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LA GESTIONE
DEL DIABETE
NEL PAZIENTE ANZIANO
Francesco Galeone
Adolfo Arcangeli
Maria Antonietta Pellegrini
Alice V. Magiar
Secondina Viti
LA GESTIONE
DEL DIABETE
NEL PAZIENTE ANZIANO
Francesco Galeone
*Adolfo Arcangeli
**Maria Antonietta Pellegrini
Alice V. Magiar
Secondina Viti
Servizio Autonomo di Diabetologia e Malattie Metaboliche – Ospedale di Pescia (PT)
* Servizio Autonomo di Diabetologia e Malattie Metaboliche – Ospedale di Prato
** U.O.C. di Diabetologia e Malattie del Ricambio – Udine – Cividale del Friuli
1
INDICE
INTRODUZIONE
I.
EPIDEMIOLOGIA E COSTI SOCIALI
II.
EPIDEMIOLOGIA DELL’ALTERATA TOLLERANZA AL GLUCOSIO
III.
PATOGENESI
IV.
PREVENZIONE
V.
OBIETTIVI TERAPEUTICI
VI.
TERAPIA NUTRIZIONALE
VII. NUTRIZIONE ENTERALE E PARENTERALE
VIII. ATTIVITÀ FISICA
IX.
TERAPIA FARMACOLOGICA
X.
EDUCAZIONE TERAPEUTICA
XI.
COMPLICANZE
A. COMPLICANZE ACUTE
1. METABOLICHE
2. INFEZIONI
3. ALTRE COMPLICANZE
B. COMPLICANZE CRONICHE
1. NEUROPATIA
2. PATOLOGIA OCULARE
3. NEFROPATIA
4. IPERTENSIONE ARTERIOSA
5. MALATTIE DELLA CUTE E DELLE ARTICOLAZIONI
XII. IL DIABETICO ANZIANO IN OSPEDALE
XIII. IL DIABETICO ANZIANO IN CHIRURGIA ED ANESTESIA
XIV. PREVENZIONE E TRATTAMENTO DEL PIEDE DIABETICO
XV. IL DIABETICO ANZIANO NELLE ISTITUZIONI
XVI. ALTERAZIONI FUNZIONALI E INVALIDITÀ FISICA
XVII. ALTERAZIONI COGNITIVE
XVIII. DEPRESSIONE E DIABETE
XIX. VALUTAZIONE FUNZIONALE
XX. ORGANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA
In copertina: G. Guidi – Un diabetico anziano di Pescia
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3
INTRODUZIONE
L’incremento della popolazione anziana ed il contemporaneo aumento della
prevalenza del diabete mellito rendono attuale un continuo confronto fra le diverse figure specialistiche che sono coinvolte nel complesso problema di
questa patologia in questa fascia di età.
Anche se ogni trattato o manuale di diabetologia si occupa del diabete nel
paziente anziano, sono poche le opere che pongono una cura particolare a
questi soggetti e alla loro assistenza. Perciò in questa monografia verrà dato
ampio spazio più agli aspetti specifici presenti nel diabetico anziano, rimandando, per gli aspetti generali, alla vasta letteratura su ogni argomento che
verrà trattato.
È difficile sostenere se esista o meno un’entità nosografia definibile sul piano
clinico come “diabete senile”. Infatti, nella classificazione del diabete, non
viene fatta menzione dell’influsso dell’età sulla patogenesi di tale malattia, né
esiste in letteratura un chiaro inquadramento di questa situazione.
Il problema, invece, sembra meritare una attenzione particolare non solo per
l’importante fenomeno dell’invecchiamento della popolazione nei paesi industrializzati ed i conseguenti effetti epidemiologici in termini di incidenza e prevalenza di tale forma morbosa, ma anche per le conseguenze del diabete sulla morbilità e mortalità dei soggetti anziani1.
Per quanto riguarda i diabetici anziani, bisogna fare una distinzione tra i diabetici divenuti anziani e gli anziani divenuti diabetici. Il primo gruppo è costituito da diabetici, sia di tipo 1 che di tipo 2, divenuti anziani, abituati alla malattia, che non comportano molte difficoltà di gestione, se non quella di una
adeguata e continua revisione degli obiettivi terapeutici.
Il secondo gruppo, invece per le peculiarità tipiche dell’età, è quello che pone
più problemi dal punto di vista terapeutico e gestionale, stante la necessità di
modificare inveterate abitudini di vita ed alimentari.
Quindi, l’approccio al soggetto diabetico anziano deve tener conto della cronicità di questa patologia e di quelle associate, al fine di assicurare
un’adeguata adesione al piano terapeutico. È necessario ottenere, in questi
casi, più che la compliance, la concordance, concordando, appunto,
l’intervento terapeutico, sia dietetico che farmacologico.
L’invecchiamento è una fase normale della vita e non un evento patologico.
Per la maggior parte delle persone invecchiare non significa un aumento di
demenza e depressione, ma questa “età d’oro” spesso viene trascorsa in
4
modo spensierato, dedicandosi a hobby o a nipoti. Durante il periodo di transizione, rappresentato dal pensionamento, le persone si confrontano con le
sfide alla loro vitalità intellettuale e sociale e al loro valore personale. I principali compiti evolutivi sono quelli di stabilire nuovi ruoli e attività, tollerare i
cambiamenti fisici e cognitivi legati al processo di invecchiamento, accettare il
passato e scoprire il senso della vita che resta.
Alcuni momenti di crisi esistenziale sono una parte normale
dell’invecchiamento. La perdita è l’evento più importante e difficile, mentre il
lutto rappresenta l’esperienza emotiva più comune, quando si perde il coniuge, i familiari e gli amici.
La malattia fisica è l’altro grande ostacolo che affrontano gli anziani. La costante preoccupazione per il corpo e il suo funzionamento sono una conseguenza normale dell’invecchiamento, con maggiori probabilità di malattia, di
ospedalizzazione, di interventi chirurgici, di dolore e di invalidità. Alla sfida
prevedibile per rimanere autosufficienti e produttivi si aggiunge la possibilità
di sviluppare le complicanze del diabete.
Il medico deve sempre tenere in considerazione le attività che il paziente deve affrontare, le capacità disponibili per apprenderle e il tipo di aiuto necessario.
Gli atteggiamenti del personale sanitario verso gli anziani influenzano la cura
che questi pazienti ricevono. Spesso, anzi, hanno difficoltà a provare empatia
per i pazienti anziani perché:
• considerano il diabete semplicemente come parte del processo di invecchiamento e, quindi, non lo ritengono molto serio
• credono che gli anziani non possano cambiare o che siano troppo vecchi per volerlo fare, rendendo quindi inutili i suggerimenti
• tendono a considerare infantili le persone anziane, perché sembrano
deboli o vulnerabili
• permettono che le paure del paziente stimolino le sue angosce personali sulla vecchiaia, la morte o il futuro
• lasciano che i conflitti del paziente inneschino pensieri sui suoi conflitti
personali.
Per evitare questi problemi occorre
• prestare attenzione a sentimenti inappropriati, esagerati, ambivalenti o
persistenti verso il paziente
• avere un sostegno personale per affrontare questi sentimenti
• condividere le responsabilità di cura da parte di tutto il team sanitario
• mantenere una appropriata distanza professionale.
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Mentre gli anziani hanno maggiori probabilità di accettare il diabete come parte del processo di invecchiamento, hanno anche maggiori probabilità di percepirlo come una malattia meno seria e, quindi, meno bisognosa di una gestione accurata2. Inoltre, molti anziani soffrono di altre malattie croniche che
causano più sofferenza e richiedono più attenzione. Di fondo, la percezione
che una persona ha del diabete è un fattore importante per determinare
l’aderenza al progetto terapeutico. Queste percezioni includono spesso convinzioni sulla causa, gravità, conseguenze, senso di controllo ed efficacia del
trattamento. Recentemente è stato evidenziato che le convinzioni
sull’efficacia del trattamento e il grado di soddisfazione per la cura sono i fattori più predittivi dell’introito alimentare e dell’attività fisica. Queste convinzioni
derivano da una mescolanza di atteggiamenti familiari, esperienze passate
con l’assistenza sanitaria, disturbi soggettivi dovute alle complicanze o ai risultati della glicemia e stima di sé.
È importante comprendere lo stato funzionale dell’anziano, cioè in quale modo il paziente si comporta nelle attività quotidiane, come abbottonarsi gli abiti
o salire e scendere le scale. Infatti, le abitudini funzionali del paziente possono essere di importanza più immediata del suo stato metabolico. La valutazione funzionale è cruciale anche perché la gestione e gli obiettivi realistici
del trattamento si basano sulla comprensione delle capacità del paziente anziano3.
Un’anamnesi medica accurata può essere utile, ma l’elemento critico è
l’osservazione4. Per esempio, vista o udito ridotti possono interferire con una
comunicazione efficace e con l’abilità di comprendere istruzioni o raccomandazioni sanitarie. A questo proposito possono essere utili tecniche quali eliminare rumori estranei, parlare lentamente, con toni bassi, di fronte al paziente, scrivere le domande con caratteri grandi, fornire una illuminazione adeguata.
È importante notare se il paziente:
• riesce a vedere a sufficienza per dosare l’insulina che si deve iniettare,
per fare l’autocontrollo glicemico e per ispezionarsi i piedi
• riesce a udire a sufficienza per comprendere le prescrizioni del medico
• è fisicamente in grado di salire le scale, maneggiare una sedia a rotelle, stendersi sul lettino dell’ambulatorio, alzarsi dal letto, aprire i flaconi
dei medicinali, fare la spesa, cucinare, lavarsi, vestirsi, aderire alle
prescrizioni di esercizio fisico camminando, nuotando o andando in bicicletta
• è sufficientemente attento e orientato a ricordare le prescrizioni farmacologiche, le restrizioni dietetiche e gli appuntamenti di follow-up.
È anche importante porre domande specifiche sui sintomi e la gestione del
diabete, perché i pazienti anziani tendono a riportare meno dettagli quando:
• si sentono a disagio, guidati male o non istruiti sul diabete
• considerano la malattia come una parte normale del processo di invecchiamento
• hanno paura delle malattie
• vogliono compiacere il medico.
Per esempio, senza domande dettagliate, gli anziani potrebbero non esporre
mai problemi sessuali perché si sentono imbarazzati, li ritengono una conseguenza dell’età o non sono consapevoli degli effetti della neuropatia.
I pazienti anziani con disturbi multipli possono rendere frustranti i tentativi del
medico di individuarne le cause. Queste manifestazioni, comunque, possono
essere ingannevoli. I sintomi somatici possono celare sottostanti difficoltà psicologiche che vi si aggiungono. Allo stesso modo, le manifestazioni delle malattie fisiche possono essere esagerate dalla sofferenza psicologica. Nel tentativo di dipanare queste dinamiche complesse, non c’è niente di meglio che
dedicare del tempo per cercare di conoscere il paziente. Spesso, però, è impensabile sperare di raccogliere tutte le informazioni necessarie nell’arco di
una sola, lunga visita ambulatoriale, che ha l’effetto di esaurire sia il paziente
che il medico. Per raccogliere informazioni, senza fare pressioni sul paziente
anziano, possono dimostrarsi più efficaci, specie all’inizio, appuntamenti più
ravvicinati e di breve durata, con argomenti concisi, distribuiti in poche sessioni.
La mancanza di risorse economiche basilari può avere un impatto notevole
sull’anziano. Può significare che l’assistenza sanitaria e tutto quanto è necessario per la cura del diabete possono diventare secondari rispetto all’esigenza
di nutrirsi, vestirsi ed avere una abitazione adeguata. Così, una nutrizione
adeguata può essere più importante dell’autocontrollo glicemico. Il medico
deve, perciò, valutare attentamente il reddito, l’abitazione, la cura della casa,
le risorse (per il cibo, il vestiario, i servizi, la cura personale e le attività ricreative), l’assistenza sanitaria e il sostegno della famiglia del paziente. Può essere necessario che il medico “protegga” l’anziano, non solo assumendosi le responsabilità di valutare le risorse disponibili, ma anche mettendolo concretamente in contatto con i servizi disponibili. Ad esempio, se un paziente non è
in grado di farsi fare le ricette per acquisire i farmaci e non è in grado di rispettare gli appuntamenti di controllo per mancanza di mezzi o di familiari o
conoscenti in grado di accompagnarlo all’ambulatorio, bisogna contattare il
medico di famiglia e l’assistenza sociale per ovviare a questi ostacoli oggetti-
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vi. Chiaramente queste strategie richiedono tempo e risorse, ma il ritorno in
termini di aderenza alle prescrizioni terapeutiche è degno dello sforzo5.
Con molta probabilità i pazienti sono consapevoli delle variazioni imprevedibili
della routine quotidiana che causano i problemi del diabete. Spesso questa
consapevolezza fa provare loro vergogna e senso di colpa, ma rimproverare il
paziente anziano o aspettarsi da loro una maggiore autodisciplina è inutile.
Hanno già avuto tutta una vita per cambiare abitudini e adesso domandare
loro di modificare un certo modo di mangiare e bere può rappresentare un
compito difficile. È stato dimostrato che l’aderenza alla gestione del diabete è
influenzata in modo negativo dalla durata e dall’entità dei cambiamenti comportamentali richiesti e dalla complessità del regime terapeutico6. Poche variazioni possono già mettere in pericolo la motivazione e indurranno lo sconforto più rapidamente dell’incapacità a raggiungere un obiettivo. Il medico deve saper apprezzare quanto i piccoli interventi possano avere un impatto rilevante sulla qualità della vita. Bisogna suggerire al paziente di fare uno o due
cambiamenti alla volta. Per esempio, cambiare un alimento a colazione può
essere un obiettivo più realistico che sconvolgere l’intero piano alimentare e
una semplice attività aerobica casalinga o camminare possono esser più
semplici che frequentare una palestra.
Molti anziani hanno paura di passare dalla terapia orale all’insulina. Si può
provare ad alleviare le loro paure introducendo il cambiamento poco alla volta. Per esempio, consigliare al paziente di mantenere la terapia orale mentre
comincia ad assumere una dose di insulina ad azione intermedia prima di coricarsi. In questo modo, comincia ad abituarsi a maneggiare le siringhe o la
penna da iniezione, a riscontrare che le iniezioni non assomigliano più a quelle che si ricordava, a vedere che i valori della glicemia cominciano ad essere
più normali, che si sente meglio e si ritrova già con una dose frazionata, se
deve cominciare il trattamento insulinico anche in altri momenti della giornata.
Un’altra tecnica consiste nel chiedere al paziente di provare la terapia insulinica per un mese e poi discutere con lo specialista per vedere se va meglio.
Una valutazione attenta del paziente anziano richiede sempre una rassegna
del supporto familiare e sociale. Sia le ricerche che l’esperienza suggeriscono
che il sostegno familiare ha un impatto positivo sulla gestione del diabete.
Spesso, i membri della famiglia hanno un ruolo fondamentale nella gestione
della cura, controllando l’aderenza alle prescrizioni del medico e garantendo il
trasporto all’ambulatorio nel giorno in cui è previsto l’appuntamento con il diabetologo.
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Problema
Disturbi della vista
Conseguenze
Dosaggio insulinico inadeguato o eccessivo
Iper- o ipoglicemie
Possibili soluzioni
Siringhe con insulina predosata
Lente di ingrandimento per la siringa
Dispositivi a penna
Diminuzione delle attività quotidiane
Diminuito apporto alimentare
Ipoglicemia
Sistemi di adattamento, quali distribuzione dei pasti a domicilio
Disturbi cognitivi
Diminuzione
dell’osservanza
Ausili mnemonici
Depressione
Scarsa osservanza
Suicidio
Individuazione precoce e trattamento della depressione
Socializzazione
Politerapia
Interazione tra farmaci
Iper- o ipoglicemie
Controllo periodico dei farmaci
Sospensione di farmaci non indispensabili
Polipatologia
Ricorso a più farmaci
Anoressia
Stabilire le priorità del trattamento
Indigenza
Malnutrizione
Scarsa osservanza
Consulenza di assistente sociale
Variazione del trattamento in base
alla situazione
Insufficienza renale,
epatopatie
Ipoglicemia
Diminuzione del dosaggio degli
ipoglicemizzanti
Inattività fisica
Obesità
Iperglicemia
Programma di esercizio fisico
Tabella 1. Problemi particolari nel trattamento del diabete del soggetto anziano
Un incontro con uno o più familiari rappresenta un’opportunità per valutare le
condizioni della figura di accudimento, per discutere apertamente i piani terapeutici, per esaminare le alternative realistiche e per prendere le decisioni sul
trattamento che la famiglia è in grado di comprendere e sostenere. I membri
della famiglia hanno spesso un punto di vista differente rispetto al paziente
sull’aderenza quotidiana alla cura del diabete. Un confronto tra le considerazioni personali del paziente e le osservazioni dei familiari può fornire degli importanti elementi di valutazione sul sostegno sociale e sul livello di autogestione del diabete. Pertanto, far emergere questo tipo di informazione può
portare ad una discussione sul modo migliore per offrire aiuto o un diverso tipo di assistenza.
9
I. EPIDEMIOLOGIA E COSTI SOCIALI
Il diabete ha un’incidenza e una prevalenza che aumentano notevolmente
con l’età7 e il progressivo allungamento della durata media di vita nei Paesi
industrializzati sta rendendo e sempre più renderà il diabete dell’anziano una
patologia di ampia diffusione8. Questo è particolarmente rilevante nelle persone anziane, definite in questo contesto come coloro che superano i 65 anni.
Il diabete diagnosticato è presente nel 7-10% della popolazione anziana, che
corrisponde ad una prevalenza di circa il 40% delle persone con diabete noto
nella popolazione generale9-10. Anche l’incidenza aumenta con l’età: circa il 56% dei soggetti ultrasessantacinquenni presenta un diabete di nuova insorgenza, con un’incidenza massima del 6.4% tra i 65 e i 74 anni11-12 e dell’8%
dopo i 70 anni13.
Anche nel nostro Paese il diabete raggiunge prevalenze dell’8% al di sopra
dei 60 anni e del 10-12% fra gli ultra-settantenni 14-16. I diabetici con età superiore ai 65 anni finiscono, così, con il rappresentare quasi la metà dei pazienti
che si rivolgono ai medici di medicina generale e alle strutture specialistiche
di diabetologia, un numero che è destinato a raddoppiare nei prossimi 10 anni17-18. Questo giustifica il titolo allarmante di un editoriale pubblicato sul British Medical Journal “Non-insulin dependent diabetes mellitus: the gathering
storm”19. Bisogna poi considerare che queste stime fanno riferimento ai soli
casi di diabete noto, cioè di diabete diagnosticato, ma numerosi studi di popolazione hanno evidenziano ripetutamente come esistano altrettanti casi di
diabete di cui non è stata mai fatta diagnosi di malattia20. Questo significa che
la prevalenza del diabete nell’età avanzata dovrebbe aggirarsi complessivamente intorno al 18-20%, il che vuol dire in pratica 2 pazienti diabetici per ogni 10 soggetti anziani21.
Pensare, poi, ai casi di diabete non diagnosticato come forme “più lievi” di
malattia, rappresenta un grossolano errore di valutazione perché l’assenza di
diagnosi (e quindi di terapia) aumenta la mortalità e la morbilità dei pazienti il
cui diabete non è stato diagnosticato14. Allo stesso modo è ingiustificato ritenere che l’iperglicemia nell’età avanzata sia una condizione quasi fisiologica,
sostanzialmente benigna perché caratterizzata da rialzi glicemici che solo raramente raggiungono livelli “allarmanti” e che spesso risultano limitati ai periodi post-prandiali. Infatti, è ormai ampiamente dimostrato che l’instabilità glicemica e l’iperglicemia post-prandiale rappresentano importanti fattori di rischio vascolare, specie nei pazienti anziani22-23. Inoltre, specie nei paesi industrializzati e dove l’assistenza diabetologia è abbastanza capillare,
10
l’aumentata aspettativa di vita fa sì che un cattivo compenso metabolico abbia tempo sufficiente per determinare l’insorgenza di complicanze anche in
pazienti anziani, tanto più che potrebbero essere già trascorsi anni tra
l’insorgenza del diabete ed il momento della sua diagnosi24 e che l’età avanzata accelera lo sviluppo delle complicanze croniche proprie del diabete25. Al
contrario, un controllo metabolico più stretto è in grado di annullare l’eccesso
di morbilità e mortalità che il diabete determina nei pazienti più anziani26-27.
La riduzione della speranza di vita dovuta alla malattia si mantiene nelle classi di età più avanzata, con una differenza nei diabetici rispetto ai non diabetici
di circa 8 e 4 anni, rispettivamente nei cinquantenni e nei settantenni28.
Rifacendo riferimento al diabete clinicamente manifesto, i 2/3 dei diabetici ospedalizzati hanno un’età superiore ai 65 anni e oltre il 3% dei letti dei nostri
ospedali è perennemente occupato da diabetici anziani.
Il diabete nell’età avanzata rappresenta, perciò, una realtà sanitaria e socioeconomica estremamente importante sia considerando la prevalenza della
malattia, come fatto dall’American Diabetes Association in una indagine di alcuni anni fa29, sia considerando l’incidenza30 poiché, come abbiamo già accennato, entrambi questi parametri epidemiologici aumentano con l’età.
Tutti questi dati giustificano come la spesa sanitaria riguardante il diabete
nell’anziano sia molto elevata e sia destinata a crescere ulteriormente.
L’impatto sociale della malattia diabetica è di tale entità ed il numero dei pazienti coinvolti così elevato che in numerosi stati del mondo la spesa sanitaria
per questa malattia ha raggiunto il 10% della spesa sanitaria globale31.
Negli stati europei, dove la spesa sanitaria globale si è attestata tra il 6 e l’8%
del PIL (Prodotto Interno Lordo) (7.7% per l’Italia nel 1990), la spesa stimata
per il diabete si aggira sul 5-7% della spesa sanitaria totale11.
Sappiamo che il costo di qualsiasi malattia è formato da tre elementi:
1. la spesa per l’assistenza sanitaria diretta (costi diretti)
2. i costi derivanti da perdita di produzione permanente o temporanea dipendente dalla malattia (costi indiretti)
3. lo scadimento della qualità della vita, la perdita di tempo libero e il dolore (costi intangibili)32.
Sebbene quest’ultimo aspetto sia considerato sempre più importante, risulta
essere un parametro non monetizzabile secondo riferimenti precisi e quindi
viene spesso trascurato nell’analisi dei costi di una malattia.
Considerando la possibilità della loro identificazione e della loro quantificazione, i costi vengono ripartiti tra i due capitoli principali: i costi diretti e indiretti33.
Tra i primi vanno considerati:
11
•
terapia d’emergenza
ospedalizzazioni direttamente imputabili alla patologia e per le complicanze
•
servizi medici ed infermieristici
•
trattamenti ambulatoriali
•
interventi chirurgici
•
farmaci
•
esami di laboratorio
•
strumentazioni e reattivi
•
maggiore durata delle ospedalizzazioni, anche se originate da altre
cause nel diabetico rispetto al non diabetico.
Tuttavia, è opportuno precisare che i costi diretti sono verosimilmente sottostimati dal fatto che molti dei costi legati al trattamento delle complicanze, per
esempio quelle cardiovascolari, non sono imputati direttamente al diabete ma
alle malattie vascolari, dimenticando l’effetto moltiplicatore svolto dal diabete
sui fattori di rischio cardiovascolari.
Tra i costi indiretti si possono includere:
•
mortalità prematura
•
sussidi di invalidità
•
mancato guadagno per giornate lavorative perse (quest’ultimo aspetto
non riguarda però il diabetico anziano in età non lavorativa).
Dalla somma di tali costi è stata calcolata per il 1992 una spesa annua per
ogni diabetico in un paese europeo raffrontabile con il nostro, come la Germania, di 2000 $ (oltre tre milioni delle vecchie lire)34.
Infine, considerando che, come già detto in precedenza, il 50% dei diabetici
ha un’età maggiore ai 65 anni di età, dal 2.5 al 3.5% della spesa sanitaria totale, cioè la metà dei costi diretti imputabili alla malattia, può essere ascritta al
diabete dell’anziano. Questa cifra ammontava nel 1995 ad una somma tra i
2380 e i 3334 miliardi delle vecchie lire (la spesa sanitaria è stata nel 1995 di
95262 miliardi di lire35). Tutto questo senza tener conto dei costi indiretti non
facenti parte della spesa sanitaria e dei costi non monetizzabili.
A titolo d’esempio, possiamo aggiungere che solo considerando i 74 diabetici
su 4485 anziani (prevalenza del 10.6%) presenti nel 1993 in una parte delle
Case di Riposo del Friuli - Venezia Giulia36 (pari al 71% della capacità ricettiva totale disponibile), il costo annuo diretto imputabile alla patologia diabetica
può essere stimato in circa 1.42 miliardi delle vecchie lire.
Concludendo, in base a quanto abbiamo già detto, è importante considerare
sempre che il diabete comporta costi sia diretti che indiretti. I primi consistono
nel totale di quanto viene speso per la diagnosi e il trattamento del diabete e
per curare le complicanze sia acute che croniche. A questo proposito è stato
stimato che nei pazienti diabetici il ricorso alle strutture ospedaliere o di assistenza di base è 2-3 volte maggiore rispetto alla popolazione generale37-38. La
perdita di produttività dovuta a malesseri a breve termine, invalidità e mortalità prematura rappresentano, invece, i costi indiretti.
I dati ottenuti in alcuni Paesi occidentali evidenziano che i costi economici
presentano delle differenze per sesso e per età. Infatti, il 35% di tale spesa
riguarda gli uomini con meno di 65 anni, il 30% le donne di oltre 65 anni, il
18% gli uomini con più di 65 anni e il 17% le donne con meno di 65 anni39.
Inoltre, è stato calcolato che la spesa sanitaria per le persone con diabete è
di 2-3 volte superiore a quella dei non diabetici e che la perdita di produttività
dovuta ad invalidità e morte prematura è anch’essa rilevante.
12
13
•
II. EPIDEMIOLOGIA DELL’ALTERATA
TOLLERANZA AL GLUCOSIO
L’alterata tolleranza al glucosio è un termine che comprende sia il diabete
mellito che la ridotta tolleranza al glucosio (IGT).
Fino a pochi anni fa, l’incidenza (numero di nuovi casi in una popolazione in
un determinato periodo di tempo) e la prevalenza (percentuale di persone in
una popolazione che presenta la condizione in un dato momento) dell’alterata
tolleranza al glucosio era fonte di confusione. Le metodologie adoperate da
numerosi studi epidemiologici non erano adeguate per chiarire il problema.
Infatti, in alcuni studi veniva semplicemente chiesto ai partecipanti se avessero o meno il diabete, mentre altri usavano come fonte principale di indagine le
cartelle cliniche dei medici di medicina generale o quelle ospedaliere. Inoltre,
quando venivano eseguite indagini di laboratorio, per fare diagnosi ci si basava sul semplice esame delle urine o su determinazioni della glicemia fatte casualmente e anche le modalità del carico di glucosio variavano notevolmente.
Non c’era alcun consenso sui criteri diagnostici del diabete mellito e si dava
poco rilievo alla condizione di IGT. Ne conseguiva che, quando venivano confrontati o messi insieme i dati di studi diversi, i risultati erano fuorvianti.
Una certa chiarezza e rigore emersero alla fine degli anni settanta, quando il
National Diabetes Data Group negli Stati Uniti propose una serie di linee guida chiare e inequivocabili per la classificazione e la diagnosi del diabete mellito e di altre manifestazioni dell’alterata tolleranza al glucosio40. Queste proposte vennero accettate, con alcune piccole modifiche, dal Comitato di esperti sul diabete dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 198041 e successivamente revisionate nel 198542. Da allora sono stati effettuati molti studi epidemiologici che si sono attenuti a definizioni e metodologie appropriate e
standardizzate, che hanno permesso di chiarire l’ampiezza e l’entità del problema dell’alterata tolleranza al glucosio.
Uno dei fattori associati alla alterata tolleranza al glucosio è certamente l’età,
che è apparsa in ogni studio come la variabile singola più importante
nell’influenzarne la prevalenza. E così, quasi tutti gli studi epidemiologici, sia
trasversali che longitudinali, hanno dimostrato che la prevalenza sia di diabete che di IGT aumenta inizialmente con l’età, raggiunge una fase stazionaria
per poi diminuire. Tuttavia, l’inizio della fase di aumento, il ritmo di aumento, il
tempo di prevalenza del picco e il ritmo della successiva diminuzione variano
fra le diverse popolazioni esaminate.
Si ritiene, in genere, che l’aumento della prevalenza comincia all’inizio dell’età
adulta. Ad esempio, gli indiani Pima di età compresa fra i 25 ed i 34 anni,
14
hanno una probabilità di essere diabetici dieci volte maggiore rispetto a quelli
di 15-24 anni43. Negli americani fra i 45 e i 55 anni il diabete è quattro volte
più comune rispetto a quelli di 20-44 anni44.
L’aumento successivo dovuto all’età è variabile ed è maggiore nelle società
con maggiore prevalenza di intolleranza al glucosio45.
Negli indiani Pima, la prevalenza di alterata tolleranza al glucosio raggiunge
un picco all’età di 40 anni negli uomini e di 50 anni nelle donne, per poi diminuire negli uomini dopo i 65 anni e nelle donne dopo i 55 anni. In altre popolazioni, la prevalenza è più elevata dai 60 ai 70 anni, per poi diminuire44. Tuttavia, uno studio su finlandesi anziani ha dimostrato che la prevalenza presentava un picco fra i 75 ed i 79 anni e diminuiva fra gli 80 e gli 84 anni46. In
alcune popolazioni la prevalenza maggiore è stata riscontrata nel gruppo di
età più avanzata47.
Per quanto riguarda la comunità in cui la prevalenza di alterata tolleranza al
glucosio ha maggiori probabilità di essere particolarmente elevata, questa sarà probabilmente composta da un numero elevato di anziani e di emigranti
che vivono in una zona urbana di un paese industrializzato. I membri apparterranno ad una qualsiasi classe socioeconomica, ma avranno abitudini di vita sedentaria e molti saranno obesi.
15
Il riconoscimento ampiamente diffuso che l’invecchiamento sia un fattore di
rischio maggiore per lo sviluppo del diabete ha condotto alcuni a credere che
l’intolleranza glucidica sia una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento.
Tuttavia, sembra vi siano ampie differenze di prevalenza di questa malattia
nelle differenti comunità, visto che in alcune aree del mondo, sebbene la prevalenza aumenti con l’età, il diabete non supera il 3.5%48. Questa segnalazione indica che molti casi di diabete dell’anziano possono essere prevenibili.
I tre più importanti fattori di rischio nella patogenesi di questa malattia negli
adulti più anziani – uno stile di vita sedentario, cattive abitudini dietetiche e
cambiamenti della composizione corporea – sono essenzialmente fattori modificabili.
Altri fattori patogenetici sono più difficili da aggirare. Questi includono malattie
coesistenti, l’uso di farmaci con effetti avversi sulla tolleranza ai carboidrati e i
cambiamenti correlati all’età nella secrezione insulinica o nella sua azione, riportati in vari modelli animali e soggetti umani49-52.
I precisi meccanismi dei cambiamenti correlati all’età nella riserva secretoria
insulinica o nell’azione insulinica nei siti bersaglio restano sconosciuti. È noto
che, sebbene la maggioranza degli adulti più anziani con diabete siano affetti
dal tipo 2, alcuni sono diabetici che hanno sviluppato un diabete di tipo 1 molti
anni prima o sono pazienti che, nel tempo, hanno subito una variazione, passando da uno stato non insulino-dipendente ad uno stato che richiede insulina.
Questo deterioramento tempo-dipendente alla tolleranza ai carboidrati, a prescindere dal trattamento utilizzato, è stato ben dimostrato nello studio
UKPDS53. Questo cambiamento sembra essere almeno parzialmente in relazione alla graduale riduzione della capacità secretoria insulinica pancreatica.
Studi in modelli animali indicano che l’invecchiamento è associato ad
un’alterata attività secretoria insulinica associata ad alterazioni
nell’espressione genica delle cellule pancreatiche34-35. Questi dati sono confermati da studi clinici nei soggetti anziani che evidenziano una ridotta attività
insulinica40-41.
Complessivamente, sembra che sebbene sia comune un incremento etàdipendente dell’intolleranza ai carboidrati, la maggior parte delle condizioni di
diabete nell’anziano sia potenzialmente evitabile.
Le alterazioni metaboliche presenti nel diabete dell’età avanzata non si discostano significativamente da quelle presenti nei pazienti più giovani. Infatti, nei
diabetici anziani magri prevale il difetto secretorio della !-cellula in risposta
allo stimolo glucidico: l’insulina viene immessa in circolo in minor quantità (deficit quantitativo) e viene rilasciata in ritardo (deficit qualitativo)54. Al contrario,
nei diabetici anziani in soprappeso l’alterazione prevalente è l’insulinoresistenza a livello dei tessuti periferici11. Però, nell’età avanzata, anche in
assenza di un significativo eccesso ponderale, spesso è presente una significativa insulino-resistenza. È probabile che la causa sia legata alla riduzione
della massa magra (circa il 30% oltre i 70 anni) e la riduzione dell’attività fisica55.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, nel paziente anziano, oltre ad una
diminuzione della quantità dell’esercizio fisico56 è stata misurata una riduzione della capacità fisica57. Molti anziani riducono la loro attività fisica man mano che invecchiano, a volta a causa di condizioni concomitanti quali i disturbi
osteoartrosici o neurologici. L’attività fisica è strettamente collegata al metabolismo dei carboidrati e all’azione insulinica. Infatti, un programma di allenamento di 12 mesi in un gruppo di diabetici di età superiore ai 60 anni non
ha mostrato alcuna variazione significativa della tolleranza al glucosio che,
però, era già basalmente buono, ma si è accompagnato ad una considerevole diminuzione della sezione insulinica58. Questo risultato suggerisce che
l’esercizio fisico genera una maggiore sensibilità all’insulina. In un altro studio
è stato evidenziato come gli anziani non allenati avevano glicemia ed insulinemia più elevate dei soggetti allenati. L’esercizio determinava una migliore
tolleranza al glucosio e ad una maggiore sensibilità all’insulina59.
In uno studio effettuato al fine di valutare gli effetti dell’esercizio fisico
sull’azione insulinica in uomini sani di età compresa tra 60 e 75 anni, sono
stati messi a confronto i dati tra coloro che effettuavano regolarmente attività
fisica e quelli che conducevano una vita sedentaria60. Non è stata osservata
alcuna differenza né nell’indice di massa corporea (IMC) né nella percentuale
di grasso corporeo tra i due gruppi. Comunque, il consumo massimale di ossigeno (VO2 max) era maggiore nei soggetti che facevano esercizio fisico regolarmente; gli stessi dati si ottenevano per quanto attiene l’utilizzazione di
glucosio insulino-stimolata. Era evidente una relazione diretta tra massima
capacità aerobica e azione insulinica in vivo, che era indipendente sia
dall’IMC sia dalla percentuale di grasso corporeo. Anche se l’insulinoresistenza si ritrova comunemente negli anziani, perfino in quelli con normale
tolleranza al glucosio, essa può essere parzialmente contrastata con
l’esercizio fisico61. Questo effetto è indipendente dalle variazioni del peso e
della composizione corporea e può essere osservato anche dopo un programma di esercizio fisico moderato della durata di 12 settimane.
16
17
III. PATOGENESI
Gli atleti giovani hanno lo stesso livello di utilizzazione di glucosio in risposta
all’insulina che hanno anche gli atleti anziani62. Quindi, l’esercizio fisico negli
anziani può migliorare l’insulino-resistenza a livello post-recettoriale, che è la
sede generalmente colpita dall’invecchiamento.
Il trasporto del glucosio attraverso la membrana cellulare è mediato dalle proteine di trasporto del glucosio, delle quali la GLUT-4 sembra la più importante
nel muscolo. Una indagine condotta su uomini di mezza età63 ha evidenziato
che i livelli plasmatici di insulina durante il test di tolleranza al glucosio erano
più bassi negli uomini allenati, mentre non vi erano differenze nelle risposte
glicemiche. Comunque, il contenuto di proteina GLUT-4 negli uomini allenati
era quasi il doppio. Questo suggerisce che i livelli delle proteine di trasporto
del glucosio aumentavano contestualmente alla sensibilità all’insulina negli
uomini di mezza età che svolgevano regolarmente esercizio fisico.
Inoltre, uno studio a lungo termine svolto in Svezia su uomini di mezza età
che avevano un diabete di grado lieve o ridotta tolleranza al glucosio ha dimostrato come una dieta in grado di determinare una riduzione del peso corporeo associata all’esercizio fisico regolare ha dato luogo ad un considerevole miglioramento della tolleranza al glucosio ed alla remissione del diabete64.
Anche i livelli di insulina venivano ridotti e la mortalità era minore nel gruppo
trattato. Simili studi non sono stati effettuati negli anziani, ma sembra probabile che almeno alcuni casi di intolleranza al glucosio e di diabete di lieve entità
possano essere prevenuti prestando maggiore attenzione al peso corporeo e
all’esercizio fisico.
Nei soggetti anziani si assiste anche ad una progressiva riduzione della funzione renale e all’uso contemporaneo di diversi farmaci, tra i quali i diuretici
che, specie quelli tiazidici, causano intolleranza al glucosio ed insulinoresistenza65.
In conclusione, negli anziani si verifica una alterazione metabolica costituita
da intolleranza al glucosio, insulino-resistenza periferica a livello postrecettoriale, ridotta secrezione insulinica e diminuzione della sensibilità epatica all’insulina. Questo stato può essere migliorato aumentando l’attività fisica,
mentre viene peggiorato dall’aumento del peso corporeo e dall’adiposità addominale. Altri fattori che sono comuni negli anziani, fra cui la ridotta funzionalità renale e l’uso dei diuretici, sono in grado di peggiorare la loro tolleranza
al glucosio.
18
IV. PREVENZIONE
Il fatto che la prevalenza del diabete aumenti con l’età e che il diabete sia una
causa importante di morbilità e mortalità nell’anziano spiega il ricorso maggiore ai servizi di assistenza sanitaria da parte dei diabetici anziani. Conseguentemente, il diabete nell’anziano rappresenta un significativo problema economico e di salute pubblica.
Poiché il trattamento del paziente diabetico anziano presenta vari limiti, una
soluzione alternativa all’epidemia del diabete nell’anziano potrebbe essere la
prevenzione primaria. Abbiamo già accennato al fatto che molti studi epidemiologici suggeriscono che il deterioramento della tolleranza al glucosio con
l’avanzare dell’età può essere in gran parte attribuito a numerosi fattori connessi all’età che sono associati ad insulino-resistenza, quali l’obesità ed una
distribuzione del grasso corporeo di tipo androide, scarsa attività fisica, malattie croniche ed uso di farmaci diabetogeni. Tutti questi fattori sono suscettibili
di modificazioni.
Come hanno dimostrato i vari studi prospettici sulla bassa incidenza di diabete nelle persone fisicamente attive, l’esercizio regolare sembra essere
l’approccio primario più promettente anche nel diabete nell’anziano. Per ottenere il massimo effetto protettivo, probabilmente bisognerà cominciarlo quanto prima nella vita.
