i suoi
servitori, i servitori della famiglia e del popolo».
Richard Walther Darré
Argomenti quali il destino storico del “Contadinato” e il futuro assetto del complesso universo dell’agricoltura sono diventati quanto mai
di scottante attualità nelle coscienze dell’opinione pubblica europea e
mondiale, soprattutto quando emergono, in tutta la loro disarmante
evidenza, le incapacità politiche croniche manifestate, in merito, dalle
La terra
117
amministrazioni politiche dei singoli governi nazionali sui provvedimenti da adottare per tutelare il comparto e garantirne un armonico
sviluppo. Soprattutto, poi, quando i popoli si trovano a scoprire che,
loro malgrado, le risorse essenziali per la loro sopravvivenza alimentare vengono costantemente sottoposte alla ormai collaudata e perversa
logica dell’esasperato profitto capitalista, il tutto ad opera di una raffinata e potente consorteria di oligarchie affaristiche transnazionali che
le controllano a livello globale.
In questo drammatico
scenario, la produzione e
la
commercializzazione
mondiale degli alimenti,
la stessa organizzazione
della vita agricola, appare più che evidente che
non sono più da tempo
vincolate alla naturale
applicazione dei dettami
relativi al perseguimento
del bene comune e quindi
del bene sociale dei popoli
e delle nazioni, ma invece alla più cruda logica
dell’accumulo di un sempre maggiore profitto capitalista. Secondo recenti
e più che note statistiche
prodotte dall’organismo
della FAO (l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura),
solamente poche grandi
Holding mondialiste controllano e manipolano la maggior parte della
distribuzione mondiale degli alimenti primari, accentuando in questa
maniera quei feroci processi speculativi che sono tra le principali cause della fame che si sta estendendo in tutto il pianeta. Insomma delle
autentiche piovre transnazionali dell’alimentazione, che capeggiano
mondialmente la commercializzazione degli alimenti e che, oltre a con-
118
Rivista Thule Italia
trollare la distribuzione e le fonti di produzione dei prodotti, possiedono anche tutti i diritti, su scala mondiale, sulle semenze e sulle materie
agricole. Dietro questa favolosa e redditizia speculazione, attuata con
la rapina indiscriminata delle risorse essenziali per la sopravvivenza
alimentare dei popoli, si trovano inoltre i principali organismi bancari
e finanziari di Wall Street, che da sempre svolgono un ruolo determinante nella speculazione nei mercati agricoli. In questo fronte dell’affarismo agro-alimentare e finanziario (causa diretta della crisi economica,
della fame e dell’inflazione mondiale) si trovano contemporaneamente
in prima linea anche le tristemente note Goldman Sachs e Morgan Stanley, ovvero i “gioielli di famiglia” della più grande speculazione finanziaria istituzionalizzata del capitalismo mondialista di matrice sionista,
con appunto sede in Wall Street. Sono proprio costoro ad adoperarsi
con ogni mezzo a loro disposizione affinché i prezzi dei prodotti non
vengano fissati solo per rispondere alla domanda al consumo, ma principalmente per assolvere alle illecite pretese economiche di profitto e
alla domanda speculativa dei mercati finanziari agro-alimentari, strangolando di conseguenza le economie nazionali sempre più prostrate,
avvilendo i popoli e portando così all’impoverimento progressivo del
mondo contadino continuamente umiliato.
A fronte di questa preoccupante situazione ci appare, quindi, più che
meritevole d’attenzione l’iniziativa di contro-potere culturale e di contro-informazione intrapresa dalle Edizioni Ritter nel volere ripubblicare un classico della letteratura politica nazionalsocialista riguardante
la politica rurale e l’organica natura del contadinato, La nuova nobiltà
di sangue e suolo, di Richard Walther Darré, il Reichbauernführer della
Germania Nazionalsocialista. Un’interessante e stimolante opera che
torna finalmente a disposizione dei lettori a distanza di ben trentadue
anni dalla prima edizione italiana che venne pubblicata a cura delle
Edizioni di Ar.
Ancora oggi, gli scritti politici di colui che volle essere il difensore
della dignità dei contadini e della cui grande levatura etica e riconosciuta onestà intellettuale nessuno ha mai potuto dubitare, si presentano quanto mai di pressante attualità, mantengono inalterati quei caratteri di freschezza idealistica e di una formidabile e lucida chiamata
alla mobilitazione, stimoli quanto mai necessari per non soccombere
impotenti, inesorabilmente schiacciati dalla sterilità di questa società consapevolmente votata al suicidio, del suo “pensiero debole” che
desertifica le menti e inaridisce i cuori. Il pensiero politico di Walther
La terra
119
Darré torna a parlarci di critica alla civilizzazione urbana, industriale e
totalmente meccanizzata, distruttrice dell’anima del popolo, di severa
critica alla società borghese e della spazzatura etnica che la componeva,
dell’ascesa dell’economia capitalistica mondiale che ebbe conseguenze
drammatiche su tutto il mondo contadino. Tornano, attraverso i suoi
scritti, i richiami alla storica lotta anti-plutocratica che i ceti contadini,
da sempre, avevano portato avanti contro le potenti oligarchie dell’usurocrazia bancaria e finanziaria all’insegna dell’indissolubile comunione
organica fra la Stirpe, la cultura popolare, il sangue e il suolo, della rivoluzionaria strategia di accerchiamento delle campagne sulle città, della
prospettiva di un’economia autarchica volta al benessere del popolo e
della Comunità e non al profitto capitalista e di un’agricoltura risanata
a livello umano e spirituale, di rinnovati entusiasmi e legami comunitari, di tradizioni tramandate e di concrete e fattive solidarietà cementate
dalla consapevolezza di avere radici certe e profonde e quindi un destino di lotta e di vittoria. Quella vittoria che i contadini tedeschi, guidati
dal loro Reichbauernführer Walther Darré, conseguirono nel 1933, con la
nascita di quella nuova realtà politica e istituzionale che la propaganda
di allora soleva definire come la Volksgemeinschaft nazionalsocialista dei
lavoratori, dei contadini e dei soldati.
Richard Walther Darré nacque il 14 luglio 1895 in Argentina, in un
quartiere di Buenos Aires, dove frequentò la locale scuola tedesca per
l’istruzione primaria, successivamente nel 1905, per volontà della famiglia verrà inviato in Germania a proseguire gli studi, affinché potesse ricevere una vera educazione tedesca e non rischiasse di subire,
rimanendo in Argentina, le pericolose fascinazioni di un americanismo
culturale di matrice statunitense che già si faceva fortemente sentire nel
continente sud-americano.
Si ritrovò quindi a frequentare il Deutsche Kolonialschule a Witzenhausen, almeno fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, avvenimento che lo vedrà partire come volontario nell’esercito e destinato a
battersi sul fronte occidentale per tutta la durata del conflitto, guadagnandosi la “Croce di Ferro”. Come molti altri combattenti di rientro
dalle trincee sarà costretto poi a misurarsi con l’umiliazione cocente
della sconfitta e le conseguenze politiche del disonorevole trattato di
pace di Versailles. Circostanze che lo segneranno nell’anima e contribuiranno non poco a far maturare in lui una diversa percezione della
vita e della politica e soprattutto una radicale critica del sistema liberal-democratico istaurato dalla Repubblica di Weimar. Avrà anche la
120
Rivista Thule Italia
possibilità di far parte a Berlino di unità dei Freikorps impegnate nella
repressione dell’insurrezione spartachista.
