Di quell`amor ch`è palpito dell`universo intero

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Di quell`amor ch`è palpito dell`universo intero
I GIOVEDÌ AL MUSEO DEL RISORGIMENTO
Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento
6 giugno - 10 ottobre 2013
“Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero”
Il 2013 con Giuseppe Verdi e altri anniversari
Un progetto a cura di
Comune di Milano | Cultura
Polo Raccolte Storiche e Case Museo
Sindaco
Giuliano Pisapia
Assessore alla Cultura
Filippo Del Corno
Direttore Centrale Cultura
Giulia Amato
Direttore Settore Soprintendenza Castello,
Musei Archeologici e Musei Storici
Claudio Salsi
Coordinamento
Barbara Romano
Testi di
Carlo Vitali
Con un contributo di
Vittorio Zago
Immagine di
Peter Bottazzi
Progetto grafico e impaginazione
Francesca Tamanini
Stampa
Stamperia Comune di Milano
Polo Raccolte Storiche e Case Museo
Direttore
Marina Messina
Responsabile Collezioni
Disegni e Stampe
Patrizia Foglia
Responsabile Comunicazione
Barbara Romano
Ufficio amministrativo
Elisabetta Ciccarelli
Ufficio Sicurezza
Clara Terrosu
Biblioteca e archivio
Pasquale Arrigo
Francesco Basile
Alessio Foresta
Nicoletta Rivolta
Enrico Tomasini
Sezione didattica
Giuliana Bertolini
Manuela Carbonere
Liana Pascon
Si ringraziano inoltre:
Sonia Arienta, Cristina Balboni, Carlo
Balzaretti, Rosangela Bonardi, Francesco
Bossi, Antonio Calbi, Carmela Calitri,
Francoise Calteaux, Nicola Cattò, Valeria
Ferrario, Federico Frascherelli, Giovanni
Gavazzeni, Davide Griffa, Stephen
Hastings, Giovanni Iannantuoni, Fulvio
Luciani, Cyprien Katsaris, Kuniko
Kumagai, Emanuela Medea, Valeria
Palumbo, Simeone Pozzini, Antonella
Riccio, Stefania Susy Rossi, Rita Rovelli,
Francesco Saggio, Gianfranco Scafidi,
Chiara Trussoni, Andrea Venturi,
Laura Zagordi
“Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero”
Il 2013 con Giuseppe Verdi e altri anniversari
Il celebre distico di Francesco Maria Piave con cui Alfredo si dichiara a
Violetta in “La Traviata” (1853) titola il primo dei progetti commemorativi,
dal 6 giugno al 10 ottobre 2013, che il Polo Raccolte Storiche e Case-Museo
del Comune di Milano | Cultura dedica a Giuseppe Verdi nel bicentenario
della nascita.
Fervente patriota e sostenitore dei moti risorgimentali, Verdi incarna il
legame indissolubile fra l’uomo e il suo tempo, fra il musicista e la storia
che lo ispira. Un legame che Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento,
celebra e perpetua. Si mira così a rievocare l’atmosfera del salotto di Clara
Maffei, amica intima di Verdi, nella fertile convivenza fra musica e ideali
risorgimentali che la società intellettuale milanese di metà Ottocento
nutriva ardentemente nella tensione dei moti rivoluzionari.
La rassegna è dunque un omaggio al Maestro di Busseto, ma è anche
un tributo alla Storia tutta e agli artisti che nel corso dei secoli hanno
consegnato all’umanità il proprio lascito creativo. Se “l’amor ch’è palpito”
esalta il sentimento come impulso poietico per eccellenza, “l’universo
intero” ci introduce in un piano simbolico che dal Verdi nazionale si
estende al più ampio scenario della composizione, senza limiti tematici o
spazio-temporali.