L’esercizio esplica il suo effetto positivo migliorando direttamente la sensibilità
insulinica o, indirettamente, inducendo perdita di peso ed una più adeguata
distribuzione del grasso corporeo. D’altro canto, sebbene la restrizione calorica possa risultare efficace nel causare perdita di peso e nel diminuire
l’insulino-resistenza negli individui obesi, esiste un notevole rischio di malnutrizione derivante dagli interventi dietetici nelle persone anziane. Inoltre, non è
stato ancora stabilito il ruolo delle variazioni della composizione della dieta
nella prevenzione e nel trattamento del diabete. Sebbene sia stata suggerita
l’utilità della dieta, come parte integrante di un programma di modificazione
comportamentale iniziato in età giovanile, sono necessari ulteriori studi per
dimostrare la praticabilità e l’efficacia di tale approccio nella prevenzione del
diabete più avanti negli anni. Ovviamente, data la prevalenza dell’uso di farmaci multipli nell’anziano e la suscettibilità di questa fascia di età agli effetti
secondari dei farmaci, come risultato dell’alterato metabolismo dei farmaci,
bisogna sempre tenere presente la possibilità di una intolleranza al glucosio
farmaco-indotta. Pertanto, un modo per prevenire il diabete nelle persone anziane è quello di evitare, ove possibile, il ricorso a farmaci non strettamente
necessari, nonché la somministrazione di più farmaci.
19
La prevenzione secondaria e terziaria mira al miglioramento della qualità di
vita del paziente diabetico anziano, principalmente prevenendo o ritardando
l’insorgenza delle complicanze. Poiché è stato ampiamente dimostrato che il
compenso glicemico ottimale è il fattore più importante nella prevenzione delle complicanze croniche (specie quelle microvascolari), esso dovrebbe rappresentare il fine ideale della terapia. Tuttavia, vanno tenuti presenti gli effetti
collaterali di una terapia aggressiva, in particolare il rischio di ipoglicemia grave nell’anziano e, conseguentemente, il trattamento deve essere strettamente
personalizzato in considerazione di numerosi fattori, quali le capacità mentali
del paziente, le condizioni economiche, il sostegno familiare e sociale, la disponibilità di assistenza sociale e di assistenza a domicilio.
Oltre al buon controllo metabolico, è importante controllare i fattori di rischio
macrovascolari coesistenti.
La forte associazione tra diabete e ipertensione, obesità, dislipidemia, aterosclerosi precoce è stata definita come “sindrome metabolica”, il cui difetto di
base sarebbe l’insulino-resistenza e l’iperinsulininemia compensatoria. Il riconoscimento di questa sindrome sottolinea non solo l’importanza del trattamento di tutti i fattori di rischio cardiovascolari nel diabetico anziano, ma anche l’importanza di fare uso innanzi tutto di metodi atti a ridurre
l’iperinsulinemia (quali dieta ed esercizio fisico) per raggiungere un buon controllo del diabete.
Attualmente ci sono molti riscontri che “uno stile di vita salutare” sia in grado
di prevenire lo sviluppo successivo del diabete nell’età avanzata. Allo stesso
modo, però, l’uso adeguato di micronutrienti potrebbe avere degli effetti minori sulla tolleranza al glucosio, ma ci sono scarse evidenze a sostegno di un
loro uso di routine nelle persone anziane. Al contrario, è ormai ampiamente
provato che un controllo aggressivo dell’iperglicemia, quando il diabete conclamato si è sviluppato, è in grado di migliorare la qualità della vita e ritardare
l’insorgenza di complicanze microvascolari.
Il controllo dell’ipertensione, una cura adeguata delle complicanze degli arti
inferiori e l’individuazione di effetti potenzialmente deleteri di farmaci, appaiono come delle strategie con un buon rapporto costo-beneficio per la prevenzione del diabete tipo 2.
La tabella 2 riassume alcun degli approcci di prevenzione secondaria e terziaria del diabete nelle persone anziane.
____________________________________________________________________________________________
1.
Prevenzione secondaria
A. Migliore controllo dell’iperglicemia
•
Educazione sul diabete
•
Restrizione dietetica, se necessaria
•
Esercizio fisico regolare
•
Evitare l’uso di farmaci diabetogeni
•
Farmaci ipoglicemizzanti o insulina
•
Monitoraggio della glicemia da parte del paziente stesso a da chi lo assiste
•
Dosaggio dell’emoglobina glicata a intervalli prestabiliti per monitorare il controllo
•
Sviluppo di un approccio di team (diabetologo, infermiere, dietista, etc)
•
Migliorare l’adesione al trattamento
a. Individuare e trattare la depressione
b. Uso di servizi assistenziali (assistente sociale o domiciliare)
B. Migliore controllo dei fattori di rischio macrovascolari
•
Cessazione del fumo di sigaretta
•
Controllo dell’ipertensione arteriosa
•
Controllo dell’iperlipidemia
•
Riduzione del peso corporeo
•
Evitare, se possibile, la somministrazione di più farmaci
2. Prevenzione terziaria
A. Microangiopatia
•
Retinopatia
a. Esame periodico del fondo oculare
b. Fotocoagulazione o vitrectomia precoce
•
Nefropatia
a. Controllo dell’ipertensione arteriosa
b. Individuazione precoce della proteinuria (microalbuminuria)
c. Dialisi precoce o trapianto renale
B. Macroangiopatia
•
Cardiopatia ischemica
a. Farmaci antianginosi
b. Statine, aspirina, antiaggreganti
c. Angioplastica o intervento di bypass
•
Malattia cerebrovascolare
a. Aspirina o anticoagulanti
b. Angioplastica
c. Fisioterapia
•
Vasculopatia periferica
66
a. Esercizio fisico
b. Pentossifillina
c. Angioplastica o intervento di bypass
•
Amputazione
a. Esame regolare del piede
b. Podologo
C. Neuropatia
•
Periferica
a. Migliore cura podologica
b. Uso di calzature speciali
c. Educazione relativa al piede diabetico
d. Migliore compenso metabolico
•
Autonomica
a. Cisapride o metoclopramide per la gastroparesi
b. Cateterizzazione intermittente per la vescica neurogena
c. Fludrocortisone per l’ipotensione ortostatica
d. Liquirizia
e. Migliore compenso metabolico
_____________________________________________________________________________________
Tabella 2. Prevenzione secondaria e terziaria del diabete nell’anziano
V. OBIETTIVI TERAPEUTICI
20
21
Condividendo le basi patogenetiche con il diabete che insorge in età più giovanile rispetto a quella considerata dell’anziano, è ovvio che il trattamento del
diabete in questi ultimi risulti analogo a quello previsto nei pazienti più giovani
e si basi essenzialmente su dieta, attività fisica, antidiabetici orali ed insulina.
L’unica fondamentale differenza è la necessità di valutare ancora più attentamente il grado di efficienza psicofisica di ogni singolo paziente. Infatti, le
condizioni cliniche sono estremamente variabili e spesso l’età biologica non
correla con l’età anagrafica67-68.
Come abbiamo già accennato, negli anziani possono essere presenti deficit
cognitivi, disturbi mnemonici, alterazioni del tono dell’umore (prevalentemente
di tipo depressivo), alterazioni del ritmo sonno-veglia, un ridotto stimolo della
sete. Spesso gli anziani si alimentano in maniera incongrua, talora saltano i
pasti o li riducono a spuntini frugali e, particolarmente nelle aree rurali, consumano assai presto il pasto serale, allungando così il digiuno notturno. Pertanto si rende necessario un approccio assolutamente personalizzato, valutando attentamente quale protocollo antidiabetico e quali obiettivi glicemici risultano opportuni nel singolo caso. Ciò spiega l’assenza in letteratura, di linee
guida definite e di target terapeutici netti69.
L’ADA, che nel 2002 si era spinta a proporre come obiettivi “ragionevoli”, una
glicemia a digiuno <140 mg/dl e post-prandiale <200-220 mg/dl70, nel 2003 e
nel 2004 si è limitata più genericamente a sottolineare la necessità di un “approccio individualizzato” specificando che “obiettivi terapeutici meno stretti
possono essere appropriati… nei soggetti più vecchi” rispetto a quelli indicati
nelle linee guida71-72.
È stato detto che “il trattamento ipoglicemizzante dei diabetici più anziani è
basato essenzialmente su esperienze aneddotiche” e che “ogni proposta di
approccio terapeutico rappresenta essenzialmente l’opinione dell’autore”67.
Volendo, comunque, fornire un qualche riferimento pratico, per quanto generico e meramente indicativo, è accettabile la regola dell’1/3: in pratica,
un’attenta valutazione del paziente anziano consente di determinare cinque
variabili fondamentali:
1. le sue capacità cognitive, comportamentali e motorie
2. il suo profilo di rischio vascolare
3. la presenza, il tipo e la gravità di eventuali patologie coesistenti
4. la presenza e la gravità di eventuali disabilità dovute a complicanze del
diabete
5. il suo grado di indipendenza o, al contrario, la necessità di assistenza da
parte di terze persone73.
22
• Valutazione socioeconomica
• Valutazione della terapia farmacologica
• Valutazione delle abitudini di vita
• Valutazione clinica
Tabella 3. Valutazione multidimensionale per il diabete nell’anziano
Sulla base di queste variabili circa 1/3 dei pazienti diabetici anziani risulterà in
buone condizioni fisiche e sarà lecito ambire a un compenso metabolico ottimale, circa 1/3 dei pazienti presenterà una certa compromissione delle condizioni cliniche generali che renderà opportuno un approccio più morbido e
graduale. Il rimanente 1/3 presenterà una più marcata compromissione dello
stato generale tale da sconsigliare obiettivi terapeutici ambiziosi (tabella 4)74.
Con un intento analogo la Veterans Health Administration ha proposto linee
guida adattate alle peculiari condizioni e all’età fisiologica del paziente anziano, giungendo a considerare accettabili livelli di HbA1c fino al 9% in pazienti
con ridotta aspettativa di vita e/o condizioni cliniche compromesse (tabella
5)75. Un simile approccio differenziato viene raccomandato anche dalle ultime
linee guida dell’ADA72.
Viste le particolari caratteristiche cliniche del diabete nell’anziano (tabella 6)
per ognuno di loro è doveroso prescrivere un adeguato regime alimentare
che, però, in questi pazienti non dovrà essere necessariamente ipocalorico.
Infatti, non sempre il paziente anziano presenta un sovrappeso tale da richiedere una dieta ipocalorica e non sempre una dieta ipocalorica è consigliabile
nell’anziano. D’altra parte, come abbiamo accennato in precedenza, è improponibile avere la pretesa di sconvolgere, in soggetti ormai anziani, le abitudini
alimentari di tutta una vita. Spesso è sufficiente ridurre gli zuccheri semplici
nell’alimentazione e l’assunzione di vino, quando eccessiva76-77. Occorre, poi,
tener presente che in molti anziani è latente una condizione malnutritiva a
genesi multifattoriale che può essere fatta precipitare da modifiche troppo radicali dalla dieta abituale. Vi concorrono la ridotta capacità di acquistare o
preparare il cibo (per disfunzioni psicocognitive e/o per disabilità fisica), le limitazioni finanziarie, la scarsa motivazione, un certo grado di anoressia (conseguenza di un generale calo psicoaffettivo o di un generico stato depressivo), la ridotta sensibilità gustativa, le limitazioni alimentari imposte da patologie coesistenti, la difficoltà alla masticazione.
Tipologia del paziente anziano
Obiettivi del trattamento
23
• Pazienti autosufficienti
Senza importanti limitazioni motorie e visive
• Mentalmente attivi e pronti
Con il diabete come sola patologia cronica
rilevante
• Pazienti relativamente indipendenti
• Con limitazioni motorie e/o visive di una
certa rilevanza
• Con un certo grado di rallentamento delle
funzioni cognitivo-comportamentali
• Con altre comorbilità, oltre al diabete
• Pazienti con alto grado di dipendenza esterna
• In precarie condizioni fisiche
• In case protette, ADI, RSA
Con altre patologie croniche di rilevante
impegno clinico
•
1/3•
1/3
1/3
•
• Controllo glicemico ottimizzato
• Controllo pressorio ottimizzato
• Stretto controllo dell’assetto lipidico
di raffreddamento e occorrerà adeguare opportunamente la dieta, aggiungendo 15-30 g di carboidrati, almeno il 50% dei quali in forma di carboidrati
complessi.
• Controllo glicemico accettabile
• Controllo pressorio accettabile
• Contenere il dismetabolismo lipidico
_____________________________________________________
1. Spesso è assente la triade polidipsia – poliuria – polifagia.
2. I deficit cognitivi, comportamentali, depressivi e demenza sono più frequenti
• Controllo dei sintomi di scompenso metabolico (poliuria, incontinenza, dimagramento, astenia)
• Minimizzare il rischio di complicanze acute
(ipoglicemie, disidratazione, iperosmolarità,
acidosi metabolica…)
• Considerare la possibilità di interazioni farmacologiche con terapie concomitanti
che negli anziani non diabetici.
3. In genere i nuovi casi sono diagnosticati casualmente, spesso in occasione
di fenomeni infettivi, accidenti vascolari o altre patologie intercorrenti.
4. La glicosuria è inattendibile per aumento della soglia renale al glucosio.
5. Gli accidenti ipoglicemici da insulino-secretori o da terapia insulinica sono più
frequenti, gravi e prolungati.
6. È più facile l’insorgenza di acidosi lattica da biguanidi.
Tabella 4. Obiettivi terapeutici nei pazienti diabetici anziani: la regola dell’1/3.
7. L’iperosmolarità plasmatica insorge con maggior facilità e può aggravare un
deficit di funzionalità renale e/o determinare un coma iperosmolare.
8. Il soprappeso è meno frequente, circa il 20% dei diabetici anziani è sottope-
Comorbilità assenti e
HbA1c <7%
HbA1c <8%
HbA1c <9%
aspettativa di vita
(<1% sopra il limite di normalità)
(<2% sopra il limite di normalità)
(<3% sopra il limite di normalità)
Comorbilità assenti e
HbA1c <8%
HbA1c <8%
HbA1c <9%
aspettativa di vita
(<2% sopra il limite di normalità)
(<2% sopra il limite di normalità)
(<3% sopra il limite di normalità)
Comorbilità assenti e
HbA1c <9%
HbA1c <9%
HbA1c <9%
aspettativa di vita
(<3% sopra il limite di normalità)
(<3% sopra il limite di normalità)
(<3% sopra il limite di normalità)
>15 anni
so e può essere presente anoressia.
9. Le patologie cardiovascolari sono 3-4 volte più frequenti che negli anziani
non diabetici di pari età, hanno prognosi peggiore e più spesso sono oligo- o
5-15 anni
asintomatiche (ischemia miocardica silente).
10. Spesso è presente una neuropatia autonomica che aggrava i disturbi urinari
e/o gastrointestinali tipici dell’anziano.
<5 anni
11. Sono frequenti i fatti infettivi broncopolmonari e urinari e insorgono facilmente lesioni ulcerative infette agli arti inferiori.
Tabella 6. Principali caratteristiche cliniche del diabete nel paziente anziano
Tabella 5. Obiettivi terapeutici nei pazienti diabetici anziani.
Le linee guida della Veterans Health Administration
Anche l’attività fisica, cardine di ogni trattamento antidiabetico, nella pratica
clinica può essere solo raramente proposta ad un paziente anziano. Infatti,
esistono spesso controindicazioni per patologie a carico del sistema cardiocircolatorio, dell’apparato osteoarticolare, del sistema nervoso e dell’occhio,
patologie dipendenti tanto dal diabete quanto dall’età78-79. Anche quando non
esistono controindicazioni, l’attività fisica dovrà essere aerobica (per esempio
nuoto, ciclismo, passeggio veloce), moderata (non superare il 50-60% della
riserva della frequenza cardiaca), continua (almeno 3 volte la settimana) e
andrà interrotta ogni 15-20 minuti con 4-5 minuti di recupero graduale. Particolare cura dovrà essere rivolta agli esercizi di stretching, di riscaldamento e
24
VI. TERAPIA NUTRIZIONALE
25
La terapia dietetica è rappresentata da quattro momenti fondamentali: valutazione, obiettivo, istituzione dell’intervento e valutazione e soluzione del problema80.
Un accertamento di tipo nutrizionale comprende la valutazione della diagnosi
medica, la misurazione dei parametri antropometrici e degli indici biochimici e
la revisione farmacologica81.
Una storia nutrizionale completa include la valutazione delle scelte nutrizionali
e delle abitudini alimentari, dell’uso di alcool o di supplementi di micronutrienti, della storia del peso e le necessità nutrizionali dei pazienti.
Altri elementi della determinazione nutrizionale includono la valutazione della
storia dell’esercizio fisico, i problemi psicosociali esistenti e la conoscenza di
base dei pazienti riguardo al diabete e alla nutrizione, così come la volontà e
la capacità dei pazienti al cambiamento (tabella 7).
____________________________________________________________
A. Dati clinici: patologie mediche coesistenti, misure antropometriche, indici biochimici,
farmaci
B. Storia nutrizionale
• Scelta del pasto/abitudini alimentari
• Uso di alcool
• Integratori vitaminici/minerali
• Interazione farmaco-alimentare
• Storia del peso
• Assunzione calorica e fabbisogno nutritivo
C. Altri componenti
• Storia attività/esercizio fisico
• Problemi psicosociali
• Conoscenza dell’alimentazione/abitudini nella gestione del diabete
• Attitudini verso il cambiamento
____________________________________________________________
Tabella 7. Componenti della valutazione nutrizionale
Gli adulti più anziani, specialmente quelli con iperglicemia non controllata,
sono a rischio di carenze nutrizionali. I cambiamenti nelle varie funzioni fisiologiche legati all’età, che comprendono l’alterazione del gusto, dell’olfatto e
dell’acidità gastrica, aumentano il rischio di carenze nutrizionali. I pazienti
diabetici anziani sembrano a rischio più elevato per le carenze di vitamine B1,
B12, C, D e di folato, come pure carenze di minerali come calcio, zinco e magnesio82.
I diabetologi devono, pertanto, considerare sempre gli indicatori clinici dello
stato di carenza nutrizionale. L’indicatore più importante è un cambiamento
del peso corporeo basato su un intervallo di norma, ad esempio il range di
26
peso al quale una persona sembra essersi stabilizzato durante i molti anni
trascorsi. In genere, la perdita o il guadagno involontario di un peso di 4.5 Kg
o più in 6 mesi sono considerati indicatori dello stato nutrizionale anomalo83.
Altri indicatori dello stato nutrizionale sono indicati nella tabella 8.
__________________________________________________
1. Significativo cambiamento di peso
• 10% del peso corporeo in 6 mesi
• Variazioni involontari del peso > 4.5 Kg in 6 mesi
2. Dati antropometrici
• Indice di massa corporea <22 o >27
• Circonferenza muscolare a metà braccio <10° percentile
• Plica tricipitale <10° o >95° percentile
3. Dati di laboratorio
• Prealbuminemia <15 mg/dl
• Transferrinemia <200 mg/dl
• Albuminemia <3.5 g/dl
• Colesterolemia <160 mg/dl
__________________________________________________
Tabella 8. Indicatori clinici dello stato di carenza nutrizionale
Poiché la cosiddetta dieta dell’American Diabetes Association non è più raccomandata, la terapia nutrizionale dei soggetti diabetici dovrebbe essere individualizzata.
In generale, il fabbisogno calorico diminuisce del 20-30% negli adulti anziani.
Oltre all’età, altri elementi determinano il fabbisogno calorico. Questi comprendono il sesso, il peso corporeo, la conformazione corporea e l’attività fisica.
Si dovrà valutare attentamente se vi è la necessità di perdere peso. Un ridotto
peso corporeo è stato associato a morbilità e mortalità più elevata negli anziani. I diabetici anziani, specialmente quelli che vivono in case di riposo, tendono ad essere in sottopeso piuttosto che sovrappeso84.
Il contenuto proteico della dieta dovrebbe costituire il 10-20% delle calorie e
in nessuna circostanza deve essere <0.8 g/Kg/die. L’aumento del fabbisogno
proteico e calorico si ha durante la guarigione di ferite, infezioni e altre situazioni di stress85.
La percentuale di carboidrati nella dieta dovrà essere individualizzata. In generale, la quantità totale di carboidrati è più importante della fonte. Zucchero
o alimenti contenenti zucchero possono sostituire altri carboidrati nel piano
alimentare86-87.
Nel formulare una dieta, dovrà essere anche individualizzato il contenuto lipidico88. Prima di prescrivere una dieta con basso contenuto in colesterolo e
27
grassi saturi, dovrà essere valutata la possibilità di un aggravamento del rischio di malattia cardiovascolare rispetto al rischio di malnutrizione. Se si inizia una dieta a basso contenuto di colesterolo, le restrizioni dovrebbero essere limitate alle linee guida Step One dell’American Heart Association.
La corrente raccomandazione di assumere 20-35 g di fibre al giorno potrebbe
essere troppo elevata in alcuni pazienti anziani. L’assunzione di fibre deve
essere incrementata gradualmente e deve essere accompagnata da
un’adeguata assunzione di liquidi o da attività fisica. L’aumento
dell’assunzione di fibre in pazienti allettati e disidratati può precipitare la sindrome di riserva terminale, una condizione che può verificarsi in alcuni individui con ridotta motilità intestinale così che, aumentando il materiale fecale,
questo si accumulerà nell’ultimo segmento del colon.
L’attuale raccomandazione di limitare l’assunzione di bevande alcoliche a 2
bicchieri/giorno potrebbe anche essere eccessiva per molti adulti anziani che
spesso, però, hanno una ridotta tolleranza verso l’alcool. Dovrà anche essere
valutato attentamente il grado di restrizione sodica a 2.4 g/die per il trattamento dell’ipertensione arteriosa o dell’insufficienza cardiaca congestizia. La
percezione gustativa diminuita, associata all’invecchiamento e alla forte restrizione sodica, possono sfociare in un inadeguato introito alimentare.
L’integrazione con micronutrienti dovrà essere individualizzata e basata su un
loro deficit sospetto o documentato. Per i pazienti con assunzione alimentare
carente può essere appropriata un’integrazione vitaminica giornaliera. Tutti gli
adulti anziani dovrebbero essere incoraggiati ad assumere giornalmente almeno 1 g di calcio e, in generale, dovranno essere evitate elevate dosi di vitamine.
Abbiamo già accennato come nelle case di riposo la malnutrizione sia un serio problema, così come è comune la disidratazione89. Le cause di questo fenomeno includono restrizioni inappropriate, scarsa qualità del cibo, mancanza
di scelta e varietà e mancanza di considerazione per preferenze etniche o
culturali.
Se una persona anziane è incapace di soddisfare le necessità nutrizionali attraverso un’alimentazione normale con cibi solidi, allora è indicato un intervento di supporto alimentare. Questo si può ottenere modificando semplicemente la dose alimentare usuale con cambiamento del contenuto nutrizionale, della densità o della composizione alimentare o, talora, può essere necessario un regime più complesso con l’uso di integrazione enterica o parenterale (vedi oltre).
Abbiamo anche accennato come le vecchie linee guida sulla dieta dell’ADA
non abbia un effetto significativo sul controllo glicemico nei diabetici anziani,
specie quando residenti in case di riposo90. Invece, per queste strutture, è
raccomandato il nuovo sistema del consistent CHO meal plan, specie per il
trattamento a lungo termine91. Il piano comprende i principi fondamentali della
sana alimentazione e distribuisce i carboidrati durante il giorno. Comprende
piccole porzioni di dessert regolari e carboidrati forniti dai pasti, oltre a spuntini, purché questi siano regolari da un giorno all’altro. Questo piano si basa sul
principio di fornire ai diabetici residenti in case di riposo per lungodegenti
un’alimentazione che sia piacevole e non dissimile da altri ospiti della struttura, scopo che non deve mai dimenticarne la composizione alimentare per non
generare fattori avversi sul controllo glicemico.
In pratica, per tutti i pazienti diabetici si consiglia di distribuire il fabbisogno
nutrizionale in 5-6 pasti giornalieri, 3 principali, 2 spuntini e, in caso di somministrazione di insulina serale, anche un terzo spuntino, 90 minuti circa dopo la
cena, specie se la cena viene consumata, per abitudini o cause ambientali,
nel tardo pomeriggio e la colazione successiva a mattina inoltrata.
Particolare cura deve essere posta a non limitare eccessivamente pane e pasta, che troppo spesso vengono ritenuti responsabili dell’iperglicemia; devono, invece, costituire almeno il 50% delle calorie totali.
Infine, l’apporto calorico deve essere ridotto solo in presenza di obesità, ma
comunque non deve mai essere inferiore a 1300-1400 calorie giornaliere.
La scelta degli alimenti per un adeguato regime dietetico nel diabetico anziano è suggerito nella tabella 9.
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Tipo di alimento
Da preferire
Da assumere con moderazione
Da evitare o da assumere
solo occasionalmente
Cereali – Legumi
Pasta, riso, pane, patate, or-
Farina, pasta all’uovo, fette
Pane all’olio, panini al latte,
(Carboidrati)
zo, ceci, lenticchie, fagioli,
biscottate, pizza, polenta,
pizza ripiena
fave
gnocchi, grissini, crackers
Carni
Pollo, tacchino, vitello e man-
Agnello, carne in scatola
Frattaglie, carni grasse, pan-
zo magro, maiale magro,
cetta, cotechino, coppa, mor-
prosciutto crudo o cotto, bre-
tadella, capocollo, wurstel,
saola, speck sgrassati
salsicce, salami, patè, carne
tritata o hamburger confezionati, pollo con pelle, pasticci
di carne
Grassi
Sempre limitati
Olio d’oliva, oli poliinsaturi,
Burro, lardo, strutto, margari-
girasole, mais, soia, arachidi,
ne dure (a panetti, ricche di
margarine morbide
grassi saturi), oli di semi vari
Ogni tipo di pesce, tonno o
Pesce fritto, frutti di mare,
Uova di pesce (caviale o suc-
sgombro al naturale o
crostacei, gamberi
cedanei, bottarga)
Latte scremato, yogurt ma-
Latte parzialmente scremato,
Latte e yogurt interi, panna
gro, formaggi magri, ricotta
caciotta fresca, mozzarella di
formaggi grassi e stagionati
fresca di mucca
mucca, provola, scamorza
Uova
Albume
2-3 uova intere la settimana
Uova fritte, omelette ripiene
Ortaggi
Ogni tipo di verdure a foglia,
Cavoli, broccoli, cavolfiori,
Verdure sott’olio
sia fresche che congelate
pomodori, melanzane
Ogni tipo di frutta fresca di
Banane, cachi, fichi, uva
Frutta sciroppata, frutta secca
Sorbitolo, fruttosio, miele
Zucchero, marmellate, cara-
Pesce
sott’olio, ma sgocciolato
Latticini
Frutta
stagione
Dolci e dolcifi-
Dolcificanti acalorici (aspar-
canti
tame, saccarina)
Bevande
Tè, caffé, bibite ipocaloriche
melle, cioccolata, creme, gelati
Vino, birra, spremuta di frutta
Nel momento in cui il paziente diabetico anziano ha la necessità di effettuare
un ricovero in ambiente ospedaliero per problemi medici, chirurgici e specialistici, sono numerosi quelli malnutriti e questo stato influenza sfavorevolmente
l’evoluzione clinico delle malattie92. Talora questo problema si pone quando
dimorano in residenze protette. In questi casi la nutrizione enterale e parenterale permettono di soddisfare le esigenze metaboliche, specie in tutte quelle
situazioni ove sia impossibile l'assunzione di alimenti per via orale.
Entrambe le tecniche di nutrizione assistita possono essere praticate sia in
ambiente ospedaliero che a domicilio o in una residenza protetta, a seconda
del tipo di patologia.
La nutrizione enterale consiste nell'infusione di formule definite chimicamente, per intubazione nel tratto gastrointestinale superiore, in soggetti non in
grado di alimentarsi adeguatamente ma con integrità dell'apparato gastrointestinale. La nutrizione parenterale indica l'introduzione di sostanze nutritizie
attraverso il circolo sanguigno e vi si fa ricorso quando sono compromesse la
digestione e l'assorbimento degli alimenti attraverso il tratto gastrointestinale.
Ove possibile, la nutrizione enterale è da preferirsi a quella parenterale perché preserva meglio le difese immunologiche ed è meno costosa (tabella
10).
Bibite zuccherate, superalco-
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!
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lici
Tabella 9. Scelta degli alimenti per un adeguato regime dietetico
nel paziente diabetico anziano
Mantenimento dell'integrità della mucosa intestinale e della peristalsi
Aumento del flusso ematico intestinale prevenendo l'ischemia intestinale
Aumento secrezione biliare e pancreatica
Aumentata sintesi proteica, ritenzione di N, aumento del peso corporeo
Riduzione incidenza ulcere da stress
Mantenimento e aumento di produzione degli enterormoni
Stimolazione della produzione dei macrofagi, della chemiotassi, delle IgA
Minor incidenza di infezioni (9% contro 37% della NPT)
Mortalità più bassa
Minor degenza (minor costi)
Tabella 10. Vantaggi della dieta enterale
La nutrizione assistita va impostata sul fabbisogno metabolico del soggetto
trattato calcolando sia il metabolismo basale (MB) sia il consumo energetico a
riposo (REE)93. Vi è una discrepanza del 10% tra i valori del MB e del REE
perché il primo è calcolato nel periodo postassorbitivo e comprende anche
VII. NUTRIZIONE ENTERALE E PARENTERALE
30
31
l'effetto termico delle sostanze alimentari con l’equazione di Harris-Benedict
(tabella 11 ).
È necessario un monitoraggio giornaliero del peso corporeo, con registrazione delle entrate e delle uscite, esami di laboratorio inizialmente tutti i giorni e
successivamente due volte a settimana fino a poter stabilire un rapporto tra
peso, bilancio idroelettrolitico, albumina sierica e fosfatemia.
Uomini
66.473 + 13.752W + 5.003H - 6.755A
Donne
66.096 + 9.563W + 1.85H - 4.676A
W = peso in Kg
H = altezza in cm.
A = età in anni
Tabella 11. Equazione di Harris-Benedict
A. Nutrizione enterale (NE)
I vantaggi della nutrizione enterale sono dati dal mantenimento dell'integrità
della mucosa intestinale, della peristalsi e della produzione di enterormoni,
dalla stimolazione immunitaria, dalla ridotta incidenza di ulcera da stress.
Le indicazioni comprendono lo stato di malnutrizione proteico-energetica conseguente alla mancata assunzione di alimenti per più giorni, la grave disfagia
o anoressia, le ustioni o traumi gravi, le resezioni intestinali, la radioterapia, la
chemioterapia e, a volte, l' insufficienza epatica, renale o polmonare cronica.
Tra le controindicazioni vi sono l'ostruzione intestinale meccanica o funzionale, la presenza di fistole con fuoriuscita notevole di materiale, la pancreatite
acuta grave, l'ischemia intestinale e l'enterocolite necrotizzante94.
Le formule per la NE prodotte dall'industria possono essere sotto forma di
polveri sterili da diluire in acqua o già ricostruite in flaconi o lattine e sono da
preferirsi alle miscele alimentari, ottenute frullando o omogeneizzando i cibi,
per la minore probabilità di contaminazione e perché la loro composizione è
nota (tabella 12).
Si sconsiglia l'aggiunta di farmaci alle miscele per NE per il rischio di precipitazione sia dei componenti della dieta che dei singoli farmaci, come conseguenza della variazione ionica e del pH. L’osmolarità nelle diete enterali dovrebbe essere prossima alle 300 mOsm/L. A parità di contenuto calorico e di
acqua, le diete che contengono più glucidi semplici (es. saccarosio aggiunto
per aumentare la palatabilità della dieta) o aminoacidi liberi, presentano un'osmolarità più elevata.
A seconda dei casi si utilizza la via naso-gastrica, naso-duodenale o nasodigiunale, la faringostomia, l'esofagostomia, la gastrostomia o la digiunostomia.
Glucidi - L’apporto calorico è mediamente contenuto fra il 45 e il 60% Tali apporti
sono forniti come amidi, maltodestrine, disaccaridi, lattosio, saccarosio, fruttosio.
Protidi - L’apporto calorico è mediamente compreso fra il 16 e il 20% delle calorie
totali. Gli apporti sono forniti come lattoalbumina o caseina (proteine intere o parzialmente idrolisate) e aminoacidi liberi.
Lipidi - L’apporto calorico è compreso fra il 30 e il 40 %. Sono presenti come olii
vegetali (semi di mais, girasole, soia, cocco, palma, colza, altri) e lecitina di soia.
Vitamine - Sono in genere presenti tutte le vitamine idro e liposolubili, spesso con
apporti superiori a quanto previsto dalle tabelle LARN.
Sali minerali - Le concentrazioni sono variabili per ciascuna dieta ma sono spesso sottodosati rispetto ai fabbisogni delle tabelle LARN. Questa composizione è
giustificata per evitare sovraccarichi salini in alcune condizioni patologiche.
Fibre - Le componenti indigeribili di queste diete generalmente deriva dal tegumento di cereali o da polisaccaridi della soia. La densità della miscela è direttamente proporzionale alla loro concentrazione.
Acqua - Alcune diete si presentano come polveri da ripristinare con acqua: altre
sono miscele in soluzione acquosa con acqua libera variabile tra l’85% (normocaloriche) e il 60% (ipercaloriche). Il contenuto di acqua condiziona l’osmolarità e la
densità della miscela.
Altri componenti - Quando le diete sono previste anche per una somministrazione orale, spesso contengono degli aromatizzanti per aumentare la palatabilità.
Tabella 12. Composizione delle miscele per la nutrizione entrale.
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Inalazione ed aspirazione nelle vie aeree con polmonite ab ingestis
Ostruzione della sonda
Contaminazione della dieta, dei devices per la somministrazione
Otiti, faringiti
Erosione della mucosa, disconfort da sondino nasogastrico
Diarrea (da 3 a 5 scariche/die)
Meteorismo
Nausea, vomito
Costipazione
Disidratazione, alterazioni metaboliche, idroelettrolitiche (K, Na, P)
Tabella 13. Complicazioni della nutrizione enterale
32
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Le complicanze da NE comprendono quelle metaboliche (sovraccarico di liquidi, iperglicemia, ipofosfatemia, ipokaliemia, etc.), l'aspirazione tracheale e
la diarrea (tabella 13). La maggior parte delle complicazioni è prevenibile con
un monitoraggio e nursing attento: la nausea, il vomito ed il ritardato svuotamento gastrico scompaiono posizionando la sonda oltre il piloro. La diarrea,
spesso associata alla NE, può dipendere anche da altri fattori come, ad esempio, l'uso di antibiotici.
Nel caso in cui si renda necessaria la NE in un soggetto anziano affetto da
diabete mellito, come può accadere nel periodo perioperatorio, la composizione della formula deve tenere conto delle condizioni clinico-metaboliche e
del fabbisogno nutrizionale, di liquidi e d'insulina del paziente.
Se si utilizza ad es. una formula ricca in carboidrati (>45%) bisogna considerare il rischio di coma iperosmolare non chetosico95.
Nei diabetici anziani, inoltre, potendo coesistere una paresi gastrica asintomatica, ne va valutato il rischio di esacerbazione indotto dalla modificazione
del tempo di transito intestinale, dovuta alle fibre od ai lipidi, o all'uso di preparazioni enterali iperosmolari o ad un'infusione intragastrica rapida96. La gastroparesi aumenta inoltre il rischio di polmonite ab ingestis. Cisapride e metoclopramide possono facilitare lo svuotamento gastrico anche se vi può essere refrattarietà97-98.
La diarrea diabetica, infine, può rientrare tra le varie cause di diarrea in corso
di NE, come anche l'uso di formule improprie o l'intolleranza a queste, l'effetto
collaterale da farmaci (ad esempio antibiotici) ed il dismicrobismo batterico.
La diarrea profusa può portare a disidratazione e rischio di coma iperosmolare non chetosico. In corso di diarrea la riduzione della velocità e dell'intensità
dell'alimentazione non hanno un effetto positivo sull'alvo ma determinano solamente uno stato di semidigiuno.
Per quanto riguarda la scelta delle formule per la NE nei diabetici esistono dei
dati in favore all'uso di miscele ricche in polisaccaridi di soia99-101 e di formule
ricche di fibre, in grado di ridurre la risposta glicemica al pasto. Quando si utilizzano tali miscele, la risposta glicemica post-prandiale è in funzione del carico carboidratico totale piuttosto che del tipo di carboidrati utilizzati.
Le miscele ricche in polisaccaridi di soia differiscono da quelle classiche anche per la sostituzione del saccarosio con fruttosio, per un più basso contenuto in carboidrati e per la sostituzione delle calorie fornite dai carboidrati con
quelle provenienti dai lipidi.
Le formule ricche di fibre, contenenti cereali solidi idrolizzati, vegetali e frutta,
tendono a legare i micronutrienti che vanno quindi monitorati attentamente.
I pazienti che ricevono un'alimentazione enterale in quattro o più pasti al giorno, in modo simile allo schema dietetico abituale, possono avere un controllo
ottimale della glicemia. Tale tipo di somministrazione, però, è spesso scoraggiata in quanto può aumentare il rischio d'aspirazione, esistono delle difficoltà
al mantenimento dell'accuratezza dell'infusione ed una minore tolleranza gastro-intestinale alla formula enterale rispetto all'infusione costante.
Nel caso di alimentazione a flusso continuo, si può iniziare la terapia insulinica utilizzando insulina rapida sottocute ogni sei ore, in modo da ottenere dei
valori glicemici intorno ai 150-200 mg. Dopo un paio di giorni si può sostituire
quasi tutta l'insulina rapida con una o più iniezioni sottocutanee di insulina intermedia, eventualmente accompagnata da una quota aggiuntiva d'insulina
rapida.
Dato che in genere le formule standard di 240 ml contengono 30-40 g di carboidrati, e visto che la velocità d'infusione è di 100 ml/h (= 12-16 g di carboidrati/h), alla quota di 1 U.I. di insulina basale/h vanno aggiunte 2 U.I./h con un
fabbisogno giornaliero di circa 72 U.I., da somministrare per via sottocutanea102.
È possibile, inoltre, abbinare ad un'alimentazione enterale a velocità costante,
la somministrazione d'insulina per via parenterale. Tale schema, però, necessita di un monitoraggio più attento per il rischio di ipoglicemia accidentale
qualora la velocità di flusso enterale dovesse incepparsi.
I controlli glicemici e dei corpi chetonici dovrebbero essere effettuati ogni 4-6
ore sul sangue e sulle urine e vanno registrate la quantità di liquidi introdotta
ed eliminata dall'organismo.
La nutrizione enterale non deve mai essere interrotta bruscamente; in tal caso è essenziale una fonte alternativa di carboidrati.
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B. La nutrizione parenterale (NPT)
La NPT consiste nella somministrazione per via endovenosa, tramite catetere, di un'infusione contenente glucosio, aminoacidi, lipidi, elettroliti, vitamine
ed oligoelementi in quantità sufficienti a soddisfare le richieste energetiche
dell'organismo e ad impedire il catabolismo al fine di prevenire o correggere
la malnutrizione e i suoi esiti103.