Smobilitato e ritornato alla vita civile terminerà gli studi presso il
Deutsche Kolonialschule e si iscriverà alla facoltà di scienze naturali
dell’Università di Halle per intraprendere gli studi in agronomia e zootecnia e dove conseguirà la laurea in agraria. In questo periodo avrà anche modo di poter approfondire le sue conoscenze sulla politica sociale
e sulle concezioni economiche del liberalismo e del marxismo, sugli
influssi della filosofia sul pensiero razziale, sulla storia moderna e sul
pensiero filosofico e politico di Platone,
con un particolare occhio di riguardo nei confronti dell’ordinamento
politico, della forma della vita pubblica e della fisionomia spirituale
della Sparta dorica. Walther Darre era rimasto particolarmente impressionato e interessato dalla ferma volontà politica manifestata dagli
spartani nel volere preservare nel tempo la loro omogeneità razziale
attraverso l’adozione di severe norme comportamentali ed educative,
che ebbero il merito di connotare in seguito Sparta come il primo Stato
razziale a base eugenetica della Storia e che consentirono, agli spartani, di conservare gelosamente un grado di purezza razziale maggiore
che altrove, in più la stessa organizzazione agricola voluta dallo Stato
spartano, che suddivideva gli appezzamenti di terra coltivabile in possesso degli spartani in poderi ereditari, i Kleroi, di eguali dimensioni
e assolutamente non soggetti a commercializzazione, rappresentava
un autentico valore aggiunto, poiché poteva garantire socialmente la
stabilità e il sostentamento delle famiglie, promuovere la procreazione di una discendenza numerosa e soprattutto sana e contribuire così
efficacemente alla salvaguardia della tenuta razziale dello Stato. Nella
concezione storica di Walther Darre, l’esempio luminoso rappresentato
dall’ordinamento di Sparta trovava anche una sua logica corrispondenza nell’etica prussiana del dovere e nello spirito di abnegazione al servizio dell’autorità statale, ambedue non erano state altro che differenti
manifestazioni della medesima immagine di una civiltà aristocratica
costruita su fondamenta contadine e guerriere: «Si può dire che il nazionalsocialismo sia la continuazione nei compiti del nostro secolo dell’idea
prussiana di Stato. Con ciò diventa però anche di nuovo attuale per il nazionalsocialismo lo Stato spartano, poiché l’uguaglianza tra il concetto di Stato
prussiano e quello spartano sulla base dell’eroismo e nella sovrapposizione del
Tutto ali ‘individuo singolo è troppo evidente per non essere già stata notata».
Un’analoga interpretazione di natura biologico-razziale delle vicen-
La terra
121
de storiche venne, da Darré, applicata anche nella rivisitazione della
civiltà romana, considerata non più nel suo insieme, ma come l’espressione di due momenti ben distinti, vennero quindi analizzati e posti
in contrapposizione fra loro, alla luce di tale interpretazione, la Roma
repubblicana, magnificata come “nordico-contadina” e la Roma imperiale vista invece come “semitico-capitalista”.
Il periodo della Roma repubblicana appariva come il depositario di
una originaria purezza razziale di matrice nordica radicata nel ceto
contadino e legittimata da vincoli sacrali, dove la stessa ripartizione
della terra ricalcava quella in uso a Sparta, dove la famiglia contadina
rappresentava il centro dell’organizzazione sociale, culturale e spirituale, dove il cittadino romano rivestiva contemporaneamente il duplice
ruolo di contadino e di soldato: «Ai penati, non al padrone della casa, appartiene il focolare con i suoi dintorni, il suolo su cui la famiglia ha la sua casa,
i suoi campi, i suoi pascoli. Da ciò si deduce automaticamente l’esistenza, in
origine, dell’insediamento separato dei romani antichi, analogo a quello osservato da Tacito per i germani del suo tempo. L’intero territorio di questo
insediamento familiare era inalienabile».
Le trasformazioni negative della società romana avvennero, per Darré,
al momento in cui progressivamente incominciavano l’immiserimento del ceto contadino e, al contempo, il crescente arricchimento della
nobiltà senatoria. Le guerre puniche rappresentarono una drammatica
chiave di svolta, perché il Contadinate pur avendo sostenuto con disciplina le imprese belliche si ritrovò esausto, dissanguato e sempre più
impoverito, mentre la nobiltà senatoria si trovò ad arricchirsi sempre
più con l’acquisizione di nuovi possedimenti e l’accrescimento del suo
potere attraverso l’introduzione dei latifondi ad economia schiavistica:
«La denordicizzazione comincia nel momento in cui Roma, dopo la vittoria
su Cartagine, abbandona le sue fondamenta contadine per trasformarsi in un
popolo che pensa in termini di economia mondiale e di commercio, con tutti i
lati oscuri connessi ad una struttura statale capitalistica».
Pertanto, anche in virtù di tali valutazioni a carattere storico, da cui ne
trarrà un grande insegnamento, l’entusiasta sostenitore della centralità
del ruralismo politico ci terrà a precisare che: «Noi vogliamo mantenerci
fermi soprattutto al principio che la specificità del nostro Stato non deve essere
determinata né da territori stranieri, come nel caso dei grandi imperi coloniali,
né da popolazioni estranee al nostro popolo e legate al potere dello Stato solo
da un rapporto di dipendenza. Noi vogliamo che il nostro Stato abbia il suo
centro nella sua terra e nel suo popolo e che su questa base sviluppi la sua
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Rivista Thule Italia
autoconcezione».
Da questi approfondimenti e dalle conseguenti riflessioni, nascerà in
Walther Darré la ferma decisione di apportare il proprio contributo alla
rinascita politica e spirituale della Germania e soprattutto al riscatto del
mondo contadino, la cui dignità storica e il cui divenire politico avvertiva pericolosamente minacciato da perniciosi processi di snaturamento
e di omologazione volti a cancellare i tanti valori che, nonostante tutto,
ancora resistevano in termini di usi, costumi e tradizioni comunitarie e
familiari all’assalto del mondo liberale e alla rapacità capitalistica che
ne proveniva. Un’aggressione mirata ad introdurre nell’universo contadino nuovi e disgreganti modelli comportamentali ed economici e
scelte mercantilistiche di consumo funzionali al ruolo subalterno che il
contadinato e l’intera agricoltura avrebbero dovuto assumere per essere infine totalmente inglobati nell’area di mercato e di profitto gestita
dai monopoli capitalistici e regolamentata dalle speculazioni dell’Alta
finanza. Il liberalismo. Il capitalismo e il marxismo, che nel frattempo
cercava di incunearsi strumentalizzando le miserie dei contadini, erano
i nemici mortali delle masse contadine tedesche. Partendo da una concezione organicistica, ed anti-utilitaristica della comunità popolare e
del mondo contadino, le cui radici affondavano nella migliore tradizione tedesca del socialismo nazionale coniugato con il pensiero razzista,
Walther Darré iniziò un percorso politico il cui radicalismo non poteva
che portarlo poi all’adesione convinta al movimento nazionalsocialista
e quindi alla formulazione di un programma agricolo-socialista volto
alla rinascita del ceto contadino, architrave bio-politica della comunità,
e al rilancio dell’agricoltura, con la netta consapevolezza che: «Morte dei
contadini significa morte del popolo! Se non le riesce di mantenere in un contadinato fiorente la sorgente dì vita del popolo, la Germania è condannata senza
speranza ad una lenta estinzione. Sotto l’influsso del liberalismo, cioè della
lotta sfrenata di tutti contro tutti in conseguenza di una concezione egoistica
della vita, la Germania si è trasformata sempre più in un popolo morente, oggi
già in un popolo senza gioventù».
I suoi convincimenti politici lo spingeranno pertanto a frequentare inizialmente gli ambienti Völkisch del Bund Artam, la Lega degli Artamani,
un’organizzazione fondata, nel 1923, da Willibald Wentschel che propagandava il progetto della costituzione di una corporazione eroica dei
lavoratori dei campi. Un progetto che era caratterizzato dall’adozione di una concezione del mondo di matrice nazionalpopolare, talvolta
pervasa da sfumature romantiche, che incentivava il ritorno alla terra, il
La terra
123
rigetto del mercantilismo borghese e l’allontanamento dalla dimensione cittadina, la riscoperta delle virtù razziali del contadinata, i principi
del sangue e del suolo e lo sviluppo per la gioventù di un servizio di
lavoro volontario nell’agricoltura da compiersi in comunità rurali il più
possibile autarchiche.