Protagonisti della rassegna sono i compositori di cui si celebrano quest’anno
importanti ricorrenze. Annus mirabilis della musica, il 2013 annovera
infatti una quantità straordinaria di prestigiosi anniversari, ingiustamente
oscurati dai rivali Verdi e Wagner nel bicentenario della nascita. Parliamo di
John Dowland (*1563), Carlo Gesualdo (†1613), Arcangelo Corelli (†1713),
Pietro Mascagni (*1863), Paul Hindemith (†1963), Francis Poulenc (†1963),
Witold Lutosławski (*1913), Benjamin Britten (*1913), Bruno Bettinelli
(*1913), oltre naturalmente ai già citati Verdi e Wagner.
In loro onore il Polo Raccolte Storiche e Case-Museo dedica il presente
dossier di dieci ritratti, a cura del musicologo e critico musicale Carlo Vitali,
con un tributo di Vittorio Zago al milanese Bruno Bettinelli.
Marina Messina
Direttore Polo Raccolte Storiche e Case-Museo
1
John Dowland
(Londra? Dublino? 1563 - Londra 1626)
Un genio in fuga da se stesso, protetto da principi e
ambasciatori che ne tolleravano i costumi irregolari in considerazione
del suo supremo talento di liutista e cantore. Percorse la Francia, l’Italia,
la Germania e la Danimarca; cambiò due volte religione, morì in esilio.
Della diagnosi collettiva di “acedia”, ossia angoscia senza oggetto né
speranza, che la società inglese del tardo Rinascimento pronunciava su se
stessa nelle pagine corrosive dell’utopista Robert Burton, le musiche di
John Dowland sono insieme il sintomo e la terapia omeopatica.
Oscurità e silenzio, dolore e vergogna, lacrime e lamenti sono le
parole chiave - ripetute e variate fino ai limiti del possibile - di tante
liriche musicate da Dowland; la faccia nascosta di quella “Merry England”
che durante il regno della giovane Elisabetta aveva voluto dimenticare il
sangue sparso nelle guerre di religione. Assai varia è la stesura musicale:
dalle scandite scritture di danza del First Book of Songs a quattro voci
(1597) fino allo stile italianizzante, ispirato alla libera declamazione
monodica di Giulio Caccini, che si palesa nello splendido madrigale
monostrofico “In darkness let me dwell”(1610), dove l’invocazione
iniziale, rintoccante come una campana a morto nel diagramma quasi
piatto della linea melodica, ricompare alla fine con effetto di sintesi ciclica.
Malinconia sì, ma ispirata e feconda. “From silent night” è
incluso nel Pilgrimes Solace (1612), collezione petrarcheggiante tanto nella
tessitura dei versi e delle immagini quanto nella bipartizione, amorosa e
spirituale, del materiale; mentre dal Second Book of Songs (1600) provengono
“Sorrow stay” e “Flow my tears”, senza dubbio il più celebre brano di
Dowland. Arrangiandolo tre volte per diversi organici strumentali e
dandogli tutto un seguito di Lachrymae antiquae e modernae, egli ne fece una
sorta di personale griffe musicale; l’equivalente del motto araldico che si era
attribuito giocando sulle assonanze anglo-latine del proprio cognome:
“Semper Dowland, semper dolens”.
2
Carlo Gesualdo
(Venosa 1566 - Gesualdo 1613)
Carlo Gesualdo, conte di Conza e principe di Venosa, era un
aristocratico napoletano colto, ombroso, appassionato di caccia e di
musica. Signore feudale duro, marito autoritario, uccise la prima moglie
Maria d’Avalos colta in flagrante adulterio. Dopo tre anni e quattro mesi
dal duplice omicidio passò a nuove nozze con Eleonora d’Este dei duchi di
Ferrara: altro matrimonio infelice, ma dai pochi anni del soggiorno a
Ferrara, centro delle avanguardie musicali del tempo, nacque il grosso della
sua produzione madrigalistica stampata.
Fu Stravinskij, negli anni fra il 1940 e il 1960, a toglierlo dall’oblio
dedicandogli un Monumentum pro Gesualdo per fiati, archi e pianoforte.