La NPT è indicata solo se la NE anche parziale non è attuabile.
A seconda della via d'accesso, si parla di alimentazione parenterale periferica
o centrale totale. La NPT centrale viene scelta ogni qualvolta sia necessario
un trattamento superiore ai 10 giorni o l'alimentazione avvenga interamente
per via endovenosa o quando le richieste nutritive siano aumentate. L'acces-
so attraverso una vena centrale permette, infatti, la diluizione veloce di glucosio ipertonico in un sistema venoso a flusso elevato.
Le indicazioni alla NPT comprendono il periodo postoperatorio nel caso sia
ostacolata la digestione o l'assorbimento di quantità sufficienti di sostanze nutritive o quando preesiste uno stato di malnutrizione secondario ad un ridotto
apporto orale, dispepsia o malassorbimento, in corso di morbo di Crohn o di
rettocolite ulcerosa. È indicata, inoltre, in caso di ustioni gravi o fratture gravate da sepsi ed in alcuni pazienti neoplastici in corso di chemioterapia o terapia
radiante.
Il suo uso è controindicato nei pazienti con tratto gastrointestinale funzionante, quando si prevede che sia necessaria per un periodo inferiore ai 5 giorni e
per malattie intrattabili.
Tra le complicazioni si segnalano le infezioni, le trombosi, l'embolizzazione
aerea del catetere ed i problemi metabolici (ipoglicemia, iperglicemia, iper o
disidratazione,...).
La NPT deve fornire circa 25-40 Kcal/Kg di peso corporeo ed un apporto idrico basale di 1.2 ml/Kcal/die. A questo deve essere aggiunto un volume di liquidi equivalente alle perdite dovute a diarrea, stomie, etc. Le soluzioni di lipidi per via parenterale sono disponibili come emulsioni di oli vegetali, generalmente polinsaturi, al 10% o al 20%. Si consiglia in genere un apporto di
aminoacidi pari a 0.8 g/Kg di peso corporeo, mentre il rapporto carboidrati/lipidi ottimali non è stato definito. Fornire, comunque, un 30% di calorie sotto forma di grasso riduce i problemi da eccessivo apporto di carboidrati, come
ad esempio la steatosi epatica e l'eccessiva produzione di anidride carbonica.
Bisogna anche considerare il fabbisogno di vitamine e di sali minerali (tabella
14).
L'osmolarità nelle composizioni destinate alla NP periferica deve essere inferiore ai 800-850 mOsm/l.
L’inserimento dei farmaci in una miscela nutrizionale deve essere abitualmente evitato.
Un particolare cenno va fatto all’insulina, per la sua capacità di aderire alle
pareti di vetro e di materiale plastico dei flaconi, delle sacche e degli apparati
tubulari.
Aminoacidi - Sono presenti tutti gli AA essenziali (isoleucina, leucina, lisina, metionina,
fenilalanina, treonina, triptofano e valina) in rapporti variabili, mentre gli AA non essenziali
possono non essere tutti presenti. Per particolari esigenze terapeutiche sono disponibili
miscele contenenti solo aminoacidi essenziali o aminoacidi a catena ramificata o, infine,
arricchiti in aminoacidi ramificati e a basso contenuto in AA aromatici.
Glucidi - In genere sono soluzioni di glucosio. Il sorbitolo può far parte di miscele commerciali precostituite con AA e lipidi. Il glucosio infuso per via endovenosa fornisce circa
3.7 kcal/g.
Lipidi - Sono presenti sotto forma di emulsioni di olii vegetali in acqua resi isosmotici con
il siero per mezzo del glicerolo. Sia i lipidi che il polialcool contribuiscono all’apporto calorico (lipidi al 10% = 1058-1100 kcal/l, lipidi al 20% = 2000-2035 kcal/l a seconda della miscela). Gli olii vegetali sono solitamente costituiti da trigliceridi di acidi grassi a catena lunga e diverso grado di saturazione. Sono presenti inoltre i tocoferoli (50-200 mg/l di vit. E)
perché contribuiscono ad evitare l’irrancidimento degli acidi grassi. Gli emulsionanti usati
sono miscele naturali di fosfolipidi derivati dal tuorlo d’uovo o dalla lecitina di soia. Nei preparati commerciali le goccioline oleose hanno un diametro medio di 0.2-0.4 µ, e sono pertanto analoghe ai chilomicroni plasmatici. La formazione di goccioline oleose di aggregazione diventano pericolose quando superano il diametro dei capillari polmonari (>6 µ).
Elettroliti - Possono essere impiegati tutti i sali minerali inorganici ed organici iniettabili,
salvo i bicarbonati perché in presenza di calcio e fosfati. danno luogo al rilascio di CO2 dalla soluzione e alla precipitazione di carbonato e/o fosfato di calcio, evento estremamente
pericoloso perché può causare microemboli polmonari.
Oligoelementi - La loro compatibilità nelle miscele nutrizionali è pressoché completa
quando non sono presenti le vitamine. Infatti, rame e zinco risultano dei catalizzatori della
degradazione di alcune vitamine.
Vitamine - Possono alterarsi per il pH, per le interazioni specifiche (es. presenza di oligoelementi, bisolfito, altre vitamine) o per la natura del contenitore che può adsorbire sulla sua
superficie le vitamine liposolubili. Le miscele lattescenti (lipidi) possono proteggere le vitamine dalla fotodegradazione. Avendo l’accortezza di non aggiungere oligoelementi e di
conservare le sacche per NP in frigorifero, una certa stabilità è garantita anche per diversi
giorni per quasi tutte le vitamine. Le uniche che vanno incontro a rapida degradazione sono la vitamina C (acido ascorbico), specie in presenza di rame e zinco, e l’acido folico. La
somministrazione di queste ultime va pertanto prevista a parte. Nessun preparato commerciale si presta da solo a soddisfare il fabbisogno di tutte le vitamine e per tutte le fasce
di età. L’apporto di vitamina E può essere garantito dalle emulsioni lipidiche che ne sono
particolarmente ricche. In alcune emulsioni lipidiche sono anche presenti significative
quantità di vitamina K.
Tabella 14. Componenti delle miscele nella Nutrizione Parenterale
36
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Quando sia ritenuta necessaria un’aggiunta di insulina in una sacca per NP si
deve tener conto che la sua dismissione in corso di infusione può variare in
dipendenza del pH, della specifica composizione della miscela e della presenza di elettroliti e pertanto si rende necessario un attento monitoraggio della glicemia e la personalizzazione degli apporti. Nessuno dei metodi proposti
per migliorare la biodisponibilità (aggiunta di albumina etc.) ha infatti dato risultati positivi.
Come soluzioni infusionali, nei diabetici, è meglio preferire quelle miste equicaloriche di lipidi e carboidrati, in quanto meglio tollerate e con minori effetti
collaterali.
Esistono, inoltre, soluzioni contenenti come carboidrato il glicerolo al posto
del destrosio. Tali soluzioni, abbinate anche ad un'emulsione lipidica, richiedono una minor quantità d'insulina rispetto ad una soluzione isoazotata di destrosio ed aminoacidi104.
Per quanto riguarda le soluzioni aminoacidiche arricchite con aminoacidi particolari, non esistono ad oggi prove che dimostrino la maggior efficacia degli
aminoacidi ramificati.
L'insulina rapida viene aggiunta generalmente alla formula parenterale, in
quanto la sua somministrazione attraverso un accesso venoso separato espone ad un maggior rischio d'ipoglicemia.
Dato che nella NPT standard il destrosio costituisce il 25% e che la velocità
d'infusione è di 100ml/h (= 25 g di carboidrati), la dose di insulina/h sarà pari
a 4 U.I. (1U.I. per fabbisogno basale e 3 U.I. per la NPT) ovverosia 96
U.I./die105.
Una quota d'insulina viene adsorbita alla superficie del catetere endovenoso;
ma ciò può essere superato utilizzando una dose totale d'insulina maggiorata
di 2-3 unità.
Come già detto per l'alimentazione enterale, anche in questo caso vanno valutati la glicemia, i corpi chetonici, il bilancio idrico e l' andamento ponderale.
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VIII. ATTIVITÀ FISICA
Abbiamo ampiamente accennato nei precedenti capitoli come i benefici potenziali dell’esercizio fisico nei diabetici anziani siano molteplici e comprendono un aumento della sensibilità insulinica e, possibilmente, della tolleranza al
glucosio e del profilo lipidico, oltre ad un miglioramento della funzionalità cardio-vascolare, del senso di benessere e dell’agilità.
Inoltre, l’esercizio fisico può aiutare a mantenere l’efficacia dell’apparato muscolare e di quello osteoarticolare, riducendo i rischi di cadute e di fratture106.
Tuttavia, i rischi potenziali devono essere tenuti a mente. Questi comprendono fluttuazioni dei livelli glicemici, danno delle parti molli o ossee, aritmie, infarto miocardico o morte improvvisa e, forse, emorragie del corpo vitreo o distacco della retina, specie quando si effettuano esercizi isometrici intensi. Il
secondo interessa i soggetti con retinopatia diabetica proliferativa o con una
storia di emorragia retinica.
Le linee guida di sicurezza devono, pertanto, essere seguite in maniera molto
stretta. È raccomandata la valutazione medica completa mediante la registrazione elettrocardiografia e del test da sforzo. Il paziente deve essere istruito a
partire lentamente ed avanzare secondo la propria tolleranza. Dovranno essere compresi almeno 10 minuti di riscaldamento prima e 10 minuti di raffreddamento alla fine dell’esercizio.
I livelli ematici del glucosio devono essere valutati prima e durante l’esercizio
fisico per stabilire la risposta del metabolismo glucidico al regime
dell’esercizio fisico. Se la glicemia è >250 mg/dl, il paziente dovrà rinviare la
seduta di ginnastica. Se invece è <120 mg/dl, allora può essere indicato uno
spuntino.
Per evitare l’insorgenza di una crisi ipoglicemica i pazienti dovrebbero evitare
di fare attività fisica nelle ore in cui è previsto il picco del tipo di insulina che
assumono e dovrebbero utilizzare, come sede iniettiva, l’area addominale
perché assicura un assorbimento insulinico più costante. Inoltre, è consigliabile portare con sé una porzione di carboidrati e un documento personale,
eventualmente con una nota da cui risulti il suo stato di diabetico e, se si verificasse qualche malessere durante l’esercizio fisico, è necessario interrompere l’attività e consultare il medico curante.
39
IX. TERAPIA FARMACOLOGICA
Quando i cambiamenti nello stile di vita, come la dieta e l’esercizio fisico, si
dimostrano insufficienti per raggiungere livelli glicemici normali, allora dovrà
essere istituita una terapia farmacologica.
Nel paziente anziano la scelta del farmaco dipende, più che per altri soggetti,
dalla gravità dell’iperglicemia, dalla coesistenza di altre patologie e dall’uso
concomitante di altri farmaci, così come dalla loro sicurezza, dalla farmacodinamica e da considerazioni di ordine economico107-108.
Abbiamo già accennato altrove che il diabete è una patologia diffusa nella
popolazione anziana e sempre più frequente diverrà negli anni a venire.
Spesso non diagnosticato, il diabete nell’anziano è comunque rischioso, fin
troppo sottovalutato e mai di facile trattamento.
È stato anche detto che questo rende il trattamento dei diabetici anziani
un’esperienza stimolante, che dà soddisfazioni, ma è ancora necessario chiarire le molte incertezze nella comprensione della patogenesi e nel trattamento
del diabete senile.
È esperienza comune di chi vive la quotidianità della pratica clinica che le
condizioni biologiche di un individuo spesso non correlano con l’età anagrafica e le potenziali alterazioni età-dipendenti delle funzioni d’organo in alcuni
pazienti possono verificarsi prima (o più tardi) che in altri.
Pertanto, nessuna terapia può essere considerata sicura a priori in questi pazienti, ma nessuna terapia può essergli negata a priori con il solo criterio
dell’età avanzata.
Oggi abbiamo a disposizione nuovi antidiabetici orali che vanno ad aggiungersi al nostro arsenale terapeutico. Questo consente di arricchire le scelte
terapeutiche con nuove possibilità e permette di adattare meglio ogni singolo
trattamento alle personali necessità di ogni paziente (tabella 15).
a. Insulino-secretori
Dal momento che anche nell’anziano diabetico il deficit insulinico e l’insulinoresistenza rappresentano le anomalie metaboliche principali, la terapia antidiabetica si può attuare sia con farmaci insulino-secretori che insulinosensibilizzanti.
Le sulfoniluree rappresentano i farmaci insulino-secretori per eccellenza. Si
legano ad uno specifico recettore presente sulla membrana cellulare, il quale
determina la chiusura dei canali del potassio ATP-dipendenti, inducendo la
depolarizzazione della !-cellula, con conseguente esocitosi dell’insulina dai
granuli di deposito. Canali del potassio ATP-dipendenti esistono anche a livel-
40
lo cardiaco dove mediano il “precondizionamento ischemico”, cioè una sorta
di risposta adattiva delle cellule miocardiche nei confronti degli insulti ischemici109. È stato osservato che le sulfoniluree sono in grado di inibirli in maniera analoga a quanto fanno con i canali del potassio presenti nelle !-cellule
pancreatiche e, sebbene il significato clinico di tale blocco non sia ancora
chiarito110, ciò potrebbe far nascere dei dubbi sull’opportunità del loro impiego
in soggetti di età avanzata.
Cosa temere
Insulino-secretori
Ipoglicemia
Cosa controllare
Quali precauzioni adottare
Indici di funzionalità epatica
Addestrare all’automonitoraggio
Indici di funzionalità renale
Addestrare al riconoscimento
Assenza di interazioni farma-
precoce dei sintomi
cologiche
dell’ipoglicemia
Misurazione della glicemia notturna
Metformina
Acidosi lattica
Indici di funzionalità epatica
Controllo frequente della creati-
Indici di funzionalità renale
ninemia e, periodico, della sua
clearance
Controllo della lattacidemia
Glitazoni
Inibitori
!-glicosidasi
Scompenso cardiaco
Enterocolite
Insufficienza cardiaca
Valutare la riserva cardiaca
Uso di FANS o di insulina
Determinare i livelli di transami-
Transaminasi
nasi
Colon irritabile, colite cronica
Valutazione sintomi gastrointestinali
Tabella 15. Possibili rischi dei trattamenti con antidiabetici orali e principali controlli
da effettuare nel paziente anziano
Generalmente indicate come farmaci di prima scelta nell’anziano diabetico111112
, le sulfoniluree vanno comunque impiegate con cautela, soprattutto nel
caso della glibenclamide, che è certamente una delle più efficaci, delle più utilizzate, ma anche una di quelle a maggior durata d’azione e quindi a maggior
rischio di ipoglicemia. Sulfoniluree a più breve durata d’azione, come la gliclazide, risultano più affidabili113-114. Le sulfoniluree circolano legate per oltre il
90% alle proteine plasmatiche e subiscono prevalentemente una metabolizzazione epatica con formazione di metaboliti (alcuni dei quali con una discreta attività ipoglicemizzante) che vengono in parte escreti con le urine. L’effetto
antidiabetico delle sulfoniluree non ha un inizio immediato e, pertanto, questi
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farmaci vanno assunti 20-30 minuti prima del pasto ma, una volta somministrati, è assolutamente necessario che il pasto previsto venga assunto.
Il principale rischio in corso di trattamenti con sulfoniluree (così come per tutti
gli insulino-secretori in generale) è rappresentato dall’ipoglicemia, un evento
che nel paziente anziano risulta essere particolarmente frequente, grave e
prolungato115-116 per vari motivi:
• ridotte funzioni epatica e renale, entrambe età-dipendenti, che riducono l’inattivazione e/o l’escrezione delle sulfoniluree favorendone
l’accumulo
• presenza di affezioni acute o croniche età-dipendenti che impongono
terapie concomitanti con farmaci verso molti dei quali le sulfoniluree
presentano interazioni farmacologiche che ne prolungano l’attività
• diminuita risposta degli ormoni controregolatori all’ipoglicemia, riduzione dei sintomi di allarme adrenergici (per es., la sudorazione algida),
rallentamento dei comportamenti psicomotori di compenso (per es.,
rapida assunzione di zuccheri)
• compromissione età-dipendente, delle funzioni cardiocircolatoria e cerebrovascolare che rendono ogni ipoglicemia un evento pericoloso,
gravato da un’elevata morbilità e mortalità.
È importante ricordare che gli episodi ipoglicemici, soprattutto quando
l’ipoglicemia insorge lentamente, possono facilmente indurre ad errori diagnostici nel paziente anziano. Un’ipoglicemia severa con sintomi neuroglicopenici, ma senza i tipici sintomi adrenergici di accompagnamento, può essere
interpretata come un accidente cerebrovascolare111.
Un’ipoglicemia più lieve può determinare sintomi atipici come incubi notturni,
cefalee mattutine, brevi episodi di disorientamento temporo-spaziale, confusione mentale al risveglio, disturbi neurologici transitori e la diagnosi viene facilmente fuorviata verso il sospetto di disturbi psico-comportamentali o su base neurovascolare.
La glimepiride è una delle ultime sulfoniluree ad essere stata sintetizzata e introdotta in commercio. Seppure sostanzialmente simile alle altre molecole di
questa classe, la glimepiride presenta alcune interessanti caratteristiche peculiari. Anch’essa si lega ai recettori per le sulfoniluree, ma agisce attraverso
una sub-unità (di 65 kDa) differente da quelli (di 140 kDa) alla quale si legano
le altre sulfoniluree117 ed è forse questo il motivo per cui non interagisce con i
canali del potassio ATP-dipendenti del sistema cardiovascolare118. Inoltre, il
legame della glimepiride con il recettore per le sulfoniluree avviene con una
velocità 2-3 volte maggiore e la dissociazione con una rapidità 8 volte superiore rispetto alla glibenclamide119. Ciò determina un più rapido inizio del suo
effetto secretorio, seguito da una fase di lento rilascio che presenta una durata intermedia fra il prolungato rilascio insulinico caratteristico della glibenclamide e quello breve della repaglinide120. L’inattivazione epatica (con formazione di idrossi- e carbossi-derivati a debole o nulla attività antidiabetica) la
rende più sicura nei diabetici di età più avanzata in cui è spesso presente una
latente ipofunzione renale121. La minore frequenza di accidenti ipoglicemici e
la possibilità di poterla somministrare in un’unica dose giornaliera consentono
una maggiore sicurezza e una migliore compliance nei pazienti anziani122.
Recentemente sono state proposte le glinidi, farmaci insulino-secretori che
sono strutturalmente differenti dalla sulfoniluree e che agiscono su recettori !cellulari differenti, ma che, analogamente alle sulfoniluree, provocano il rilascio di insulina chiudendo i canali del potassio ATP-dipendenti.
La repaglinide è il capostipite di questa nuova classe di farmaci. Presenta un
assorbimento rapido che rende inutile l’anticipazione di 20-30 minuti prima del
pasto necessaria per le classiche sulfoniluree, mentre la rapida metabolizzazione epatica (mediata dal citocromo P3A4 con formazione di metaboliti attivi)
contiene l’effetto ipoglicemizzante entro le 2 ore123-124. Tutto ciò rende l’azione
ipoglicemizzante della repaglinide rapida e transitoria, particolarmente utile
nei pazienti anziani in cui si vogliono controllare le iperglicemie postprandiale
e, nel frattempo, limitare i rischi di accidenti ipoglicemici interprandiali125-126.
La possibilità di assumere la repaglinide subito prima del pasto e di ometterne
la somministrazione se si prevede che il pasto non venga consumato, ne fanno il farmaco di elezione per quei pazienti anziani che effettuano (per necessità o scelta) regimi alimentari flessibili, in qualità, quantità e tempi dei pasti125-126.
Oltre alla repaglinide, è stata più recentemente sviluppata un’altra molecola,
la nateglinide, che presenta un profilo farmacologico sostanzialmente sovrapponibile127.
Una raccomandazione di ordine generale è quella di utilizzare, nell’anziano,
posologie di sulfoniluree o di glinidi minime necessarie, impiegando sempre
dosaggi medi ed evitando quelli massimali che aggiungono poco in efficacia
antidiabetica e molto in rischio ipoglicemico.
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b. Insulino-sensibilizzanti
Allorché gli insulino-secretori a dosi medie non riescano a mantenere il controllo glicemico entro limiti accettabili, si pone l’alternativa fra aumentare la
posologia dell’insulino-secretore o aggiungere un antidiabetico ad azione insulino-sensibilizzante. Dal momento che la seconda opzione consente di contrastare l’insulino-resistenza, cioè l’altro momento patogenetico alla base del
diabete di tipo 2, l’aggiunta di un insulino-sensibilizzante risulta la scelta più
razionale.
Se poi consideriamo che circa l’80% dell’effetto ipoglicemizzante degli insulino-secretori si ottiene con posologie pari alla metà di quelle massime consigliate128, l’impiego di dosaggi massimali aggiunge poco all’efficacia terapeutica, mentre accentua sensibilmente il rischio di interazioni farmacologiche.
Fra i farmaci insulino-sensibilizzanti, le biguanidi rappresentano certamente
quelli più studiati, i meglio conosciuti e i più economici. L’acidosi lattica rappresenta l’unico effetto collaterale di rilievo in corso di terapia con biguanidi,
ma si tratta di un fenomeno molto raro quando viene impiegata la metformina
che presenta un basso rischio di accumulo grazie ad una clearance renale
pari a cinque volte quella della creatinina129. Dal momento che si lega in percentuale trascurabile con le plasmaproteine e non subisce alcun processo di
metabolizzazione, la possibilità di interazioni farmacologiche con terapie concomitanti è minima.
Dopo l’ingiustificata sospensione dal commercio statunitense, per anni
l’utilizzo della metformina è stato visto con scarso favore e il suo impiego assolutamente sconsigliato nei pazienti anziani130. Il prolungato monitoraggio a
cui è stata sottoposta in Canada131, la revisione critica della FDA con successiva reintroduzione nel mercato USA, gli eccellenti risultati riportati
dall’UKPDS132, i recenti studi comprovanti efficacia e sicurezza anche in diabetici anziani133-134, hanno finalmente restituito alla metformina il ruolo terapeutico di spicco che meritava.
Non essendo un insulino-secretore, non è necessario somministrare la metformina prima dei pasti; anzi, può essere utile assumerla dopo il pasto per ridurre gli effetti gastro-intestinali (soprattutto dolori addominali e diarrea) che
provoca nel 4-6% dei casi.
In pazienti anziani è possibile iniziare il trattamento con un’unica dose di 8501000 mg al momento di coricarsi, che consente generalmente un efficace
controllo della glicemia basale, minimizzando il rischio di episodi ipoglicemici
notturni135. Se necessario, si possono aggiungere ulteriori somministrazioni a
colazione e pranzo, ricorrendo eventualmente a formulazioni che contengono
associazioni precostituite con una sulfonilurea, solo per favorire la compliance
di pazienti politrattati, come lo sono spesso gli anziani. Sebbene la posologia
massima consigliata sia 2000-2550 mg/die (dosaggio questo utilizzato
dall’UKPDS), anche per la metformina occorre tener presente che l’80% della
massima efficacia terapeutica si ottiene con una dose giornaliera di 1500 mg,
una dose che non dovrebbe essere mai superata in un soggetto anziano.
Utilizzando queste posologie in diabetici ultrasettantenni, con una buona funzionalità renale (creatinina < 1 mg/ml), è stato valutato se risultasse più vantaggioso conseguire un buon controllo glicemico utilizzando sulfoniluree a dosi massimali, oppure combinando metformina e sulfoniluree, entrambe a dosaggi ridotti.
Un primo studio, che ha coinvolto 84 pazienti (76 dei quali lo hanno portato a
termine) ed è durato un anno, ha inteso determinare sicurezza ed efficacia
delle due opzioni alternative135. È stato osservato che l’effetto antidiabetico è
risultato simile a quello ottenuto con le sole sulfoniluree e che l’aumento dei
livelli di acido lattico nei pazienti trattati con metformina è risultato modesto,
sempre al di sotto dei limiti della normalità. Nei diabetici trattati con metformina è stata riscontrata una riduzione del peso, ma il fatto più interessante è
stato constatare che questo fenomeno era evidente solo in pazienti anziani
con BMI >25 e non in quelli già inizialmente normopeso.
In uno studio successivo che ha coinvolto 205 pazienti (174 dei quali lo hanno
portato a termine) si è voluto confermare non solo quanto già evidenziato in
termini di efficacia e sicurezza, ma soprattutto ampliare la valutazione agli altri effetti non strettamente antidiabetici della metformina. Per quanto riguarda
il rapporto efficacia/sicurezza a parità di controllo, nel gruppo dei pazienti trattati con le sole sulfoniluree, sono stati riportati sette episodi ipoglicemici contro i due riportati nel gruppo trattato con associazione di sulfoniluree e metformina a dosaggi più bassi. Inoltre, è stata osservata, ma solo nel gruppo
trattato con metformina, una riduzione dei livelli di FFA e dell’acido urico, un
miglioramento dell’assetto lipidico (riduzione delle LDL e aumento delle HDL),
un riequilibrio del quadro emostatico (riduzione di !-TG, FP4, PAI-antigene e
attività), effetti tutti evidentemente utili in pazienti a rischio cardiovascolare,
sia perché diabetici sia perché anziani.
Questi risultati non devono, però, indurre a sottovalutare il rischio di acidosi
lattica da metformina, rischio che, pari all’ipoglicemia da insulino-secretori,
nell’anziano risulta essere particolarmente frequente, grave e prolungato in
presenza di fattori età-dipendenti quali:
• la riduzione della funzione renale, che diminuendo la clearance della
biguanide ne aumenta le possibilità di accumulo
• la riduzione della funzionalità epatica, che riduce la capacità
dell’organismo di smaltire il lattato prodotto
• la possibile presenza di gravi arteriopatie ostruttive o di insufficienza
cardiocircolatoria e/o respiratoria che, determinando ipossia tissutale,
accentuano il rischio di una iperlattacidemia.
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Se la presenza di controindicazioni (soprattutto una ridotta funzionalità renale) viene tenuta nella dovuta considerazione, la metformina risulta efficace,
utile e sicura anche in diabetici in età avanzata136-137. Perciò è da condividere
l’opinione secondo cui i pazienti da trattare con metformina debbano essere
selezionati in base ai livelli plasmatici di creatinina, piuttosto che in base alla
loro età cronologica138.
Il limite di 1.5 mg/dl di creatininemia proposto da alcuni autori anche in pazienti con più di 65 anni di età è meno condiviso giacché questi livelli, in pazienti anziani, potrebbero essere già espressione di una ridotta funzionalità
renale. Valori di creatininemia inferiori a 1.3 mg/dl o anche a 1 mg/dl sembrano più opportuni. In questo modo, nei pazienti più anziani, se si adottano limiti
bassi di creatininemia e si ricercano attentamente le altre controindicazioni
note, ci si accorge che non è possibile impiegare la metformina in circa la metà dei pazienti. In alcuni di questi casi si può valutare la possibilità di utilizzare
un’altra classe di antidiabetici ad azione insulino-sensibilizzante, i tiazolidinedioni (glitazoni) recentemente disponibili nel nostro Paese.
Il meccanismo dell’effetto ipoglicemizzante dei glitazoni è del tutto particolare,
piuttosto complesso e non ancora del tutto chiarito. Essi si legano a specifici
recettori nucleari denominati peroxisome proliferator activated receptor !
(PPAR #) che inducono l’espressione genica di proteine implicate nell’azione
insulinica a livello post-recettoriale. In particolare, aumentano la sensibilità insulina nel tessuto adiposo, muscolare e, in minor misura, al fegato139. Grazie
al loro meccanismo d’azione i glitazoni hanno un effetto ipoglicemizzante, riducono la lipolisi, aumentano la sintesi lipidica nel tessuto adiposo, diminuiscono i livelli di FFA circolanti, aumentano le HDL e sembrano ridurre la microalbuminuria, i livelli di PAI-1 e il fibrinogeno140-142.
In definitiva, i glitazoni inducono un generale miglioramento di tutte le principali manifestazioni che si associano nella sindrome metabolica.
I glitazoni determinano un aumento del numero degli adipociti e, quindi, un
aumento del peso corporeo, ma l’incremento dell’adipe risulta limitato al tessuto sottocutaneo, mentre il grasso viscerale, epatico e quello contenuto nelle
fibre muscolari tende a ridursi.
Essendo farmaci insulino-sensibilizzanti e non insulino-secretori, di per se
stessi i glitazoni non provocano ipoglicemia. Sono, però, in grado di determinare una certa ritenzione idrica che può risultare pericolosa in pazienti con ridotta funzionalità cardiaca nei quali il loro uso risulta controindicato. Anche la
loro associazione con un trattamento insulinico è controindicato perché accentua il rischio di ritenzione idrica. Analogamente sarebbe opportuno evitare
l’impiego contemporaneo di FANS dal momento che anch’essi possono dare
ritenzione idrica.
Il capostipite di questa classe di farmaci è il troglitazone, ma per la sua elevata epatotossicità è stato ritirato dal commercio negli Stati Uniti e non è mai
stato introdotto in Italia. I nuovi derivati disponibili, pioglitazone e rosiglitazone, presentano un’efficacia ipoglicemizzante superiore a quella del troglitazone e, soprattutto, non hanno mai determinato insufficienza epatica acuta o disfunzioni della funzionalità epatica. Sottoposti ad accurato monitoraggio, sono
stati osservati solo modesti incrementi delle transaminasi, con una frequenza
(rispettivamente dello 0.25 e 0.20%) paragonabile a quella osservata durante
il trattamento con placebo. Comunque, sono da evitare in pazienti con aumentati livelli di transaminasi. Inoltre, la FDA consiglia di monitorare la funzione epatica nei pazienti in terapia con pioglitazone e rosiglitazone, ogni due
mesi durate il primo anno di trattamento e meno frequentemente in seguito.
Dal momento che l’età non modifica sostanzialmente la farmacocinetica del
pioglitazone e del rosiglitazone143, essi possono rappresentare un’alternativa
alla metformina nei pazienti anziani. D’altra parte, la possibilità che i glitazoni
possano determinare un’espansione della volemia secondaria a ritenzione idrica deve, comunque, suggerire una certa prudenza quando vengono impiegati in soggetti in età avanzata
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c. Inibitori delle !-glicosidasi
Abbiamo già sottolineato come nel diabete di tipo 2 esista un’asincronia fra la
pronta elevazione post-prandiale e la lentezza del rialzo dell’insulinemia che
si determina dopo il pasto.
Una possibilità è quella, già discussa, di riprodurre un picco secretorio precoce stimolando la !-cellula con un farmaco insulino-secretore. Un’altra possibilità, non necessariamente alternativa, ma anzi potenzialmente aggiuntiva, è
quella di rallentare la digestione e l’assorbimento intestinale dei carboidrati utilizzando gli inibitori dell’"-glicosidasi.
Questa categoria di farmaci agisce riducendo l’idrolisi degli oligosaccaridi da
parte delle "-glicosidasi presenti nell’orletto a spazzola della mucosa intestinale. Ciò permette di rallentare l’assorbimento intestinale dei carboidrati complessi adattandolo al ritardo di secrezione insulinica e consente di contenere i
picchi glicemici post-prandiali144. D’altra parte avviene che una maggior quota
di carboidrati raggiunga il colon, attivando quei processi fermentativi che sono
alla base degli effetti collaterali caratteristici dei farmaci di questa classe.
L’acarbose ne è il capostipite ed è l’unico di cui ne abbiamo la disponibilità.
Sebbene il suo effetto antidiabetico sia generalmente inferiore rispetto a quel-
lo delle sulfoniluree o delle biguanidi, il suo impiego risulta particolarmente
vantaggioso nei pazienti anziani con diabete lieve-moderato e con prevalente
iperglicemia post-prandiale.
L’efficacia dell’acarbose, oltre che dal dosaggio, è condizionato dal quantitativo di carboidrati complessi che i pazienti assumono per alimentarsi: maggiore
è il quantitativo abituale dei carboidrati ingeriti con la dieta, maggiore è
l’effetto antidiabetico che determina questo trattamento.
La terapia va iniziata con bassi dosaggi (25 mg, 1 o 2 volte al giorno) per minimizzare gli effetti collaterali, aumentando poi la posologia ogni 2-3 settimane. Il dosaggio massimo consigliato è di 100 mg tre volte al giorno, con la
raccomandazione di assumere l’acarbose subito prima del pasto, perché è
necessario che esso sia presente nell’intestino contemporaneamente al cibo
per poter esplicare il suo effetto farmacologico.
Gli effetti collaterali gastro-intestinali compaiono in circa il 30% dei pazienti,
ma sono spesso di modesta entità e tendono a ridursi con il tempo, sebbene
possano risultare socialmente imbarazzanti e difficili da controllare per un
soggetto non più giovane.
In monoterapia l’acarbose non determina aumento del peso corporeo né ipoglicemie. Se si dovesse verificare un episodio ipoglicemico in corso di terapia
associata con insulino-secretori, occorre ricordarsi di somministrare glucosio
puro (o lattosio) poiché la somministrazione del comune saccarosio risulterebbe largamente vanificata dalla presenza, nell’intestino, dell’inibitore delle
"-glicosidasi.
d. Insulina
Quando il trattamento con ipoglicemizzanti orali risulta insufficiente o subentrano condizioni tali da controindicarlo, si impone il passaggio alla terapia insulinica. È difficile e arbitrario indicare a quali livelli di scompenso glicemico
sia opportuno iniziare il trattamento insulinico in un paziente anziano. Molto
dipenderà dalle sue condizioni generali, dal suo peso attuale o da una eventuale recente riduzione di peso, dalla comparsa di sintomi anche aspecifici
(malessere, astenia, segni di disidratazione non necessariamente accompagnati da polidipsia, ecc.). Indubbiamente il passaggio alla terapia insulina può
creare difficoltà sia al paziente anziano che al suo diabetologo. Infatti, i pazienti anziani possono presentare riduzione dell’acuità visiva, tremori muscolari e limitazione della mobilità articolare, tutti fattori che possono comprometterne la capacità di prepararsi la giusta dose di insulina, di miscelarla in maniera precisa e di inocularsela poi correttamente. Tutto ciò determina errori fi-
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no al 10-20% nella dose di insulina somministrata e spiega l’aumento del rischio di ipoglicemia insulinica osservato con il progredire dell’età145.
L’impiego sempre più diffuso di insuline premiscelate e l’utilizzo, nell’anziano,
di penne da insulina hanno consentito sia di ottimizzare l’accuratezza della
posologia insulinica, aumentando il compenso metabolico e riducendo il rischio delle crisi ipoglicemiche, sia di migliorare l’accettabilità del trattamento
iniettivo da parte di pazienti non più giovani146.
I modelli terapeutici sono quelli abitualmente impiegati anche nel soggetto
non anziano. È possibile iniziare con una singola somministrazione di insulina
ad azione intermedia (NPH) anche per introdurre con gradualità il paziente
anziano all’impiego di insulina. Alcuni autori propongono di collocare al mattino la monosomministrazione per ridurre il rischio di ipoglicemie notturne che
potrebbero determinarsi somministrando l’insulina prima di coricarsi, mentre
altri sostengono che la somministrazione di insulina bed-time è quella che riduce di più il rischio di ipoglicemie147. Una scelta basata su una valutazione
attenta, caso per caso, della composizione e del timing dei pasti risulterà più
opportuna di una scelta a priori.
Spesso, però, con una singola iniezione di insulina non è possibile ottenere
un buon controllo glicemico. In questi casi si può combinare l’insulina a una
terapia con ipoglicemizzanti orali a dosi sotto-massimali, sempre che essi non
siano controindicati. Infatti, recenti metanalisi indicano che la terapia combinata è più sicura ed efficace del trattamento con sola insulina148-149 rendendola particolarmente indicata proprio nei pazienti più anziani. Anche nella terapia combinata la somministrazione bed time dell’insulina NPH sembrerebbe
associarsi a un minor rischio ipoglicemico e ad un minor incremento ponderale150. L’impiego della metformina (sempre che non siano presenti controindicazioni) sembra poter determinare un ulteriore miglioramento del controllo
glicemico, riducendo nel contempo il rischio di ipoglicemie151.
Ulteriori progressi nella terapia combinata sembrano derivare dal recente impiego dell’insulina glargina al posto dell’insulina NPH152-153, anche se non sono ancora disponibili dati sui pazienti anziani. Comunque, se gli schemi di terapia combinata non risultano sufficienti a raggiungere gli obiettivi glicemici
desiderati, non si dovrà esitare a utilizzare trattamenti insulinici a dosi multiple
giornaliere. Questi risulteranno necessari nell’anziano che presenti condizioni
generali scadenti, gravi patologie intercorrenti, inappetenza, sottopeso, apporto alimentare incostante e/o imprevedibile. In questi casi sarà opportuno
somministrare boli di insulina regolare ai pasti, eventualmente impiegando
analoghi ad azione rapida, più direttamente associabili ai pasti e la cui minore
durata d’azione può rappresentare un vantaggio in pazienti defedati con no-
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tevoli rialzi glicemici post-prandiali, ma ad elevato rischio di ipoglicemia nei
periodi interprandiali.
Sebbene sia stato detto che il trattamento insulinico nell’anziano è un’arma a
doppio taglio, il rischio ipoglicemico non può diventare una scusa per un cattivo controllo glicemico. Occorrerà, invece, informare paziente e familiari sui
comportamenti da adottare per evitare, riconoscere e contrastare gli episodi
ipoglicemici, insistendo sull’opportunità dell’automonitoraggio glicemico domiciliare154-155.
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X. EDUCAZIONE TERAPEUTICA
Uno dei capisaldi del trattamento del diabete senile e delle sue complicanze è
rappresentato dall’educazione terapeutica.
Tutti i programmi di educazione terapeutica hanno la finalità di agire, comunque, sulle conoscenze e sui comportamenti di una persona in senso migliorativo o, per meglio dire, in senso unico e diretto al raggiungimento di alcuni obiettivi definiti in precedenza e considerati utili e desiderabili.
Educare, poi, una persona anziana può sembrare, da un punto di vista didattico tradizionale, controproducente o per lo meno arduo, se si considera il declino delle capacità di apprendimento e, soprattutto, la diminuzione di ogni
motivazione al cambiamento e l’oggettiva difficoltà per modificare anche minimamente le abitudini.
Per questi motivi l’intervento educativo del paziente anziano deve tener conto
di questi limiti ma deve, altresì, far parte degli interventi terapeutici dal momento che è stato ampiamente riconosciuto che proprio nel diabetico anziano
è necessario mantenere un grado elevato di autonomia nella gestione della
malattia, proprio per evitare alcune gravi complicanze o gli accidenti acuti della malattia, che nell’età avanzata diventano più rischiosi delle complicanze
croniche e per mantenere ancora nel tempo una efficace prevenzione, spesso terziaria, ma molto importante per consentire accettabili standards di qualità della vita.
L’educazione all’autogestione del diabete, cioè il processo di insegnamento ai
singoli soggetti della gestione del proprio diabete156, è sempre stata considerata una parte importante della gestione clinica dei soggetti con diabete a partire dagli anni ’30 e dal lavoro del Joslin Diabetes Center157. L’American Diabetes Association raccomanda di valutare la capacità di autogestione e le conoscenze sul diabete almeno annualmente e di fornire ed incoraggiare
l’educazione continua sul diabete158. Uno degli obiettivi relativi al diabete dello
Healthy People 2010 è di aumentare al 60%, dal livello basale del 40% del
1998, la percentuale di soggetti diabetici che ricevono una regolare educazione sul diabete159.