In particolare, Walther Darré apprezzerà molto le critiche che venivano mosse dagli Artamani nei confronti della “dimensione cittadina”,
anche lui nutriva una profonda avversione nei confronti della mentalità
borghese e dell’agglomerato metropolitano che non esitava a definire
come un luogo parassitario, umanamente alienante, demograficamente
sterile e debilitante della forza popolare: «Se ci è consentito usare questa
similitudine, si può dire che il sangue del popolo sgorga dai poderi contadini
come da una fonte, per andare presto o tardi a disseccarsi nelle città. Questa
legge non vale per quei popoli che, al pari del popolo ebreo, hanno caratteri di
tipo nomadico. Per il sangue germanico, invece, essa ha validità assoluta e può
essere definita come la ferrea legge del destino dell’umanità germanica».
Conoscerà inoltre gli intellettuali nazionalsocialisti Paul SchultzeNaumburg e Hans Friedrich Günther che lo avvicineranno ad Heinrich Himmler, ed infine avverrà l’incontro che rappresenterà la svolta
decisiva della sua vita e l’ingresso definitivo nella militanza politica, il
colloquio con Adolf Hitler.
Il Capo del movimento nazionalsocialista riconoscerà immediatamente il valore di Walther Darré, le sue evidenti qualità politiche e culturali,
la sua profonda onestà intellettuale e soprattutto le sue qualificate e
specifiche competenze riguardo alla questione contadina, conferendogli ufficialmente l’incarico della creazione dell’Agrarpolitischer Apparat
del Partito Nazionalsocialista, la branca propagandistica deputata alla
conquista ideologica e politica del mondo rurale. Entrerà poi anche nei
ranghi della SS, dove assumerà la direzione del Rasse und Siedlungshauptamt, l’Ufficio centrale per la Razza e l’insediamento. Sorsero, grazie al
dinamismo organizzativo manifestato da Walther Darré, pubblicazioni
specifiche rivolte alle popolazioni delle campagne come il settimanale
“Nationalsozialistische Landpost” capillarmente diffuso fra gli agricoltori, una pubblicazione di buon livello che riscosse un’enorme gradimento per la vastità degli argomenti trattati e la rivista mensile a carattere ideologico “Deutsche Agrarpolitik, Monatsschrift fur Deutsches
Bauertum”, che cambierà poi la denominazione in quella più famosa di
“Odal, Monatsschrift fur Blut und Boden”, e che rappresenterà l’autorevole voce ufficiale, dopo il 1933, del Ministero dell’Agricoltura. Anche
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Rivista Thule Italia
nella sua numerosa produzione giornalistica, il capo della propaganda
agraria, non verrà mai meno al compito di illustrare costantemente e
dettagliatamente i motivi ideologici e programmatici che sostanziavano la politica nazionalsocialista rivolta ai contadini, come nel caso della
presentazione ufficiale della rivista, dove rimarcherà la sua ferma opposizione ai principi dell’Illuminismo e alle idee liberali: «Vogliamo far
diventare di nuovo il sangue e il suolo il fondamento di una politica agraria
tedesca e inserire così questo mensile nella grande lotta per il sangue e il suolo,
chiamata a far risorgere il contadinato e con ciò superare le idee del 1789, cioè
le idee del liberalismo. Perché le idee del 1789 rappresentano una Weltanschauung che nega la razza, l’adesione al contadinato invece è il nucleo centrale di
una Weltanschauung che riconosce il concetto di razza. Intorno al contadinato
si scindono gli spiriti del liberalismo da quelli del pensiero völkisch».
I risultati concreti non si fecero attendere, a seguito delle capillari ed
efficaci campagne propagandistiche, spesso e volentieri condotte con
iniziative di sensibilizzazione svolte porta a porta, da parte degli uomini dell’Agrarpolitischer Apparat, consensi sempre più massicci affluirono
verso il NSDAP realizzando così quella necessaria saldatura fra istanze politiche, mobilitazione ideologica e consenso radicato nel territorio
e contribuendo, altresì, ad accrescere il prestigio di Walther Darré nei
confronti dei vertici del partito e soprattutto nei confronti delle moltitudini di contadini che lo avevano già eletto come il loro rappresentante
di fiducia, ma il riconoscimento maggiore e definitivo, per l’impegno e
le capacità profuse nella conquista del mondo contadino al Nazionalsocialismo, lo ricevette direttamente da Adolf Hitler: «L’inserimento di milioni di contadini nel nostro movimento è stata in primo luogo opera Sua. Lei
ha così contribuito in modo sostanziale a creare i presupposti per la conquista
legale del potere in Germania da parte del nazionalsocialismo».
All’indomani della presa del potere per Walther Darré si concretizzeranno finalmente le possibilità per tradurre in fatti concreti tutto quello,
che in precedenza, aveva potuto solamente teorizzare e propagandare,
primo fra tutti portare fino in fondo l’offensiva contro i proprietari terrieri e i latifondisti. Gradualmente presero corpo i progetti relativi ad
una agricoltura organica, le battaglie per il potenziamento della produzione agricola, le innovative e assolutamente d’avanguardia misure
adottate per la tutela sociale e giuridica del contadinate, i provvedimenti legislativi promulgati a salvaguardia dei poderi contadini che
divennero, grazie a questi, inalienabili, impignorabili e indivisibili.
Nella concezione nazionalsocialista, l’agricoltura non doveva più
La terra
125
essere concepita come un comparto produttivo ed economico scollegato ed avulso dal resto della società, ma come una superiore sintesi
costruttiva integralmente partecipe del destino storico, culturale, sociale e razziale dell’intera comunità popolare, quindi una sintesi valida
anche nel fondamentale contesto economico, di culture tradizionali arcaiche e di moderne discipline storiche, scientifiche, sociali e razziali
che avrebbero trovato il loro compaginamento in una concezione del
mondo totale e olistica, dove tutti gli aspetti più articolati e complessi
che esse comprendevano ed esprimevano si sarebbero dovuti naturalmente riassumere in una complessiva immagine generale e organica
rappresentata dalla univoca ed unanime volontà che promanava dalla
Volksgemeinschaft nazionalsocialista, dove la secolare lotta all’improduttività speculativa del latifondo e le vitali esigenze di emancipazione
dallo sfruttamento del contadi-nato da parte del capitalismo agrario
sarebbero state armonicamente ricondotte al recupero della mistica sacrale della comunione organica tra il ceppo razziale ereditario e il suolo
inteso come luogo di trasmissione della originaria memoria degli antenati della stirpe, il tutto attraverso l’adozione delle fortunate formule
politiche che ri-conducevano ad una riscoperta aristocrazia popolare
e contadina e nelle mobilitanti parole d’ordine del Blut und Boden, del
Sangue e Suolo, il tutto salvaguardato altresì attraverso le pratiche organizzative proprie di un innovativo e moderno socialismo contadino
coniugato a sua volta con una riattualizzazione politica di radicate tematiche culturali ed identitarie che rappresentavano un vero anello di
organica e spirituale congiunzione fra tatti coloro che possedevano e
lavoravano la terra e che, con il sudore versato, con le lacrime spese, gli
indicibili sacrifici compiuti e il sangue generosamente donato dalle generazioni precedenti, avevano fatto in modo che la terra, il suolo nativo
della stirpe, diventasse parte indissolubile del loro essere e il loro stesso
essere parte integrante della terra.
L’organizzazione pratica del socialismo contadino, fortemente voluta
dal Nazionalsocialismo e in primo luogo da Walther Darré e rispondente alle priorità strategiche e alle necessità vitali della Volksgemeinschaft,
ebbe il suo sviluppo principale nella creazione di un’unica grande corporazione agraria, il Reichsnährstand che incorporava e disciplinava gli
interessi e gli obbiettivi della totalità dei contadini e delle aziende agricole, e di conseguenza attraverso la promulgazione di leggi e provvedimenti che regolamentavano i premi di produzione, i prezzi della merce,
la qualità dei prodotti, disciplinavano i consorzi dei produttori e infine
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Rivista Thule Italia
pianificavano l’impostazione complessiva della produzione agricola. Il
tutto avente come obbiettivi la realizzazione della piena giustizia sociale, l’autonomia alimentare della nazione e l’irrobustimento della forza
popolare e razziale, proprio nella direzione anti-plutocratica voluta da
Walther Darré e da lui stesso illustrata: «Noi riconosciamo l’iniziativa privata, riconosciamo il diritto di proprietà del lavoro contadino e creiamo il socialismo pratico garantendo l’alimentazione del popolo per mezzo del regolamento
del mercato dei generi alimentari».