Si è voluto leggere la musica di Gesualdo in termini autobiografici, a partire
dalle balorde elucubrazioni del critico musicale britannico Philipp Helseltine,
morto suicida nel 1930 dopo un’esistenza dedicata al satanismo e a
pratiche sessuali estreme; ma più che un perverso, Gesualdo fu uno spirito
introverso e bizzarro. Le sue stupefacenti invenzioni armoniche, che dilatano
le classiche leggi del contrappunto senza spezzarle del tutto, consentono
alla sua musica di suggerire il non-detto oltre la lettera dei testi cantati.
Lungo la via dell’espressionismo fondato sulle “durezze” cromatiche, lo
avevano preceduto il napoletano Ascanio Mayone e il ferrarese Luzzasco
Luzzaschi, da lui ammiratissimi; Monteverdi superò poi tutti con l’attento
studio delle passioni umane e la valorizzazione del connubio fra voce sola e
colore strumentale.
Gesualdo non sarà forse il primo dei moderni, ma certo è l’ultimo
e il più ardito dei manieristi rinascimentali. Ha detto Ernst Krenek: “Se ai
suoi tempi Gesualdo l’avessero preso sul serio quanto oggi, la storia della
musica avrebbe preso tutta un’altra strada”. Per Teresa Rampazzi,
pioniera della musica elettronica in Italia: “Non ci sono buchi nei madrigali di
Gesualdo e la conseguenza è sempre la stessa: dove non c’è spazio non c’è
tempo; la dimensione religiosa delle sue ultime opere ne è la riprova”.
3
Arcangelo Corelli
(Fusignano 1653 - Roma 1713)
Roma, piazza Barberini, 8 gennaio di tre secoli fa. Un
appartamentino di tre stanze bene arredate: un centinaio di quadri d’autore,
un clavicembalo, un violone e un violoncello, due violini, argenterie, libri e
carte in quantità, due pistole, un inginocchiatoio e un Crocifisso. Un lettino
da scapolo accanto al quale un sacerdote in stola violetta sta recitando le
preghiere degli agonizzanti. L’uomo di sessant’anni, che sul calar della sera
chiudeva gli occhi dopo aver fatto testamento tre giorni avanti, apparteneva
secondo il metro della sua epoca alla classe dei gentiluomini, benché avesse
professato in vita l’umile mestiere del “suonatore”.
Nato da una famiglia possidente di Fusignano nelle Romagne,
portava i titoli di guardiano dell’Accademia di Santa Cecilia e di pastore
d’Arcadia. Per lui era in vista anche un titolo nobiliare tedesco (marchese
di Ladenburg), che fu ereditato dai parenti assieme alla pinacoteca e a
poco più di settemila scudi in titoli di debito pubblico. Ai due servitori
lasciava un piccolo vitalizio, ad amici importanti come i cardinali Colonna e
Ottoboni un quadro ciascuno, a Matteo Fornari, allievo prediletto, i violini e
le carte manoscritte, fra cui dodici concerti grossi pronti per la pubblicazione
come “Opera 6”. Al mondo lasciava cinque collezioni strumentali a stampa
già diffuse in sessantacinque edizioni, per un totale di sessanta brani fra
sonate a tre e sonate a violino e basso continuo: un corpus piccolo, ma di
classica perfezione.
Nel 1708, ancora lui vivente, il suo pupillo Francesco
Gasparini l’aveva proclamato “vero Orfeo de’ nostri tempi”. E il sepolcro dove
il suo cadavere, imbalsamato e rinchiuso in una triplice cassa di piombo,
cipresso e castagno, fu deposto dopo il rito funebre, era vicino al tumulo di
Raffaello nella chiesa di Santa Maria della Rotonda, quel Pantheon che il
genero di Augusto aveva edificato in onore di tutti gli Dei. Apoteosi di un uomo
riservato e malinconico che aveva conquistato Roma non con la spada, ma
con l’archetto del suo violino.