Gli obiettivi dell’educazione all’autogestione sono quelli di ottimizzare il compenso metabolico, prevenire le complicanze acute e croniche e ottimizzare la
qualità della vita, mantenendo i costi ad un livello accettabile160.
Vi sono delle carenze importanti nelle conoscenze e nelle capacità nel 5060% dei pazienti con diabete, specie in quelli più anziani161, e il compenso
glicemico ideale (Hba1c <7.0%) viene raggiunto in meno della metà dei soggetti con diabete di tipo 2. Questa percentuale si accentua nell’età più avan-
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zata162. È varia la letteratura specialistica sull’educazione alla gestione del
diabete e sulla sua efficacia, incluse diverse importanti rassegne quantitative
che dimostrano gli effetti positivi dell’educazione alla gestione del diabete. Da
queste si evidenzia come, nell’ultima decade, le tecniche di educazione si sono evolute163-165 e sono passate dalle presentazioni didattiche a interventi che
comportano “il potenziamento” del paziente, con la sua partecipazione e collaborazione166-167.
Di fondamentale importanza, per programmare un intervento di educazione
terapeutica, è la definizione dei bisogni reali del diabetico anziano. È probabile che molto spesso i bisogni siano mirati ed essenziali e, considerata la particolare tipologia dei pazienti, potrebbe rivelarsi un vero e proprio errore di valutazione definire un programma di informazione ed educazione troppo esteso o profondo. In questo caso i risultati potrebbero essere anche negativi e
possono far assumere una posizione di rifiuto nella gestione della malattia di
un atteggiamento attivo, perché può essere interpretato come troppo difficile
ed eccessivo rispetto alle proprie possibilità. Da qui la necessità che la valutazione dei bisogni educativi sia quanto più possibile personalizzata e realistica. Dal momento che il diabete dell’anziano si presenta con diverse modalità
a seconda l’età dell’insorgenza, del tipo di diabete, dell’evoluzione della ma-
lattia, allo stesso modo è importante personalizzare l’intervento educativo in
rapporto ai bisogni
In questo modo, ad esempio, i pazienti possono essere distinti, in base al trattamento attuato o proposto e cioè:
• dieta oppure dieta e farmaci privi di effetti ipoglicemizzanti acuti
• dieta ed ipoglicemizzanti orali insulino-secretori
• dieta ed insulina, associata o meno ad ipoglicemizzanti orali.
Un’altra distinzione può essere fatta in base alla presenza e allo stadio delle
complicanze e di altre patologie che spesso aumentano il rischio per il paziente anziano, come:
• vasculopatia periferica
• neuropatia
• retinopatia o riduzione del visus
• obesità ed alterazioni articolari con riduzione della motilità.
Un altro fattore importante è la valutazione dell’autonomia del soggetto diabetico anziano ed il suo stato psico-sociale, oltre che fisico. L’autonomia può risultare ridotta per cause psichiche o fisiche, inerenti o meno alla patologia di
base. In questi casi dovrà essere preso in considerazione il coinvolgimento
dei parenti o delle persone che assistono il diabetico anziano.
L’inserimento in un percorso educativo deve essere il più precoce possibile,
anche se possiamo prevedere risultati scarsi o parziali, per evitare che il naturale decadimento cognitivo e volitivo dell’anziano si traduca nell’affidare completamente ad altri la gestione della salute e, spesso, della vita.
Lo stato psico-fisico spesso condiziona il grado di autonomia del diabetico
anziano, al di là delle condizioni fisiche. L’ansia e la depressione, la paura
della malattia, la sensazione di decadimento fisico e psichico e spesso la rassegnazione, in soggetti peraltro ancora indipendenti, devono essere combattute e, possibilmente, rimosse proprio con i mezzi dell’informazione e
dell’educazione, con la motivazione e l’internalizzazione del locus of control
dal quale una persona non dovrebbe mai separarsi, neppure in età avanzata.
Necessariamente, all’interno di ogni “classe” devono essere individuati gli obiettivi specifici, primari e secondari, che saranno l’oggetto del programma
educativo e di verifica. Tuttavia, bisogna ricordarsi che la definizione e la delimitazione dei bisogni educativi, ma anche l’adattamento degli obiettivi educativi, non modifica la metodologia e l’approccio educativo, che deve basarsi,
da un lato, sull’aumento delle conoscenze, sulla acquisizione della manualità
e sulla modifica di alcuni comportamenti, anche se con le limitazioni già menzionate; dall’altro, sulla motivazione del paziente, sulla condivisione di obiettivi considerati utili e desiderabili e sulla verifica continua del processo.
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Tra le persone anziane vanno distinte alcune tipologie che risulteranno utili
anche per definire gli obiettivi del processo educativo.
Vi sono i diabetici che raggiungono un’età avanzata dopo molti anni di malattia. Alcuni possono presentare veri e propri deficit educativi e conoscitivi, che
devono essere rapidamente colmati. Questo caso può essere rappresentato
da chi aveva demandato ad altri il controllo e la gestione della propria malattia
(coniuge o figli) e si trova improvvisamente a vivere solo o in un ambiente che
gli offre una protezione minore.
Si possono anche presentare nuove necessità, spesso pratiche e comportamentali, dopo anni di malattia. Questo è rappresentato specialmente da diabetici di tipo 2 che, dopo aver trattato la sua patologia con farmaci orali, si
trova nella necessità di dover affrontare un trattamento insulinico, talora anche intensivo, senza i necessari requisiti conoscitivi e di manualità che rendono attuabile e sicuro lo stesso trattamento.
Infine, i casi di nuova insorgenza in età avanzata, sia di tipo 1 che 2. Abbiamo
già esaminato l’incidenza di questa casistica e questo dato sottolinea
l’importanza di una maggiore attenzione ai problemi dell’anziano diabetico,
anche in termini di informazione-educazione.
Per quanto riguarda gli obiettivi educativi abbiamo già accennato al fatto che
come vanno definiti e spesso delimitati i bisogni educativi, così devono essere adattati gli obiettivi alle particolari esigenze dei diabetici anziani. Generalmente si deve incidere meno con gli aspetti teorici e porre una maggiore attenzione su quelli pratici, privilegiando il fare e il saper fare rispetto al sapere.
Non devono essere trascurati gli aspetti comportamentali dell’educazione, ma
non si deve neppure insistere nel proporre cambiamenti la cui efficacia non
sia immediata o dimostrata ma, anzi, possono ridurre severamente la qualità
di vita percepita. Infatti, questo è il punto più delicato dal momento che è molto sottile la linea di demarcazione tra un lassismo che può essere dannoso ed
una giusta comprensione delle esigenze della persona anziana; valicare questo punto può provocare spiacevoli conseguenze. Per evitare questo rischio è
indispensabile che l’anziano sia coinvolto direttamente nella definizione degli
obiettivi da perseguire che devono essere sempre condivisi, raggiungibili e
desiderabili.
È importante, poi, particolarmente con il paziente anziano, che venga adottata la strategia dei piccoli passi, puntando al raggiungimento di manualità o atti
semplici, attendendo, prima di proseguire, il necessario consolidamento della
pratica, verificandone i risultati e, solo successivamente, riproponendo un obiettivo più avanzato.
È sempre opportuno che gli obiettivi educativi vengano esplicitati e, possibilmente, scritti in modo che ogni intervento del personale di assistenza sia univoco e adeguato e non si disperda in nozioni o informazioni del tutto inutili per
il paziente. Il programma di intervento deve essere sempre minimale ed eventuali modificazioni devono essere concordate solo dopo aver verificato che
siano stati raggiunti gli interventi minimi.
Così, per molti anziani in trattamento insulinico, può essere sufficiente
l’apprendimento e la pratica delle tecniche di somministrazione di insulina (utilizzando i sistemi più semplici, eventuali insuline già premiscelate e penne
iniettive al posto delle siringhe), alcune semplici norme dietetiche (orario e
composizione dei pasti), un autocontrollo ridotto al minimo che, però, non va
assolutamente trascurato. Ma, soprattutto, deve essere privilegiata la prevenzione terziaria, cioè degli accidenti acuti e gravi che possono sovrapporsi alle
complicanze croniche di un diabete, specie quando questo è insorto da alcuni
decenni.
Specie nell’anziano è obbligatorio almeno un programma di prevenzione delle
lesione del piede e di mantenimento del trofismo cutaneo e muscolare agli arti inferiori. Infatti, la prevenzione delle ustioni, delle infezioni, delle ferite, delle
vesciche e dei calli, è probabilmente l’intervento educativo ed informativo di
cui l’anziano può trarre i maggiori benefici.
Infine, in tutti i casi, è particolarmente importante la prevenzione delle ipoglicemie. Il primo intervento preventivo è senza dubbio di carattere clinico, mirando il trattamento alla massima protezione del paziente, anche a costo di
un controllo metabolico meno stretto. Tuttavia, il paziente deve essere sempre informato sui rischi, sulle situazioni che favoriscono le ipoglicemie (consumo di alcool, attività fisica eccessiva o incongrua) e deve essere messo in
grado di reagire correttamente, quando possibile, all’insorgenza dei primi sintomi.
Questi aspetti educazionali, specie nei pazienti con ridotte capacità, devono
sempre coinvolgere i familiari o conviventi o gli addetti alla loro assistenza.
54
55
Nell’anziano, al pari del giovane, ogni intervento educativo non può prescindere dal coinvolgimento del paziente, cioè dalla motivazione del paziente. Invece, nella pratica clinica, spesso l’anziano è considerato un soggetto con
scarsa compliance, con abitudini ormai inveterate e difficilmente modificabili,
privo di motivazioni quando non deliberatamente indifferente al suo stato di
salute.
Molto spesso, però, questi giudizi sono frutto di superficialità e di indisponibilità da parte del personale di assistenza ad investire nella persona anziana
diabetica il tempo necessario per l’informazione. È vero che spesso è difficile
da suscitare e mantenere ad alti livelli la motivazione intrinseca. Ma è anche
accertato che l’anziano si interessa e si applica di più su manovre e comportamenti in grado di determinare un beneficio immediato in termini di benessere soggettivo, mentre la prevenzione secondaria e terziaria delle complicanze
del diabete richiede spesso rinunce ed impegni che non danno un immediato
riscontro positivo. Sappiamo anche che è ancor più difficile far star meglio un
paziente asintomatico.
Ma anche se siamo consapevoli di queste difficoltà, in alcune particolari situazioni non possiamo rinunciare a motivare il diabetico per adottare metodi
impositivi o prescrittivi, pur sapendo che probabilmente i risultati saranno inferiori. Negli altri casi possiamo aumentare la motivazione estrinseca (cioè tutte
quelle piccole gratificazioni, anche verbali, cui l’anziano è molto sensibile: il
riconoscimento dei risultati ottenuti, le felicitazioni per un nuovo traguardo
raggiunto, la fiducia, l’incoraggiamento, tutti stimoli che impegnano il paziente
al raggiungimento degli obiettivi concordati) pur sapendo che sarà meno persistente e profonda di quella intrinseca, ma è spesso sufficiente per raggiungere un obiettivo utile e desiderato.
Nessun programma di intervento educativo od informativo può prescindere
dal momento della verifica dei risultati raggiunti, specialmente quando questo
viene rivolto al diabetico anziano.
Per valutazione del problema educativo o verifica si intende comunemente
quella tappa che permette di determinare se gli obiettivi definiti inizialmente
sono stati raggiunti. Si comprende, quindi, che la verifica sarà tanto più semplice quanto più la definizione degli obiettivi sarà stata precisa e realistica.
Si possono utilizzare due tipi di valutazione o verifica di un intervento educativo e possono essere adottati diversi strumenti per valutare le conoscenze acquisite dal paziente, le modifiche comportamentali, le capacità di decisione e
di esecuzione acquisite.
Nell’anziano la verifica deve essere essenzialmente pratica, valutare la correttezza delle poche manualità richieste e l’autosufficienza del paziente per gli
interventi che gli vengono richiesti.
Quindi, avrà poca importanza la valutazione delle conoscenze, mentre è estremamente importante verificare, ad esempio, col paziente lo stato dei piedi, o la capacità di somministrarsi correttamente l’insulina. Dobbiamo, infine,
ricordare che il momento della verifica diventa di per se stesso un momento
educativo se condotto correttamente insieme al paziente e se non assume
connotati di rimprovero o di ispezione. Il diabetico, specie quello anziano, impara solo per esperienza, per rilevazione e correzione degli errori. Queste rilevazioni devono essere spesso ripetute, richiedono pazienza, tolleranza e
comprensione, ma alla fine permettono al paziente di acquisire una maggiore
sicurezza ed una maggiore autonomia. E l’autonomia, per quanto possibile
sicura, è il fine ultimo dell’educazione del paziente diabetico, specie quello
anziano.
Per l’attuazione dei programmi educativi possiamo adottare quelli di cui indagini cliniche ne abbiano dimostrato l’efficacia.
Sia negli Stati Uniti che in Europa molte società di diabetologia hanno sviluppato programmi di educazione terapeutica strutturate168-169.
Indicazioni come suggerite dal “Kit di Sopravvivenza – Cinque Minuti” e dalla
lista delle Basi dell’Educazione del Paziente per i pazienti affetti da diabete di
tipo 2, sviluppate dal DESG evidenziano l’importanza del trattamento delle ipoglicemie o delle patologie intercorrenti, la prevenzione delle ulcere diabetiche agli arti inferiori e delle amputazioni, la perdita della vista, il monitoraggio,
le malattie cardiache e gli interventi sugli stile di vita.
I pazienti anziani hanno specifiche necessità per ricevere un trattamento educativo, inclusa la capacità da parte dell’educatore di insegnare. I pazienti non
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hanno bisogno solo di conoscere le cose essenziali, ma devono avere dimostrazioni pratiche ed essere motivati ad effettuare modifiche del loro comportamento. L’educazione terapeutica deve far parte degli interventi da parte delle strutture specialistiche di diabetologia, deve essere continua e deve essere
condivisa sia da parte del paziente che da tutti i componenti il team diabetologico.
Gli interventi di educazione del paziente anziano non si differenziano particolarmente da quelli sviluppati per quelli più giovani. Bisogna tener presenti però alcuni fattori quali:
• la presenza di difficoltà della vista e dell’udito
• la presenza di alterazioni cognitive o di malattia depressiva
• difficoltà della mobilità che possono limitare l’accesso alle strutture
mediche
• difficoltà della mobilità che possano limitare la possibilità di effettuare
attività fisica
• problemi articolari che possono limitare la capacità di iniettarsi
l’insulina e l’abilità a fare l’automonitoraggio della glicemia
• la presenza di punti deboli che possano alterare le finalità del trattamento educativo
• residenza in una casa di riposo
• alterate aspettative da parte degli anziani.
Gli interventi educazionali si propongono di:
• raggiungere livelli accettabili di emoglobina glicata
• raggiungere livelli normali di pressione arteriosa e dei lipidi plasmatici
• prevenire l’insorgenza di eventi cardiovascolari
• ridurre l’incidenza di eventi microvascolari
• migliorare la qualità della vita
• ridurre la sintomatologia depressiva
• prevenire il declino funzionale e la disabilità
• ridurre il numero delle crisi ipoglicemiche
• ridurre i ricoveri ospedalieri
• aumentare la conoscenza della malattia diabetica.
Non è possibile trarre delle conclusioni su un argomento così delicato qual è
l’educazione del paziente diabetico anziano. Ogni tentativo di generalizzare o
di proporre delle linee guida generali si scontrerebbe contro l’accentuata specificità della singola persona diabetica anziana che ai problemi conseguenti
alla malattia di lunga durata aggiunge i problemi derivanti dal fisiologico decadimento psicofisico e dalla situazione sociale non sempre favorevole.
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Si può solo ricordare e ribadire che è fondamentale la conoscenza del paziente e del suo ambiente e che, comunque, il paziente deve essere coinvolto
e motivato al raggiungimento di alcuni obiettivi semplici, definiti e possibili. Infine, va sempre tenuto presente che l’obiettivo generale di ogni intervento informativo o educativo deve essere la maggiore autonomia e la sicurezza del
paziente e che più l’età avanza, più diventa importante la qualità della vita rispetto ad altri parametri, per quanto clinicamente importanti.
Quello che permetterà di centrare per ogni paziente i principali bisogni educativi ed adattare alla realtà pratica l’intervento clinico è rappresentato
dall’abilità, dalla comprensione, dal senso clinico, ma soprattutto dalle doti di
comunicazione del team diabetologico
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XI. COMPLICANZE
Abbiamo più volte affermato che un comune errore circa il diabete negli anziani è quello di pensare che una iperglicemia lieve sia di solito innocua o che
la ridotta aspettativa di vita renda le conseguenze dell’iperglicemia cronica irrilevanti.
Questo presupposto è smentito dal fatto che il diabete continua ad essere
una delle maggiori cause di morbilità e mortalità negli anziani. Infatti, diversi
studi epidemiologici hanno indicato che, anche quando l’insorgenza del diabete avviene nella sesta o settima decade di vita, la sopravvivenza degli individui è ridotta170. Inoltre, la mortalità associata alle complicanze acute del
diabete, come la chetoacidosi o il coma iperosmolare, aumenta con l’età171.
Ancora, gli esiti di ictus o infarto del miocardio sono peggiori nei pazienti che
presentino iperglicemia172-173. Infine, uno scarso compenso glicemico, come
evidenziato da elevati livelli di HbA1c, è un predittore della mortalità cardiovascolare nei soggetti anziani174. L’elevata HbA1c è, inoltre, un predittore di ictus, retinopatia e sviluppo di microalbuminura175-177.
Oltre al rischio di un aumento della mortalità associata al diabete, vi è una significativa morbilità associata a questa malattia.
L’aumento della minzione può essere una causa di incontinenza urinaria, interferire con il sonno, causare disidratazione e aumentare il numero delle cadute.
Anche le alterazioni della vista, secondarie ai cambiamenti del cristallino associati all’iperglicemia può aumentare il rischio di cadute. Il timore delle cadute indurrà questi anziani a ridurre la loro mobilità.
L’iperglicemia aumenta anche l’adesione piastrinica, che potrebbe aumentare
il rischio di ictus, infarto miocardio, claudicatio intermittens e impotenza178-179.
L’iperglicemia riduce anche la tolleranza al dolore, che può condurre ad un
aumento del consumo degli analgesici180.
Diversi studi hanno dimostrato che l’iperglicemia è associata a cambiamenti
cognitivi che potrebbero interferire con la compliance; questi cambiamenti cognitivi migliorano con un miglior controllo glicemico181-183.
L’iperglicemia può anche interferire con la funzione del sistema immunitario e
può aumentare il rischio potenziale di infezioni e rallentare la guarigione delle
ferite.
I pazienti anziani potrebbero essere più vulnerabili alla maggior parte delle
complicanze correlate al diabete, dal momento che queste complicanze si
possono sviluppare in soggetti più anziani in un modo accelerato184. Questo
potrebbe essere il risultato di una omeostasi correlata all’età quando i mec-
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canismi di difesa contro la glucotossicità sono ridotti. In alternativa,
l’apparente aumento della suscettibilità dei soggetti anziani ai danni
dell’iperglicemia non controllata potrebbe essere secondario a una diagnosi
misconosciuta o ad un diabete non diagnosticato per anni prima della presentazione con una complicanza.
Il tasso di prevalenza della retinopatia nei soggetti diabetici di età superiore ai
74 anni varia tra il 25 e il 70%; l’età in sé è un predittore di retinopatia nei
diabetici anziani185. La cataratta e il glaucoma sono anche complicanze comuni in questi pazienti.
I diabetici più anziani potrebbero essere ad aumentato rischio di nefropatia,
come risultato di un aumento dell’uso di agenti nefrotossici quali gli antinfiammatori non steroidei (FANS), in aggiunta al declino, notoriamente correlato all’età, della funzione renale.
La neuropatia periferica dolorosa è anche comune in queste classi di età. In
uno studio condotto per un anno, il 76.8% dei soggetti diabetici di età compresa tra 60 e 70 anni lamentavano dolore agli arti inferiori, rispetto al solo
38.7% dei soggetti di controllo; inoltre, l’amiotrofia diabetica dolorosa e la cachessia neuropatica diabetica di solito si manifestano in pazienti anziani con il
diabete.
L’infarto miocardico, gli accidenti cerebro-vascolari e l’aumento dell’incidenza
di amputazioni nei diabetici anziani sono le maggior cause di morbilità e mortalità; anche l’insorgenza di queste complicanze sembra essere accelerata
nei pazienti più anziani186-187.
Infine, le complicanze psicosociali, che includono la depressione, l’isolamento
sociale e la povertà, sono più comuni nella popolazione anziana. La coesistenza di questi problemi psicosociali complica ulteriormente la gestione di
questi pazienti188.
A. COMPLICANZE ACUTE
Le complicanze acute possono sopraggiungere nell’arco di ore o giorni e
spesso regrediscono totalmente con un trattamento adeguato. Infatti, la loro
individuazione e la terapia tempestiva sono fondamentali per la conservazione del benessere del paziente, soprattutto nell’anziano, in cui è importante
preservare l’autonomia e un buono stato di salute.
Ovviamente, è preferibile prevenire queste complicanze e a tale scopo è fondamentale che il paziente sia istruito su come farlo. L’approccio multidisciplinare, all’educazione, alla valutazione clinica e al trattamento del diabete nei
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pazienti di ogni età, preferibilmente in regime ambulatoriale, è ormai accettato
come il modello più idoneo allo scopo.
Le complicanze acute possono essere classificate in vari modi. Quella clinica
è riportata nella tabella 16.
_____________________________________________
Metaboliche
o Ipoglicemia
o Iperglicemia persistente
o Coma iperosmolare
o Chetoacidosi diabetica
• Infezioni
o Infezioni delle vie urinarie
o Altre infezioni
• Altre
o “Auto-inflitte”
o Iatrogene
! Effetti collaterali da farmaci
! Interazioni tra farmaci
___________________________________________________
•
Tabella 16. Complicanze acute del diabete
1. METABOLICHE
- IPOGLICEMIA
La crisi ipoglicemica si ha quando il livello raggiunge valori tali da causare
due gruppi di sintomi: disturbi delle funzioni cerebrali e delle capacità cognitive (sintomi neuroglicopenici) e quelli associati al rilascio di ormoni controregolatori (sintomi adrenergici). Può prevalere l’uno o l’altro gruppo di sintomi
o possono essere presenti entrambi.
I sintomi classici possono includere debolezza, sensazione di fame, tremori,
sudorazione, offuscamento della vista, difficoltà all’articolazione della parola,
mal di testa o comportamento anomale. Può intervenire una riduzione del livello di coscienza, che può giungere fino al coma. Può verificarsi una combinazione varia di questi sintomi e il paziente può riconoscerne o meno
l’insorgenza.
Gli episodi possono verificarsi se i pasti non vengono consumati in tempo,
dopo esercizio fisico eccessivo o insolito o se viene assunta una dose errata
di ipoglicemizzanti orali o insulina. Tuttavia, l’ipoglicemia può verificarsi anche
senza alcuna evidente causa scatenante. Da sottolineare, però, che più si
migliora il controllo della glicemia, maggiori sono le probabilità che si verifichi
l’ipoglicemia189.
61
1
Figura 1. Ipoglicemia: segni, sintomi e conseguenze.
È importante che il paziente sappia riconoscere i sintomi prodromici
dell’ipoglicemia e prendere le dovute misure. Ciò comporta l’avere sempre
con sé e consumare carboidrati semplici, seguiti da carboidrati complessi, per
ripristinare i livelli della glicemia. Abbiamo già ripetutamente scritto che il paziente sia addestrato anche al riconoscimento e al trattamento tempestivo
dell’ipoglicemia, come parte integrante della terapia.
Nel diabete di vecchia data, in cui sia presente un’anormale secrezione degli
ormoni contro-regolatori e nei casi in cui il calo della glicemia è repentino, il
paziente potrebbe non essere in grado di riconoscere e trattare questa complicanza. Da questo deriva un maggior rischio di grave morbilità a causa di
cadute o di sequele neurologiche in presenza di ipoglicemie prolungate. Lo
studio DCCT (Diabetes Control and Complications Trial)190 ha posto
l’attenzione sulla frequenza di tali episodi di ipoglicemia grave che hanno richiesto per il trattamento l’assistenza di un’altra persona.
Nella persona anziana emergono varie considerazioni in relazione allo sviluppo di una crisi ipoglicemica.
Gli anziani hanno più difficoltà a riconoscere e a reagire ad un episodio di ipoglicemia incombente191 e, perciò, sono maggiormente esposti al rischio di
danno fisico, soprattutto perché più frequentemente hanno minor equilibrio e
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soffrono di osteoporosi. Le fratture, dell’anca o del polso, o delle ferite importanti sono conseguenze abbastanza comuni di cadute associate ad una crisi
ipoglicemica.
Bisognerebbe evitare, come abbiamo già detto, l’uso di sulfoniluree che possono accumularsi, specie in presenza di insufficienza renale, favorendo
l’insorgenza di crisi ipoglicemiche gravi192. A questo proposito, oltre alla clorpropamide, che ha un’emivita di 36 ore, anche la glibenclamide andrebbe usata con cautela o addirittura sostituita con altri farmaci meno suscettibili di
causare crisi ipoglicemiche, come la gliclazide, la glipizide o meglio ancora la
repaglinide.
È opportuno istruire i pazienti ad ingerire i farmaci con i pasti; se vengono, invece, assunti ad orari regolari, mentre i pasti vengono consumati o fuori orario o addirittura saltati, il paziente corre il rischio di sviluppare una crisi ipoglicemica. Questi episodi avvengono specialmente quando il pasto viene fornito
a domicilio o da parenti o da vicini di casa.
Importante è, anche, evitare interazioni tra farmaci che le persone anziane
assumono per altri problemi di salute quali ipertensione arteriosa, cardiopatia
ischemica, specie se si utilizzano le sulfoniluree, che vengono spiazzate dalle
proteine di trasporto quando l’uso è contemporaneo (tabella 17).
L’età non rappresenta assolutamente un limite all’uso dell’insulina e in molti
anziani sono in grado di migliorarne l’equilibrio glicemico. Tuttavia, è fondamentale usare prudenza nei primi tempi del suo utilizzo, iniziando con una
dose relativamente bassa e aumentandola gradualmente fino alla dose ottimale. Negli anziani, quando indicate, l’uso di insuline premiscelate può rivelarsi più agevole.
______________________________
a. Farmaci che potenziano l’azione
• Altre sulfoniluree
• Salicilati
• Sulfamidici
• Warfarin
• Fenitoina
b. Farmaci che antagonizzano
• Tiazidici
• Furosemide
• Estrogeni
• Corticosteroidi
• Popranololo
______________________________
Tabella 17. Potenziali interazioni farmacologiche con le sulfoniluree
63
- IPERGLICEMIA PERSISTENTE
L’iperglicemia può aggravarsi improvvisamente e diventare persistente in seguito ad una prescrizione inadatta o ad un’alimentazione eccessiva. Può essere scatenata da uno stress emotivo o fisico protratto, sebbene molto spesso la causa non sia immediatamente identificabile.
I pazienti devono essere informati sul fatto che, in caso di malattie intercorrenti, dovrebbero assumere perlomeno la dose solita di farmaco, di aumentare la frequenza dell’autocontrollo e di consultare un medico se la malattia si
protrae. Il controllo del diabete in caso di malattia è un elemento su cui il paziente va istruito frequentemente e correttamente, in relazione alle “capacità
di sopravvivenza”. Anche in questo caso emergono delle considerazioni particolari in relazione al paziente anziano.
Ad esempio, bisogna porre attenzione al fatto che gli anziani tollerano meno
bene i livelli elevati di glicemia ed è più esposto a malattie intercorrenti che
predispongono all’iperglicemia.
Gli anziani con un’elevata soglia renale per il glucosio non sempre presentano poliuria. Possono essere anche meno sensibili allo stimolo della sete o
degli altri sintomi “classici” dell’iperglicemia. Nell’anziano, l’iperglicemia persistente può manifestarsi attraverso sintomi non specifici, come la letargia, i
quali potrebbero essere erroneamente attribuiti all’invecchiamento. Questo
spiega il bisogno di un ulteriore impegno nell’individuazione dell’iperglicemia
attraverso il monitoraggio della glicemia. L’assenza di sintomi potrebbe indurre il soggetto a ritenere che il suo diabete sia ben controllato, esponendolo
pertanto al rischio di infezione o di sequele più gravi. Questo spiega anche
perché la valutazione della glicosuria è inadatta a monitorare il diabete nel
paziente di questa età.
La nicturia, l’incontinenza e il peggioramento del prostatismo nell’uomo, sono
conseguenze fastidiose dell’iperglicemia protratta. Questi problemi spesso
impediscono al paziente di autogestirsi. Sebbene vi siano molteplici fattori
che contribuiscono a questi sintomi, l’iperglicemia è un problema reversibile
che andrebbe individuato e corretto laddove presente.
La perdita di peso e lo scarso compenso glicemico nei diabetici anziani di
vecchia data e precedentemente ben controllato dovrebbe indurre a sospettare un fallimento secondario degli ipoglicemizzanti orali. Generalmente il
problema si presenta dopo vari anni di questo tipo di trattamento e riflette una
progressiva insufficienza delle !-cellule pancreatiche, per cui le sulfoniluree
diventano inefficaci. Spesso è sufficiente cambiare il tipo di antidiabetico orale, come avviene nel 40-50% dei casi in cui si passa alla glipizide195. Ovviamente, è fondamentale valutare l’osservanza della dieta.
Come abbiamo già accennato, la metformina è utile quando associata ad una
sulfoniluree e può essere associata allo schema terapeutico degli anziani allorquando non siano presenti controindicazioni.
Se, nonostante il massimo dosaggio del farmaco e l’esclusione di cause reversibili, dovesse persistere un reale fallimento secondario, bisogna prevedere l’instaurazione di un trattamento insulinico.
Le cause reversibili dell’iperglicemia persistente vanno prese in esame in ogni
fascia d’età. Esse includono eccessi alimentari, infezione e stress emotivo
prolungato. In queste situazioni la dose del farmaco deve essere incrementato per mantenere un compenso glicemico ottimale. In alcuni pazienti trattati
con antidiabetici orali è necessario, come abbiamo già detto, un trattamento
con insulina.
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65
Dopo un episodio ipoglicemico bisogna sempre prendere in considerazione la
necessità di ridurre il dosaggio della sulfonilurea e/o dell’insulina.
Ma anche se bisogna essere prudenti nel prescrivere la terapia ipoglicemizzante, questo non implica l’accettazione di livelli costantemente elevati di glicemia193.
Il trattamento delle ipoglicemie meno gravi non differisce da quella dei pazienti più giovani. In presenza di un paziente anziano incosciente bisogna, anzitutto, sospettare la presenza di una vasculopatia cerebrale, sebbene la possibilità di ipoglicemia vada sempre sospettata. Se, in questi casi, si ha la conferma di un valore glicemico basso, bisogna somministrare immediatamente
20 ml di glucosio al 50%, seguiti immediatamente da ulteriori 20-30 ml
nell’arco dei successivi 3-5 minuti e, poi, da una infusione endovenosa di glucosata al 5-10%, regolandosi in base alla risposta della glicemia194. Occorre
cautela circa il volume di fluidi somministrato a pazienti con insufficienza cardiocircolatoria, una patologia piuttosto comune a questa età. È indispensabile
controllare attentamente la quantità di urine emesse, la funzione respiratoria
e la pressione arteriosa. La ripresa dello stato di coscienza potrebbe essere
più lenta nell’anziano.
L’ipoglicemia causata da sulfoniluree è spesso refrattaria alla terapia, fino a
quando il farmaco non viene totalmente metabolizzato ed eliminato; ciò generalmente avviene in 24-36 ore e durante questo intervallo è necessario somministrare un’infusione endovenosa continua di glucosio.
Fanno parte dello schema terapeutico la comprensione delle cause alla base
dell’episodio e il controllo di eventuali sequele (ictus, fratture, ferite).
L’attenzione a tutti questi fattori serve a prevenire ulteriori episodi futuri.
A volte, però, non è possibile dimostrare la causa reversibile che causa il deterioramento improvviso della glicemia. Questa evenienza può indicare un vero e proprio fallimento secondario agli ipoglicemizzanti orali ed è necessaria
la terapia insulinica.
Deficienza insulinica moderata
Stress
Lipolisi soppressa
- COMA IPEROSMOLARE
L’iperglicemia grave e protratta può sfociare in un coma iperosmolare che costituisce un’emergenza medica con elevata morbilità e significativa mortalità,
che si verifica specie nei pazienti anziani196. È una condizione in cui i livelli di
insulina in circolo sono sufficienti per prevenire la chetoacidosi diabetica, ma
insufficienti per prevenire lo sviluppo di livelli di glicemia estremamente elevati.
Il coma iperosmolare è una sindrome caratterizzata da iperosmolarità plasmatica (>350 mOsm/L), iperglicemia di grado elevato senza chetoacidosi,
ipernatriemia con disidratazione di entità tale da condurre ad alterazioni metaboliche incompatibili con l’integrità morfologica e funzionale delle cellule.
Questa varietà di coma diabetico in genere è appannaggio del diabete di tipo
2, è più frequente nel sesso femminile che in quello maschile, ma può presentarsi anche senza perdita di coscienza, per cui si parla anche di sindrome197-200.
Compare in soggetti che in precedenza non hanno presentato alcun segno o
sintomo di diabete, oppure in soggetti con un diabete di lieve gravità trattato
con antidiabetici orali o con la sola dieta.
Colpisce di preferenza le persone anziane che molto spesso presentano anche alterazioni della funzione renale (90% di alcune casistiche) e cardiocircolatorie (30%).
Fisiopatologia delle alterazioni umorali
Tra i fattori scatenanti l’elemento decisivo è la disidratazione che può essere
legata a diverse cause: infezioni acute delle vie urinarie, setticemia, stato influenzale, infezioni broncopolmonari, tutti fattori in grado di alterare l’equilibrio
metabolico del diabetico (figura 2 ).
L’ipertermia, di cui è responsabile lo stato infettivo, gioca un ruolo importante
nel determinismo della disidratazione che a sua volta accentua l’ipertermia,
contribuendo così all’instaurarsi di un circolo vizioso201-202. Coma iperosmolare può comparire anche dopo interventi chirurgici maggiori come quelli
sull’apparato cardiaco203.
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Iperglicemia
Perdita renale di
sodio e diuresi
osmotica
Chetogenesi inibita
Coma
iperosmolare
Disidratazione
grave ed iperazotemia prerenale
Figura 2. Ipotesi di patogenesi del coma iperosmolare non-chetoacidosico
Altri fattori degni di nota sono il vomito, la polipnea, una sudorazione eccessiva o un accidente vascolare cerebrale o cardiaco. Molto spesso la perdita di
liquidi non è sufficientemente compensata da una adeguata assunzione degli
stessi e sovente si associa alla perdita del senso della sete molto frequente
nell’anziano.
Da non sottovalutare gli errori terapeutici che possono precipitare lo scompenso: somministrazione intempestiva di diuretici, somministrazione errata, in
un diabetico scompensato ricoverato d’urgenza, di soluzioni saline o soluzioni
ipertoniche. Da citare infine le forme in cui non si ha alcuna apparente causa
scatenante (9-10%).
La disidratazione extracellulare, indotta da tutte queste cause, aumenta
l’iperglicemia e l’iperosmolarità. Ne consegue un notevole squilibrio osmotico
tra i settori intra ed extracellulare la cui conseguenza è una disidratazione intracellulare.
Alterazioni elettrolitiche ed iperosmolarità (figura 3)
L’ipernatriemia gioca un ruolo determinante nella genesi dell’iperosmolarità.
Una poliuria osmotica indotta in un soggetto la cui condizione emodinamica è
normale porta ad eliminazione di acqua ed elettroliti. In corso di un coma iperosmolare, al contrario, se le urine sono abbondanti, ricche di glucosio e di
urea, sono paradossalmente povere di sodio e si ha perdita di acqua senza
perdita di sali.
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Figura 3
La spiegazione non è chiara e i meccanismi proposti sono diversi:
1. la diminuzione della natriuresi sarebbe in relazione all’aumento di glucosio e dell’azoto urinario, che assicurerebbero da soli il contenuto
osmotico urinario
2. alcuni Autori, partendo dalla constatazione di una natriuresi diminuita
contrastante con una kaliuresi normale o addirittura aumentata, hanno
invocato un iperaldosteronismo secondario alla ipovolemia, ma questo
fatto non ha trovato conferma nei dosaggi di laboratorio. L’ipovolemia e
la diminuzione del flusso plasmatico renale potrebbe condurre ad un
intenso riassorbimento di sodio non ormono-dipendente
3. altri Autori mettono in rapporto la diminuzione dell’eliminazione urinaria
di sodio con l’assenza di corpi chetonici che, nel coma chetoacidosico,
sono eliminati sotto forma di sale di sodio.
La pressione osmotica conseguente all’aumento della glicemia e della natriemia è sempre molto elevata. Nella pratica clinica è raro che sia misurata
con il metodo crioscopico e può invece essere agevolmente calcolata, conoscendo alcune costanti ematiche, a partire dalla seguente formula:
mOsm/l = (Na+ + K+) + glicemia/1.8 + az. ureico/2.8
Perché si possa parlare di coma iperosmolare, la pressione osmotica in un
diabetico deve superare 350 mOsm/l.
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L’iperglicemia, sempre notevole in questo tipo di coma, contribuisce sensibilmente alla genesi dell’iperosmolarità204-205 .
Le ipotesi patogenetiche sono diverse:
• eccessiva assunzione di glucosio
• aumento della neoglucogenesi conseguente a terapia steroidea
• rapida glicogenolisi legata ad attivazione catecolaminica, come avviene ad esempio in seguito ad un accidente vascolare cerebrale, a infarto miocardico, a gastroenterite acuta, a vomito grave con perdita eccessiva di acqua ed elettroliti, a trattamento emodialitico, a estese ustioni cutanee, a terapia diuretica, a pancreatite acuta emorragica, a
somministrazione di soluzione ipertonica per via parenterale (gulitolo)
in soggetti uremici.
Per quanto riguarda la mancanza di cheto-acidosi, le ipotesi patogenetiche
sono molteplici:
• una forte iperglicemia sembra potere, almeno sperimentalmente, ridurre la lipolisi e quindi la chetogenesi
• il livello di insulina, insufficiente ad impedire l’iperglicemia, è però sufficiente ad inibire la lipolisi
• l’iperglicemia di grado così elevato potrebbe condizionare da sola il
passaggio del glucosio nelle cellule in quantità tale da impedire “la fine
cellulare” e la conseguente chetogena mobilizzazione lipidica delle riserve
• secondo altri l’effetto antichetogeno sarebbe dovuto all’intervento di un
blocco della degradazione degli acidi grassi.
Fisiopatologia del coma
Per quanto riguarda le turbe neurologiche, l’iperelettrolitemia sembrerebbe il
fattore determinante.