L’insieme, comprensibilmente, veniva stabilito sulle base della Programmazione statale e delle direttive politiche e contemporaneamente
corroborato da robuste iniezioni di richiami ad un cameratismo comunitario e socialista contadino che propagandava l’idea di un organico
autogoverno del contadinato, avendo in tutto questo un chiaro esempio
di come il Nazionalsocialismo riuscisse egregiamente a far convivere,
al suo interno, la dottrina rivoluzionaria di un moderno dinamismo
attivistico e socialista, conosciuto come Deutscher Sozialismus, la cui originale sostanza politica venne felicemente riassunta da Gregor Strasser:
«Dalla destra prenderemo il nazionalismo che per sua disgrazia ha sposato il
capitalismo, dalla sinistra prenderemo il socialismo, la cui unione con l’internazionalismo è disastrosa. Così formeremo questo socialismo nazionale, forza
motrice di una nuova Germania e di una nuova Europa» con la volontà di
restaurazione dei valori e dei principi che contraddistinguevano l’arcaica e tradizionale dimensione contadina.
Pertanto una visione tradizionale del ruralismo politico e della dimensione contadina che veniva nuovamente interpretata come il fondamento granitico della Comunità del Popolo, il suo baricentro razziale
destinato a perpetuarsi nelle generazioni a venire. Una insostituibile
sorgente vitale del popolo destinata a combattere, per salvaguardare il
benessere sociale e la tenuta razziale e politica del popolo e dello Stato,
contro le degenerazioni societarie e culturali partorite da una modernità malsana e anarchica e contro le ideologie pervertitrici del liberalismo, del capitalismo e del marxismo che nei loro programmi avevano
deciso l’estinzione definitiva del mondo contadino e l’affermazione di
una concezione utilitaristica ed egoistica della vita. In pratica, nell’accezione nazionalsocialista, il ceto contadino essendo il trasmettitore di
virtù etiche insostituibili doveva rappresentare il severo custode della
dimensione biologica e del costume razziale trasmesso dalle generazioni precedenti e tramandato fin dalle più remote origini, l’insostituibile
e responsabile detentore del fondamentale compito di garantire il so-
La terra
127
stentamento del popolo, perché anche nell’autonomia alimentare, che
solamente una sana agricoltura nazionale organizzata secondo i nuovi
principi stabiliti dal diritto agrario nazionalsocialista poteva garantire, si
esprimeva il significato di una economia organica finalmente affrancata
dai condizionamenti e dalle pressioni della plutocrazia internazionale,
una condizione essenziale che venne ulteriormente e autorevolmente
confermata da Hans Frank, il decano della nuova giurisprudenza nazionalsocialista: «In questo diritto agrario sta il vero socialismo. Socialismo
vuol dire assicurare ad ogni membro del popolo la partecipazione ai beni, frutto
del cameratesco lavoro della comunità popolare. La terra è la parte più importante della produzione nazionale. E ‘merito di Walther Darré di avere elaborato questo concetto con irrefutabile chiarezza». Ed infine il ceto contadino
doveva costituire la fonte perenne del ringiovanimento del sangue nordico del popolo, quel preziosissimo patrimonio genetico che era stato
l’elemento germinale della Civiltà europea le cui radici affondavano
nella lontana Grosse Wanderung, nel complesso di valori, di credenze, di
costumi e di simboli che venne innestato nel tessuto europeo dalla migrazione dei popoli indo-europei dell’antichità e, di conseguenza, nel
mito dell’originaria unità nordica delle popolazioni indo-europee.
Il lascito di Walther Darré rimane a tutt’oggi una preziosissima eredità
a beneficio dei popoli europei, un giacimento di idee-forza a disposizione degli spiriti liberi che non vogliono vedere consumata la loro esistenza nel frullatore omologante del Villaggio Globale, un patrimonio
carico di significati e di responsabilità che non cesserà di testimoniare
nel tempo la grandezza epocale della gigantesca e rivoluzionaria opera
svolta dal carismatico difensore dell’onore contadino e il cui messaggio
culturale e politico può ancora costituire motivo di insegnamento, di
formazione e di riflessione.
In fondo i problemi a cui i popoli europei dovranno fare fronte sono
sempre i medesimi, proprio come avvenne nella Germania degli anni
precedenti all’avvento del Nazionalsocialismo, l’agricoltura e quindi il
Contadinate sono stati privati della loro condizione prioritaria di essenziale componente organica della nazione, e sono stati riconvertiti in una
volgare merce di profitto capitalistico con un valore stabilito a priori
dalla speculazione del libero mercato, pertanto la commercializzazione
internazionale delle risorse alimentari, necessarie per la sopravvivenza, non si sviluppa più da tempo prestando attenzione alle prioritarie necessità della comunità, dalle cui terra provengono, ma prestando
solamente attenzione alla perversa e incontrollata logica di profitto li-
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Rivista Thule Italia
berista delle Holding che interamente le controllano, quando Walther
Darré invece, estremamente sensibile a queste problematiche, esaltava
la centralità della dimensione umana nell’ambito economico e voleva
eliminare il concetto dl profitto individuale per sostituirlo con quello di
ricompensa per u lavoro svolto a favore della comunità popolare, vieppiù convinto che il Contadinate doveva essere “salvato” dalle preoccupazioni di natura prettamente economicistica: «Ci deve essere del tutto
chiaro che l’agricoltore non è un imprenditore nel senso comune del termine. Il
ceto alimentare non può e non deve partecipare al gioco della libera formazione
dei prezzi; esso non deve essere esposto ai pericoli che vi sono collegati, perché
la sua funzione per la nazione è straordinariamente importante».
Ne risulta, per forza di cose, che la soluzione della crisi dell’agricoltura e del declino del mondo contadino si potrà trovare solamente nel
superamento del meccanismo liberista di produzione fondato sul libero mercato e sul profitto incontrollato e nella sua sostituzione con
un nuovo modello di sviluppo economico auto-centrato, gerarchico,
popolare e socialista, proprio come venne genialmente prefigurato da
Walther Darré, fondato su una produzione agricola autarchica, assoluta ed esclusivamente atta ad assolvere principalmente alle prioritarie
necessità della comunità popolare e, soprattutto, nel riportare il mondo
contadino ad essere la pietra angolare per la rieducazione culturale e la
rinascita spirituale e politica del popolo, affinché possa portare a compimento la sua straordinariamente importante funzione.
Le opere del Demiurgo: la Terra
prefazione e traduzione di Stefania Labruzzo
Col presentare al lettore il seguente lavoro, opera di quello che è stato
probabilmente uno dei più eminenti studiosi nell’ambito esotericoreligioso degli ultimi secoli — René Guénon per l’appunto — lavoro
apparso suddiviso in quattro articoli
sulla rivista mensile La Gnose tra
il 1909 e il 1910 (nello specifico nel
numero 1 del novembre 1909, 2
del dicembre 1909, 3 del gennaio
1910 e 4 del febbraio dello stesso
anno), non si vuole che aggiungere
una tessera all’ampio mosaico che
costituisce e descrive il tema stavolta
qui trattato, la terra; una tessera in sé
e per sé lapalissianamente assai poco
empirica, visto che al centro non vi
si troverà certo un’analisi scientifica
del soggetto in questione, ma non per
questo non di primaria importanza,
dal momento che — secondo vari
sistemi filosofico-religiosi — tutto ciò
che “materialmente” esiste non può
che avere un inizio, e un inizio non
può che avere un Principio, un Ente
da cui aver luogo; è quindi proprio sul celeberrimo “Ex nihilo nihil fit”
di lucreziana memoria che possiamo asserire, large loquendo, si stagli
la figura del Demiurgo.