4
Richard Wagner
(Lipsia 1813 - Venezia 1883)
L’Idillio di Sigfrido: questo breve lavoro sinfonico, dedicato da
Richard Wagner a Cosima Liszt per la nascita del loro primogenito
Siegfried (1869), fu eseguito in forma privata il giorno di Natale dell’anno
seguente nella loro villa di Triebschen, il cui stile le guide turistiche
definiscono “Biedermeier” nella versione tedesca, “Early Victorian” in quella
inglese e “Louis-Philippe” in quella francese. Come potremmo definirlo in
italiano se ce ne venisse la voglia?
Con la sua collinetta, l’imbarcadero sulla riva del lago di Lucerna, la
selvetta dietro, la capace cantina e quant’altro serve a vivere benino, quella
casa a Wagner piaceva non poco, così da fargli pronunciare il 15 aprile 1866
un suo personale hic manebimus optime, esso pure riportato dalle suddette
guide. La partitura tuttora vi si ostende ai visitatori e di là si spande per il
mondo in mille e mille facsimili formato cartolina aperti fra le pagine 10 e
11. Un mito riconciliante anche per gli antiwagneriani più viscerali. Quante
volte non li abbiamo sentiti dire: “L’unico pezzo di Wagner che riesco ad
ascoltare?” Hanno torto, ovviamente.
Strumentato per piccola orchestra (flauto, due clarinetti, oboe,
fagotto, due corni, tromba e archi), l’Idillio deriva gran parte del suo
materiale tematico dal Siegfried, l’opera che Richard andava terminando
di comporre in quel torno di tempo, identificando in modo non del tutto
inconscio la propria complessa situazione familiare con quella di Siegmund
e Sieglinde, incestuosi genitori dell’eroe nibelungico. Eppure riesce difficile
vedere Hans von Bülow, marito remissivo fino all’eroismo, nei panni del
vendicativo Hunding! Si noti però che i due temi principali provengono
da più lontano, ossia dall’abbozzo di un quartetto d’archi risalente al
1864. Di quando in quando fa capolino nella parte centrale il tema di una
ninna-nanna popolare tedesca destinata a cullare i sonni dell’augusto
infante, che morirà nel 1930 dopo aver composto una quindicina di drammi
musicali oggi giustamente dimenticati.
5
Giuseppe Verdi
(Roncole di Busseto 1813 - Milano 1901)
Eduard Hanslick, il temuto critico viennese venuto a Roma nel 1893
per recensire una recita del Falstaff, schizzò questo ritratto di un Verdi da
poco entrato nell’ottantesimo anno di vita: “Qualcosa d’infinitamente
mite, modesto e aristocratico nella stessa modestia, riluce nella figura di
quest’uomo che la fama non ha reso vanitoso, gli onori non arrogante, l’età
non bisbetico. Il suo volto è profondamente scavato, l’occhio infossato, la
barba bianca, tuttavia il portamento eretto e la voce ben sonante lo fanno
sembrare meno vecchio”. E ancora nella primavera del 1897 il musicologo
Heinrich Ehrlich ne descriveva il passo “quasi elastico come quello di un
vigoroso cinquantenne”, rivelando poi alcuni curiosi dettagli sul suo stile
di vita: “Il Maestro si alza in inverno allo spuntar del giorno; in estate alle
cinque. Nell’inverno, che trascorre a Genova nel palazzo Doria, si dedica al
lavoro: nell’estate, che trascorre nel suo podere di Sant’Agata, visita le sue
stalle e le sue scuderie, cui dedica grandi cure”.
Come già con Goethe all’inizio del secolo, a Verdi si
chiedeva d’incarnare il mito di se stesso; come il vegliardo di Weimar
anch’egli reagì con uno stile di olimpico distacco che sconfinava nel
fastidio per i contemporanei e per le loro manifestazioni d’idolatria. Nel
1889 cercò invano d’impedire le feste per il cinquantenario del suo debutto
con l’Oberto, così come aveva rifiutato la statua nel foyer della Scala; dopo il
trionfo del Falstaff scongiurò il ministro-letterato Ferdinando Martini
affinché si rinunciasse a conferirgli il titolo di marchese (proprio a lui che si
era sempre vantato delle sue origine contadine).