Sperimentalmente, nell’animale, in seguito alla somministrazione rapida di soluzioni ipertoniche di sodio, si nota uno stato letargico con convulsioni.
Altro fattore che suggerisce il ruolo predominante dell’ipernatriemia nelle turbe neurologiche è, clinicamente, la sindrome da coma iperosmolare con ipernatriemia che si verifica nel lattante in seguito a disidratazione acuta.
Fattori accessori intervengono nella genesi delle turbe neurologiche:
• l’iperglicemia e l’ipernatriemia inducono delle anomalie del metabolismo cerebrale. Si tratta essenzialmente di una diminuzione della captazione di ossigeno da parte del tessuto cerebrale, una produzione di
anidride carbonica ed una liberazione di acido lattico che dimostrano
una alterazione del ciclo di Krebs
69
• l’ipovolemia
conseguente
alla
disidratazione
globale
e
l’emoconcentrazione sono responsabili di una iperviscosità che interviene anch’essa nella patogenesi delle turbe neurologiche.
Quadro clinico
Il quadro clinico è caratterizzato da due segni essenziali: il coma e la disidratazione.
Il coma insorge in maniera molto subdola. Il paziente accusa, nei giorni precedenti, dei segni generali: intensa astenia, manifestazioni intestinali (nausea,
vomito, anoressia).
Parallelamente compare poliuria con o senza polidipsia.
Il dimagramento è considerevole e insorgono turbe della coscienza, che possono presentarsi di diversa gravità: dall’obnubilamento del sensorio con confusione mentale e disorientamento temporo-spaziale, al coma vigile, al coma
profondo.
Le alterazioni della coscienza possono accompagnarsi a segni neurologici
senza valore di localizzazione: abolizione dei riflessi osteo-tendinei, rigidità
nucale, midriasi o miosi, segno di Babinsky bilaterale, convulsioni che, secondo alcuni, traducono una particolare sensibilità della corteccia cerebrale
all’iperglicemia.
La disidratazione è praticamente presente in tutti i casi clinici ed è globale,
grave, intra ed extracellulare. La partecipazione extracellulare è evidenziata
dai segni classici: la pelle sollevata conserva le pieghe, i globi oculari sono
ipotonici, la pressione arteriosa è ridotta.
La partecipazione intracellulare è costante: è obiettivabile con la secchezza
delle mucose che spesso si accompagna ad un’ipertermia di cui è la sola responsabile; più spesso è associata ad una polipnea superficiale del tipo Cheyne-Stokes, ma mai di Kussmaul.
Nella pratica clinica è difficile calcolare l’entità esatta della disidratazione, a
meno che non si disponga di un analizzatore ad impedenza per l’analisi della
composizione corporea (tipo STA/BIA). Per questo spesso la valutazione viene fatta a posteriori attraverso la misurazione della quantità di liquidi necessari per riportare il malato ad uno stato di idratazione normale. La media si aggira sui dieci litri.
Evoluzione
La mortalità è molto elevata, con valori oscillanti tra il 40 ed il 59%206.
La morte può avvenire nelle prime 24 ore dall’esordio, nonostante qualsiasi
terapia ben condotta. Si instaura uno stato di collasso cardiocircolatorio che
70
può essere attribuito in parte all’enorme disidratazione e ai disordini metabolici cellulari ed in parte al coma quale fattore scatenante di stati setticemici ed
emorragie digestive irrefrenabili. Se la morte avviene nei giorni successivi,
può persistere un obnubilamento profondo, contrastante con la normalizzazione dell’osmolarità e dell’equilibrio biologico. Questo fenomeno può essere
spiegato con il persistere della disidratazione delle cellule cerebrali e con il
collasso ventricolare causa del successivo ematoma sottodurale.
La morte può avvenire parecchie settimane dopo la guarigione clinica e biologica dei disordini metabolici. La causa di questi decessi sono molteplici:
l’età avanzata, la presenza di condizioni patologiche vascolari precedenti al
coma, la conseguenza del decubito prolungato, della disidratazione,
dell’emoconcentrazione, del collasso, tutti fattori in grado di determinare accidenti vascolari che molto spesso sono la causa diretta di morte in questi soggetti. In circa la metà dei casi, però, l’evoluzione del coma iperosmolare è favorevole. Il coma si risolve più lentamente di quello acidosico e talvolta è necessario continuare la reidratazione e il controllo accurato per 48-72 ore prima di avere dei miglioramenti.
I segni biologici si normalizzano per primi: la glicemia, gli elettroliti, infine
l’urea. Come detto precedentemente, la normalizzazione non è graduale, ma
fortemente irregolare e con notevoli fluttuazioni.
Il coma iperosmolare non comporta delle nette modificazioni del decorso del
diabete. Nella maggioranza dei casi si ottiene un buon equilibrio metabolico
sia continuando il trattamento precedente all’attacco acuto, nel caso il diabete
sia conosciuto e trattato, sia con ipoglicemizzanti orali se l’episodio è rivelatore. Molte volte si osserva una guarigione clinicamente apparente del diabete
che non necessita di alcun trattamento particolare. Comunque, nella maggior
parte dei casi, una volta risolta la fase acuta, si può sospendere la somministrazione di insulina.
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio evidenziano una glicemia molto elevata, di solito superiore a 700 mg/dl, ma che può giungere fino a più di 3000 mg/dl.
L’osmolarità plasmatica in genere è superiore a 350 mOsm/l, con un pH ematico normale. La sodiemia di solito è elevata, ma può anche essere normale o
ridotta nelle prime fasi, per passaggio di acqua negli spazi intracellulari a
quelli extracellulari, a seguito della diuresi osmotica. La potassiemia è elevata, come l’azotemia (sia per emoconcentrazione che per eventuali preesistenti alterazioni della funzionalità renale). I corpi chetonici sono normali nel san-
71
gue ed assenti nelle urine. Gli acidi liberi plasmatici hanno delle concentrazioni nettamente inferiori rispetto a quelli della CAD.
L’insulinemia sarebbe in media più elevata rispetto alla CAD.
Trattamento
La terapia deve innanzitutto mirare a correggere la disidratazione207-210. Si
deve perciò iniziare subito un’infusione di soluzione isotonica di cloruro di sodio, 500 ml nei primi 45’-60’. Se la natriemia è superiore a 155 mEq/l, infondere alla stessa velocità una soluzione ipotonica di cloruro di sodio allo
0.45%.
Sulla scorta dei dati clinici, continuare nelle ore seguenti con un litro di fisiologica nella seconda ora ed un altro ogni 2-3 ore, fino a giungere ad infondere
8-12 litri complessivamente entro 48 ore.
La terapia reidratante deve essere accompagnata dalla somministrazione di
insulina. Si inizia con un bolo di 2-5 U endovenosa, continuando con una dose di infusione endovenosa continua di 4.8 U/h. Per ottenere ciò, si fa defluire
alla velocità di 1 ml/min (20 gtt/min) una soluzione fisiologica di 500 ml, cui
siano state aggiunte 40 U di insulina pronta e 10 ml di Emagel o sangue del
paziente, per diminuire l’adsorbimento delle molecole di insulina alle pareti
del sistema di deflussione. Se, comunque, dopo un’ora la glicemia non si riduce, è bene praticare un bolo di 20 U di insulina pronta e considerare la
possibilità di una grave infezione o di interferenze farmacologiche (cortisonici,
vasoattivi).
Quando la glicemia è di circa 250 mg/dl è opportuno passare alla somministrazione di glucosio al 5% in soluzione acquosa.
Per iniziare l’infusione di potassio, si può attendere il risultato del laboratorio,
a meno che l’ECG non mostri già i segni di ipopotassiemia (figura 4). Con
una potassiemia non superiore a 5 mEq/l e non inferiore a 3.4 mEq/l si infondono 20 mEq ogni 500 ml di soluzione idratante. Se i valori sono più bassi, ne
vanno infusi 40 mEq. Per valori normali il trattamento va attuato anche in presenza di insufficienza renale, almeno per la prima infusione.
Figura 4. Quadro elettrocardiografico delle alterazioni della potassiemia
Occorre controllare frequentemente i parametri vitali ed i dati di laboratorio
più importanti: ogni ora la glicemia, ogni due ore il potassio e l’emogasanalisi.
Il paziente deve essere costantemente seguito per qualche giorno, onde evitare un nuovo squilibrio, l’insorgenza di una ipoglicemia, ipopotassiemia od
altre complicanze.
Nei pazienti in coma è opportuno l’uso del sondino naso-gastrico e del catetere vescicale, con contemporanea profilassi antibiotica.
Alcuni Autori raccomandano, infine, l’uso di eparina per la profilassi delle
tromboembolie.
- COMA CHETOACIDOSICO
Prima della scoperta dell’insulina da parte di Banting e Best nel 1921, il coma
diabetico rappresentava molto frequentemente la tappa terminale che portava
a morte il paziente diabetico. Tale sintomo neurologico è rimasto, quindi, ad
indicare quella sindrome che ora viene indicata come chetoacidosi diabetica.
Tuttavia, anche dopo la scoperta dell’insulina, la prognosi della chetoacidosi è
rimasta grave. Infatti, negli anni ’30 la mortalità era ancora molto alta, com-
72
73
presa tra il 30 ed il 50%. Successivamente, con l’avvento degli antibiotici e
con il miglioramento delle terapie con i liquidi, gli indici di mortalità sono diminuiti velocemente. Intorno agli anni ’60 gli indici erano tra l’8 ed il 15%. Da allora, nonostante i progressi avuti nel trattamento, la mortalità non si è modificata significativamente, con indici che possono variare dallo 0 al 14%.
La mortalità è più bassa nei centri altamente specializzati e più alta negli anziani, dove una mortalità del 50% ed oltre è ancora molto comune. Ciò spiega
in parte la variabilità delle percentuali di mortalità riportate nei vari centri ospedalieri. In ogni caso sono molti e diversi i fattori che influenzano la mortalità (tabella 18).
Questa deve essere distinta in potenzialmente evitabile ed inevitabile. La inevitabile comprende quei casi che si presentano con una condizione letale
(carcinoma disseminato, sepsi fulminante, infarto miocardico esteso, ictus cerebrale). Ma la maggior parte delle morti rientrano nel gruppo di quelle potenzialmente evitabili, che a loro volta possono essere suddivise in biochimiche e
cliniche. Le prime comprendono i decessi dovuti ad ipo- o iperpotassiemia,
ipoglicemia ed edema cerebrale; le seconde sono dovute ad iperidratazione,
inadeguato trattamento delle sepsi ed inondazione tracheale di materiale vomitato.
Mortalità evitabili
Biochimiche
risultante di un aumento della secrezione degli ormoni antagonisti
dell’insulina.
Deficienza insulinica
Eccesso di ormoni da stress
Non interrompere mai la somministrazione di insulina.
Aumentare la frequenza dei
controlli
Aumentare la dose di insulina
ed utilizzare l’insulina ad azione
rapida in corso di stress
Contatto precoce e frequente con
il medico
Ridurre lo stress mediante l’uso di
antibiotici ed analgesici (se appropriati)
Chetoacidosi
Disidratazione
Digiuno
Continuare ad assumere liquidi
per via orale.
Mantenere sempre l’introito calorico.
Se compare vomito chiamare il
medico.
Se più di due episodi di vomito,
chiamare il medico.
Aumentare la dose di insulina
durante lo stress.
Se è presente nausea, i liquidi sono meglio tollerati.
Figura 5. Prevenzione della chetoacidosi diabetica
Mortalità inevitabili
Cliniche
"
Ipo K
"
Iperidratazione
Si accompagnano a condizioni
"
Iper K
"
Vomito in trachea
letali (carcinomi, sepsi fulminan-
"
Ipoglicemie
"
Sepsi
ti, IMA, ictus cerebrale)
"
Edema polmonare
Una riduzione inconsulta della dose di insulina, se il paziente diabetico non
può attuare temporaneamente una dieta normale, rimane sfortunatamente un
fattore scatenante ancora molto significativo (figura 6).
Deficienza
insulinica
relativa
Tabella 18. Fattori che influenzano la mortalità
L’alta frequenza e l’alta mortalità della chetoacidosi ne rendono la prevenzione di importanza eguale, se non maggiore, a quella del trattamento stesso
(figura 5).
La frequenza della chetoacidosi diabetica è rimasta in questi anni costante,
perché un terzo dei nuovi casi rappresenta l’esordio della malattia diabetica e
anche perché alcuni fattori scatenanti non sono evitabili.
La prevenzione può spesso attuarsi facilmente trattando alcuni fattori precipitanti come le infezioni e praticando una terapia insulinica idonea. L’infezione,
come gli alti fattori scatenanti, determina uno scompenso metabolico quale
74
Eccesso di
ormoni da
stress
CHETOACIDOSI
Digiuno
Disidratazione
Figura 6. Patogenesi della chetoacidosi diabetica
75
Patogenesi
Il coma chetoacidosico rappresenta una situazione di grave scompenso metabolico causato da insulino-deficienza assoluta o relativa211-213 con iperglicemia (>300 mg/dl), depauperamento idro-elettrolitico ed acidosi (pH <7.3)
per aumento della concentrazione ematica dell’acido acetico e dell’acido !idrossibutirrico, con conseguente chetonemia e chetonuria.
La chetonemia totale è superiore a 3 mg/100 ml (5 mmol/l), mentre la chetonuria compare se la chetonemia supera i 15 mg/100 ml. I pazienti che si presentano in coma non sono più del 10-15 % e la gravità della turba della coscienza non è correlata obbligatoriamente con la gravità dell’alterazione metabolica.
La chetoacidosi diabetica nei pazienti anziani, però, non è molto frequente,
poiché si osserva in genere nel diabete di tipo 1, di cui può rappresentare
l’esordio. Circa il 30% dei giovani va incontro ad un episodio di chetoacidosi,
rispetto al 10% degli adulti214.
L’incidenza stagionale è maggiore nei mesi freddi per la frequenza delle infezioni delle vie respiratorie, e nei mesi caldi, forse per abusi alimentari accompagnati da vomito e diarrea.
Occasionalmente, la perdita di HCl con il vomito, il trattamento con bicarbonato orale e la deplezione di volume causata dalla terapia diuretica possono
causare un disturbo misto dell’equilibrio acido-base: acidosi metabolica ed alcalosi metabolica. Raramente l’alcalosi metabolica è più grave dell’acidosi
metabolica, risultandone un pH ematico alcalino. Si ha allora la cheto-alcalosi
diabetica. In letteratura ne sono stati descritti, però, pochi casi.
L’euglicemia è il risultato di un delicato rapporto tra produzione e consumo di
glucosio. L’insulina inibisce drasticamente la produzione epatica di glucosio
attraverso il controllo della gluconeogenesi e della glicogenolisi. A livello del
tessuto adiposo promuove l’entrata del glucosio nelle cellule, indirizzandole
verso la sintesi dei trigliceridi, diminuendo così il flusso verso l’esterno degli
acidi grassi. È quanto accade nella fase dell’assorbimento postprandiale che
è una fase totalmente anabolica. Man mano che diminuisce il flusso dei metaboliti dall’intestino, scendono parallelamente i tassi insulinemici, così che
tramite un aumento della glicogenolisi e della gluconeogenesi il fegato rimette
in circolo substrati energetici. A livello del tessuto adiposo si ha un incremento della lipolisi, con aumento degli acidi grassi circolanti, che vengono captati
dal fegato ed in seguito alla !-ossidazione mitocondriale, danno origine
all’acetil-CoA. Parte di questo entra nella sintesi dei corpi chetonici, il cui progenitore – l’acetoacetato – deriva dalla condensazione di due molecole di acetil-CoA. L’acetoacetato ed il suo derivato deidrogenato, il !-idrossibutirrato,
non sono metabolizzati dal fegato. Vanno quindi in circolo e sono captati dai
tessuti, il muscolo e le cellule del sistema nervoso, che li utilizzano a fini energetici. Un incremento dei corpi chetonici circolanti causa una stimolazione
insulinica ed un’inibizione della lipolisi. Attraverso questo meccanismo di feed-back non si ha mai un aumento eccessivo della chetonemia. Se si spezza
questo equilibrio delicato per mancata risposta insulinica, si ha iperglicemia
ed iperchetonemia (figura 7).
76
77
Figura 7. Fisiopatologia della chetoacidosi diabetica
L’iperglicemia provoca, una volta superata la capacità di trasporto massimo
tubulare, una diuresi osmotica con perdita di acqua ed elettroliti. Quando la
velocità di formazione dei chetoni eccede la possibilità di un loro metabolismo
da parte dei tessuti periferici, si ha iperchetonemia con chetonuria. Al pH urinario i chetoni sono completamente dissociati e devono venir escreti tamponati da basi forti, specialmente bicarbonato. L’acidosi metabolica conseguente porta spesso al vomito, con ulteriore perdita di acqua ed elettroliti. Si aggrava così il danno metabolico con insufficienza circolatoria, vasodilatazione
periferica e tossicità cardiaca diretta.
Durante la CAD ed anche nel diabete senza acidosi, i livelli di glucagone sono aumentati. La sua attività lipolitica, come quella glicogenolitica e gluconeogenetica, è ben documentata; per questo alcuni Autori hanno sostenuto
che esso gioca un ruolo importante nella genesi della CAD215-216. Il glucagone, infatti, facilita la gluconeogenesi, inibendo la formazione di fruttosio 2,6 difosfato; questo composto normalmente attiva la fosfofruttochinasi (enzima glicolitico) ed inibisce la fruttosio difosfatasi (enzima gluconeogenetico). Il glucagone inibisce la glicolisi ed attiva la gluconeogenesi con risultante aumento
della glicemia.
Il trattamento continuo con somatostatina ha migliorato il controllo del diabete, pur riducendo il fabbisogno insulinico.
Altri studi hanno però suggerito che il glucagone ha un’azione iperglicemizzante solo in pazienti con un’alterata secrezione insulinica217.
La chetoacidosi, una volta che si è instaurata, non risponderebbe ad una drastica riduzione del glucagone. Il glucagone attiva anche la !-ossidazione, soprattutto a livello epatico, e svolge un ruolo fondamentale nell’indirizzare il fegato verso la sintesi dei corpi chetonici.
I fattori che condizionano un aumento della !-ossidazione degli acidi grassi
sono un aumentato flusso di acidi grassi liberi dagli adipociti al fegato, causato dalla carenza insulinica e, a livello epatico, un aumento dell’attività del trasporto mitocondriale degli acidi grassi ad opera del glucagone. Tale sistema è
rappresentato fondamentalmente dalla Carnitina Palmitolil Transferasi I e II
(CPT I e CPT II). Il glucagone riduce il fruttosio 2,6 difosfato; inibisce la fosfofruttochinasi con decremento della formazione di Acetil-CoA prima e di Malonil-CoA poi. Quest’ultimo è un inibitore competitivo della CPT I e una diminuzione della sua concentrazione attiva l’enzima. Il glucagone, inoltre, provoca
un aumento della concentrazione epatica di carnitina con la formazione di acil-carnitina ed attivazione massiccia della !-ossidazione e della chetogenesi.
Quindi, se la CAD può instaurarsi e progredire per la sola carenza insulinica,
un aumento contemporaneo assoluto o relativo della glucagonemia peggiora
lo stato metabolico, aggravando l’iperglicemia e condizionando l’aumento della !-ossidazione degli acidi grassi.
Oltre all’insulina ed al glucagone, svolgono un ruolo di rilievo anche altri ormoni tra cui le catecolamine. Queste hanno un duplice effetto sul tessuto adiposo; la loro stimolazione aumenta la captazione del glucosio ed induce la
sintesi dei trigliceridi. La stimolazione, attraverso un aumento del cAMP, induce un aumento della lipolisi con flusso di acidi grassi in circolo. In pazienti
in chetoacidosi sarebbero anche più sensibili a stimoli specifici che promuovono la secrezione di catecolamine. In effetti, sembra che vi sia un aumento
delle attività catecolaminiche man mano che lo scompenso diabetico si aggrava218. Non è chiaro se ciò abbia un’importanza determinante o non sia che
una risposta secondaria alla disidratazione ed all’acidosi.
L’ormone somatotropo è sicuramente lipolitico ed aumenta l’afflusso degli
acidi liberi circolanti. Lavori sperimentali e osservazioni in vivo hanno dimostrato un rapporto complesso fra ormone somatotropo, ormoni steroidei e
glucagone.
Clinicamente è noto che i pazienti diabetici ipofisectomizzati per retinopatia
grave instaurano la chetosi più lentamente, anche in presenza di cortisolo.
Non vi sono studi conclusivi che dimostrino chiaramente un ruolo importante
del somatotropo nella CAD, anche se in alcune casistiche i tassi plasmatici di
quest’ormone sono elevati219.
L’ACTH ha un’azione lipolitica diretta e, attraverso la stimolazione degli steroidi, inibisce il consumo periferico di glucosio ed aumenta la neoglucogenesi
epatica.
78
79
In conclusione la patogenesi del CAD può essere riassunta come segue:
• una grave carenza di insulina e le alterazioni ormonali correlate causano l’attivazione delle lipasi del tessuto adiposo
• si ha come conseguenza l’idrolisi dei trigliceridi con rilascio nel circolo
plasmatici di grandi quantità di acidi grassi non esterificati (NEFA)
• i NEFA giungono al fegato, dove un eccesso di glucagone ed una
marcata carenza insulinica provocano un metabolismo alterato
• i NEFA vengono, infatti, captati in grandi quantità dai mitocondri, attraverso l’attivazione della CAT I
• i mitocondri epatici trasformano i NEFA in corpi chetonici, invece di ossidarli a CO2 o stoccarli sotto forma di trigliceridi, come avviene in presenza di livelli normali di insulina e glucagone
• la chetosi risultante consiste primariamente nell’aumento di acido !idrossibitirrico ed acetoacetico che, essendo due acidi organici forti,
portano ad uno stato acidotico dell’intero organismo.
Cause scatenanti
Le cause scatenanti della CAD sono molteplici e spesso concomitanti220.
Esse sono le infezioni, stati patologici concomitanti, farmaci ed errori terapeutici, compresi gli abusi dietetici221.
Tra le infezioni, le flogosi delle vie aeree superiori per la loro diffusione e le
infezioni delle vie urinarie, per la frequenza con la quale si sviluppano nel
diabetico, specie se anziano, sono le cause di più comune riscontro. Importanti sono anche la colecistite e la pancreatite, spesso associate all’alcolismo.
Nella fascia di pazienti più anziani sono più frequenti anche l’infarto miocardio
e l’ictus cerebrale. Entrambe queste condizioni sono gravate da alta mortalità.
Un intervento chirurgico può sempre scompensare il diabete ed è sempre
consigliabile sottoporre il paziente all’intervento dopo adeguata preparazione;
bisogna sempre aspettarsi in tali casi un aumento del fabbisogno insulinico.
Se il paziente è in trattamento con antidiabetici orali e si prevede la sospensione dell’alimentazione orale per qualche giorno dopo l’intervento, è bene
passare ad un trattamento con un’insulina rapida.
Tra gli stati patologici concomitanti, l’ipertiroidismo e le crisi tireotossiche,
l’ipercorticolismo, il feocromocitoma, l’acromegalia, in cui c’è un’alterazione
dei recettori insulinici, sono tutti fattori segnalati come scatenanti una CAD.
Da non sottovalutare, ma ancora in discussione, è anche l’importanza dello
stress psichico che potrebbe agire tramite una stimolazione catecolaminica.
Tra i farmaci, i diuretici tiazidici diminuiscono la secrezione insulinica ed aumentano l’insulinoresistenza; i !-bloccanti diminuiscono la secrezione insulinica; seguono la dilantina e l’alcool.
Tra gli errori terapeutici, gli steroidi utilizzati in maniera inappropriata in pazienti diabetici o con ridotta tolleranza al glucosio, aumentano la resistenza
all’insulina e sono tra le cause iatrogene più frequenti. Spesso si annovera la
sospensione della terapia insulinica che il paziente decide spontaneamente,
in seguito a disturbi gastroenterici, come nausea, vomito o diarrea, senza sapere che questi possono essere i sintomi iniziali di una CAD.
Sembra che la terapia con microinfusori non determini rischi di comparsa di
CAD, dovuti al malfunzionamento della pompa, in proporzione maggiore rispetto ad una popolazione in trattamento convenzionale222.
te di una CAD, per non inviare ad un chirurgo un paziente che non deve essere operato ed anche perché tale sintomatologia significava che il quadro
metabolico va rapidamente peggiorando e che il paziente ha immediato bisogno di una cura adatta ed intensiva. Le cause della sintomatologia prevalentemente gastrointestinale non sono ben conosciute, ma potrebbe svolgere un
ruolo importante l’adinamia intestinale, con conseguente distensione che può
arrivare all’ileo paralitico da ipopotassiemia ed ipomagnesiemia. Si deve altresì tenere presente che in alcuni casi gli addomi acuti chirurgici possono
precipitare una chetoacidosi e che dunque non vanno esclusi a priori anche in
presenza di dati laboratoristici tipici di una CAD.
Sintomi
Vomito
Segni
70%
Tachicardia
Sete
55%
Ipotensione
Poliuria
40%
Disidratazione
Perdita di peso
Dolore addominale
Astenia
20%
15%
20%
Cute calda e secca
Iperventilazione
Ipotermia
Compromissione dello stato di coscienza
Tabella 19. Presentazione della chetoacidosi diabetica
Sintomatologia
Quando la causa scatenante non domina il quadro clinico, gli aspetti semiologici della chetosi (tabella 19) si manifestano con segni della disidratazione
dovuta a polipnea, poliuria, nefropatia kaliopenica.
Si osservano: sete tormentosa, lingua arida, arrossata, viso emaciato, bulbi
infossati nelle orbite ed ipotonici, cute sollevabile in pliche, ipotermia. Vi è poi
alito acetonemico, tachi-iperpnea o dispnea: il respiro di Kussmaul è un tentativo di compenso dell’acidosi metabolica attraverso l’eliminazione di CO2. Tra
le alterazioni dell’apparato digerente vi sono nausea, vomito, dolori epigastrici
ed addominali. In passato, infatti, si parlava di varietà appendicitiche, colecistitiche e coleriche. È importante riconoscere questi sintomi come facenti par-
Il soggetto in coma diabetico chetoacidosico può presentare ipotensione arteriosa sisto-diastolica (10%), tachicardia, stato di shock.
Solo il 10% dei soggetti con chetoacidosi diabetica si presenta in un vero e
proprio stato di coma, mentre il 20% non ha alcun obnubilamento della coscienza; per i restanti soggetti si può parlare di precoma. Un rapporto tra pH
liquorale e stato di coscienza è stato trovato da alcuni Autori; altri hanno invece trovato una corrispondenza tra osmolarità ed alterazioni del sensorio.
Lo stato di coscienza non è in rapporto né con la chetonemia, né con il livello
ematico degli elettroliti e degli ioni idrogeno223.
Non vi è dubbio che l’osmolarità elevata è la causa del coma. Infatti, è sempre possibile che questi pazienti, specie in età avanzata, a causa del coma e
del precoma, assumono meno liquidi, vadano incontro a disidratazione ed iperosmolarità con maggiore facilità che dei soggetti coscienti. La compromissione dello stato di coscienza può essere sorprendentemente modesta, nonostante la presenza di valori glicemici molto elevati o di una acidosi, mentre,
tra i pochi pazienti veramente in coma (meno del 15%), alcuni presentano va-
80
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lori emato-chimici poco alterati. L’educazione sanitaria, sempre più diffusa, ha
indubbiamente giocato un ruolo molto importante nel diminuire l’incidenza. Se
non si interviene prontamente ed in modo adeguato, la prognosi può essere
sfavorevole.
Lo scopo della terapia del coma chetoacidosico è il ritorno alla norma di un
quadro clinico e biochimico alterato con la minima mortalità possibile.
La sintomatologia addominale può simulare un addome acuto con difesa addominale e peritonismo.
L’eventuale mancanza di iperpiressia non aiuta molto ad escludere
un’infezione, in quanto il paziente può essere apiretico anche in presenza di
un fatto settico.
Esame clinico
Il paziente tipico si presenta con una dispnea caratterizzata da una respirazione profonda e rapida, per una fame d’aria da parte del malato. Essa è dovuta ad una stimolazione dei centri del respiro da parte dell’acidosi: è questo,
come abbiamo già detto, il respiro di Kussmaul, che può essere assente
quando l’acidosi è talmente grave da deprimere i centri del respiro. Questo
accade ad un pH inferiore a 7. L’odore dell’alito è acetonico, dolciastro, simile
a quello della frutta matura.
All’ispezione, la cute e le mucose si presentano secche, i globi oculari ipotonici, la lingua tipicamente riarsa con ragadi laterali, desquamante. Spesso il
paziente è in stato collassiale, ipoteso, tachicardico, con la cute fredda ma
rubeosica.
Esami di laboratorio
I primi dati saranno ottenuti mediante grazie all’uso di strisce reattive per il
dosaggio della glicemia e dei corpi chetonici.
Le compresse, ormai in disuso, e le strisce per il dosaggio dei corpi chetonici
reagiscono prevalentemente con l’acetoacetato, molto debolmente con
l’acetone, mentre non rilevano affatto il !-idrossibutirrato.
Normalmente il rapporto fra i due è di 1:2, ma in alcune situazioni di grave acidosi il potenziamento ossido-riduttivo della cellula epatica è spostato in senso inducente. Si ha così un aumento del !-idrossibutirrato, con conseguente
sottostima del livello dei corpi chetonici ed urinari. Instaurata la terapia insulinica, il rapporto fra i due chetoni ritorna alla norma e per un certo periodo di
tempo la reazione al nitroprussiato diventerà più intensamente positiva. Mentre il significato reale è quello di una risposta alla terapia e di un miglioramento del compenso metabolico, si avrà l’impressione di un peggioramento della
chetosi e di una terapia inadeguata. Tenendo presente questi limiti, la reazione al nitroprussiato rimane comunque di notevole ausilio diagnostico.
Equilibrio acido-base
Il quadro è quello di un’acidosi metabolica con compenso respiratorio. Il pH è
inferiore a 7.35; i bicarbonati sono meno di 15 mEq/l, la pCO2 ridotta, ridotto
pure il gap anionico. La differenza cioè fra i cationi calcolati e gli anioni è
maggiore dei normali 15 mEq/l; tale differenza è costituita dai corpi chetonici.
Emocromo
Si hanno segni dell’emoconcentrazione, con aumento dell’ematocrito. È costante anche l’aumento dei globuli bianchi, con neutrofilia anche in assenza di
infezioni. È consigliabile eseguire anche una conta delle piastrine: in presenza di una loro netta diminuzione bisogna prendere in considerazione
l’eventualità di una coagulazione intravascolare disseminata224.
Sono anche state descritte reazioni leucemoidi con un numero di globuli
bianchi superiori a 20.000.
Metabolismo proteico
L’azotemia, la creatininemia e l’uricemia sono elevate per l’aumentato catabolismo proteico, per l’emoconcentrazione e la ridotta funzione renale. In genere
82
83
Diagnosi
Una CAD va sempre sospettata in un diabetico anziano che clinicamente
presenta in maniera acuta condizioni in peggioramento o turbe della coscienza.
Una volta posto il sospetto diagnostico, la presenza di iperglicemia, chetonuria ed iperchetonemia confermerà lo squilibrio metabolico, che sarà evidenziato man mano che dati più precisi verranno confermati dal laboratorio.
Esistono dei criteri che vengono adottati e rendono più precisa ed omogenea
la diagnosi fra i vari centri. Essi sono i seguenti:
• glicemia superiore a 300 mg/dl
• presenza di glicosuria e chetonuria
• pH ematico inferiore a 7.35, con bicarbonati inferiori a 15 mEq/l
• reazione per i corpi chetonici nel plasma positiva ad una diluizione 1:2.
Riconosciuta l’utilità pratica di questi criteri, ricordiamo che spesso, però, i
quadri clinici possono essere sfumati o frusti, per cui ciascun paziente va valutato singolarmente per quanto riguarda la diagnosi e la terapia. Questo concetto di sovrapposizione fra i vari quadri clinici è stato recentemente sottolineato da varie indagini.
la creatinina è meno elevata dell’azoto ureico. Sono diminuiti gli aminoacidi
glicogenetici, mentre sono aumentati quelli chetogenetici.
Metabolismo lipidico
La dislipidemia, caratteristica del diabete, si accentua in corso di chetoacidosi; soprattutto gli acidi grassi raggiungono valori elevatissimi, tali da poter influire sugli esami di laboratorio e da rendersi visibili all’esame del fondo
dell’occhio (lipemia retinalis). Essi sono comunque i primi a rispondere alla terapia insulinica e cominciano a diminuire ancor prima della glicemia.
Alterazioni enzimatiche
Modeste alterazioni degli enzimi più comunemente dosati sono state descritte
ripetutamente. Il loro significato non è chiaro e non è rilevante la loro importanza diagnostica. Sono cospicue le alterazioni delle diastasi e della creatinfosfochinasi (CPK), spesso non legate ad alcuna lesione organica. Tenendo
presente la frequenza con cui una CAD si presenta con dolori addominali, è
comprensibile il problema di diagnostica differenziale che si è chiamati a dirimere. Solo in maniera retrospettiva si può escludere una pancreatite225.
La sintomatologia dolorosa recede, infatti, abbastanza precocemente nella
CAD non complicata. Anche il rapporto fra clearance della creatinina e delle
amilasi non si è mostrato discriminante nella diagnosi di pancreatine associata a CAD. L’aumento delle CPK, che sembrano essere di origine muscolare,
è stato messo in relazione alle alterazioni della membrana cellulare ed alla
carenza di fosforo. L’esecuzione dell’ECG permette, in genere, di escludere
la presenza di un infarto miocardio.
Elettrocardiogramma
Anche in assenza di un interessamento importante delle condizioni cardiocircolatorie è sempre utile eseguire un tracciato elettrocardiografico per documentare i segni di un’eventuale iper o ipopotassiemia. Nell’iperpotassiemia le
onde T sono aguzze e spesso più alte del complesso QRS, mentre
nell’ipopotassiemia le onde T tendono ad appiattirsi, il tratto ST può essere
sottoslivellato e spesso compare un’onda U (figura 4).
È bene anche eseguire un’emocultura ed un’urinocoltura.
Terapia
Prima di affrontare in modo dettagliato le modalità terapeutiche della CAD,
desideriamo ribadire due concetti fondamentali:
1. il paziente deve essere ospedalizzato e deve essere sempre considerato un malato grave. Quindi, deve essere curato in modo intensivo e
continuo per non andare incontro ad insuccessi terapeutici (decessi)
immotivati
84
2. deve essere sempre ricercata un’eventuale causa scatenante, senza
esservi costretti da una mancata risposta alla terapia.
Data la complessità del trattamento, conviene suddividere la terapia della
chetoacidosi in sei parti: somministrazione di liquidi, di insulina, di potassio, di
bicarbonato, impiego della somatostatina, trattamento delle complicanze (figure 8-9).
Figura 8
TRATTAMENTO
Fornire l’insulina
Deficienza
insulinica
relativa
Eccesso di
ormoni da
stress
TRATTAMENTO
Ricercare i fattori scatenanti e trattare eventualmente con antibiotici ed
antipiretici
CHETOACIDOSI
TRATTAMENTO
Fornire calorie
TRATTAMENTO
Digiuno
Disidratazione
Ricercare i fattori scatenanti e trattare eventualmente con antibiotici ed
antipiretici
Figura 9. Principi del trattamento
85
Come abbiamo già accennato, in tutti i pazienti, oltre agli esami di comune
routine, si devono determinare gli elettroliti, l’equilibrio acido-base,
l’ematocrito: in tutti i casi si effettua anche il conteggio delle piastrine.
Ogni ora vanno effettuati prelievi per la glicemia e la determinazione dei corpi
chetonici nel sangue e nelle urine. Per una costante valutazione della diuresi,
il soggetto va cateterizzato, mentre nei casi con vomito o in coma profondo si
opera un drenaggio gastrico continuo.
Liquidi ed elettroliti
La somministrazione di liquidi rappresenta il primo rimedio terapeutico, soprattutto per combattere o prevenire lo shock e per assicurare una adeguata
perfusione tissutale, specie dei reni. Infatti, i pazienti in coma chetoacidosico
si possono presentare molto disidratati e con un deficit di acqua anche superiore al 10% del peso corporeo. A volte la sola reidratazione è sufficiente a
determinare un calo della glicemia e della chetonemia poiché molti diabetici,
pur possedendo ancora riserve di insulina, non possono usufruirne per insufficiente perfusione tissutale.
Poiché la perdita di acqua (circa il 10%) è superiore a quella dei soluti (figura
10), sembrerebbe logico utilizzare per la reidratazione una soluzione ipotonica di NaCl (0.45%).
È stato, però, dimostrato che una reidratazione iniziale con soluzioni ipotoniche può indurre edema cellulare, specie del sistema nervoso centrale, per il
rapido passaggio di liquido nel compartimento intracellulare quando, riducendosi la glicemia, diminuisce bruscamente l’osmolarità sierica. Invece, una soluzione isotonica di NaCl, oltre ad essere più efficace nell’espandere il volume
circolante (poiché oltre a quella dei liquidi, produce anche una deplezione di
sodio), previene la possibilità di edema cellulare. Può derivarne una ipernatriemia, ma, se la concentrazione di sodio sale oltre 155 mEq/l, si può passare alle soluzioni di NaCl ipotoniche. Se al momento del ricovero la sodiemia è
superiore a 150 mEq/l, sarà bene iniziare direttamente con la soluzione ipotonica. A prescindere dalla iponatriemia, il rischio più grave è quello della iperidratazione e della comparsa di una insufficienza cardiaca. Nei soggetti cardiopatici anziani sarà bene eseguire un controllo continuo della pressione venosa centrale per guidare correttamente l’infusione di liquidi. Nei pazienti con
pressione arteriosa massima >80 mmHg si possono usare anche plasma
expanders senza glucosio.
In genere si somministrano 1000 ml di soluzione salina isotonica nella prima
ora, poi 1000 ml nella seconda, 500 ml nella terza e quarta, e successivamente 200 ml ogni ora fino ad un totale di 6-8 litri nelle prime 24 ore.
Insulina
L’insulina deve essere somministrata in dose sufficiente ad inibire la lipolisi,
la chetogenesi e la neoglucogenesi, e a migliorare l’utilizzazione del glucosio
e dei corpi chetonici.
Sino a non molti anni fa l’atteggiamento corrente era quello di somministrare
elevate dosi di insulina, in base alla glicemia ed alla chetonuria, con conseguenti tabelle o schemi, per via venosa e/o sottocutanea226.Questo si è protratto fino a quando una serie di indagini, che hanno affrontato razionalmente
il problema, anche da un punto di vista farmacodinamico, ha messo chiaramente in evidenza che piccole dosi di insulina sono ugualmente efficaci nel
trattamento della CAD227.
86
87
Deficienza
insulinica
Glucosio
Chetoni
Iperglicemia e
glicosuria
Acidosi
Diuresi omotica
Vomito
Deplezione dei
liquidi
Iperfusione renale
Ridotta escrezione di
glucosio, chetoni ed idrogenioni
Figura 10 . Effetti della diuresi osmotica
L’uso dell’infusione continua dell’insulina a basse dosi si basa su alcuni dati
sperimentali: la clearance dell’insulina è solo di pochi minuti e la concentrazione plasmatica che permette un effetto massimo sull’utilizzazione del glucosio varia dalle 20 alle 200 mU/l, mentre dosi ancora più basse inibiscono la
gluconeogenesi e le lipolisi.