Creatore del mondo e di tutto quanto lo abita e lo costituisce,
130
Rivista Thule Italia
dunque anche della terra, nonché di tutto quanto ad esso è collegato,
quindi di tutto ciò che per natura, gnosticamente parlando, si oppone
tragicamente alla perfezione del Pleroma, da cui egli stesso è separato,
artefice e sovrano di quel mondo che non è che il regno del molteplice,
dell’illusione, fulcro della nefasta e inevitabile scissione tra il Bene e il
Male, dell’esiziale turbamento della superna Quies, possiamo a buon
ragione affermare che il Demiurgo sia una delle immagini più complesse
e controverse di tutta quanta la cultura gnostica, e non solo. Proprio in
nome di questa complessità, non possiamo, quindi, che volontariamente
limitarci, in tal sede, a questo esile schizzo introduttivo, dal momento
che una ricostruzione per così dire soddisfacente di una simile figura
richiederebbe non solo pagine e pagine, ma interi tomi; questo esile
schizzo non vuole che rappresentare, dunque, in vista della lettura
della seguente riflessione guénoniana, un più che esiguo trait d’union
tra la terra e il suo creatore.
La terra
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René Guénon
La Gnosi, novembre 1909, n° 1
IL DEMIURGO
C’è un certo numero di problemi che hanno costantemente preoccupato gli uomini, ma non ve n’è forse uno che sia generalmente sembrato più difficile da risolvere di quello dell’origine del Male, con cui
si sono scontrati, come contro un
ostacolo insormontabile, la maggior
parte dei filosofi, e soprattutto i teologi: «Si Deus est, unde Malum? Si non
est, unde Bonum?». Questo dilemma è,
infatti, insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera
diretta di Dio, e che, di conseguenza,
sono obbligati a renderlo ugualmente
responsabile del Bene e del Male. Si
dirà indubbiamente che tale responsabilità sia in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma
se le creature possono scegliere tra il
Bene e il Male è perché l’uno e l’altro esistono già, almeno in linea di
principio, e, se talvolta sono capaci di
decidersi a favore del Male invece di
essere sempre inclini al Bene, è perché sono imperfette: come dunque ha potuto Dio, se è perfetto, creare
esseri imperfetti?
È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se
fosse possibile, il Perfetto dovrebbe contenere in sé l’imperfetto allo
stato di principio, e allora non sarebbe più il Perfetto. L’imperfetto non
può dunque procedere dal Perfetto mediante emanazione; non potrebbe allora che risultare dalla creazione «ex nihilo»; ma come ammettere
che qualcosa possa venire dal niente, o, in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia affatto un principio? D’altronde, ammettere
la creazione «ex nihilo» sarebbe ammettere di conseguenza l’annientamento finale degli esseri creati, perché ciò che ha avuto un inizio deve
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Rivista Thule Italia
anche avere una fine, e niente è più illogico che parlare, in una simile
ipotesi, d’immortalità; ma la creazione così intesa non è che un’assurdità, poiché è contraria al principio di causalità, che è impossibile per
ogni uomo ragionevole in buona fede negare, e possiamo dire con Lucrezio: «Ex nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti».
Non può esserci niente che non abbia un principio; ma qual è questo
principio? E non c’è, in realtà, che un unico Principio di tutte le cose?
Se si esamina l’Universo totale, è evidente che contenga tutte le cose,
perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è necessariamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che sarebbe al
di là di questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, e questa supposizione è assurda. Ciò che non ha limite può essere chiamato l’Infinito,
e, siccome contiene tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose.
D’altra parte, l’Infinito è necessariamente uno, perché due Infiniti che
non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue, quindi,
che non ci sia che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio
è il Perfetto, perché l’Infinito non può essere tale che se è il Perfetto.
Così, il Perfetto è il Principio supremo, la Causa prima; contiene tutte
le cose in potenza e ha prodotto tutte le cose; ma allora, poiché non c’è
che un Principio unico, cosa divengono tutte le opposizioni che si osservano abitualmente nell’Universo: l’Essere e il Non Essere, lo Spirito
e la Materia, il Bene e il Male? Ci troviamo qui dunque di fronte alla domanda posta fin dall’inizio, e possiamo adesso formularla in un modo
più generale: come ha potuto l’Unità creare la Dualità?
Alcuni hanno creduto di dover ammettere due principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma tale ipotesi è scartata da quanto abbiamo precedentemente detto. Questi due principi, infatti, non possono essere
ambedue infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se uno solo fosse infinito, sarebbe il principio dell’altro; se,
infine, ambedue fossero finiti, non sarebbero veri principi, perché dire
che ciò che è finito possa esistere di per se stesso è dire che qualcosa
possa venire dal niente, poiché tutto ciò che è finito ha un inizio, logicamente, se non cronologicamente. In quest’ultimo caso, di conseguenza,
essendo entrambi finiti, devono procedere da un principio comune, che
è infinito, e siamo così ricondotti alla considerazione di un Principio
unico. Molte dottrine che si considerano abitualmente come dualiste
non sono, d’altra parte, tali che in apparenza; nel Manicheismo, come
nella religione di Zoroastro, il dualismo non era che una dottrina puramente essoterica, che ricopriva la vera dottrina esoterica dell’Unità:
La terra
133
Ormuzd e Ahriman sono generati da Zurvan Akarana, e devono confondersi in lui alla fine dei tempi.
La Dualità è dunque necessariamente prodotta dall’Unità, poiché essa
non può esistere di per sé; ma come può essere prodotta? Per capirlo,
dobbiamo in primo luogo considerare la Dualità sotto il suo aspetto
meno particolaristico, vale a dire l’opposizione tra l’Essere e il Non Essere; d’altronde, poiché l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti
nella Perfezione totale, è innanzitutto necessario che tale opposizione
non possa essere che apparente. Sarebbe dunque preferibile parlare solamente di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? Esiste in
realtà indipendentemente da noi o non è semplicemente che il risultato
del nostro modo di considerare le cose?
Se per Non Essere non s’intende che il puro niente, è inutile parlarne,
poiché cosa si può dire di ciò che è niente? Ma è del tutto diverso se si
considera il Non Essere come possibilità di essere; l’Essere è la manifestazione del Non Essere così inteso, ed è contenuto allo stato potenziale
in questo Non Essere. Il rapporto del Non Essere nei confronti dell’Essere è allora il rapporto del non manifestato nei confronti del manifestato, e si può dire che il non manifestato sia superiore al manifestato di
cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il manifestato, oltre
a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai manifestato. Allo stesso
tempo, è evidente che sia impossibile parlare qui di una distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel non manifestato;
non possiamo, tuttavia, concepire il non manifestato in maniera diretta, ma solo attraverso il manifestato; tale distinzione esiste dunque per
noi, ma non esiste che per noi.
Se è così per la Dualità sotto l’aspetto della distinzione dell’Essere e
del Non Essere, deve essere, a maggior ragione, lo stesso per tutti gli
altri aspetti della Dualità. Già con questo si vede quanto sia illusoria la
distinzione tra lo Spirito e la Materia, su cui si è tuttavia, soprattutto
nei tempi moderni, costruito un così gran numero di sistemi filosofici,
come su una base incrollabile: se tale distinzione sparisse, non resterebbe niente di tutti questi sistemi. Possiamo inoltre osservare per inciso
come la Dualità non possa esistere senza il Ternario, perché se il Principio supremo, differenziandosi, dà origine a due elementi, che, d’altra
parte, non sono distinti che in quanto li consideriamo come tali, questi
due elementi e il loro Principio comune formano un Ternario, in modo
che, in realtà, è il Ternario e non il Binario a essere immediatamente
prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale.