In musica egli stava assiso fra i due secoli come un Giano
bifronte. Interessato alle prime prove di Giacomo Puccini e di Pietro
Mascagni, non perdeva occasione per raccomandare ai giovani lo studio dei classici italiani: anzitutto il Palestrina, poi Corelli, Alessandro
Scarlatti, Benedetto Marcello, perfino il quasi sconosciuto Padre Vallotti. Claudio Monteverdi no, perché “non metteva bene le parti”.
6
Pietro Mascagni
(Livorno 1863 - Roma 1945)
Cavalleria rusticana: profondo Meridione d’Italia, immobile
sotto la vampa del sole, dove cupe tragedie carnali si consumano fra le
processioni religiose e le povere celebrazioni orgiastiche di una plebe rurale
intinta di Cristianesimo appena in superficie. Con questo lavoro, ispirato
a una novella di Giovanni Verga, si può dire inaugurato il filone dell’opera
verista italiana. Fu una grande occasione perduta per l’editore Giulio Ricordi
che ne aveva respinto il manoscritto, raccomandatogli da Giacomo Puccini,
profetizzando incautamente: “Non vedo futuro per questa composizione”.
E invece nel 1894, solo quattro anni dopo il debutto di Cavalleria
al teatro Costanzi di Roma, un’autorevole rivista americana conteggiava i
90.000 dollari riscossi da Pietro Mascagni in diritti d’autore e i 220.000
incassati dal suo editore Sonzogno. Nel frattempo Ricordi era corso ai ripari
commissionando Pagliacci a Leoncavallo (1892) e a Puccini una Lupa,
sempre su soggetto verghiano, che non andò oltre gli abbozzi iniziali e fu
rimpiazzata da una più esotica Bohème.
Sempre nel 1892 Umberto Giordano completava con Mala vita, su
soggetto di Salvatore Di Giacomo, la trilogia di un verismo meridionalista che
nell’Italia umbertina era destinato a vita effimera, forse perché metteva in
piazza certi panni sporchi di cui il pubblico borghese preferiva dimenticarsi
almeno all’opera. Sfumate le istanze di realismo sociale che avevano ispirato
la sua produzione di studente, come la cantata sinfonico-corale In filanda,
Mascagni vi tornerà una volta sola nel 1921 con Il piccolo Marat. Tutta la sua
residua produzione di opere e operette, conclusa nel 1935 con un Nerone
scaligero, è segnata da un amaro paradosso: man mano che si andavano
affinando i suoi strumenti espressivi e s’innalzava il livello letterario delle sue
collaborazioni librettistiche, le risposte di critica e di pubblico oscillavano tra
il nobile fallimento e il successo di stima. Nel 1929 la nomina ad Accademico
d’Italia ne imbalsamava una carriera ormai tutta dietro le spalle.
7
Paul Hindemith
(Hanau 1895 - Francoforte sul Meno 1963)
Violista dalla tecnica perfetta e dal suono maschio ai limiti
della ruvidezza, si esibì come concertista in molti paesi fra cui l’Italia.
Come compositore, contribuì alla rivalutazione del contrappunto antico
e all’affermazione di quello dissonante, elemento fondamentale del suo
stile. La sua predilezione per la musica antica è rintracciabile in molti lavori
di sapore modale dove emerge la raffinata combinazione di linee
melodiche individualmente concepite; il tutto nel quadro di un
tonalismo allargato che non sconfina mai in esperienze dichiaratamente
atonali o espressioniste. Il tradizionalismo di Paul Hindemith s’inquadra
in quel generale clima di recupero delle forme preromantiche che si è
convenuto di chiamare “neoclassico”, nel desiderio di ristabilire un’artigianale
chiarezza di linguaggio da tempo venuta meno. Ecco allora che mentre
Stravinskij col suo Pulcinella rifà il verso a Pergolesi, Hindemith volge
lo sguardo verso Händel, a Bach, e ancor più indietro verso il Rinascimento.