È stato osservato che questo può essere ottenuto con dosi relativamente piccole di insulina228.
Nel soggetto normale, l’insulinemia raramente supera le 50 µU/ml e con la
prova da carico di glucosio raramente si raggiungono le 100 µU/ml. Piccoli incrementi, di sole 10-20 µU/ml oltre i valori basali, sono in grado di inibire la lipolisi e di far penetrare potassio nelle cellule. Una quantità di poco maggiore
è necessaria per inibire la neoglucogenesi. Per avere poi la massima captazione di glucosio da parte del muscolo perfuso, sono necessarie concentrazioni di insulina da 20 a 200 µU/ml. Con l’uso delle dosi tradizionali di insulina
si ottengono invece concentrazioni elevatissime, che possono determinare
addirittura un effetto paradosso sulla lipolisi, stimolato dalle catecolamine229.
Per quanto riguarda l’insulino-resistenza, è stato dimostrato che essa è presente nei pazienti in chetoacidosi diabetica. L’insulino-resistenza, di natura
pre-recettoriale o recettoriale, è dovuta ad anticorpi contro l’insulina, ad ormoni controregolatori, ad anormalità intrinseche del recettore insulinico o a
combinazione di questi fattori. È rara e può essere vinta solo con grandi
quantità di insulina. Nell’insulino-resistenza di natura post-recettoriale il legame insulinico ai recettori è normale o aumentato. Sebbene il meccanismo
coinvolto in questo tipo di resistenza sia sconosciuto, è stato ipotizzato che il
fattore patogenetico sia una deficienza nelle unità di trasporto intracellulare
del glucosio. Questo tipo di insulino-resistenza può essere superato con il
trattamento insulinico a piccole dosi.
L’insulina agisce attraverso il legame con un recettore della membrana cellulare del tessuto dell’organo bersaglio. È quindi logico che, una volta ottenuta
la saturazione dei recettori, è inutile aumentare la concentrazione dell’insulina
per avere un effetto metabolico più rapido. L’uso di dosi elevate presenta diversi svantaggi rispetto alle piccole dosi. Infatti, il rischio di avere
un’iperpotassiemia ed una ipoglicemia tardiva è maggiore. Inoltre, per la riduzione troppo rapida della glicemia, si possono avere squilibri osmotici come
l’edema cerebrale. Può aumentare la lattacidemia aggravando l’acidosi, possono diminuire la fosfatemia e la magnesemia, aumenta la secrezione degli
ormoni controinsulari.
Bisogna quindi iniettare una quantità di insulina che consenta di ridurre il rischio degli svantaggi descritti, ma che sia adeguata a ristabilire un normale
equilibrio metabolico. Per ottenere ciò è necessario anche una via di somministrazione più idonea.
Se l’insulina viene somministrata per via sottocutanea o intramuscolare, la
sua concentrazione plasmatica e la sua durata d’azione dipendono dalla velocità di assorbimento nel punto di iniezione. L’insulina iniettata per via intramuscolare ha una emivita di due ore, mentre se iniettata per via sottocutanea
è di più di quattro ore. Se si usano queste vie di somministrazione è necessario un carico iniziale. Per via intramuscolare, con un carico iniziale di 20 UI
seguito da 5 UI ogni ora, si determina una concentrazione plasmatica di 6080 µU/ml. In questo modo si evita la formazione di depositi troppo elevati.
L’uso della via sottocutanea è meno consigliabile, poiché l’inizio dell’attività
insulinica è più lento e la sua durata più lunga. Nonostante questo, alcuni Autori consigliano questa via. Questi inconvenienti non esistono quando viene
utilizzata la via endovenosa. L’infusione continua rappresenta il mezzo ideale
di somministrazione, assicurando una insulinemia costante, mentre l’effetto
residuo si esaurisce ben presto dopo che l’infusione viene interrotta.
L’inconveniente dell’adesione dell’insulina al vetro o ai materiali plastici può
essere evitato aggiungendo al mezzo di perfusione albumina e macromolecole. Presenta inconvenienti anche la somministrazione per via endovenosa
tramite boli ripetuti iniettati direttamente nel deflussore di perfusione utilizzato
per la reidratazione. In questo modo si hanno delle forti fluttuazioni
dell’insulinemia. Infatti, la concentrazione di insulina sarà inutilmente elevata
immediatamente dopo l’iniezione e tornerà rapidamente a livelli più bassi, tenendo conto che l’emivita plasmatica dell’insulina è di 4-5 minuti. Nella fase
iniziale si possono avere fenomeni di controregolazione metabolica con pericolosi effetti rimbalzo, specie a carico degli elettroliti.
Lo schema di Alberti e coll230 prevede che, dopo una dose iniziale di 2 UI di
insulina pronta endovena, si pratichi una infusione costante alla dose di circa
4.8 UI/ora. A 500 ml di soluzione isotonica si aggiungono 40 UI di insulina
pronta e 10 g di albumina umana, oppure di Emagel, per prevenire
l’adsorbimento dell’ormone alla parete.
La velocità di infusione della soluzione deve essere di 60 ml/ora. Con questo
sistema si raggiungono concentrazioni di insulina comprese tra 60 e 120
µU/ml, che rappresentano le dosi ottimali alle quali l’insulina svolge il suo ruolo sul metabolismo lipidico e glucidico e sono le concentrazioni che si ottengono con stimolanti fisiologici quali il glucosio e l’arginina.
Ogni ora vanno effettuati dei controlli della glicemia e, se dopo un’ora non si
evidenzia una riduzione, si deve praticare un bolo endovena di 20 UI e considerare l’eventualità di una grave infezione o di un’interferenza farmacologica
88
89
(per esempio con gli steroidi). La velocità di infusione dell’insulina può essere
raddoppiata se non vi è risposta entro 2 ore dall’inizio del trattamento.
Quando la glicemia si riduce a valori di circa 250 mg/dl, si sostituisce la soluzione salina isotonica con una glucosata al 5%, mentre la velocità di infusione
dell’insulina viene dimezzata. Quando sono scomparsi tutti i segni clinici e di
laboratorio della chetoacidosi (pH > 7.32, assenza di chetonuria), si sospende
la somministrazione endovenosa di insulina; il paziente viene alimentato con
piccole quantità di cibo e l’insulina viene iniettata sottocute.
Sodio e potassio
Il deficit totale dei due elettroliti può arrivare a 10 mEq/Kg e la somministrazione di sodio è importante per garantire la perfusione degli organi periferici,
mentre quella del potassio è essenziale per la funzionalità cardiaca e neuromuscolare.
Il ripristino di una normale concentrazione plasmatica di potassio è estremamente importante perché molti decessi precoci durante il trattamento della
chetoacidosi diabetica sono stati attribuiti ad aritmie cardiache.
Tutti i pazienti ricoverati in ospedale per chetoacidosi diabetica hanno una carenza cellulare di potassio, anche se la potassiemia, al momento del ricovero,
può essere aumentata, normale o diminuita. Infatti, con la somministrazione
di insulina e di liquidi, la potassiemia diminuisce, poiché il potassio penetra
nelle cellule: tanto maggiore è la dose di insulina, tanto più cospicua sarà la
diminuzione della potassiemia.
Anche la somministrazione di bicarbonato aumenta l’assunzione di potassio
da parte delle cellule, per cui, in questo caso, bisognerà dare una quota aggiuntiva di potassio.
I valori della potassiemia dovrebbero essere disponibili il più rapidamente
possibile e la somministrazione precoce del potassio trova d’accordo tutti gli
Autori.
I soggetti con ridotte concentrazioni plasmatiche di potassio al momento del
ricovero richiederanno una maggiore quantità di potassio rispetto agli altri. La
potassiemia va effettuata ogni ora dall’inizio della terapia della chetoacidosi.
Naturalmente, una terapia con potassio deve tenere conto della diuresi del
paziente e della sua funzione renale.
In pratica, se la potassiemia non è superiore a 5 mEq/l e non è inferiore a 3.4
mEq/l, si somministreranno 15-20 mEq di potassio ogni 500 ml di soluzione
reidratante e per valori più bassi se ne daranno 40 mEq.
Corretto il deficit iniziale di potassio, bisogna continuare la somministrazione
anche nelle ore e nei giorni successivi, magari per os o attraverso la dieta,
per reintegrare completamente il patrimonio corporeo. In genere si preferisce
somministrare il cloruro di potassio, anche se qualcuno preferisce il fosfato
per correggere il contemporaneo deficit di fosforo.
Bicarbonato
Sulla somministrazione o meno di alcali vi sono molte controversie. La terapia
alcalinizzante può determinare effetti dannosi con diminuzione del pH del liquor, alterata dissociazione dell’ossiemoglobina ed insufficiente liberazione di
ossigeno a livello dei tessuti, alcalosi di contraccolpo, sovraccarico di Na, ipopotassiemia. Una rapida correzione dell’acidosi determina una riduzione
della ventilazione e quindi un aumento del rapporto CO2/bicarbonato nel liquido cefalorachidiano e quindi una acidificazione paradossa di questo.
È stato prospettato che questa acidificazione del liquido cefalorachidiano
possa essere in relazione con le anomalie dello stato di coscienza. Mentre
l’acidosi metabolica tende a spostare a destra (effetto Bohr) la curva di dissociazione dell’emoglobina, la bassa concentrazione negli eritrociti di 2-3 difosfoglicerato (dovuta allo scompenso metabolico) tende a spostarla a sinistra.
Prima di ogni trattamento, queste due tendenze si annullano e la curva di dissociazione dell’emoglobina è normalmente situata ed i tessuti sono adeguatamente ossigenati.
In corso di trattamento insulinico, la normalizzazione della concentrazione
globulare di 2-3 difosfoglicerato richiede 5-7 giorni, per cui, se l’acidosi è rapidamente corretta tramite la somministrazione di bicarbonato, la curva di dissociazione dell’emoglobina si sposta a sinistra. Questo comporta un aumento
dell’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno e quindi una ridotta ossigenazione
tissutale.
La risintesi di 2-3 difosfoglicerato in corso di trattamento è limitata dalla ridotta
disponibilità di fosforo inorganico. Per questa ragione alcuni Autori hanno
suggerito l’uso di fosfati nel trattamento della chetoacidosi diabetica.
Un altro rischio derivante da una troppo rapida correzione dell’acidosi è
l’aumentata incidenza di ipopotassiemia, legata al trasporto di potassio dal liquido extracellulare nelle cellule.
Nonostante questi inconvenienti, il trattamento con bicarbonato trova indicazione nella acidosi grave. Ad un pH di circa 7.1, la stimolazione ventilatoria è
massimale: man mano che il pH scende a valori inferiori a 7.1 la ventilazione
non viene più stimolata e si può avere depressione del centro respiratorio,
oltre agli effetti negativi già menzionati sull’apparato cardiovascolare.
In conclusione, il trattamento viene istituito con un pH inferiore a 7.1 infondendo 50 o 100 mEq di bicarbonato per ogni 500 ml di soluzione reidratante,
controllando ogni due ore potassiemia ed emogasanalisi.
90
91
Somatostatina
Per la sua capacità di inibire la secrezione di una quantità di secrezioni ormoni potenzialmente diabetogene (aumento del cortisolo, del glucagone, del
somatotropo e delle catecolamine), la somatostatina è stata considerata una
sostanza da poter utilizzare a scopi terapeutici nel diabete e nella chetoacidosi. La sua efficacia è stata negata in condizioni cliniche che non sono però
completamente assimilabili alla chetoacidosi spontanea.
Nell’animale un gruppo di ricercatori ha ottenuto buoni risultati nel trattamento
della CAD conclamata con infusione continua di insulina e stomatostatina231.
Buoni risultati sono stati ottenuti anche con un trattamento combinato di insulina a piccole dosi più somatostatina, ottenendo un più rapido miglioramento
dei principali parametri metabolici232.
L’efficacia della terapia convenzionale ed il costo della somatostatina consigliano l’uso di quest’ultima solo in particolari condizioni che sono comunque
molto frequenti nelle CAD. Esse comprendono casi con grave acidosi, sospetto clinico di una pancreatite come causa scatenante, o concomitanza di
un’ulcera in fase attiva per cui sia consigliabile inibire la secrezione acida gastrica.
L’uso della somatostatina è controindicato se si sospetta un ileo paralitico.
SCHEMA DI TRATTAMENTO DI UN PAZIENTE CON CAD
Appena il paziente arriva all’osservazione (tabella 20) ed è posto il dubbio
diagnostico, occorre un rapido ed approfondito esame obiettivo per confermare la diagnosi. Pensando alle più comuni cause scatenanti, occorre eseguire
subito la glicemia, chetonemia e chetonuria. Si eseguono i più comuni esami
di routine, l’emogasanalisi e l’equilibrio acido-base, l’emocromo, l’esame colturale delle urine, l’emocoltura e un tampone naso-faringeo se si sospetta
un’infezione. Se vi è vomito ripetuto o il paziente è in coma, è conveniente
applicare un tubo di Ryle per prevenire la penetrazione nell’albero respiratorio
di materiale rigurgitato. La cateterizzazione vescicale può spesso determinare
sepsi, per cui è bene astenersi dall’eseguirla se il paziente è in grado di urinare spontaneamente. Lo stesso rischio si può correre introducendo un catetere
venoso per la determinazione della pressione venosa centrale. Se queste
manovre sono necessarie, è consigliabile la somministrazione di antibiotici ad
ampio spettro.
Liquidi
Iniziare subito un’infusione endovenosa di soluzione isotonica di cloruro di
sodio, 500 ml nei primi 45-60’. Se la natremia è superiore a 155 mEq/l, infon-
92
dere alla stessa velocità una soluzione ipotonica di cloruro di sodio allo
0.45%. Sulla scorta dei dati clinici, continuare nelle ore seguenti con un litro di
soluzione fisiologica nella seconda ora ed un altro ogni due o tre ore.
!
!
!
!
!
Problema
Edema cerebrale
Dilatazione gastrica con o senza ileo
Arresto della minzione nelle prime 4 ore
Pressione arteriosa inferiore agli 80 mmHg
Coagulazione intravascolare disseminata
!
!
!
!
!
Misura correttiva
Mannitolo e steroidi
Sondino nasogastrico ed aspirazione
Cateterizzazione
Espansori plasmatici
Eparinizzazione
Tabella 20. Aspetti problematici della gestione del CAD
Insulina
Si inizia con un bolo di 2-5 U di insulina rapida endovena, continuando con
una dose di infusione endovenosa continua di 4.8 U/h. Per ottenere ciò si fa
defluire alla velocità di 1 ml/min (20 gocce/min) una soluzione fisiologica di
500 ml, cui siano state aggiunte 40 U di insulina pronta e 10 ml di Emagel o di
sangue del paziente per diminuire l’assorbimento delle molecole di insulina
alle parete del sistema di deflussione. È raro osservare dei casi di insulinoresistenza. Comunque se dopo un’ora la glicemia non si riduce, è utile praticare un bolo di 20 U e considerare la possibilità di una grave infezione o di interferenze farmacologiche (cortisonici, vasoattivi).
Potassio
Per iniziare l’infusione di potassio si può attendere il risultato del laboratorio, a
meno che l’ECG non mostri già chiaramente i segni di ipopotassiemia. Con
una potassiemia non superiore a 5 mEq/l e non inferiore a 3.4 mEq/l, si possono infondere 20 mEq ogni 500 ml di soluzione idratante; per valori più bassi
di Kaliemia si infondono 40 mEq. Per valori normali di potassiemia, il trattamento va attuato anche in presenza di insufficienza renale, almeno per la
prima infusione. È bene ricordare che il trattamento con bicarbonato aumenta
il fabbisogno di potassio e che quindi, una volta presa la decisione di infonderlo, bisogna anche aumentare di circa 20 mEq la dose di potassio già stabilita nella terapia.
Bicarbonato
Il trattamento viene istituito se il pH è inferiore a 7.1, infondendo 50 o 100
mEq in 500 ml di soluzione isotonica, attraverso una via autonoma (per il pericolo di un sovraccarico di sodio)233.
93
Devono essere controllati frequentemente i parametri vitali e i dati di laboratorio più importanti: ogni ora la glicemia e la chetonuria, ogni due ore il potassio
e l’emogasanalisi. Se la glicemia scende al di sotto di 250 mg/dl, senza che
siano del tutto scomparsi i segni clinici e di laboratorio della chetosi, si sostituisce la soluzione fisiologica con una glucosata al 5%, dimezzando la velocità di infusione insulinica (per ottenere ciò si fa defluire alla velocità di 1 ml/min
– 20 gocce/min – una soluzione glucosata al 5% di 500 ml, cui siano state
aggiunte 20 U di insulina pronta e 10 ml di Emagel o di sangue di paziente).
Quando il paziente non ha segni di chetosi e si è completamente ripreso, viene alimentato con succhi di frutta e gli vengono somministrate 4-6 U di insulina pronta sottocute.
Il paziente deve essere costantemente controllato per qualche giorno, onde
evitare un nuovo squilibrio, ipoglicemia, ipopotassiemia od altre complicanze.
Comunque, la terapia deve essere sempre concepita per il caso singolo;
l’esistenza di un protocollo terapeutico efficace non deve esimerci dal considerare il paziente come un paziente grave, per il quale ogni sforzo terapeutico
deve essere fatto per portarlo fuori pericolo.
Complicanze
Edema cerebrale
La possibilità di comparsa di un edema cerebrale234 deve essere tenuta presente se un paziente lamenta cefalea, peggioramento della coscienza ed eventualmente papilla da stasi.
La causa dell’insorgenza di questa complicazione non è stata chiarita, anche
se sembra legata ad una repentina reidratazione con soluzioni ipotoniche,
con rapida riduzione dell’osmolarità plasmatica. Il richiamo dell’acqua nelle
cellule sarebbe condizionato dalla formazione intracellulare di molecole idrogenioniche, radicali osmoticamente attivi come il potassio o il sorbitolo, che
richiamano acqua dentro le cellule.
L’uso di un trattamento con basse dosi di insulina e di soluzioni isotoniche,
anziché ipotoniche, ha ridotto notevolmente questo rischio di complicazione.
Altra complicanza cerebrale che può insorgere durante il trattamento della
CAD è un idrocefalo interno irreversibile235.
Fenomeni tromboembolici
Il paziente diabetico ha un maggior rischio di trombosi e di embolie arteriose
per l’accresciuta coagulabilità e per le alterazioni della parete vascolare.
Questo rischio è accresciuto dall’acidosi e dall’ipoperfusione tissutale, per lesioni cellulari e per il rilascio di tromboplastina.
94
Particolare attenzione merita la coagulazione intravascolare disseminata
(CID) la cui causa non è chiara. La grave acidosi rappresenta l’aspetto principale, comune a tutti i casi segnalati, anche se può presentarsi dopo che
l’acidosi è stata corretta. Per la diagnosi è necessario eseguire una conta delle piastrine, un dosaggio del fibrinogeno e dei prodotti di degradazione della
fibrina nel plasma. Questi esami dovrebbero essere eseguiti in ogni paziente
con chetoacidosi che presenti un’alterata funzionalità polmonare e segni di
diatesi emorragica non spiegabili altrimenti, oltre ad un peggioramento della
coscienza.
Il trattamento di elezione rimane l’eparina, il cui uso profilattico nei pazienti ad
alto rischio (sepsi, grave acidosi, disidratazione marcata) deve essere tenuto
presente.
Ipoglicemia
L’ipoglicemia tardiva deve essere evitata iniziando ad infondere soluzioni glucosate quando la glicemia comincia a scendere sotto i 250 mg/dl. L’uso di
piccole dosi di insulina ha reso più lenta la discesa della glicemia e quindi più
prevedibile questa complicanza.
Ipopotassiemia
I paziente che si presentano con valori di potassiemia già bassi all’inizio, devono ricevere un idoneo apporto correttivo, tenendo presente che la contemporanea somministrazione di bicarbonato aumenta il fabbisogno di potassio. Il
monitoraggio elettrocardiografico è un valido, seppur non assoluto, mezzo di
controllo.
Edema polmonare
È dovuto ad idratazione eccessiva, soprattutto nei cardiopatici e nei pazienti
con grave insufficienza renale. È dunque opportuno, se possibile, in questi
casi monitorizzare la pressione venosa centrale.
Prognosi
La mortalità per CAD, diminuita nettamente dopo l’introduzione dell’insulina,
resta comunque intorno al 5-10% in centri specializzati e forse più alta in ambienti poco attrezzati236.
Sono cinque le ragioni per cui i pazienti potenzialmente recuperabili vanno incontro a morte:
1. mancata diagnosi, soprattutto in pazienti non riconosciuti come diabetici (coma inaugurale)
2. inadeguata condotta terapeutica nel paziente diabetico: tipica è la sospensione della terapia per nausea e vomito
3. mancanza di uno schema terapeutico semplice per il medico pratico
95
4. difficoltà di accedere al materiale di laboratorio durante il fine settimana o nei periodi di vacanza
5. inadeguata sorveglianza del paziente comatoso fra la 6a e 24a ora,
quando più frequentemente possono verificarsi ipopotassiemia e
l’ipoglicemia.
Segni prognostici infausti sono, oltre l’età, lo shock, l’insufficienza renale e la
durata del coma.
La causa scatenante può da sola condizionare la prognosi, che è severa in
caso di infarto del miocardio o di accidente cerebrovascolare. Lo stato clinico
è comunque più importante dei dati di laboratorio, per cui bisogna continuamente sorvegliare l’ammalato, pronti a far fronte, con un atteggiamento terapeutico flessibile, alle possibili evoluzioni di una chetoacidosi diabetica.
In conclusione, possiamo riassumere nei seguenti punti i vantaggi dello
schema terapeutico prospettato:
! facile preparazione delle soluzioni di partenza e semplificazione delle
operazioni successive nel sorvegliare il decorso del coma
! abbandono di formule empiriche e molto spesso aleatorie basate sulla
glicemia, glicosuria, chetonuria, chetonemia per stabilire la condotta da
tenere
! decremento costante e prevedibile della glicemia, senza brusche variazioni e con la possibilità di annullare l’effetto ipoglicemizzante
dell’insulina in pochi minuti; questo diminuisce il pericolo di ipoglicemia
immediata o tardiva e rende meno probabile la possibilità di edema cerebrale
! documentata riduzione del fabbisogno di potassio con minore rischio di
squilibrio elettrolitico.
2. INFEZIONI
Le persone anziane sono maggiormente predisposte alle infezioni, a causa di
una risposta immunitaria ridotta e la presenza del diabete scarsamente controllato ne aumenta il rischio237.
Quest’ultimo aspetto espone il paziente ad un aumentato rischio di infezioni
soprattutto cutanee e urinarie. Quando si sviluppa un’infezione, si crea un circolo vizioso in cui l’infezione causa ulteriore iperglicemia ed i livelli aumentati
di glicemia prevengono la regressione rapida dell’infezione.
In presenza di malattie intercorrenti è opportuno assumere per lo meno la solita dose del farmaco e, in molti casi, di aumentarla qualora questo fosse necessario per raggiungere un controllo ottimale della glicemia che consenta la
96
guarigione dell’infezione. I pazienti trattati con antidiabetici orali talora hanno
bisogno di una temporanea terapia insulinica, fino alla risoluzione dell’evento
acuto. Un maggiore fabbisogno terapeutico si ha specialmente in presenza di
gravi affezioni polmonari o cutanee, patologie che richiedono un ricovero ospedaliero e somministrazione di antibiotici per via endovenosa. Quelle infezioni, invece, che possono essere curate e a domicilio o con antidiabetici orali, spesso richiedono solo un incremento del trattamento con antidiabetici orali
e, più raramente, dell’aggiunta di terapia insulinica.
a. Infezioni urinarie (IVU)
Le IVU nel paziente anziano sono spesso asintomatiche e andrebbero sempre ricercate tra le cause che deteriorano il controllo del diabete. L’ematuria
microscopica, la presenza di nitriti o di leucociti individuati con le strisce reattive potrebbero essere l’unica indicazione alla diagnosi in assenza dei sintomi
classici quali pollachiuria, disuria, nicturia o incontinenza. L’eventuale presenza di sintomi, a sua volta, spesso viene erroneamente attribuita al diabete mal
controllato.
È preferibile confermare la presenza dell’infezione ed isolare l’organismo responsabile con un campione d’urine prelevate nella parte centrale della minzione. La scelta del trattamento sarà determinata dalla sensibilità
all’antibiogramma e dalla funzione renale.
Eventuali anomalie strutturali delle vie urinarie o altre anomalie pelviche possono contribuire all’insorgenza di recidive. In quest’ultimo caso è necessaria
anche una valutazione urologia o ginecologica.
Bisogna porre attenzione al fatto che le IVU sono molto comune nelle patologie prostatiche e che spesso non vengono diagnosticate e curate.
b. Altre infezioni
Il diabetico anziano può sviluppare altre infezioni quali la cellulite, infezioni del
piede o della gamba (secondarie a traumi minori su una cute fragile) ed infezioni pleuropolmonari (soprattutto nella stagione invernale). Come per le IVU,
anche le altre infezioni possono essere favorite dallo scarso controllo glicemico. Per prevenire lo sviluppo delle infezioni è importante educare il paziente
ad avere estrema cura dei traumi cutanei, abrasioni o tagli anche minimi.
A questa età è sempre consigliabile l’uso del vaccino antinfluenzale per diminuire le probabilità di insorgenza di infezioni respiratorie virali che potrebbero
complicarsi secondariamente con bronchite o polmonite batterica. Come per
altri pazienti, il ricorso alla profilassi antibiotica non è generalmente necessa-
97
rio, tranne in caso di anomalie respiratorie strutturali o di cellulite ricorrente in
una regione specifica.
3. ALTRE COMPLICANZE
a. “Procurate dal paziente”
Le complicanze che i pazienti diabetici possono procurarsi inavvertitamente
sono molteplici. Non è raro che, camminando scalzi, si procurano lesioni al
piede che possono infettarsi ed evolvere in ulcera, infezione profonda o perfino osteomielite. Le probabilità sono maggiori nei pazienti affetti da complicanze croniche quali neuropatia e insufficienza vascolare periferica pertanto,
è importante l’accurata istruzione del paziente su queste evenienze.
Negli anziani i problemi acuti al piede che portano ad ulcerazioni si presentano specie in quelli che hanno dei problemi alla flessione del dorso e quindi a
tagliarsi con una buona visione le unghie dei piedi. Vanno sempre sconsigliati
rimedi quali callifughi o simili per l’autotrattamento dei problemi del piede.
Specie nei mesi invernali, vescicole o ustioni dei piedi e delle gambe possono
essere procurate dall’uso di borse per l’acqua calda o dall’eccessiva vicinanza a termosifoni, stufe o camini. Persistiamo nel sottolineare come sia essenziale che il paziente venga educato sulla prevenzione di queste gravi sequele.
È importante la presenza nel team diabetologico di un podologo per il trattamento dei problemi del piede e nell’educazione del paziente e dei loro familiari sulla cura del piede. Bisogna aumentare ulteriormente questi interventi in
presenza di diminuita sensibilità e circolazione periferica.
b. Iatrogene
L’uso di armaci è associato a possibili complicanze che vanno sempre tenute
presenti. Abbiamo già accennato alle complicanze acute, quali l’ipoglicemia,
nonché alle varie interazioni tra farmaci. Inoltre, possono verificarsi problemi
quali nausea e diarrea secondari all’assunzione di metformina o ipotensione
ortostatica secondaria a farmaci antiipertensivi.
Anche la preparazione ad alcune indagini diagnostiche, come la colonscopia
che necessita di variazione della dieta e dell’alimentazione, possono creare
dei problemi.
Le persone anziane non tollerano bene l’ipotensione ortostatica per cui qualsiasi farmaco antiipertensivo dovrebbe essere somministrato con cautela,
cominciando dal dosaggio più basso. Sia i pazienti che i familiari o conviventi
devono essere avvertiti su tutti i possibili effetti collaterali e qualsiasi variazione del dosaggio dovrebbe essere fornito al paziente per iscritto.
98
Talvolta è necessario un breve ricovero prima dell’esecuzione di alcune procedure diagnostiche sia per una migliore riuscita dell’indagine che per una
migliore riuscita dell’indagine che per un migliore monitoraggio del diabete.
Vanno utilizzati con cautela anche i mezzi di contrasto, la cui somministrazione, come ad esempio in caso di indagine urografica, dee essere preceduta da
una attenta valutazione della funzione renale.
In conclusione, possiamo fornire (tabelle 21-22) delle indicazioni riassuntive,
da tener presente per evitare l’insorgenza di problemi nel trattamento del diabetico anziano.
_____________________________________________________________
Evitare l’uso di ipoglicemizzanti orali con emivita prolungata
Assumere i farmaci ipoglicemizzanti in concomitanza con i pasti
Prestare attenzione all’interazione tra farmaci
Non somministrare in contemporanea due sulfoniluree
Attenzione alla somministrazione di dosi elevate di insulina, cercando, dove possibile, di frazionarle
! Il coma ipoglicemico da sulfoniluree è spesso refrattario al trattamento, per cui bisogna continuare il trattamento fino alla completa metabolizzazione del farmaco
! È essenziale l’educazione dei pazienti e dei conviventi all’autogestione della malattia
! Il controllo glicemico ottimale riduce il rischio di infezioni
! Le infezioni delle vie urinarie sono spesso asintomatiche
__________________________________________________________________________
!
!
!
!
!
Tabella 21. Consigli pratici per il trattamento e la prevenzione di complicanze
dei diabetici
__________________________________________________________________________
! Fornire al paziente indicazioni scritte, specie il dosaggio ei farmaci e particolarmente
in occasione delle variazioni di dosaggio
! Sebbene una iperglicemia persistente possa essere indice di fallimento secondario,
valutare la presenza di altri fattori
! L’uso protratto di corticosteroidi determina iperglicemia
! Istruire il paziente e i sui conviventi su come comportarsi in presenza di malattie concomitanti
! In caso di emergenza iperglicemia, cercare di ottenere la normalizzazione dei parameri metabolici in maniera graduale
! Avvisare i pazienti sui principali effetti collaterali dei farmaci consigliati
! Iniziare una eventuale terapia antiipertensiva in maniera graduale
! Tenere presente che la preparazione per varie procedure diagnostiche può esporre il
paziente al rischio di ipoglicemia, per cui è importante programmare in anticipo, stabilire e utilizzare protocolli appropriati.
__________________________________________________________________________
Tabella 22. Consigli utili
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B. COMPLICANZE CRONICHE
zienti in attesa di trattamento dialitico, rappresentano la prova migliore di una
base genetica per la nefropatia diabetica.
Patogenesi
L’iperglicemia protratta e persistente sembra essere la più probabile causa
delle complicanze diabetiche specifiche, agendo su tessuti geneticamente
predisposte. Questa affermazione si basa su un’enorme quantità di osservazioni cliniche e scientifiche, che si possono così riassumere:
1. le complicanze diabetiche specifiche aumentano con la durata del diabete
2. molti pazienti diabetici non presentano complicanze anche dopo molti
anni di malattia; ad esempio il 70% dei diabetici di tipo 1 non sviluppano
proteinuria e il 10% non sviluppa retinopatia
3. sebbene le complicanze si presentino contemporaneamente, questa non
è la regola; pertanto pazienti con grave retinopatia possono non presentare nefropatia o neuropatia e pazienti con grave neuropatia possono
essere esenti da altre complicanze; tuttavia pazienti con stadi avanzati
di neuropatia tendono a presentare complicanze multiple associate.
Non sono ben conosciute le cause specifiche dello sviluppo delle complicanze. Probabilmente sono responsabili alterazioni metaboliche e vascolari di
base, ma sappiamo che esse non sono specifiche e che alterazioni metaboliche possono influenzare la microcircolazione. Diventa progressivamente meno chiara l’importanza dell’ispessimento della membrana basale (considerato
alla base della “microvasculopatia”), che si verifica sia con l’invecchiamento
che con l’aumento della durata del diabete.
L’iperglicemia protratta provoca la glicazione di molte proteine. Il glucosio si
lega alle proteine principalmente sui residui di lisina. La glicazione può alterare la struttura (per esempio il collagene) e la funzione (di alcuni enzimi) delle
proteine. La deglicazione farmacologica mediante aminoguanidina si è dimostrata efficace sul danno renale dell’animale diabetico, ma non sono noti i
suoi effetti nell’uomo.
L’enzima aldoso-reduttasi è presente in molti tessuti; trasforma il glucosio
nell’alcol sorbitolo, che a sua volta è metabolizzato a fruttosio. L’attivazione di
questa via metabolica in presenza di iperglicemia conduce a deplezione tissutale di mioinositolo e riduzione dell’attività della Na+/K+ ATPasi.
Sebbene stia diventando più chiara l’importanza dei fattori genetici nello sviluppo nelle complicanze, al momento non sono stati identificati markers genetici specifici per alcuna complicanza, per cui è impossibile prevedere quali
pazienti svilupperanno problemi. Il fatto che la nefropatia tende a concentrarsi
in alcune famiglie mentre altre ne sono esenti, come evidenziato in alcuni pa-
100
Controllo del diabete e complicanze
L’importanza del controllo del diabete allo scopo di eliminare i sintomi della
malattia è fuori dubbio. L’importanza di uno stretto controllo metabolico del
diabete deve, tuttavia, essere esaminata nel contesto del rapporto tra il principale rischio che esso comporta, l’ipoglicemia, e i suoi potenziali vantaggi in
termini di prevenzione delle complicanze, specie nel paziente anziano. In
quest’ultimo, infatti, i problemi dell’ipoglicemia si aggiungono ad altre possibili
cause di perdita della coscienza e probabilmente c’è un minore spazio per la
prevenzione delle complicanze che, per la ridotta aspettativa di vita, hanno
meno probabilità di progredire, a meno che non siano già presenti all’esordio
clinico. Inoltre, quei pazienti con diabete di lunga durata, che sono stati istruiti
per decenni sull’importanza di uno stretto controllo, possono avere difficoltà
ad adattarsi a livelli più bassi di controllo necessari a ridurre i drammatici effetti dell’ipoglicemia.
Possiamo affermare, perciò, che anche un controllo buono, ma non ottimo,
della glicemia può, al limite, già determinare dei benefici:
1. eliminazione dei sintomi, specialmente nicturia, a volta incontinenza
notturna, prurito vulvare e balanite e, in particolare, miglioramento del
senso di benessere e di energia, con recupero del peso perduto
2. eliminazione della glicosuria, che è importante per accelerare il recupero in presenza di infezioni delle vie urinarie
3. possibile riduzione del dolore in pazienti con forme dolorose di neuropatia.
1. NEUROPATIA
Il danno a livello dei nervi periferici è comune nei pazienti diabetici ed aumenta con l’età. Si presenta sotto tre forme principali:
1. polineuropatia diffusa progressiva, cioè neuropatia sensitiva simmetrica associata a neuropatia autonomica
2. mononeuropatie e radiculopatie reversibili, tra cui la neuropatia motoria
prossimale (femorale), le paralisi dei nervi cranici e le neuropatie dolorose
3. paralisi da compressione, principalmente la sindrome del tunnel carpale, ma anche la compressione del nervo ulnare e raramente la paralisi
del piede.
101
Queste diverse forme di danno nervoso devono avere eziologie differenti con
una influenza variabile sia di fattori vascolari che metabolici. Questi tre gruppi
principali si comportano in maniera molto diversa, cioè, mentre la neuropatia
sensitiva simmetrica (con neuropatia autonomica) è una malattia lentamente
progressiva, le condizioni caratterizzate da radiculopatia e dolore generalmente guariscono. Quindi, è estremamente importante identificare e trattare
questi problemi238. Le paralisi da compressione sono più frequenti nei diabetici anziani rispetto ai controlli, ma non hanno caratteristiche specifiche. La più
frequente è la sindrome del tunnel carpale, che è la causa principale di dolore
alle dita ed è sempre importante diagnosticare perché facile da trattare con
un semplice intervento chirurgico in anestesia locale.
a. Neuropatia sensitiva simmetrica
La funzione nervosa declina generalmente con l’età. Questa diminuzione è
accelerata solo in alcuni diabetici, ma non in tutti, e conduce allo sviluppo di
una neuropatia sensitiva simmetrica. Non è noto perché alcuni pazienti sviluppano questa complicanza ed altri ne sono risparmiati. Ma se uno stretto
controllo del diabete ritarda la riduzione della funzionalità nervosa nei pazienti
giovani di tipo 1, non è noto se lo stesso vale per i pazienti di tipo 2 anziani.
Questo tipo di neuropatia è molto frequente nei diabetici anziani, sia di nuova
diagnosi che con diabete di lunga durata. Generalmente è asintomatica e
questo può essere particolarmente grave quando l’interessamento selettivo
delle piccole fibre conduce alla perdita della sensibilità termica e dolorifica,
lasciando relativamente intatte le altre funzioni239. La mancanza di sintomi
rappresenta un rischio in agguato per le potenziali lesioni del piede non riconosciute, che sono la manifestazione più frequente di neuropatia sensitiva.
Alcuni pazienti sono consapevoli della loro neuropatia. I sintomi includono parestesie alle dita degli arti inferiori che, con il miglioramento del controllo del
diabete, possono scomparire, ma a volte possono persistere. L’intorpidimento
(e a volte la sensazione di freddo) può essere evidente e i pazienti lamentano
la sensazione di camminare sulla bambagia.
b. Neuropatia autonomica
Anche la funzione autonomica declina con l’età, allo stesso modo di come la
conduzione nervosa periferica rallenta progressivamente nel corso della vita.
Il deterioramento delle funzioni neurologiche è accelerato nel diabete, sebbene questo declino non sia uniforme. Pertanto, in alcuni pazienti si differenzia
poco dal non diabetico, mentre in altri è accelerato al punto da condurre ad
una grave neuropatia autonomica sintomatica, che a sua volta è associata ad
102
una elevata mortalità240. La neuropatia autonomica sintomatica è sorprendentemente rara se si confronta con il reperto estremamente frequente di anormalità dei test di funzionalità autonomica che possono essere riscontrate in
gran parte della popolazione diabetica. Inoltre, è molto rara nella popolazione
anziana e nella maggior parte dei casi sono altre le spiegazioni per i vari quadri clinici attribuiti alla neuropatia autonomica (tabella 23).
Non ci soffermeremo sulla descrizione approfondita della neuropatia autonomica, ma daremo accenni solo su quanto avviene specificatamente nella popolazione anziana.
L’ipotensione posturale non è rara nella popolazione diabetica, con una diminuzione di oltre 30 mmHg della pressione arteriosa sistolica con il passaggio
all’ortostatismo, fenomeno che aumenta nella popolazione anziana. Il sintomo
principale è costituito dalle vertigini, che può riconoscere altre cause, per lo
più transitorie e, raramente, invalidanti con incapacità alla stazione eretta.