134
Rivista Thule Italia
Torniamo adesso alla distinzione tra il Bene e il Male, che non è,
anch’essa, che un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone
il Bene al Male, si fa generalmente consistere il Bene nella Perfezione, o
almeno, a un livello inferiore, in una tendenza alla Perfezione, e allora il
Male non è altro che l’imperfetto; ma come potrebbe l’imperfetto opporsi al Perfetto? Abbiamo visto che il Perfetto è il Principio di tutte le cose,
e che, d’altra parte, non possa produrre l’imperfetto, risulta quindi che
in realtà l’imperfetto non esista, o che almeno non possa esistere che
come elemento costitutivo della Perfezione totale; ma allora non può
essere realmente imperfetto, e ciò che chiamiamo imperfezione non è
che relatività. Così, ciò che chiamiamo errore non è che verità relativa,
perché tutti gli errori devono essere compresi nella Verità totale, senza
cui questa, essendo limitata da qualcosa che sarebbe al di fuori di essa,
non sarebbe perfetta, cosa che equivarrebbe a dire che non sarebbe la
Verità. Gli errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti
della Verità totale; è dunque la frammentazione che produce la relatività, e, pertanto, si potrebbe dire che sia la causa del Male, se relatività
fosse realmente sinonimo di imperfezione; ma il Male non è tale che se
lo si distingue dal Bene.
Se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è affatto realmente
distinto, poiché vi è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista
universale, il Male non esiste. Esisterà solamente se si considerano tutte
le cose sotto un aspetto frammentario e analitico, separandole dal loro
Principio comune, invece di considerarle sinteticamente come contenute in tale Principio, che è la Perfezione. È così che è creato l’imperfetto;
distinguendo il Bene dal Male, li si crea entrambi mediante questa stessa distinzione, perché il Bene e il Male non sono tali che se li si oppone
l’uno all’altro, e, se non c’è affatto Male, non è più opportuno parlare
di Bene nel senso ordinario di questo termine, ma solo di Perfezione. È
dunque la fatale illusione del Dualismo che realizza il Bene e il Male, e
che, considerando le cose da un punto di vista particolare, sostituisce
la Molteplicità all’Unità, e chiude così gli esseri su cui esercita il suo
potere nel dominio della confusione e della divisione; tale dominio è
l’Impero del Demiurgo.
La terra
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René Guénon
La Gnosi, dicembre 1909, n° 2
IL DEMIURGO
Quanto abbiamo detto a proposito della distinzione tra il Bene e il
Male permette di comprendere il simbolo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose possono essere espresse. La
frammentazione della Verità totale, o del Verbo, perché in fondo è la
stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica alla
segmentazione dell’Adamo Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adamo Protoplastes, vale a dire il primo formatore; la causa
di tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza
individuale. Questo Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui, inizialmente allo stato potenziale, e non diviene a lui
esteriore che nella misura in cui l’uomo stesso la esteriorizza; questo
istinto di separabilità, per la sua natura che è di provocare la divisione,
spinge l’uomo a gustare il frutto dell’Albero della Scienza del Bene e
del Male, vale a dire a creare la distinzione stessa tra il Bene e il Male.
Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché ciò che gli era interiore è
divenuto esteriore in seguito alla separazione che si è prodotta tra gli
esseri; questi sono adesso rivestiti di forme che limitano e definiscono
la loro esistenza individuale; e così l’uomo è stato il primo formatore.
Ma anch’egli si trova ormai soggetto alle condizioni di questa esistenza
individuale ed è anch’egli rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una tunica di pelle; è rinchiuso nel dominio del Bene e
del Male, nell’Impero del Demiurgo.
Da questa esposizione, d’altra parte molto sommaria e assai incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo;
non è, in principio, che la volontà dell’uomo, in quanto realizza la distinzione tra il Bene e il Male. Ma poi l’uomo, limitato in quanto essere
individuale da quella volontà che è la sua, la considera come qualcosa
di esteriore a lui, e così essa diviene distinta da lui; inoltre, siccome essa
si oppone agli sforzi che egli compie per uscire dal dominio in cui si
è egli stesso rinchiuso, la guarda come una potenza ostile e la chiama
Shathan o l’Avversario. Osserviamo, d’altra parte, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo a ogni istante, poiché
questo non deve affatto essere considerato come verificatosi in un tem-
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Rivista Thule Italia
po determinato, che questo Avversario, diciamo, non è affatto malvagio
in se stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario.
Dal punto di vista più generale, il Demiurgo, divenuto una potenza
distinta e considerato come tale, è il Principe di questo Mondo di cui si
parla nel Vangelo di Giovanni; anche qui non è, strettamente parlando,
né buono né malvagio, o piuttosto è l’uno e l’altro, poiché contiene in sé
il Bene e il Male. Si considera il suo dominio come il Mondo inferiore,
che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principale da cui è
stato separato; ma occorre prestare attenzione a osservare che tale separazione non è mai assolutamente reale; non è reale che nella misura in
cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo stato
potenziale nell’Universo principale, ed è evidente che nessuna parte
possa realmente uscire dal Tutto. È peraltro quanto impedisce che la
caduta continui indefinitamente; ma questa non è che un’espressione
del tutto simbolica e la profondità della caduta misura semplicemente
il grado di separazione. Con questa restrizione, il Demiurgo si oppone
all’Adamo Kadmon o all’Umanità principale, manifestazione del Verbo, ma solamente come un riflesso, perché non è affatto un’emanazione
e non esiste che di per sé; è quanto è rappresentato dalla figura dei due
vegliardi dello Zohar, e anche dai due triangoli opposti del Sigillo di
Salomone.
Siamo dunque portati a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso e invertito dell’Essere, perché in realtà non può essere altra
cosa. Non è dunque un essere; ma, in base a quanto abbiamo precedentemente detto, può essere considerato come la collettività degli esseri
nella misura in cui essi sono distinti, o, se si preferisce, in quanto hanno
un’esistenza individuale. Siamo esseri distinti in quanto creiamo noi
stessi la distinzione, che non esiste che nella misura in cui la creiamo;
in quanto creiamo tale distinzione, siamo elementi del Demiurgo, e, in
quanto esseri distinti, apparteniamo al dominio di quello stesso Demiurgo che è quanto chiamiamo la Creazione.
Tutti gli elementi della Creazione, vale a dire le creature, sono dunque
contenuti nel Demiurgo stesso, e infatti non può che trarli da se stesso,
poiché la creazione ex nihilo è impossibile. Considerato come Creatore,
il Demiurgo produce prima la divisione, e non ne è affatto realmente distinto, poiché non esiste che in quanto la divisione stessa esiste; inoltre,
siccome la divisione è la fonte dell’esistenza individuale ed è definita
dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore e allora egli è identico all’Adamo Protoplastes, così come abbiamo visto. Si
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137
può anche dire che il Demiurgo crei la Materia, intendendo con questo
termine il caos primordiale che è il coacervo di tutte le forme; poi organizza tale Materia caotica e tenebrosa dove regna la confusione facendo
scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la creazione.
Si deve adesso dire che la Creazione sia imperfetta? Sicuramente non
la si può considerare perfetta; ma, se ci si pone dal punto di vista universale, essa non è che uno degli elementi costitutivi della Perfezione
totale. Non è imperfetta che se la si considera analiticamente come separata dal suo Principio, ed è d’altronde nella stessa misura che è il
dominio del Demiurgo; ma se l’imperfetto non è che un elemento del
Perfetto, esso non è veramente imperfetto, e risulta quindi che in realtà
il Demiurgo e il suo dominio non esistano dal punto di vista universale,
non più della distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue anche che,
dallo stesso punto di vista, la Materia non esista: l’apparenza materiale
non è che illusione, pertanto non sarebbe d’altra parte necessario concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché
sarebbe cadere in un’altra illusione, che è quella di un idealismo esagerato e mal compreso.
Se la materia non esiste, sparisce quindi anche la distinzione tra lo Spirito e la Materia; tutto deve essere in realtà Spirito, ma intendendo questo termine in un senso del tutto diverso da quello che gli ha attribuito
la maggior parte dei filosofi moderni. Questi, infatti, pur opponendo
lo Spirito alla Materia, non lo considerano affatto come indipendente
da ogni forma, e si può allora chiedersi in cosa esso si differenzi dalla
Materia; se si dice che sia inesteso, mentre la Materia è estesa, come può
essere rivestito di una forma ciò che è inesteso? Perché, d’altra parte,
voler definire lo Spirito? Che sia con il pensiero o altrimenti, è sempre
attraverso una forma che si cerca di definirlo, e allora non è più lo Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’essere
particolare; ma è il Principio di tutti gli esseri, e così li contiene tutti; è
per questo che tutto è Spirito.