Al rifiuto dell’avanguardismo artistico si sposava in lui un
deciso impegno sociale. Nel 1927 dichiarò: “Oggi un compositore dovrebbe
scrivere solo se ha ben chiaro lo scopo per cui sta scrivendo”. È questo il
canone poetico della Gebrauchsmusik, o “musica d’uso”, che Hindemith si
sforzava di diffondere anche attraverso un nuovo mezzo come la radio.
Quella che doveva essere un’opera teatrale dedicata a
Gutenberg si trasformò in Mathis der Maler (1935), un polittico in sette
quadri ispirato alla vita del pittore Mathias Grünewald (ca. 1475-1528).
Ma il suo libretto, ricco di allusioni agl’ideali di libertà, provocò la
scomunica di Goebbels, il divieto di rappresentazione, e la conseguente
emigrazione del compositore: dapprima in Turchia, dove fornì un
apprezzato contributo alla modernizzazione della pedagogia musicale,
poi in Svizzera e infine negli Stati Uniti, che gli concessero la cittadinanza
nel 1946. Dal 1953 si stabilì a Zurigo, continuando fino alla morte
l’attività d’insegnante e direttore d’orchestra.
8
Francis Poulenc
(Parigi 1899 - 1963)
“Gabriel Marcel ha creduto di scoprire nel finale scandalosi e
inesplicabili segnali militari. Ha totalmente ragione. Per me, eterno
cittadino, le trombe del forte di Vincennes, udibili dal bosco vicino, non
sono meno poetiche di quanto fossero per Weber i corni da caccia in una
grande foresta”. Sono parole di Francis Poulenc per illustrare la genesi del
suo Concert champêtre. Lungo i viali del Bois de Vincennes s’aggirava col
suo passo dinoccolato fra le colline alberate, i laghetti alimentati dalle acque
della Marna, i prati intorno all’ippodromo. I testimoni ne ricordano gli
occhi vivacissimi nel viso sfuggente sormontato da un enorme naso, la
pettinatura casuale, le bianche mani dalle unghie rosicchiate, gli eleganti abiti
di Lanvin sporchi e stazzonati. Era ricco: morendo nel 1917, suo padre
gli aveva lasciato molte azioni dell’impresa farmaceutica di famiglia, poi
divenuta la multinazionale Rhône-Poulenc.
Le sue case mostravano lo stesso miscuglio di opulenza
alto-borghese e trascuratezza. Nell’appartamento di città sui giardini del
Luxembourg - 25 ettari di aiuole, statue e fontane non lontano dalla
cupola del Panthéon - il sole entrava dai finestroni accendendo la moquette
arancione delle pareti, ma le assi del parquet scricchiolavano sinistramente.
A Noizay, nella valle della Loira fra Orléans e Tours, aveva ereditato una villa
immacolata, austera; quasi un castello. Il parco, inselvatichito negli anni, la
circondava di una fitta coltre vegetale. Qui egli compose la maggior parte
della sua produzione vocale da camera, accudito da alcuni dei suoi
grandi amori. Alla fine degli anni Venti fu il pittore Richard Chanlaire, primo
di tutti; poi Raymonde Linossier, l’unica donna che avrebbe forse potuto
sposare.
Ai percorsi “verdi” della sua ispirazione ne alternava altri di sapore
proustiano: i moli di Deauville battuti alla ricerca di furtivi incontri con
giovani operai e pescatori, i decadenti salons di Passy come quello della
principessa di Polignac, dove fraternizzò con Erik Satie.