Devono essere, però, altre cause, quali malattie cardiovascolari e cerebrovascolari, parkinsonismo, morbo di Addison; inoltre, deve essere valutata
l’attività dei farmaci assunti dal paziente che possono determinare questo fenomeno, quali gli ipotensivi, i diuretici, i tranquillanti, gli antidepressivi e gli ipnotici.
Cardiovascolari
Sudorazione
Disfunzione erettile
Gastrointestinali
Respiratorie
Oculari
Risposte neuroendocrine
Sindromi cliniche
Ipotensione posturale
Tachicardia
Sudorazione gustativa
Impotenza
Vescica neurogena
Diarrea
Gastroparesi
Arresti
Morte improvvisa (?)
Altre anormalità*
Motilità esofagea
Svuotamento della colecisti
Apnea notturna (?)
Riflesso della tosse
Riflessi pupillari
Diametro pupillare
Catecolamine
Glucagone
Polipeptide pancreatico
*Tutti ridotti
Tabella 23. Manifestazioni cliniche della neuropatia autonomica
Il trattamento è necessario solo se i sintomi sono fastidiosi. Talora deve essere accettata una ipertensione supina per prevenire una ipotensione ortostati-
103
ca. Quest’ultima può peggiorare dopo lunghi periodi di allettamento, per cui i
pazienti devono essere incoraggiati a camminare. Nei casi difficili devono essere tentate altre misure quali l’elevazione della testa del letto, l’uso di calze
elastiche lunghe, l’aumento dell’introito di sale, la somministrazione di fludrocortisone, aumentando gradatamente il dosaggio da 100 a 400 µg al giorno.
Altre misure suggerite in genere non sono soddisfacenti.
I sintomi gastrointestinali, quali diarrea e vomito, nel diabetico anziano sono
raramente attribuibili a neuropatia autonomica, per cui deve essere ricercata
prima la presenza di altre cause e relativi trattamenti.
I sintomi urogenitali, quale la riduzione dello svuotamento vescicale possono
essere descritti come quadri relativamente frequenti nel diabetico anziano. I
sintomi non sono frequenti e, nell’anziano, hanno generalmente altre cause,
generalmente legati a patologia prostatica. Anche se il danno da vescica neurogena è significativo, il miglioramento del deflusso quasi sempre allevia i sintomi. Raramente l’unica soluzione è rappresentata dall’auto-cateterizzazione
intermittente o, da non preferire, permanente.
La disfunzione erettile è un sintomo frequente nel diabetico maschio, visto
che circa la metà di quelli oltre i 55 anni ne risultano affetti241, anche se talvolta il problema si presenta più precocemente. Sebbene la neuropatia giochi un
ruolo importante, la causa globalmente più frequente è probabilmente quella
vascolare e, più raramente, psicogena.
L’inizio della forma secondaria ad una neuropatia generalmente è graduale,
progredisce lentamente nel corso di mesi e l’insufficienza erettile completa si
presenta in genere due anni dopo l’inizio dei sintomi. Qualche volta è presente eiaculazione retrograda.
ciore, parestesie o fitte dolorose, ma il sintomo più caratteristico è una ipersensibilità cutanea che produce un fastidio acuto al contatto con vestiti o lenzuola. Questo determina insonnia, depressione e perdita di peso. I pazienti
sono così stressati che cercano diverse opinioni sulla loro condizione. La
perdita di peso è così marcata da essere denominata anche come cachessia
neuropatica e spesso viene presa in considerazione una diagnosi differenziale con una neoplasia. Il dolore si presenta o con una distribuzione a calza agli
arti inferiori a livelli variabili, qualche volta fino all’inguine, o con una distribuzione radicolare che interessa due o tre radici adiacenti, in genere sulla parte
inferiore del tronco. Le cosce sono colpite in casi di neuropatia femorale.
Quest’ultima patologia, descritta anche come neuropatia motoria prossimale
o amiotrofia, è caratterizzata da una atrofia di una o entrambe le cosce.
L’atrofia può essere così grave che diviene quasi impossibile salire le scale e
la gamba può piegarsi acutamente, provocando traumi da cadute. Il riflesso
patellare è assente, mentre quello della caviglia può essere normale. I pazienti spesso sono dapprima inviati ad un reumatologo con il sospetto di artrite. In queste situazioni devono essere escluse altre condizioni neurologiche,
principalmente i disturbi compressivi spinali. Il pieno recupero si ha in genere
dopo 6-12 mesi.
Talora si ha la paralisi dei nervi cranici. Quello a livello del terzo e del sesto
determinano diplopia e ha un caratteristico esordio acuto. A volte, quando è
interessato il terzo nervo, il dolore si estende dietro l’orecchio; generalmente
la pupilla non è interessata e non è presente ptosi palpebrale. È sempre necessario un esame completo ed un attento follow-up, ma generalmente si ha
un recupero completo e spontaneo in circa 3 mesi.
c. Mononeuropatie, radiculopatie e neuropatie dolorose acute
L’inizio rapido, la gravità e la possibile risoluzione di queste sindromi è in netto contrasto con la lenta progressione della neuropatia sensitiva e della neuropatia autonomica. Esse sono, a loro volta, precipitate entro poche settimane dopo l’inizio della terapia insulinica. Queste condizioni possono presentarsi ad ogni età, ma diventano più frequenti nei pazienti anziani, anche se nessuna di essa è frequente, e a volte costituiscono la presentazione clinica dello
stesso diabete. Raramente si ripresentano negli anni successivi e non sono
associate con altre complicanze classiche dl diabete.
Trattamento del dolore
La promessa che i sintomi alla fine scompariranno può aiutare il paziente durante il terribile decorso della patologia dolorosa. Il controllo del diabete dovrebbe essere ottimale e talora si dovrà fare ricorso all’insulina.
È necessario l’uso protratto di analgesici, cercando di evitare l’uso di quelli in
grado di determina assuefazione. Sono di aiuto gli antidepressivi triciclici: una
combinazione utile è l’associazione di una fenotiazina, come la flufenazina,
con nortriptilina. Può essere efficace l’uso della carbamazepina, mentre sono
dubbi i risultati che si possono ottenere con la mexiletina o la crema di capsacina. L’applicazione di una sottile pellicola adesiva (es. Opsite) può aiutare ad
alleviare il fastidio da contatto. L’uso di altri farmaci si è dimostrato finora inutile, mentre l’utilizzo di stimolatori nervosi elettrici applicati al punto del dolore
Dolore
Il dolore è a volte di notevole intensità e presenta delle caratteristiche peculiari: è protratto ed ininterrotto. Sono presenti una costante sensazione di bru-
104
105
può aiutare ed i pazienti possono essere coinvolti per svolgere un ruolo attivo
nel loro trattamento.
- Retinopatia diabetica
La retinopatia è spesso presente al momento della diagnosi di diabete nelle
persone anziane e occasionalmente è ad uno stadio così avanzato che il deterioramento della visione costituisce il sintomo di presentazione del diabete243. Alcuni dati evidenziano che, al momento della diagnosi di diabete di tipo
2, in circa il 20% dei casi è già presente una retinopatia e questa percentuale
aumenta con l’età. Questi risultati sono influenzati dalla metodologia utilizzata
per la visione del fundus e l’analisi attenta della fotografia della retina fornisce
le percentuali più alte.
La prevalenza della retinopatia aumenta con la durata del diabete, con una
tendenza per i pazienti trattati con insulina a sviluppare più retinopatia di quelli che assumono altri trattamenti. La retinopatia dopo 15 anni dalla diagnosi di
diabete è meno comune che nei pazienti con diabete di tipo 1 (insorto prima
dei 30 anni di età). La differenza è notevole per la retinopatia proliferante, con
una prevalenza nei pazienti anziani che è circa la metà di quella dei pazienti
di tipo 1 più giovani. Al contrario, la maculopatia è il più grande problema dei
pazienti con tipo 2 più anziani, sebbene non tutti gli autori confermino questa
osservazione.
Le alterazioni più precoci sono le anomalie dei capillari: piccole aree di occlusione capillare associata ad una scarsa perfusione della retina possono
essere osservate mediante l’esame fluorangiografico. Le aree di nonperfusione aumentano in grandezza fino a che appaiono lesioni visibili. Successivamente possono svilupparsi occlusioni arteriolari e arteriose man mano
che le aree di non-perfusione continuano ad aumentare.
Le cause di queste anomalie precoci non sono al momento ben conosciute. È
presente proliferazione e, quindi, degenerazione delle cellule endoteliali.
L’occlusione capillare è associata alla scomparsa delle cellule endoteliali e le
anomalie sottostanti sono numerose.
Vi può essere un precoce aumento del flusso ematico retinico e ci sono numerose anomalie sia della coagulazione che biochimiche.
L’occlusione capillare e l’ischemia retinica determinano uno stravaso eccessivo dai capillari colpiti, come si può ben osservare con la fluorangiografia.
Quando queste alterazioni sono gravi, si può instaurare maculopatia ed edema maculare. Le aree ischemiche possono presentarsi come essudati fibrocotonosi e forniscono lo stimolo per lo sviluppo di neovasi. Non è ancora nota
la natura del fattore “angiogeno”.
Alcune osservazioni suggeriscono una rottura precoce della barriera sangueretina, che si evidenzia con lo stravaso di fluorescina nel vitreo. Un quadro
precoce del diabete può essere l’aumentato flusso ematico retinico.
Le lesioni principali di queste alterazioni precoci determinano la retinopatia
background, rappresentata da microaneurismi, essudati duri ed emorragie.
A meno che non si presentino in corrispondenza della macula o nelle strette
vicinanze, da sole difficilmente causano cecità. Dopo 20-25 anni di insorgenza del diabete, è presente nell’80-90% dei tutti i pazienti anziani di tipo 2. La
progressione di queste lesioni alle più gravi retinopatia preproliferante e proliferante avviene ad una velocità molto variabile. In alcuni casi è molto lenta,
talora di molti decenni, talora avviene più velocemente; in ogni caso non è
prevedibile la velocità di progressione. Ad accelerare la progressione possono contribuire il cattivo controllo della glicemia e dell’ipertensione arteriosa244.
I microaneurismi sono le anomalie più precoci della retinopatia diabetica.
Rappresentano piccole protuberanze o dilatazioni dei capillari retinici. Appaiono come piccoli puntini rossi; se ne osservano di più alla fluorangiografia.
Sono abnormemente permeabili, ma non pericolosi.
Gli essudati duri sono costituiti da macchie di lipidi discrete, giallastre, che
spesso si presentano ad anelli intorno agli stravasi capillari. Possono unirsi
per formare estesi fogli di essudato. Quando si sviluppano sulla macula determinano cecità.
Le emorragie appaiono come piccoli (punti) o larghe (macchie) aree rosse
sulla retina. Danneggiano la visione quando sono presenti sulla macula.
106
107
2. PATOLOGIA OCULARE
Il motivo per cui ci soffermeremo più ampiamente nella descrizione della patologia della vista nel paziente anziano è legato al fatto che la riduzione del
visus è sempre una preoccupazione, specie per questo tipo di paziente, rappresenta un problema estremamente frequente ed è altamente invalidante sia
per quanto attiene alla patologia in sé, sia per il netto peggioramento della
qualità della vita che sviluppa, specie in chi vive da solo o in comunità242.
Le cause principali di deterioramento della visione nel paziente anziano sono
o specifiche del diabete o quelle comuni al resto della popolazione anziana,
indipendentemente dalla presenza di diabete. Queste sono rappresentate da:
• retinopatia diabetica, incluso l’edema maculare
• degenerazione maculare
• glaucoma
• trombosi della vena centrale
• cataratta.
La malattia a livello della macula è una delle cause di cecità nel diabetico. È
definita come una retinopatia background con edema maculare, ha generalmente uno sviluppo insidioso e l’acutezza visiva può declinare nel corso di
mesi o anni. La comparsa di essudati duri, spesso ad anelli, vicino alla macula (maculopatia essudativa) preannuncia che la malattia può diffondersi alla
macula; quando si ha questo fenomeno l’acutezza visiva diminuisce in genere
in modo irreversibile. Probabilmente è più frequente nei pazienti di tipo 2.
L’edema maculare è un ispessimento o un rigonfiamento della porzione maculare della retina. Avviene sia in presenza di essudati duri che, meno frequentemente, in loro assenza. È molto difficile da visualizzare
all’oftalmoscopia diretta; la regione maculare appare indistinta e ha una sottile
colorazione grigia. La fluorangiografia rivela un esteso stravaso capillare. Può
progredire rapidamente tanto da richiedere un precoce riconoscimento e trattamento (fotocoagulazione laser), ma anche in questo caso la visione è a rischio.
La maculopatia ischemica corrisponde ad una distruzione dei capillari periferici, che comporta una prognosi per quanto riguarda la visione molto scadente, specialmente nell’anziano. A volte si vede molto poco all’esame diretto
alla retina e può essere necessaria la fluorangiografia per stabilire la diagnosi.
L’ischemia della retina probabilmente predispone allo sviluppo della formazione di neovasi, forse in risposta ad un fattore “angiogeno”. Le lesioni che
indicano una retina ischemica e quindi “preproliferanti” sono:
1. piccole e grandi emorragie multiple
2. essudati fibro-cotonosi (dapprima definiti come “essudati molli”) che
sono piccole aree di edema intracellulare nello strato di fibre nervose
della retina, che si sviluppano in un’area di ischemia da occlusione capillare; sono indistinte, larghe (grandezza del disco) e pallide
3. dilatazioni, anse e duplicazioni venose
4. ispessimento della parete arteriosa manifestato da due linee parallele
bianco-giallastre su entrambi i lati delle arterie
5. le IRMA (anormalità microvascolari intraretiniche) sono fini anse vascolari all’interno della retina, probabilmente rappresentanti neovascolarizzazione intraretinica
6. aspetto atrofico della retina.
In presenza di una retinopatia proliferante, la formazione di neovasi avviene
o sul disco ottico o nella periferia della retina. I neovasi del disco possono accrescersi in avanti, nel vitreo, e il rischio di emorragia vitreale è molto alto, determinando, se non trattata, cecità in circa il 30% dei casi dopo tre anni. Il ri-
schio è minore per i neovasi della periferia, sebbene spesso precedano lo sviluppo di neovasi del disco.
Possono presentarsi estese emorragie preretiniche che non sempre influenzano la visione, ma le emorragie vitreali sono più serie, causando rapidamente cecità, senza dolore e sintomi di avvertimento. Il vitreo generalmente si
schiarisce dopo alcune settimane con qualche recupero del visus, ma con il
ripetersi delle emorragie, la visione si deteriora permanentemente. La retinopatia proliferante colpisce, dopo 25 anni dall’inizio della malattia, fino al 15%
dei diabetici tipo 2 trattati con antidiabetici orali e il 30% di quelli trattati con
insulina, confrontati al 56% di quelli che hanno sviluppato un diabete di tipo 1
prima dei 30 anni di età.
Lo sviluppo di proliferazione fibrogliale, che in genere segue la formazione di
neovasi ed emorragie, conduce alla comparsa di briglie fibrose bianche che,
contraendosi, causano grave distacco della retina ed emorragia endooculare.
Quando la formazione di neovasi avviene nella camera anteriore e sull’iride
(rubeosi dell’iride) si forma una forma particolarmente dolorosa e intrattabile
di glaucoma (glaucoma neovascolare). Se fallisce il trattamento conservativo di questa condizione, talvolta, per eliminare il dolore, è necessaria
l’enucleazione del globo oculare.
Una consulenza oculistica frequente245 è indicata quando:
a. si ha un declino dell’acutezza visiva corretta dovuto a qualsiasi causa
b. si è in presenza di lesioni preproliferante
c. si ha retinopatia proliferante con o senza emorragia vitreale
d. vi sono delle lesioni che preannunciano lo sviluppo di maculopatia,
specialmente la comparsa di essudati vicino alla macula.
La prevenzione della cecità richiede un trattamento delle lesioni mediante fotocoagulazione, prima che la visione si sia deteriorata e prima che siano avvenute emorragie vitreali. Le indicazioni sono:
a. neovasi della papilla
b. neovasi periferici (meno urgenti rispetto alla presenza di neovasi papillari)
c. retinopatia essudativa, specie quando interessano la macula.
Non tutti i pazienti anziani richiedono la fotocoagulazione, la cui indicazione
deve essere valutata attentamente, dal momento che questo trattamento determina una riduzione del visus, già compromesso a questa età avanzata. Nei
pazienti in cui si è ridotto notevolmente il visus per opacamento del vitreo, si
può ottenere un beneficio con la vitrectomia.
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La prevenzione primaria della retinopatia nell’anziano è praticamente impossibile, ma l’identificazione delle cause di riduzione del visus può indirizzare ad un trattamento utile per il recupero della visione, più frequentemente
mediante estrazione della cataratta, ma anche preservando la visione con la
fotocoagulazione o trattando il glaucoma. In alternativa, sono disponibili molti
supporti visivi per quelli in cui la perdita del visus è identificata correttamente.
È cruciale un esame regolare dell’acutezza visiva. Usando un ottotipo di Snellen, dovrebbe essere registrata la migliore visione corretta, usando o le lenti
proprie del paziente o un “pin-hole” tenuto di fronte all’occhio. Sia una riduzione progressiva del visus che una visione scarsa sono indicazioni per un
accurato esame della retina e per una consulenza oculistica. Comunque, una
visita oculistica completa è indicata al momento della diagnosi e, quindi, regolarmente ad intervalli annuali o, più frequentemente, in presenza di un riscontro patologico.
Nel diabetico non compensato è frequente lo sviluppo di miopia (2-3 diottrie).
Occasionalmente è il sintomo di presentazione ed è secondario ad alterazioni
osmotiche nel cristallino.
Questa alterazione rifrattiva è reversibile dopo l’inizio della terapia insulinica
(e molto più raramente dopo l’inizio di terapia con ipoglicemizzanti orali) e i
pazienti diventano transitoriamente ipermetropi (2-3 settimane), con difficoltà
nella lettura e nella somministrazione di insulina. Visto che questo fenomeno
può mettere in ansia il paziente, è bene preavvertirlo di questo effetto quando
si inizia il trattamento normoglicemizzante. In questo periodo si possono utilizzare lenti temporanee.
L’inizio della formazione della cataratta è spesso accompagnato dallo sviluppo di miopia, mentre durante le crisi ipoglicemiche i sintomi più frequenti sono
la visione confusa e la diplopia.
La formazione della cataratta nei diabetici anziani è uno dei problemi osservati più frequentemente ed è più comune che nei non diabetici. Il rischio aumenta da tre a quattro volte nell’intervallo di età 50-64 anni rispetto ai pazienti
non diabetici, ma tende a diminuire negli anni successivi, fino ad aumentare
solo di poco dopo i 69 anni.
La cataratta si presenta sotto varie forme. Può manifestarsi come punti, fiocchi, raggi od opacità (“a fiocchi di neve”) nella regione subcapsulare della corticale del cristallino o come sclerosi nucleare in cui le opacità sono dense,
centrali e possono presentare una colorazione giallo-bruna. Non è facile predire la velocità di progressione delle opacità del cristallino. In genere è lenta e
poiché l’interferenza con la visione è generalmente tardiva e il trattamento
spesso efficace, la comunicazione del problema al paziente può essere data
con parole di ottimismo, evitando di parlare di cataratta, che può spaventare il
paziente anziano, ma descrivere il fenomeno come opacità che, quando la
cataratta diventa matura, può essere facilmente eliminata. Attualmente si effettua, spesso in regime di day-hospital, una estrazione chirurgica seguita
dall’impianto di cristallino. In genere i risultati sono buoni, tanto da evitare
l’uso delle lenti, ma talora, se l’opacità del cristallino copriva una estesa retinopatia, possono essere scarsi.
La presenza del glaucoma si ha nella popolazione diabetica come nel resto
della popolazione. Le prove di una aumentata prevalenza sono scarse e il reperto di una associazione con la neuropatia autonomica non è stato confermato. La situazione più spiacevole è data da una sua associazione con retinopatia proliferante e rubeosi dell’iride. La presenza di glaucoma generalmente significa che le pupille non devono essere dilatate per l’esame del fondo oculare.
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3. LA PATOLOGIA RENALE
La scoperta tempestiva della proteinuria è essenziale per ottimizzare il trattamento di tutti i pazienti diabetici, soprattutto negli anziani, per cui la ricerca
nelle urine dovrebbe essere effettuata ad ogni visita. La rilevazione della proteinuria deve mettere in guardia il medico nei riguardi di una serie di diagnosi
possibili, molte delle quali possono essere trattate facilmente e in maniera efficace. Queste sono l’ipertensione arteriosa, la nefropatia secondaria a diabete, l’insufficienza cardiaca o, semplicemente, un’infezione delle vie urinarie.
La proteinuria da nefropatia diabetica è associata con un rischio elevato di arteriopatia diffusa, che spesso è il problema principale e la causa frequente di
morte nei pazienti anziani, nei quali il decesso per insufficienza renale è relativamente raro. Quindi, il paziente in cui viene scoperta la proteinuria deve
essere sottoposto ad un esame clinico completo, comprendente innanzitutto
la determinazione della pressione arteriosa, la valutazione della funzionalità
renale e gli eventuali altri esami per lo studio del rene indicati in quel singolo
paziente.
La presenza di proteinuria nei pazienti diabetici è determinata da una nefropatia diabetica, specialmente se si instaura gradualmente e se è presente
una contemporanea retinopatia. Tuttavia bisogna tener presente che nel diabetico anziano è più probabile che la genesi della nefropatia non sia lo stesso
diabete, ma dovuta ad altre patologie renali, a differenza di quanto accade nei
diabetici tipo 1 più giovani. Infatti, tra i pazienti con insufficienza renale termi-
nale, un terzo di quelli con diabete tipo 2, presenta nefropatie non diabetiche
rispetto al 10% di quelli con diabete tipo 1. Le nefropatie associate sono generalmente quelle da ipertensione arteriosa e la pielonefrite, ma anche la
glomerulonefrite e altre cause meno comuni.
La prevalenza globale di proteinuria nei diabetici anziani è di circa il 15%,
sebbene queste stime varino in maniera considerevole. Spesso la sua presenza è evidenziata al momento della diagnosi di tipo 2 (a differenza di quanto avviene nel tipo 1) e arriva ad interessare circa un terzo dei pazienti con
diabete di lunga durata. Non risultano dati relativi all’incidenza annuale di proteinuria nei diabetici tipo 2, né risultano gruppi razziali indenni, mentre risulta
più frequente tra i pazienti asiatici.
La rilevazione di una proteinuria superiore a tracce nell’esame di routine delle
urine impone la determinazione della proteinuria quantitativa delle 24 ore, oltre alla determinazione della creatininemia. È indicata anche una urinocoltura
su un campione di urine prelevato dalla parte centrale della minzione. È tuttavia improbabile che una proteinuria massima sia secondaria ad una infezione
delle vie urinarie. In presenza di una proteinuria superiore a 0.5 g/24 ore si
devono effettuare ulteriori esami diagnostici.
Se la proteinuria progredisce lentamente, è associata a retinopatia e non è
riscontrabile ematuria, molto probabilmente siamo in presenza di una nefropatia diabetica. In questo caso non è consigliabile continuare con altre indagini specialistiche, ma è necessario effettuare una ecografia renale principalmente allo scopo di escludere lesioni ostruttive delle basse vie urinarie. In caso di nefropatia diabetica le dimensioni dei reni sono normali.
Quando il quadro clinico non è tipico della nefropatia diabetica, devono essere prese in considerazione altre cause, sebbene non sempre lo stabilire una
diagnosi precisa non sempre corrisponde ad un efficace trattamento specifico.
In presenza di ematuria o di un inizio improvviso della proteinuria con o senza
un quadro nefrotico, oltre all’emocromo, alla VES, alla determinazione del fattore antinucleare e del complemento sierico, bisogna prendere in considerazione una biopsia renale, ma solo se le condizioni generali del paziente lo
consentono. Una differenza nelle dimensioni dei reni fa considerare la possibilità di una stenosi dell’arteria renale, anche se il rischio connesso
all’arteriogafia e i benefici relativamente limitati dell’angioplastica possono
non giustificare l’approfondimento diagnostico nel paziente molto anziano.
Reni piccoli, grinzi, indicano una nefropatia molto avanzata, per cui ulteriori
indagini generalmente non sono utili.
Questa descrizione pratica tesa ad evitare un accanimento diagnostico eccessivo nasce dal fatto che, in presenza di una diagnosi accurata e
nell’attuale assenza di un trattamento specifico, si evita al paziente anziano
uno stress inutile che, però, può avere delle grosse ripercussioni che possono
generarsi quali effetti collaterali di indagini invasive o sulla possibilità di peggiorare il suo quadro psicologico.
Da qualche tempo è possibile rilevare, quale esame routinario, quantità molto
piccole di albuminuria che corrispondono agli stati più precoci del danno renale.
Si definisce microalbuminuria una escrezione di albumina di 30-300
mg/min. Anche se è possibile la sua determinazione mediante strisce reattive
semiquantitative, che spesso producono risultati falso-positivi, attualmente è
preferibile il suo dosaggio con procedure di laboratorio che sono diventate
così semplici che si può procedere direttamente all’interno di una servizio
specialistico di diabetologia.
Anche se la presenza di microalbuminuria è un indice di uno stadio precoce
della nefropatia diabetica, nel paziente anziano, invece, riflette altre forme di
danno renale, principalmente secondario ad ipertensione. Bisogna però sottolineare il fatto che pur se molti diabetici anziani non sviluppano una nefropatia
conclamata, in questo gruppo di pazienti si ha un marcato aumento della mortalità cardiovascolare.
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Decorso della nefropatia diabetica
Precocemente si ha iperfiltrazione (evidenziabile da un aumento del filtrato
glomerulare), ma questo dato è più evidente nel corso del diabete tipo 1,
mentre è osservata molto più raramente al momento della diagnosi del diabete tipo 2.
La nefropatia incipiente (microalbuminuria 30-300 mg/min) è lo stadio della
microalbuminuria, quando la funzionalità renale è ancora normale. Questo
stadio può durare molti anni o per sempre. Non risultano valutazioni dettagliate sulla progressione della microalbuminuria nell’anziano, mentre nel paziente
tipo 1 almeno il 20% non progredisce verso una proteinuria manifesta.
La proteinuria persistente (albuminuria >300 mg/min) rappresenta la nefropatia conclamata. A questo stadio la creatininemia può rimanere nei limiti della
normalità per molti anni, mentre il filtrato glomerulare si riduce lentamente,
mentre si sviluppa e aumentano i valori della pressione arteriosa.
La diminuzione del filtrato è in relazione lineare con il tempo e, a scopo clinico, può essere ben rappresentata graficamente dall’inverso della creatininemia. Varia notevolmente da un paziente all’altro e, specie in alcuni pazienti
anziani, può essere così lenta da essere quasi impercettibile. In effetti un efficace trattamento con farmaci antiipertensivi può arrestare il peggioramento
della funzionalità renale, al punto che anche valori elevati di creatininemia
possono rimanere stabili per diversi anni. Il fatto che in questo modo si può
rallentare la progressione del danno renale costituisce un grosso passo avanti nella comprensione e nel trattamento della malattia e sottolinea l’importanza
di diagnosticare e trattare l’ipertensione arteriosa.
La restrizione proteica gioca un ruolo molto limitato nel ridurre la velocià di
declino del filtrato glomerulare, per cui è in genere sufficiente far sì che i pazienti evitino un eccessivo introito proteico (definito come più di 1g/Kg/die). Al
momento non esistono prove convincenti che un trattamento antiipertensivo
nei pazienti anziani neuropatici normotesi sia vantaggioso.
Allo stadio del danno renale clinico (creatininemia 120-400 mmol/l) il danno
renale è manifesto, sebbene i pazienti possono essere anche asintomatici.
Uno dei segni clinici più precoci è rappresentato dalla comparsa dell’edema,
spesso associata all’anemia e ad un aspecifico peggioramento della salute
globale.
Con il progredire, si va incontro all’insufficienza renale terminale (creatininemia >400 ml/l), stadio in cui le condizioni generali sono scadenti. Col tempo
si presentano i classici sintomi dell’uremia, quali la ritenzione idrica e, quindi,
nausea e vomito, che possono essere alleviati in parte da una moderata restrizione proteica. In questa fase è opportuno un raccordo con il nefrologo, allo scopo di delineare una opportuna strategia terapeutica. Quest’ultima sarà
influenzata dalla presenza di vasculopatia, che generalmente, nel paziente
anziano è particolarmente diffusa.
L’edema, dapprima periferico e poi polmonare, è la più precoce e più frequente manifestazione clinica. A questo punto è importante fare una diagnosi differenziale tra un effettivo scompenso cardiaco e una ritenzione idrica secondaria ad insufficienza renale, sebbene spesso queste due condizioni siano entrambe presenti. Se non è possibile controllare l’edema con la terapia diuretica e, principalmente, se le condizioni generali del paziente tendono a peggiorare, bisogna prendere in considerazione il trattamento dialitico.
I sintomi uremici possono essere controllati in qualche modo con una dieta
ipoproteica, anche se a questo stadio la maggior parte dei pazienti ha bisogno di una terapia sostitutiva. Questo avviene in genere più precocemente in
presenza di diabete e a livelli di creatininemia di 450-550 mmol/l. Il 25-30%
dei pazienti afferenti alla terapia dialitica è affetta da diabete e poiché è in
aumento il numero dei pazienti anziani che vengono trattati, questa percentuale mostra un incremento costante.
Il trattamento di scelta nell’anziano è rappresentato dalla dialisi peritoneale
ambulatoriale continua (CAPD), grazie al quale si ottiene un buon livello della
qualità della vita. Questo trattamento sopperisce efficacemente al fatto che
nell’età avanzata è molto difficile trovare pazienti in grado di essere sottoposti
al trapianto. La mortalità in questi pazienti è molto più elevata rispetto alla popolazione generale per la concomitanza delle malattie cardiovascolari.
La gestione del diabete durante CAPD non è in genere un problema rilevante,
a meno che non si usano sacche ad alto contento di glucosio. I pazienti di tipo 2 possono continuare la loro terapia usuale, anche se spesso è opportuno
il passaggio alla terapia insulinica. In questi casi è sufficiente la somministrazione di una miscela di insulina a dosi fisse due volte al giorno. Anche la
somministrazione di insulina per via peritoneale è molto efficiente, ma poiché,
specie negli anziani, non è possibile adottare una tecnica di somministrazione
asettica, l’incidenza di peritonite è inaccettabilmente alta.
Vi sono, però, delle controindicazioni alla CADP quali la demenza da vasculopatia cerebrale e la carcinomatosi. La prognosi è cattiva nei pazienti con
grave cardiopatia e cardiomegalia, sebbene possano essere notevoli gli effetti
sulla sintomatologia nei pazienti con insufficienza cardiaca. Quando si vuole
utilizzare questa tecnica dialitica bisogna prendere in considerazione il contesto sociale, l’idoneità visiva e la capacità di fronteggiare eventuali problemi.
Il trattamento del diabete in presenza di insufficienza renale cronica prevede
l’uso di sulfoniluree a breve durata d’azione e non escrete per via renale. In
questi pazienti, a differenza di quanto avviene ancora, non deve essere utilizzata la glibenclamide perché può causare gravi crisi ipoglicemiche. Allo stesso modo non è indicato l’uso delle biguanidi sia per i loro effetti collaterali che
per il rischio di acidosi lattica.
Man mano che progredisce l’insufficienza renale, alcuni pazienti possono necessitare di dosi ridotte di ipoglicemizzanti orali o, addirittura, passare al solo
trattamento dietetico. Tuttavia, specie in presenza di malattie intercorrenti, il
compenso glicemico può deteriorarsi rapidamente, per cui appare necessaria
la terapia insulinica. Da tutto questo deriva il fatto che in presenza di nefropatia diabetica evolutiva l’equilibrio glicemico e il trattamento deve essere verificato costantemente.
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4. IPERTENSIONE ARTERIOSA
La misurazione regolare della pressione arteriosa nel paziente diabetico nefropatico anziano, specie in presenza di una concomitante nefropatia, è essenziale e conduce direttamente al trattamento, che riduce efficacemente la
morbilità e la progressione del danno renale. I vantaggi derivanti da un ap-
propriato trattamento antiipertensivo sono sostanziali, specie con una riduzione della progressione del danno renale o con un arresto (ma non regressione) di questa progressione, oltre alla prevenzione di accidenti cardiovascolari
e insufficienza cardiaca.
Ad ogni modo, pur se il trattamento dell’ipertensione è sempre indicato, come
diremo ampiamente in seguito, nella pratica clinica nei pazienti con età superiore ai 75 anni bisogna considerare attentamente la possibilità che una eccessiva riduzione può esacerbare alcuni problemi, specie quelli cerebrovascolari.
Il trattamento anti-ipertensivo intensivo è fortemente raccomandato nella terapia del diabete mellito con riferimento sia alle complicanze microvascolari che
cardiovascolari. Benché si discuta strenuamente su quale sia il farmaco di
prima scelta o più adatto per il trattamento dei pazienti ipertesi e soprattutto
dei diabetici ipertesi anziani, la maggior parte dei pazienti ipertesi e soprattutto la maggior parte dei soggetti con diabete di tipo 2 e ipertensione necessita
di una combinazione di agenti diversi per ottenere un efficace controllo della
pressione arteriosa. Nello studio HOT246, dopo 3.8 anni di follow-up, il 78%
dei pazienti assumeva il calcio-antagonista quale terapia di base, insieme con
un ACE-inibitore (41%), un !-bloccante (28%), o un diuretico (22%).
Nell’UKPDS247, dopo 9 anni di follow-up, il 29% dei diabetici di tipo 2 appartenenti al gruppo a stretto controllo richiedeva tre o più farmaci per raggiungere
i target pressori, nonostante questi obiettivi (<150/85 mmHg) fossero meno
rigidi di quelli raccomandati da tutte le più recenti linee guida.
Lo stretto controllo della pressione arteriosa potrebbe essere più importante
del farmaco impiegato per ottenerlo. Nello studio HOT già citato il rischio di
eventi cardiovascolari maggiori è dimezzato nel gruppo randomizzato
all’obiettivo terapeutico più ambizioso ($80 mmHg). Nell’UKPDS, lo stretto
controllo pressorio riduce del 24% l’insieme degli end-points correlati al diabete248. Lo studio SHEP249, che ha impiegato il clortalidone, così come lo studio
HOT, lo studio Syst-EUR250 e il Syst-China251, ma non l’INSIGHT252 e il NORDIL253, che hanno impiegato calcio-antagonisti dimostrano che la riduzione
della pressione arteriosa determina nei pazienti diabetici una diminuzione del
rischio assoluto e relativo di morbilità e mortalità cardiovascolari più evidenti
di quelli registrati nella popolazione non diabetica.
La scelta della terapia farmacologica nel paziente con ipertensione e diabete
ha vissuto le controversie legate ai possibili effetti metabolici sfavorevoli di alcune classi di farmaci antipertensivi e vive attualmente le divergenze legate
alla definizione dei vantaggi e degli svantaggi dei singoli farmaci in termini di
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prevenzione delle complicanze microvascolari e in termini di morbilità e mortalità cardiovascolari. Calcio-antagonisti, diuretici e ß-bloccanti sono risultati
altrettanto efficaci sui più vari end-points cardiovascolari249-250. ACE-inibitori e
ß-bloccanti altrettanto efficaci sia sugli end-points micro- che su quelli macrovascolari nell’UKPDS245. Altri studi254-256 suggeriscono un effetto più favorevole degli ACE-inibitori rispetto ai calcio-antagonisti sugli eventi coronarici.
L’inibitore del recettore dell’angiotensina è risultato più efficace del calcioantagonista nell’IDNT257 e della terapia “convenzionale” nel RENAAL258 nel
ridurre la progressione della nefropatia e l’incidenza di ESRD, ma non nel
modificare morbilità e mortalità cardiovascolare. Risultati favorevoli agli ACEinibitori sui ß-bloccanti emergono dallo studio CAPPP259.
Nello studio HOPE260 l’aggiunta dell’ACE-inibitore alla terapia antipertensiva
riduce gli eventi cardiovascolari e la progressione a nefropatia conclamata. I
benefici sono stati superiori rispetto a quelli attribuibili alla riduzione della
pressione arteriosa (effetto vasculo-protettivo e nefro-protettivo). ACE-inibitori
e antagonisti del recettore dell’angiotensina prevengono261-262 e rallentano la
progressione verso la nefropatia diabetica. L’effetto nefroprotettivo è in tutti gli
studi indipendente dagli effetti sulla pressione arteriosa. Infine, e con effetto
che va oltre la riduzione della pressione arteriosa, gli antagonisti del recettore
dell’angiotensina sono più efficaci dei ß-bloccanti nel ridurre la morbilità e la
mortalità cardiovascolare, nonché la mortalità per tutte le cause in diabetici ad
alto rischio cardiovascolare quali gli ipertesi con ipertrofia ventricolare sinistra263-264.
In conclusione, nel diabete mellito la riduzione aggressiva dei livelli della
pressione arteriosa sistemica riduce l’incidenza delle complicanze micro- e
macrovascolari. Una efficace terapia antipertensiva finalizzata alla nefro- e
cardioprotezione richiede quasi sempre l’impiego di una combinazione di farmaci e, verosimilmente, in nessun caso può prescindere dall’inibizione con
ACE-inibitori e/o antagonisti recettoriali del sistema renina-angiotensina265-266.
L’ipertensione sia sistolica che diastolica accelera la progressione della nefropatia diabetica267 ed una terapia antiipertensiva aggressiva è capace di ridurre la velocità di riduzione del GFR.
Nei pazienti con nefropatia il trattamento con ACE-inibitori o con antagonisti
del recettore AT1 dell’angiotensina II (AT1a) è parte essenziale delle inizialissime fasi del trattamento antiipertensivo. Se dopo 4-6 settimane di trattamento non si osserva una riduzione sufficiente della pressione arteriosa, è neces-
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sario intensificare il trattamento farmacologico268. In generale, ulteriori agenti
antiipertensivi possono essere aggiunti in successione (stepwise fashion) e la
scelta del singolo farmaco è orientata da altri fattori quali la ritenzione di fluidi
e la coesistenza di malattia cardiovascolare.
Uso dei farmaci anti-ipertensivi
Il possibile ruolo dei farmaci anti-ipertensivi e principalmente degli ACE-I nella prevenzione primaria della microalbuminuria e della nefropatia diabetica è
tuttora incerto. Nel diabete di tipo 2 uno studio verso placebo ha dimostrato
che il trattamento con ACE-I per sei anni in pazienti normotesi con normale
escrezione urinaria di albumina è in grado di ridurre del 12.5% il rischio assoluto di sviluppare microalbuminuria269. In accordo a questi sono i risultati dello studio HOPE. Accanto a questi studi randomizzati verso placebo, la letteratura offre altri studi in cui gli effetti degli ACE-inibitori vengono confrontati
con quelli dei calcio-antagonisti o della terapia convenzionale in pazienti con
diabete tipo 2 normoalbuminurici, ma ipertesi. In questi studi condotti su pazienti con diabete tipo 2, normoalbuminurici e ipertesi, il trattamento antiipertensivo con o senza ACE-inibitori si è dimostrato altrettanto efficace nel
prevenire lo sviluppo di microalbuminuria. In particolare, nello studio UKPDS,
lo stretto controllo della pressione arteriosa (ACE-I o ß-bloccanti) determina,
dopo 6 anni di follow-up, una riduzione del 29% (p<0.009) del rischio di sviluppare la microalbuminuria ed una riduzione del 39% (p=0.061) nel rischio
di proteinuria.