Quando l’uomo giunge alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso e tutte le cose con lo Spirito universale, e allora per lui
scompare ogni distinzione, così da contemplare tutte le cose come in
se stesso, e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte
alla Verità come l’ombra di fronte al sole. Così, attraverso questa stessa
conoscenza, l’uomo è affrancato dai vincoli della Materia e dell’esistenza individuale, non è più sottomesso alla dominazione del Principe del
Mondo, non appartiene più all’Impero del Demiurgo.
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Rivista Thule Italia
René Guénon
La Gnosi, gennaio 1910, n° 3
IL DEMIURGO
Da quanto precede risulta che l’uomo possa, fin dalla sua esistenza
terrestre, affrancarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e che
tale affrancamento si operi mediante la Gnosi, vale a dire mediante la
Conoscenza integrale. Osserviamo,
d’altronde, come tale Conoscenza non
abbia niente in comune con la scienza
analitica e non la presupponga affatto;
è un’illusione troppo diffusa ai nostri
giorni credere che non si possa giungere alla sintesi totale che attraverso
l’analisi; la scienza ordinaria, invece, è
del tutto relativa e, limitata al Mondo
ilico, non esiste più di esso dal punto
di vista universale.
D’altra parte, dobbiamo anche osservare che i diversi Mondi, o, secondo
l’espressione generalmente ammessa,
i diversi piani dell’Universo, non siano affatto luoghi o regioni, ma modalità dell’esistenza o stati dell’essere.
Questo permette di capire come un
uomo che vive sulla terra possa in realtà appartenere non al Mondo ilico, ma al Mondo psichico o anche al
Mondo pneumatico. È questo che costituisce la seconda nascita; questa, tuttavia, non è, strettamente parlando, che la nascita del Mondo
psichico, tramite cui l’uomo diviene cosciente su due piani, ma senza
raggiungere ancora il Mondo pneumatico, vale a dire senza identificarsi con lo Spirito universale. Quest’ultimo risultato non è ottenuto che
da chi possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la quale viene per sempre liberato dalle nascite mortali; è ciò che si esprime
dicendo che solo i Pneumatici vengono salvati. Lo stato degli Psichici
non è, insomma, che uno stato transitorio; è quello dell’essere che è già
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139
pronto a ricevere la Luce, ma che non la percepisce ancora, che non ha
preso coscienza della Verità una e immutabile.
Quando parliamo di nascite mortali, intendiamo con questo le modificazioni dell’essere, il suo passaggio attraverso forme molteplici e mutevoli; non vi è niente che rassomigli alla dottrina della reincarnazione
come la ammettono gli spiritisti e i teosofisti, dottrina riguardo alla quale avremo un giorno l’occasione di spiegarci. Il Pneumatico è liberato
dalle nascite mortali, è cioè affrancato dalla forma, dunque dal Mondo
demiurgico; non è più sottoposto al cambiamento, e, di conseguenza, è
privo di azione; questo è un punto su cui torneremo successivamente.
Lo Psichico, invece, non va oltre il Mondo della Formazione, che è simbolicamente designato come il primo Cielo o la sfera della Luna; da lì
torna al Mondo terrestre, il che non significa che in realtà assumerà sulla Terra un nuovo corpo, ma semplicemente che debba rivestire nuove
forme, qualunque esse siano, prima di ottenere la liberazione.
Quanto abbiamo appena esposto mostra l’accordo, potremmo anche
dire la reale identità, malgrado alcune differenze nell’espressione, tra
la dottrina gnostica e le dottrine orientali, e più in particolare con il
Vedānta, il più ortodosso di tutti i sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. È per questo che possiamo completare quanto abbiamo indicato a proposito dei diversi stati dell’essere traendo alcune citazioni
dal Trattato della Conoscenza dello Spirito di Shankaracharya.
«Non vi è alcun modo di ottenere la liberazione completa e finale che
la Conoscenza; essa è il solo strumento che sciolga i vincoli delle passioni; senza la Conoscenza, la Beatitudine non può essere ottenuta.
«Non essendo l’azione opposta all’ignoranza, non può allontanarla;
ma la Conoscenza dissipa l’ignoranza, come la Luce dissipa le tenebre».
L’ignoranza, è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre del Mondo
ilico, legato all’apparenza illusoria della Materia e alle distinzioni individuali; attraverso la Conoscenza, che non appartiene affatto all’ambito dell’azione, ma gli è superiore, tutte queste illusioni, come abbiamo
detto precedentemente, scompaiono.
«Quando l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri viene allontanata, lo Spirito, col suo stesso splendore, risplende in lontananza
in uno stato indiviso, come il Sole diffonde il suo chiarore quando le
nubi sono disperse».
Ma prima di giungere a questo livello, l’essere passa attraverso uno
stadio intermedio, quello che corrisponde al Mondo psichico; crede al-
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Rivista Thule Italia
lora di essere non più il corpo materiale, ma l’anima individuale, perché per lui non è scomparsa alcuna distinzione, poiché non è ancora
uscito dal dominio del Demiurgo.
«Immaginandosi di essere l’anima individuale, l’uomo è colto da spavento, come una persona che scambia per errore un pezzo di corda per
un serpente; ma la sua paura viene allontanata dalla percezione che egli
non è l’anima, ma lo Spirito universale».
Colui che ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, vale a dire
del Mondo ilico, l’insieme delle manifestazioni grossolane o materiali,
e del Mondo psichico, l’insieme delle manifestazioni sottili, è nato due
volte, Dwidja; ma colui che è cosciente dell’Universo non manifestato
o del Mondo senza forma, vale a dire del Mondo pneumatico, e che è
giunto all’identificazione di se stesso con lo Spirito universale, Ātman,
solo questi può essere detto Yogi, vale a dire unito allo Spirito universale.
«Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose come restando in se stesso, e così, attraverso l’occhio della Conoscenza, percepisce che ogni cosa è Spirito».
Notiamo per inciso che il Mondo ilico è paragonato allo stato di veglia,
il Mondo psichico allo stato di sogno e il Mondo pneumatico al sonno
profondo; dobbiamo ricordare, a tal riguardo, che il non manifestato è
superiore al manifestato, poiché ne è il principio. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la dottrina gnostica, non vi è che il Pleroma,
che può essere considerato come costituito dall’insieme degli attributi
della Divinità. Non è un quarto Mondo, ma lo Spirito universale stesso,
Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato né non manifestato,
indefinibile, inconcepibile e incomprensibile.
Lo Yogi o Pneumatico, perché in fondo è la stessa cosa, si percepisce non più come una forma grossolana né come una forma sottile, ma
come un essere senza forma; s’identifica allora con lo Spirito universale, ed ecco in quali termini tale stato è descritto da Sankaratcharya.
«Egli è Brahma, dopo il cui possesso non c’è niente da possedere; dopo
il godimento della cui felicità non c’è alcuna felicità che possa essere
desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non c’è alcuna
conoscenza che possa essere ottenuta.
«Egli è Brahma, la cui vista elimina quella di qualsiasi altro oggetto,
l’identificazione con il quale impedisce ogni ulteriore nascita; dopo la
cui percezione, non vi è più niente da percepire.
«Egli è Brahma, che è diffuso ovunque, in tutto: nello spazio mediano,
La terra
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in ciò che è sopra e in ciò che è sotto; il vero, il vivente, il felice, senza
dualità, indivisibile, eterno e uno.
«Egli è Brahma, che è senza grandezza, inesteso, increato, incorruttibile, senza forma, senza qualità o carattere.
«Egli è Brahma, da cui tutte le cose sono illuminate, la cui luce fa risplendere il Sole e tutti i corpi luminosi, ma che non è affatto reso manifesto dalla loro luce.
«Penetra egli stesso la sua stessa essenza eterna e contempla il Mondo
intero apparendo come Brahma.
«Brahma non assomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma non
c’è niente; tutto ciò che sembra esistere al di fuori di lui è un’illusione.