9
Witold Lutosławski
(Varsavia 1913 - 1994)
Per Witold Lutosławski, che ogni anno dedicava una settimana
agli esercizi spirituali in monastero, scrivere musica significava “andare
a pesca di anime”: formula simile a quella del santo controriformista Filippo
Neri, l’inventore dell’oratorio. Magari non per salvarle, obiettivo forse troppo
ambizioso per un compositore del ventesimo secolo, ma più laicamente
per stabilire con esse una qualche intima risonanza. Dalle puntute ironie
bartokiane e stravinskiane della Prima sinfonia (1947), ricca di
contrappunti e di dense sovrapposizioni armoniche, alla travolgente
eloquenza della quarta ed ultima (1992), tutto il suo itinerario compositivo
lo vide impegnato nella ricerca di risposte ai grandi interrogativi
esistenziali intavolati dalle filosofie del Novecento. Lo fece da musicista
e non da ideologo, ripensando i tradizionali concetti di armonia e melodia
per ricreare ex-novo quelle strutture su larga scala di cui le avanguardie
avevano decretato l’irrevocabile trapasso.
Ma la sua non fu una serena maturazione entro una torre d’avorio.
A cinque anni, sfollato a Mosca con la famiglia, aveva visto il padre e lo
zio trascinati alla fucilazione; suo fratello cadde nella seconda guerra
mondiale. Lui stesso evitò la coscrizione solo grazie ai suoi talenti
d’intrattenitore, suonando il piano nei locali in duo col collega Andrzej
Panufnik. Improvvisazioni jazzistiche di contrabbando, e perfino quella
musica di Chopin che i nazisti avevano bandito al pari dell’arte
“degenerata giudeo-negroide”.
Dopo la guerra, nuove pericolose schermaglie col regime comunista
polacco. Quale membro eminente dell’Unione dei Compositori, Lutosławski
si sforzò di adempiere al meglio le commissioni della radio nazionale e
delle orchestre pubbliche. Vennero poi il silenzio durante il golpe del
generale Jaruzelski e l’adesione clandestina a Solidarność. Parrebbe una
biografia esemplare da intellettuale frondista nei paesi del socialismo
realizzato; stupisce solo che sulla sostanza della sua musica abbia influito
così poco.
10
Benjamin Britten
(Lowestoft 1913 - Aldeburgh 1976)
Figlio di un odontoiatra dilettante di canto, fin dall’età di cinque
anni si appassionò alla musica. Cominciò a studiare privatamente il
pianoforte e la viola, prese lezioni di composizione da Frank Bridge e nel
1930 vinse una borsa di studio presso il Royal College of Music di Londra,
dove si perfezionò sotto la guida di John Ireland. Dopo il diploma decise di
guadagnarsi la vita come compositore, scrivendo una gran quantità
di colonne sonore e musiche di scena per il cinema, la radio e il teatro di
prosa. Nel 1939, spinto dalla situazione politica, emigrò negli Stati Uniti in
compagnia di Peter Pears, tenore già affermato al quale lo legava un'affettuosa
amicizia.
Nel 1942 tornò in Inghilterra per dedicarsi, su commissione
della Fondazione Koussevitzky, alla composizione dell’opera Peter Grimes,
che doveva dargli fama mondiale. Esonerato dal servizio militare in
cambio dell’impegno ad esibirsi come pianista in concerti pubblici, si dedicò
alacremente alla composizione per il resto della sua esistenza,
accumulando successi e riconoscimenti senza precedenti nella
storia del suo paese. La società britannica benpensante non cessò mai di
detestarlo, perché incarnava ai suoi occhi tutte le "diversità" e le
contraddizioni immaginabili: pacifista e devoto cattolico, ma anche
socialista e omosessuale non troppo larvato. Ciononostante, nel 1976,
ormai alla vigilia della morte, la regina Elisabetta II lo nominava Lord e
Pari d'Inghilterra.
Oltre alla copiosa produzione sinfonica e cameristica, lasciava
una serie di capolavori drammatici oggi entrati stabilmente nel repertorio
mondiale: oltre al citato Peter Grimes (1945), The rape of Lucretia (1946),
Billy Budd (1951), The Turn of the Screw (1954); cui si può aggiungere la
deliziosa operetta Albert Herring (1947). Una fondazione intitolata al
suo nome e soprattutto il festival di Aldeburgh, da lui fondato nel 1948
in collaborazione con Peter Pears ed Eric Crozier, perpetuano l'eredità
di quello che tutti considerano l'Orpheus britannicus del Novecento.
11
Tributo a Bruno Bettinelli
(Milano 1913 - 2004)
Nello scrivere musica spesso si avverte una seducente
euforia rapportata a uno stimolante imbarazzo nel momento
in cui le idee, già impostate in possibili soluzioni strumentali,
prospettano itinerari multipli di elaborazioni gestuali e di
coesioni formali: la riflessione sulla scelta - e quindi
sull’accantonamento - può risultare persino dolente seppur
necessaria. Nel novembre 2004, in questa condizione di sospesa
esitazione sui dettagli ultimi della stesura dei miei Studi per
violino, mi giunse la notizia della scomparsa di Bruno Bettinelli.
Superando la comprensibile fase di lutto, realizzai a
breve che il miglior omaggio a uno dei miei cari maestri fosse
indirizzare quella scelta su stilemi che palesassero le sue
peculiarità musicali, strettamente aderenti a quelle
umane. Non potrò mai scindere nella memoria la solidità delle
strutture musicali di Bettinelli dalla sua strenua
salvaguardia della propria dignità intellettuale; l’efficacia
poetica e materica del suo fraseggio dalla sua disponibilità
all’ascolto; le nozioni concrete e schiettamente espressive della
strategia compositiva dall’equilibrio interiore di un uomo che
sapeva offrire i suoi disegni musicali più intimi quanto isolarsi
nelle ardue ascese dolomitiche in solitaria.
Non posso lealmente affermare quanto di ciò emerga
dalla scrittura violinistica che si è concretata nei miei Studi, ma
il laborioso e non sempre agevole processo di selezione ha certo
risentito di un ultimo insegnamento del maestro.
Vittorio Zago
12
PROGRAMMA
6 giugno 2013, ore 21
Lectio magistralis
con CYPRIEN KATSARIS, pianoforte
in lingua inglese
INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
11 luglio 2013, ore 18.30
Flauto e arpa: mito, classicismo e modernità
Lezione-concerto a cura di GIANFRANCO SCAFIDI
con ROSANGELA BONARDI, arpa, ed EMANUELA MEDEA, flauto
Musiche di Bach, Donizetti, Mendelssohn-Bartholdy, Rota
INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
12 settembre 2013, ore 18.30
Maddalena, Azucena, Violetta:
figure di donne colpevoli nella “Trilogia popolare” di Verdi
Conversazione multimediale di CARLO VITALI
in “trialogo” con VALERIA PALUMBO e GIOVANNI GAVAZZENI
INGRESSO LIBERO
26 settembre 2013, ore 18.30
Eloquenza lirica e vigore gestuale: il violino dal XIV secolo a oggi
Lezione-concerto con FULVIO LUCIANI, violino
Musiche di Zago, Tartini, Sivori, Dowland, Paganini, Ysaÿe
INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
3 ottobre 2013, ore 18.30
«O dolce mio martire / cagion del mio gioire!»
Amore, croce e delizia nei madrigali di Carlo Gesualdo
Conferenza in occasione dei 400 anni della morte di Carlo Gesualdo da Venosa
a cura di FRANCESCO SAGGIO, Università di Pavia
Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali
INGRESSO LIBERO
10 ottobre 2013, ore 18.30
La reggia e i luoghi di potere nelle opere di Verdi.
Paesaggi visivi, sonori, abitati
Conferenza a cura di SONIA ARIENTA
Letture dai libretti d’opera a cura di VALERIA FERRARIO
INGRESSO LIBERO
Tutti gli appuntamenti si terranno presso la Sala Conferenze
di Palazzo Moriggia - Museo del Risorgimento
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In collaborazione con
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Comune di Milano | Cultura
Polo Civiche Raccolte Storiche e Case Museo | Ufficio Comunicazione
Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23
tel. + 39 02 884 62330 (lun.-ven. 10-13 e 14-18)
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