«Di tutto ciò che viene visto, di tutto ciò che viene sentito, niente esiste
che non sia Brahma, e, attraverso la conoscenza del principio, Brahma è
contemplato come l’Essere vero, vivo, beato, senza dualità.
«L’occhio della Conoscenza contempla l’Essere reale, vivo, felice che
penetra tutto; ma l’occhio dell’ignoranza non lo scopre affatto, non lo
vede affatto, come un uomo cieco non vede affatto la luce.
«Quando il Sole della Conoscenza spirituale si leva nel cielo del cuore,
caccia le tenebre, penetra tutto, abbraccia tutto, e illumina tutto».
Osserviamo che il Brahma di cui si parla qui è il Brahma superiore; è
necessario fare attenzione a distinguerlo dal Brahma inferiore, perché
questo non è altro che il Demiurgo, considerato come il riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non c’è che il Brahma superiore, che contiene tutte le
cose, e al di fuori del quale non c’è niente; il Demiurgo e la sua opera di
divisione non esistono più.
«Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo stesso spirito, un
pellegrinaggio che non ha niente a che fare con la situazione, il posto
o il tempo, che si svolge ovunque, in cui non si provano né il caldo né
il freddo, che accorda una felicità perpetua e una liberazione da ogni
pena; costui è senza azione; conosce tutte le cose e ottiene l’eterna Beatitudine».
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Rivista Thule Italia
René Guénon
La Gnosi, febbraio 1910, n° 4
IL DEMIURGO
Dopo aver caratterizzato i tre Mondi e gli stati dell’essere che vi corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile, cosa sia l’essere
affrancato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo tornare di nuovo
alla questione della distinzione tra il Bene e il Male, per trarre alcune
conseguenze dall’esposizione precedente.
Inizialmente si potrebbe essere tentati di dire questo: se la distinzione
tra il Bene e il Male è del tutto illusoria, se in realtà non esiste, deve
valere lo stesso per la morale, perché è evidente che la morale si fondi su questa distinzione, che essenzialmente la presuppone. Sarebbe
andare oltre; la morale esiste, ma nella stessa misura della distinzione
tra il Bene e il Male, vale a dire per tutto ciò che appartiene al dominio
del Demiurgo; dal punto di vista universale, [essa, ndt] non avrebbe
più alcuna ragione di essere. La morale, infatti, non può applicarsi che
all’azione; ora l’azione presuppone il cambiamento, che non è possibile
che nel formale o il manifestato; il Mondo senza forma è immutabile,
superiore al mutamento, dunque anche all’azione, ed è per questo che
l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo è senza azione.
Ciò dimostra che occorre prestare attenzione a non confondere mai
i diversi piani dell’Universo, perché quanto si dice dell’uno potrebbe
non essere vero per l’altro. Così, la morale esiste necessariamente nel
piano sociale, che è essenzialmente l’ambito dell’azione; ma non se ne
può più parlare quando si considera il piano metafisico o universale,
poiché allora non c’è più azione.
Stabilito questo punto, dobbiamo far notare che l’essere che è superiore all’azione possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma è un’attività potenziale, dunque un’attività che non agisce affatto. Questo essere
non è affatto immobile, come si potrebbe a torto dire, ma immutabile,
vale a dire superiore al mutamento; s’identifica, infatti, con l’Essere,
che è sempre identico a se stesso: secondo la formula biblica, «l’Essere
è l’Essere». Questo deve essere accostato alla dottrina taoista, secondo
cui l’Attività del Cielo è non-agente; il Saggio, che abbiamo designato
La terra
143
come il Pneumatico o lo Yogi, può avere le parvenze dell’azione, come
la Luna ha le parvenze del movimento quando le nuvole le passano
davanti; ma il vento che caccia le nuvole non ha alcuna influenza sulla
Luna. Analogamente, l’agitazione del Mondo demiurgico è priva d’influenza sul Pneumatico; a tal riguardo, possiamo ancora citare quanto
dice Sankaratcharya.
«Lo Yogi, avendo attraversato il mare delle passioni, si unisce alla
Tranquillità e gioisce nello Spirito.
«Avendo rinunciato a quei piaceri che nascono dagli oggetti esterni
perituri e godendo le delizie spirituali, è calmo e sereno come la fiamma di una lampada e gioisce nella sua stessa essenza.
«Durante la sua permanenza nel corpo, non è influenzato dalle sue
proprietà, come il firmamento non è influenzato da ciò che fluttua al
suo interno; conoscendo tutte le cose, rimane non-influenzato dalle
contingenze».
Possiamo così comprendere il vero significato del termine Nirvana,
di cui si sono date tante false interpretazioni; questa parola significa
letteralmente cessazione del respiro o dell’agitazione, dunque lo stato
di un essere libero che non è più soggetto ad alcuna agitazione, che è
definitivamente liberato dalla forma. È un errore molto diffuso, almeno
in Occidente, quello di credere che non ci sia più niente quando non
ci sia più forma, mentre in realtà è la forma che è niente e l’informale
che è tutto; così, il Nirvana, ben lungi dall’essere l’annientamento come
hanno sostenuto alcuni filosofi, è invece la pienezza dell’Essere.
Da tutto quanto precede, si potrebbe concludere che non è affatto necessario agire; ma sarebbe anche inesatto, se non in linea di principio,
almeno nell’applicazione che si vorrebbe farne. L’azione, infatti, è la
condizione degli esseri individuali appartenenti all’Impero del Demiurgo; il Pneumatico o il Saggio è in realtà senza di azione, ma in quanto
risiede in un corpo, ha le parvenze dell’azione; esteriormente è del tutto
simile agli altri uomini, ma sa che questo non è che un’apparenza illusoria e questo basta perché sia realmente affrancato dall’azione, poiché è
attraverso la Conoscenza che si ottiene la liberazione. Con il fatto stesso
che sia affrancato dall’azione, non è più soggetto alla sofferenza, perché
la sofferenza non è che un risultato dello sforzo, dunque dell’azione, ed
è in questo che consiste ciò che chiamiamo imperfezione, sebbene non
ci sia in realtà niente d’imperfetto.
È evidente che l’azione non può esistere per colui che contempla tutte
le cose in se stesso come esistente nello Spirito universale, senza alcuna
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Rivista Thule Italia
distinzione di oggetti individuali, come lo esprimono queste parole dei
Veda: «Gli oggetti differiscono semplicemente per designazione, accidente e nome, come gli utensili terrestri ricevono diversi nomi sebbene
siano solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte le
forme, è essa stessa senza forma, ma le contiene tutte in potenza; tale è
anche lo Spirito universale.
L’azione implica il mutamento, vale a dire la distruzione incessante
di forme che spariscono per essere sostituite da altre; sono le modificazioni che chiamiamo nascita e morte, i molteplici cambiamenti di stato
che deve attraversare l’essere che non ha ancora raggiunto la liberazione o la trasformazione finale, usando la parola trasformazione nel suo
significato etimologico, che è quello di passaggio al di là delle forma.
L’attaccamento alle cose individuali, o alle forme essenzialmente transitorie e periture, è la caratteristica dell’ignoranza; le forme non sono
niente per l’essere che è liberato dalla forma, ed è per questo che egli,
anche durante la sua permanenza nel corpo, non è affatto influenzato
dalle sue proprietà.
«Così si muove, libero come il vento, perché i suoi movimenti non
sono affatto ostacolati dalle passioni.
«Quando le forme sono distrutte, lo Yogi e tutti gli altri entrano nell’essenza che tutto penetra.
«Egli è senza qualità e senza di azione; imperituro, privo di volizione;
felice, immutabile, senza figura; eternamente libero e puro.
«Egli è come l’etere, che è diffuso ovunque, e che penetra allo stesso
tempo l’esterno e l’interno delle cose; è incorruttibile, imperituro, è lo
stesso in tutte le cose, puro, impassibile, senza forma, immutabile.
«Egli è il grande Brahma, che è eterno, puro, libero, uno, incessantemente felice, non due, esistente, percipiente e senza fine».
Questo è lo stato cui l’essere perviene attraverso la Conoscenza spirituale; così [egli, ndt] è liberato per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale, è liberato dall’Impero del Demiurgo.