È ormai dimostrato che l'ipertensione arteriosa è un fattore determinante di
progressione verso la nefropatia clinica una volta instauratasi la microalbuminuria (prevenzione secondaria). Ipertensione arteriosa ed iperglicemia
cronica concorrono a determinare l’ipertensione glomerulare. Inoltre, la limitata capacità di autoregolazione dell’arteriola afferente può indurre ipertensione intraglomerulare anche in presenza di normotensione sistemica.
L’aumentata sintesi di angiotensina II gioca un ruolo determinante
nell’induzione del danno glomerulare e nella progressione della nefropatia
diabetica attraverso meccanismi emodinamici e non-emodinamici.
Ravid e coll. hanno per primi descritto gli effetti benefici degli ACE-inibitori in
diabetici tipo 2 normotesi e microalbuminurici dimostrando che solo il 12%
dei soggetti trattati con ACE-inibitori, rispetto al 42% dei trattati con placebo
sviluppavano la nefropatia270. In diabetici tipo 2 microalbuminurici ed ipertesi,
effetti favorevoli simili sono stati descritti per ACE-inibitori e calcio-antagonisti
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diidropiridinici, così come per ACE-inibitori e ß-bloccanti. In un follow-up di 5
anni, lo studio MICROHOPE ha dimostrato una riduzione del 24% nel rischio
di sviluppare proteinuria in diabetici tipo 2 trattati con ramipril. Due studi controllati verso placebo hanno esaminato l'effetto nefroprotettivo dei bloccanti
del recettore dell'angiotensina (AT1a) in diabetici tipo 2 con microalbuminuria. Nell’IRMA 2 (Irbesartan Microalbuminuria in Type 2 Diabetes) il trattamento a dose piena con l’irbesartan riduce del 38% l’escrezione urinaria di
albumina e, in un follow-up di 3 anni, del 70% il rischio di progressione verso
la nefropatia conclamata271. Nello studio MARVAL (Microalbuminuria Reduction with Valsartan), a parità di riduzione dei valori della pressione arteriosa, il
valsartan riduce l'albuminuria più efficacemente dell'amlodipina in diabetici
tipo 2 con microalbuminuria. Entrambi questi studi ed altri suggeriscono
l’esistenza di meccanismi nefroprotettivi degli AT1a indipendente dagli effetti
sulla pressione arteriosa. Nei diabetici tipo 2 con microalbuminuria, almeno
uno studio suggerisce che il trattamento combinato con ACE-inibitori e AT1a
potrebbe essere ancora più efficace nel ridurre la pressione arteriosa e
l’albuminuria del trattamento con un singolo agente capace di bloccare il sistema renina-angiotensina272.
In presenza di nefropatia clinica, l'ipertensione è il fattore determinante nella
progressione della proteinuria, nella riduzione del GFR e nella evoluzione
verso l'ESRD. Abbiamo già accennato al fatto che esiste una stretta correlazione tra la velocità di caduta del GFR e i valori pressori. Valori di pressione
media tra 95 e 100 mmHg (125-130/75-80 mmHg) sembrano consentire la
più efficace stabilizzazione della funzione renale273.
Nel diabete tipo 2 lo stretto controllo della pressione arteriosa non si è dimostrato sempre efficace nel ridurre il declino del GFR, né è stato chiaramente
documentato un più efficace effetto nefroprotettivo degli ACE-inibitori in termini di riduzione della caduta del GFR. L’UKPDS ha confrontato gli effetti del
trattamento antiipertensivo con un ACE-inibitore e con un ß-bloccante. I due
farmaci mostravano la stessa efficacia nella riduzione della pressione arteriosa e non sono emerse differenze significative nell’incidenza di microalbuminuria o proteinuria. Tuttavia, a causa della bassa prevalenza di nefropatia nella
popolazione studiata, non è chiaro se sia intervenuto un numero sufficiente di
eventi per poter osservare l’eventuale effetto protettivo di uno dei due farmaci
sulla progressione della nefropatia. Alcuni studi dimostrano che i calcio antagonisti non-diidropiridinici possono ridurre l’albuminuria, ma ad oggi non è
stata dimostrata alcuna attenuazione nella velocità di declino del GFR.
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Recentissimi studi su ampie casistiche dimostrano invece che nei soggetti
con diabete tipo 2 e nefropatia conclamata, gli AT1a sono in grado di offrire
una nefroprotezione addizionale a parità di controllo pressorio. Lo studio RENAAL ha evidenziato una riduzione del 25% del rischio di raddoppio della
creatinina plasmatica e del 28% del rischio di progressione verso l'insufficienza renale (ESRD) nel gruppo in cui alla tradizionale terapia antipertensiva
(calcio-antagonisti, diuretici, ß-bloccanti, alfa-bloccanti e bloccanti centrali)
veniva aggiunto losartan. Nessuna differenza tra i due gruppi emergeva nella
morbilità e mortalità cardiovascolare. L'incidenza di scompenso cardiaco era
invece minore (-32%) nei trattati con losartan. Tuttavia, è necessario notare
che benchè in maniera non statisticamente significativa (p=0.08), il trattamento con losartan si associa ad una riduzione del 28% nell'incidenza di infarto
del miocardio. Lo studio IDNT confronta irbesartan, amlodipina e terapia convenzionale. Nei soggetti trattati con l'irbesartan il rischio di raddoppio della
creatininemia si riduce del 33% verso terapia convenzionale e del 37 % verso
amlodipina, mentre la progressione ad ESRD si riduce del 23% verso entrambi gli altri gruppi. Anche in questo studio non è stato evidenziato alcun effetto su morbilità e mortalità cardiovascolare. È necessario tuttavia ricordare
che studi ancora più recenti (LIFE, Losartan Intervention For End-point reduction in hypertension) hanno dimostrato che il trattamento con l’inibitori del recettore dell'angiotensina losartan si è rivelato più efficace di quello con il ßbloccante nel ridurre sia la morbilità e mortalità cardiovascolare che la mortalità per qualunque causa in pazienti con diabete, ipertensione ed ipertrofia ventricolare sinistra. Lo studio LIFE ha arruolato 1195 soggetti diabetici. Nei quattro anni del follow-up, il losartan ha ridotto più efficacemente la morbilità e la
mortalità cardiovascolare (RR=0.76, p=0.031), la mortalità cardiovascolare
(RR=0.63, p=0.028), la mortalità totale (RR=0.61, p=0.002). A favore del losartan sono anche l'incidenza di scompenso cardiaco (RR=0.59, p=0.019) e,
sebbene in maniera non significativa, l'incidenza di ictus (RR=0.79) e di infarto del miocardio (RR=0.83).
Anche nei soggetti con diabete tipo 2 e nefropatia clinica, il doppio blocco del
sistema renina-angiotensina (ACE-I+AT1a) riduce efficacemente l’albuminuria
e la pressione arteriosa in quei soggetti in cui risulta insufficiente la risposta
alla precedente terapia anti-ipertensiva compresa quella con ACE-inibitori nelle dosi raccomandate274.
ne. L’American Diabetes Association275 raccomanda gli AT1a quali farmaci di
prima scelta nel trattamento della nefropatia del diabete tipo 2. È tuttavia probabile, anche se non dimostrato, che gli ACE-inibitori possano fornire anche
nel diabete tipo 2 una equivalente nefroprotezione. L’unico modo per provare
questa ipotesi è quello di lanciare studi di comparazione.
Nel diabete tipo 2, AT1a e ACE-I sono entrambi farmaci di prima scelta nella
prevenzione secondaria della nefropatia (cioè nel trattamento dei diabetici tipo 2 con microalbuminuria), mentre gli AT1a sono stati eletti a farmaci di
prima scelta nella prevenzione terziaria dell’ESRD (cioè nel trattamento dei
diabetici tipo 2 con nefropatia clinica). Infine, gli AT1a, così come gli ACE-I,
devono essere considerati il trattamento di prima scelta anche nella prevenzione cardiovascolare.
Dal punto di vista clinico, la capacità di predire gli effetti a lungo termine di un
trattamento iniziato di recente, per esempio gli effetti di un trattamento antiipertensivo sulla funzione renale, è sicuramente di grande valore. Appare
chiaro che simili indagini sono difficili da effettuarsi nei diabetici anziani.
L’intensità dell’iniziale riduzione dell’albuminuria (end-point surrogato) indotta
dalla terapia anti-ipertensiva tradizionale e dagli ACE-inibitori predice l’effetto
benefico a lungo termine sulla velocità di declino del GFR (end-point principale) sia nella nefropatia diabetica che nelle nefropatie non diabetiche.
In conclusione, nel diabete tipo 2, gli AT1a piuttosto che gli ACE-I sono stati
impiegati in studi controllati di nefroprotezione dedicati sia a soggetti con nefropatia conclamata che a pazienti microalbuminurici con o senza ipertensio-
L’inizio della terapia anti-ipertensiva, soprattutto quella con ACE-I e AT1a (tale terapia deve essere impiegata, ove necessario, alla dose massima tollerata) induce un declino del GFR che è 3-5 volte maggiore per unità di tempo del
declino registrato durante il trattamento cronico. Tale effetto, reversibile (cioè
funzionale) nel diabete tipo 1, ma non necessariamente nel diabete tipo 2276,
è dovuto agli effetti emodinamici che conseguono ad una acuta riduzione della pressione di perfusione renale. Sebbene non vi sia un livello di creatininemia che controindica di per se il trattamento con ACE-I, aumenti maggiori della creatininemia possono verificarsi più frequentemente quando gli ACE-I sono impiegati in pazienti con insufficienza renale. Tale deterioramento della
funzione renale può intervenire più comunemente quando la pressione di perfusione renale non può essere sostenuta a causa di una sostanziale riduzione
della pressione arteriosa media (<65 mmHg) per coesistenza di scompenso
cardiaco, importante stenosi bilaterale dell’arteria renale, stenosi dell’arteria di
un rene dominante o singolo (rene trapiantato) o deplezione del volume extracellulare ad esempio per un uso eccessivo dei diuretici. Ad indurre un ulteriore deficit funzionale può infine contribuire, soprattutto negli anziani, l’uso contemporaneo di farmaci nefrotossici quali gli anti-infiammatori non steroidei
120
121
(FANS) ad alto dosaggio. Partendo da creatininemie basali <2 mg/dl, un rialzo della creatininemia fino al 30% è comunque tollerabile. Secondo
l’American Heart Association277 aumenti della creatinina >0.5 mg/dl per valori
basali di creatinina <2 mg/dl e aumenti >1 mg/dl per creatininemie basali >2
mg/dl definiscono l’insufficienza renale acuta che può conseguire all’inizio del
trattamento con ACE-inibitori. Il trattamento con ACE-I deve essere temporaneamente sospeso per essere reintrapreso dopo correzione e risoluzione dei
fattori che hanno precipitato il deterioramento della funzione renale. In questa
situazione gli AT1a non sono necessariamente una alternativa appropriata
agli ACE-I.
L’uso di ACE-I o di antagonisti recettoriali può indurre iperpotassiemia (3-5%
dei casi) soprattutto nei pazienti con insufficienza renale avanzata e/o con ipoaldosteronismo iporeninemico. L’aumento della potassiemia è in genere
modesto ($1 mEq/l), mentre il rischio di iperpotassiemia severa (>5.5-6
mEq/l) è molto basso e solo nell’1.5% dei soggetti trattati con ACE-I o AT1a
nei grandi trials la terapia è stata sospesa a causa della comparsa di iperpotassiemia278. Nella maggior parte dei casi, l’iperpotassiemia può essere efficacemente controllata o limitata da semplici prescrizioni dietetiche (ad esempio evitare il consumo di frutti o verdure che ne sono particolarmente ricchi),
dalla contemporanea somministrazione di una blanda terapia diuretica e dal
trattamento ottimale dell’acidosi metabolica e dell’iperglicemia.
Creatininemia (eventualmente, GFR con formula di Cockroft-Gault) ed elettroliti sierici devono essere rivalutati a breve distanza dall’inizio del trattamento
anti-ipertensivo con ACE-I e/o AT1a, dopo qualunque aggiustamento posologico si dovesse effettuare (fino alla dose massima tollerata) e, successivamente, ogni 3-6 mesi. In situazioni particolari può essere necessario procedere ad una stima più accurata del GFR.
5. MALATTIE DELLA CUTE E DELLE ARTICOLAZIONI
I pazienti con diabete di lunga durata possono sviluppare una cheiroartropatia, cioè una leggera curvatura delle dita, per cui hanno difficoltà ad appiattire
la mano e le dita su una superficie liscia. Questo problema è accompagnato
da un ispessimento della pelle delle dita e sembra essere secondaria ad alterazioni del collageno. Non comporta, però, invalidità.
Talora è presente condrocalcinosi, spesso associata ad emocromatosi, interessando specialmente le ginocchia. A volte si presenta come un episodio di
artrite acuta. Non vi sono altre malattie articolari specifiche che colpiscono il
diabetico anziano, a parte la rara neuroatropatia di Charcot, che è caratterizzata dalla presenza di osteoporosi, fratture, infiammazione acuta e scomposizione dell’architettura del piede.
Nei pazienti più anziani con stenosi bilaterale dell’arteria renale e nei pazienti
con patologia renale avanzata anche in assenza di stenosi dell’arteria renale,
gli ACE-inibitori possono causare un peggioramento particolarmente evidente della funzione renale. Se questo effetto è comune agli AT1a non è attualmente noto. Incrementi della creatininemia superiori a 0.5 mg/dl se i valori
basali di creatininemia sono inferiori a 2 mg/dl o aumenti superiori a 1 mg/dl
se la creatininemia basale è > 2 mg/dl o, infine, la comparsa di iperpotassiemia severa dopo una settimana di terapia con ACE-I o AT1a suggeriscono la
sospensione del trattamento e lo studio del flusso a livello delle arterie renali.
Una lesione specifica del diabete è la necrobiosis lipoidica diabeticorum,
rara, che colpisce essenzialmente le donne diabetiche giovani, mentre è rara
nell’età avanzata. La sede più frequentemente colpita è la cresta tibiale con
capillari chiaramente dilatate (teleangectasie), una base atrofica e un bordo
leggermente rialzato rosaceo. Può svilupparsi ulcerazione e le lesioni in genere sono permanenti.
Raramente è presente il granuloma anulare, una lesione papulare rosacea a
volte a forma circolare che si sviluppa specialmente sulla gamba con una relazione abbastanza controversa con il diabete.
La vitiligine, malattia autoimmune che causa depigmentazione a chiazze e
può essere associata a diabete tipo 1.
Gli xantomi, eruzioni gialle ben demarcate, si presentano a gruppi e sono
associate a grave iperlipidemia.
L’acanthosis nigricans è una pigmentazione che interessa principalmente
l’ascella e l’inguine con una pelle vellutata. È associata ad insulino-resistenza
secondaria ad assenza di recettori per l’insulina.
Anche se attualmente molto rara, talora si ha lipoipertrofia, costituita da
ammassi di grasso nelle sede di iniezione dell’insulina, specialmente se le iniezioni sono effettuate ripetutamente nello stesso posto. Anche la lipoatrofia è una alterazione attualmente rara, ma che si osservava anni fa, nelle sedi
di iniezioni dell’insulina, prima dell’introduzione delle insuline purificate.
Molto raro è il cosiddetto diabete lipoatrofico, caratterizzato da assenza di
grasso sottocutaneo, iperlipidemia ed epatomegalia.
122
123
XII. IL DIABETICO ANZIANO IN OSPEDALE
Gli aspetti generali sono stati da poi già affrontati un una precedente monografia194. Per questo accenneremo solo ad alcuni aspetti particolari relativi
all’età avanzata.
Il tasso di ospedalizzazione tra i pazienti anziani affetti da diabete è di 1.7 volte superiore rispetto a quello dei soggetti anziani non diabetici. Nello studio
NHANES condotto negli anni compresi tra il 1976 ed il 1980, solo il 26.5%
degli individui non diabetici di età compresa tra i 65 ed i 74 anni riferiva di essere stato ricoverato in ospedale una o più volte nell’anno precedente, mentre
il 29.8% degli anziani con diabete manifesto riferiva di essere stato ospedalizzato. Questi dati riguardavano i ricoveri ospedalieri sia per il diabete che
per altri motivi.
Indipendentemente dal motivo che aveva portato all’ospedalizzazione, un obiettivo appropriato per il controllo della glicemia deve essere stabilito per
ciascun paziente. In generale, sarà opportuno cercare di compensare
l’eventuale presenza di una deficienza insulinica, che può contribuire allo stato catabolico. Se questo rappresenta l’obiettivo primario, lo stretto controllo
non è necessario. Malattie stressati quali l’infarto del miocardio, la polmonite
e l’ictus possono addirittura precipitare il coma iperglicemico iperosmolare
non chetosico in un paziente che è gia degente in ospedale. I pazienti anziani
affetti da queste malattie (compresi i pazienti che venivano trattati in precedenza con ipoglicemizzanti orali) potrebbero perciò aver bisogno di passare
temporaneamente alla terapia con insulina. Anche l’equilibrio idroelettrolitico
deve essere monitorizzato con attenzione e, al fine di prevenire la disidratazione e il peggioramento dell’iperglicemia, può essere appropriata la somministrazione di liquidi per via endovenosa.
L’assiduo monitoraggio della glicemia è raccomandato per prevenire le ampie
oscillazioni glicemiche.
Può essere utile l’aggiunta di insulina regolare alla terapia infusionale in corso
nel paziente con malattie acute o nel paziente nel periodo post-operatorio che
non può alimentarsi (vedi). Una volta che il paziente riprende ad alimentarsi,
è meglio controllato con uno schema insulinico a due somministrazioni giornaliere, con la possibilità di effettuare aggiustamenti del dosaggio quando necessario, sulla base dei risultati del frequente monitoraggio della glicemia.
Un importante fattore di rischio per il diabetico ospedalizzato è rappresentato
dall’ipoglicemia. Benché non esistano dei dati che riguardano specificatamente il paziente anziano, l’ipoglicemia rappresenta un problema importante per
124
tutti i pazienti diabetici ospedalizzati. Generalmente l’ipoglicemia che si verifica in ambiente ospedaliero è dovuta alla riduzione dell’apporto calorico o alle
inappropriate modificazioni del dosaggio insulinico279. L’ipoglicemia può essere prevenuta mediante il frequente monitoraggio della glicemia, aggiustando il
dosaggio insulinico man mano che le condizioni cliniche del paziente cambiano e mediante la selezione appropriata degli obiettivi glicemici da raggiungere
durante il ricovero ospedaliero.
I principi di base della medicina geriatria valgono anche per il trattamento del
paziente anziano diabetico ospedalizzato. Le raccomandazioni generali comprendono l’attenta prevenzione dei decubiti, la limitazione dell’uso del catetere a permanenza ed un uso prudente dei farmaci psicoattivi. Si dovrà incoraggiare il movimento e la terapia fisica, quando indicata, dovrebbe cominciare precocemente durante il periodo del ricovero.
La programmazione della dimissione dovrebbe essere fatta sin dal momento
dell’ammissione, con il contributo, quando necessario, del servizio di assistenza sociale. Va considerato il coinvolgimento di uno specialista geriatra,
soprattutto se il paziente è affetto da più patologie e se deve assumere molti
farmaci, ha dei deficit funzionali e necessita o potrebbe aver bisogno, dopo la
dimissione, di assistenza domiciliare o di ricovero presso una casa di riposo
per anziani.
125
XIII. IL DIABETICO ANZIANO IN CHIRURGIA ED ANESTESIA
“Il diabete costituisce un serio ostacolo per qualsiasi tipo di operazione…I
danni sono eccezionalmente gravi…Le ferite rappresentano un favorevole
terreno di crescita per i batteri…Sono frequenti gangrene, celluliti, erisipele…”
(Treves, 1896).
“Con gli sforzi coordinati del chirurgo, dell’anestesista e dell’internista il paziente diabetico è un candidato accettabile per qualsiasi intervento chirurgico”
(Shuman, 1983).
In queste due citazioni è raccolta l’evoluzione dell’atteggiamento della medicina nei confronti del malato diabetico che va incontro ad un intervento chirurgico. I progressi della terapia medica, delle tecniche chirurgiche e delle
procedure anestesiologiche hanno ridotto l’impatto della chirurgia
sull’omeostasi metabolica dei pazienti diabetici. Tuttavia, il trauma chirurgico
resta uno degli stress più formidabili che un diabetico possa affrontare, specie
quando è in età avanzata.. Un controllo negligente può rendere ancora attuali
le osservazioni fatte da Treves oltre cento anni fa.
Il diabete mellito è una condizione patologica comune in ambiente chirurgico,
per questo ci soffermeremo ampiamente nel descrivere le modalità di assistenza da utilizzare in questa situazione che è sempre molto traumatizzante
nel paziente anziano in generale e in quello affetto da diabete in particolare.
Questo dipende anche dal fatto che esso predispone maggiormente a condizioni che richiedono un intervento chirurgico: circa la metà dei pazienti diabetici, infatti, nel corso della loro vita affrontato almeno una volta un intervento di
chirurgia maggiore. Oltre agli stessi tipi di interventi ai quali si sottopone la
popolazione non diabetica, i pazienti affetti da questa malattia vengono sottoposti ad una serie di operazioni che si rendono necessarie per il manifestarsi
di complicazioni peculiari.
A ciò si deve aggiungere un dato importante, costituito dal fatto che un’ampia
quota di diabetici (circa il 25%) viene scoperta in occasione della preparazione ad un intervento chirurgico, probabilmente a causa dello stress perioperatorio.
La morbilità e la mortalità perioperatorie possono risultare aumentate, in stretta relazione al grado di compenso metabolico raggiunto ed alla presenza o
meno di complicanze. Nei pazienti con scarso controllo glicemico sono noti i
ritardi nella riparazione delle ferite chirurgiche e la maggiore suscettibilità alle
126
infezioni così come è descritto un aumentato rischio di mortalità a causa soprattutto dell’esistenza di complicanze cardiovascolari
Con il miglioramento delle tecniche chirurgiche e mediche, tuttavia, la mortalità nei diabetici sottoposti ad interventi chirurgici è attualmente molto diminuita, avvicinandosi a quella dei soggetti non diabetici280.
Vi sono alcune condizioni tipiche del periodo operatorio che predispongono il
paziente diabetico allo scompenso metabolico:
1. deficit assoluto o relativo di insulina: mentre nei soggetti normali la secrezione di insulina aumenta in occasione di un evento stressante per antagonizzare alcuni degli effetti metabolici propri degli ormoni dello stress,
ciò può non verificarsi nei paziente diabetici. In essi, infatti, esiste un deficit insulinico di base, che impone l'attuazione di aggiustamenti terapeutici
allo scopo di prevenire un eventuale deficit acuto di insulina281
2. stress chirurgico: un qualsiasi evento stressante è caratterizzato dal
punto di vista metabolico dalla liberazione dei cosiddetti “ormoni dello
stress” (adrenalina, noradrenalina, cortisolo, glucagone, GH). Lo stress
chirurgico può determinare variazioni importanti della concentrazione ematica dei suddetti ormoni e rendere precario il controllo metabolico del
soggetto diabetico nel periodo perioperatorio
3. digiuno: per prevenire l'inalazione bronchiale di liquidi o solidi e la conseguente sindrome di Mendelsson, i pazienti che devono essere sottoposti
ad intervento chirurgico sono abitualmente tenuti a digiuno per non meno
di otto ore. Il digiuno prolungato predispone il soggetto diabetico allo sviluppo di chetoacidosi (vedi), poiché aumenta la produzione epatica di
corpi chetonici per fornire ai tessuti che non utilizzano gli acidi grassi a
scopo energetico (SNC, eritrociti, ecc.) una fonte energetica alternativa al
glucosio. Tuttavia nei diabetici il deficit insulinico riduce l’utilizzazione periferica dei corpi chetonici, con conseguente aumento della loro concentrazione plasmatica, riducendo inoltre la loro utilizzazione periferica, e nello
stesso tempo la captazione di glucosio da parte del tessuto muscolare ed
adiposo
4. disidratazione: l’iperglicemia e l’iperchetonemia provocano una rapida
perdita di liquidi, soprattutto attraverso un aumento della diuresi (diuresi
osmotica da glicosuria e chetonuria). Si verifica pertanto una disidratazione cellulare che può provocare anche turbe delle funzioni cerebrali. Da evidenziare anche la possibilità che una perdita cospicua di ioni sodio (conseguente all'aumento della diuresi) determini diminuzione della gettata
cardiaca e conseguentemente della filtrazione glomerulare.
127
Condotta anestesiologica di fronte al paziente diabetico anziano
La condotta dell’anestesista di fronte al paziente diabetico che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico differisce a seconda che si tratti di un intervento
di elezione o d’urgenza od emergenza, e a seconda che il paziente sia affetto
da diabete mellito tipo 1 o tipo 2 in compenso più o meno buono, con o senza
complicanze282.
Non vi è univocità di vedute riguardo al trattamento perioperatorio dei pazienti
diabetici, sia perché essi costituiscono un gruppo assai eterogeneo dal punto
di vista eziopatogenetico e terapeutico, che per il gran numero di tipi di intervento chirurgico, e anche perché esistono innumerevoli realtà locali, rappresentate da ospedali di varie dimensioni e con possibilità assistenziali di vario
tipo.
Quello che viene suggerito in questa monografia prende spunto da un protocollo proposto dalla S.I.A.A.R.T.I. nel 1990283, con alcuni adattamenti suggeriti dalla letteratura internazionale e dalle esperienze personali.
L’obiettivo da perseguire è il raggiungimento dell’omeostasi glicemica, in modo da:
a) mantenere la stabilità metabolica;
b) evitare le ipoglicemie;
c) prevenire iperglicemie marcate.
Tali scopi possono venir conseguiti cercando di mimare il più fedelmente
possibile il metabolismo normale
Valutazione preoperatoria
Il diabetico che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico va valutato con
accuratezza estrema. È di importanza fondamentale monitorizzare:
lo stato nutrizionale e controllo glicemico (per stabilire sia le condizioni ottimali di trattamento che il momento più adatto per effettuare l’intervento);
le patologie concomitanti, molto frequenti nel paziente anziano, quali le complicanze neuropatiche, retiniche, renali, cardiovascolari ed articolari, al fine di
poter mettere in atto tutte le precauzioni idonee a prevenire eventuali problemi che possano insorgere nel periodo perioperatorio284-285. Sottolineeremo in
modo particolare l'importanza di accertare la presenza di una neuropatia autonomica, che costituisce una complicanza che incide direttamente sulla morbilità e sulla mortalità perioperatoria dei diabetici286-287.
La valutazione completa del paziente diabetico dovrebbe essere eseguita, se
possibile, almeno due o tre settimane prima del ricovero ospedaliero, in modo
da poter richiedere eventuali esami complementari e correggere per tempo
128
eventuali condizioni di squilibrio ed essere in grado di valutare il rischio operatorio e l’operabilità o meno del soggetto, mettendo in evidenza eventuali
controindicazioni assolute o temporanee all’intervento. Questo consentirà poi
di ammettere il paziente in Ospedale solo uno o due giorni prima
dell’intervento, al solo fine di perfezionare la stabilizzazione metabolica288-290
(tabella 24).
BUONO
ACCETTABILE
SCARSO
Glicemia basale
mg/dl
80-120
<140
>140
Glicemia post-prandiale
mg/dl
80-160
<180
>180
%
7-9
9-11
>11
µMol/L
<280
280-320
>320
HbA1c
Fruttosamine
Glicosuria
%
0
<0.5
>0.5
Colesterolo Totale
mg/dl
<200
<250
>250
Colesterolo HDL
mg/dl
>40
>35
<35
Trigliceridi
mg/dl
<150
<200
>200
Kg
ideale
110%
>110%
mmHg
<100
100
>100
Peso corporeo
PA media
Tabella 24. Criteri per la valutazione del grado di controllo metabolico
In nessun paziente come nel diabetico l'anamnesi riveste importanza nella
valutazione preoperatoria, data la varietà di possibili complicanze le quali,
spesso, sono insidiose e misconosciute.
Anamnesi (tabella 25)
Si dovrà indagare su:
a) tipo di diabete mellito;
b) durata della malattia;
c) terapia antidiabetica seguita (dieta, farmaci);
d) altri eventuali farmaci assunti;
e) controlli glicemici eseguiti in precedenza (meglio se si attuano profili glicemici);
f) complicanze metaboliche (pregresse od in atto):
- chetoacidosi
- stato iperosmolare
129
- ipoglicemia
g) complicanze croniche:
- retinopatia
- nefropatia
- neuropatia somatica e/o vegetativa: indagare su eventuali episodi di vertigine, crisi sudomotorie, malessere al passaggio da clino- ad ortostatismo, gastroplegia, diarrea, atonia vescicale
- cardiopatia ischemica
- ipertensione arteriosa
- vasculopatia cerebrale
- arteriopatia periferica
h) eventuali infezioni pregresse od in atto.
# esame clinico dei vasi periferici e dei grossi tronchi sopraortici (se
necessario, anche esami strumentali)
# esame clinico dei nervi periferici (riflessi OT, sensibilità pallestesica);
# test per svelare una neuropatia vegetativa: test dell’ipotensione posturale, lying-to-standing test, deep breathing test
# esame del fondo oculare
# ricerca di manifestazioni articolari, soprattutto in sede cervicale.
Particolare attenzione deve essere rivolta ad alcune entità patologiche capaci
di aumentare notevolmente il rischio operatorio dei pazienti diabetici anziani:
le cardiopatie, la neuropatia autonomica e la rigidità articolare.
Esame clinico generale, con particolare attenzione ai segni che possano indirizzare verso complicanze rischiose: da non trascurare a tale proposito la ricerca sistematica, nei soggetti IDDM, di segni indicativi per una Stiff Joint
Syndrome291.
Indagini indicate per ogni intervento e specifiche per l’intervento previsto.
Indagini specifiche per la malattia diabetica:
a) Monitoraggio (anche con reflettometro) della glicemia:
# Diabete tipo 1 " a digiuno, 2 ore dopo colazione, prima del pranzo, 2 ore dopo il pranzo, prima della cena, 2 ore dopo la cena, e
possibilmente alle ore 3.00
# Diabete tipo 2 " a digiuno, 2 ore dopo il pranzo, 2 ore dopo la
cena
b) dosaggio della HbA1c e, se possibile, delle fruttosamine
c) profilo lipidico
d) azotemia, creatininemia (se >2 mg/dl, clearance della creatinina)
e) valutazione EAB (Equilibrio Acido-Base)
f) elettroliti sierici (Na, K, Cl) con valutazione della osmolarità
g) esame delle urine (chetoni, glucosio, proteine, sedimento urinario)
h) ricerca di eventuali complicanze:
# ECG ed eventuali altre indagini (ecocardiogramma, test da sforzo,
ECG dinamico secondo Holter, scintigrafia miocardica, coronarografia) nel sospetto di cardiopatia ischemica
130
131
SCHEDA DI RILEVAZIONE ANAMNESTICA PER SOGGETTI DIABETICI
DA SOTTOPORRE AD INTERVENTO CHIRURGICO
DATI ANAMNESTICI
Cognome _________________________________ Nome_________________________________
Sesso____ Età______ Tipo di Diabete:
TERAPIA:
solo dieta
insulina
1
2
Durata del Diabete: ______ anni
ipoglicemizzanti orali
insulina + ipoglicemizzanti orali
Terapia attuale:
Dieta: Calorie____________ (circa) Pasti n°_____ Spuntini n°_____
Farmaci:
Insulina
Tipo
Ipoglicemizzanti orali
Unità
ora
Tipo
Dosaggio
b. L’ipertensione arteriosa viene riscontrata nel 30 - 60% dei diabetici. Ha
un’origine multifattoriale ed il suo controllo è di fondamentale importanza nel
periodo perioperatorio per evitare una instabilità emodinamica perioperatoria
(specie ove sia presenta anche una neuropatia autonomica) con possibili
conseguenti complicanze coronariche e renali.
ora
________________ ______ ________
__________________ __________
________
________________ ______ ________
__________________ __________
________
________________ ______ ________
__________________ __________
________
________________ ______ ________
__________________ __________
________
COMPLICANZE: (lasciare in bianco se condizione non nota)
1) Vasculopatia
SI
NO
2) Retinopatia
SI
NO
3) Nefropatia
SI
NO
4) Neuropatia
SI
NO
Cerebrale
Coronarica
Sensitivo-motoria
a. Cardiopatie
Abbiamo già detto che i diabetici anziani sono soggetti ad elevato rischio coronarico, che presentano rispetto ai non diabetici una mortalità per coronaropatia più elevata, maggiore estensione delle lesioni coronariche e sono colpiti
da un maggior numero di infarti. Negli individui colpiti da infarto miocardico,
la mortalità più alta e la sopravvivenza a lungo termine inferiore rispetto ai
soggetti di controllo.
Nei diabetici, anche in giovane età, è da tempo nota una insufficienza cardiaca sinistra con associati disturbi aritmici. Questa, che può essere a buon diritto definita una vera e propria cardiomiopatia diabetica, ha un’enorme importanza clinica, soprattutto nel periodo perioperatorio e può essere rivelata da
un esame ecocardiografico doppler292-293.
Periferica
Autonomica
Intervento chirurgico previsto:_______________________________________________________
Eventuali annotazioni:_____________________________________________________________
_______________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________
Il medico
Tabella 25
132
c. Neuropatia autonomica diabetica294-297
La neuropatia autonomica diabetica aumenta sensibilmente la morbilità e la
mortalità perioperatorie, ed ha purtroppo un'incidenza elevata (20 - 40% dei
pazienti diabetici ospedalizzati). I suoi effetti vanno dalle alterazioni gastrointestinali alla instabilità pressoria perioperatoria, e perfino all'arresto cardiorespiratorio improvviso. Quanto segue rappresenta per sommi capi ed in maniera schematica gli effetti che questa complicanza può esercitare:
• diminuzione della risposta ventilatoria all’ipossia ed all’ipercapnia;
• anomalie dell'albero tracheobronchiale: sono stati descritti una diminuzione del tono delle vie aeree, un abbassamento della reattività al
freddo, una diminuzione, fino ad una assenza, della reattività bronchiale e del riflesso della tosse. Si comprende bene come un incidente anestesiologico postoperatorio possa essere correlato agli effetti respiratori residui dell’anestesia od a rigurgiti passati inosservati proprio a
causa del danno al riflesso della tosse in questi pazienti. Ciò impone
estrema cautela nell’utilizzazione degli analgesici oppioidi nel postoperatorio ed impone una sorveglianza stretta del paziente al momento del
risveglio;
133
• alterazioni del ritmo cardiaco, con comparsa anche di fibrillazioni ventricolari. Queste gravi aritmie potrebbero essere legate ad uno squilibrio fra il sistema vagale, che nel disautonomico ha un'attività ridotta,
ed il sistema simpatico, cui attività rimane integra. Per indagare se esistano o meno squilibri di questo genere, occorre studiare la variabilità
della frequenza cardiaca, che nei disautonomici è ridotta od assente.
L’intervallo QT, che è sotto il controllo del sistema nervoso autonomo,
viene ritenuto essere un marker predittivo dell’instabilità miocardica perioperatoria. È ben nota una relazione fra l’allungamento dell’intervallo
QT nell’ECG ed il rischio di morte improvvisa;
• instabilità pressoria perioperatoria. Nei pazienti disautonomici si ha un
abbassamento della pressione arteriosa più marcato all’induzione
dell’anestesia, senza che avvengano in concomitanza significativi aumenti della frequenza cardiaca. Questo è un evento pericolosissimo,
venendo a mancare il primo meccanismo di compenso di fronte ad una
diminuzione della gittata cardiaca. Durante l’intubazione tracheale viene riportato un minore aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca: il rischio di ipotensione arteriosa e di bradicardia è
massimo nei minuti che seguono l’intubazione;
• paresi gastrica: è spesso associata ad alterazioni della motilità esofagea ed a diminuzione del tono dello sfintere inferiore dell’esofago, con
aumento del rischio di rigurgito all’induzione e nel postoperatorio. Questo rischio viene aumentato dalle difficoltà di intubazione. In buona sostanza, il paziente diabetico disautonomico va considerato sempre
come un paziente a stomaco pieno.
Il paziente diabetico affetto da neuropatia autonomica deve essere valutato
accuratamente, dati i riflessi che la neuropatia autonomica può avere sulle
prospettive anche di vita del paziente.
Le manifestazioni della neuropatia disautonomica (ND) non sono specifiche,
e quindi è spesso difficile determinare se i sintomi lamentati dal paziente sono
legati alla neuropatia stessa oppure ad altri motivi (patologie associate, assunzione di farmaci). È perciò fondamentale che l'anamnesi sia molto precisa, ricercando segni che possono apparire banali, ma che si rivelano poi fondamentali nel rivelare la neuropatia, quali ad esempio le crisi sudomotorie, la
diarrea notturna, gli eventuali disturbi aritmici che il paziente può aver avvertito. Altrettanto importanti sono i test clinici, che si baseranno sulla ricerca di
una ipotensione ortostatica, di una tachicardia sinusale a riposo e di sintomi
quali nausea, pesantezza gastrica postprandiale, sincopi, vertigini in ortostatismo, disturbi urinari.
134
Numerosi test permettono di valutare l’attività basale e la reattività del SNA a
diverse stimolazioni quali le variazioni posturali, le variazioni della volemia o
della pressione intratoracica; i test che si basano sulla frequenza cardiaca
sono maggiormente eseguibili e riproducibili.
Nelle strutture ospedaliere saranno i Diabetologi ad effettuare lo studio completo dei soggetti dal punto di vista della ricerca delle alterazioni disautonomiche; occorre quindi a questo fine un accordo preciso con gli specialisti in Diabetologia.
I segni principali della disautonomia diabetica sono riassunti nella tabella 26.
Segni cardiovascolari
Tachicardia sinusale
Allungamento QT
Alterazioni del ritmo
Infarto miocardico indolore
Ipotensione arteriosa ortostatica
Labilità della pressione arteriosa
Morte improvvisa, sincope
Vertigini
Segni digestivi
Disfagia, gastroparesi
Nausea e vomito
Diarrea notturna
Incontinenza anale
Segni urogenitali
Disuria, pollachiuria
Ritenzione acuta di urina
Incontinenza urinaria
Infezioni urinarie
Impotenza
Segni respiratori
Polmoniti ricorrenti
Inalazione bronchiale
Riduzione della risposta all'ipossiemia ed all'ipercapnia
Vari
Crisi sudorali
Ipertermia durante l'esposizione al calore
Modificazioni pupillari
Soppressione dei segni clinici che accompagnano l'ipoglicemia
Turbe neuroendocrine
Tabella 26. Segni della neuropatia autonomia diabetica
d. Anomalie della struttura del collageno
I pazienti diabetici hanno una frequenza di difficoltà all'intubazione tracheale
dieci volte maggiore rispetto ai non diabetici298-299. Probabilmente in questo
135
caso è in gioco la glicazione proteica non enzimatica, dato che l’iperglicemia
favorisce la formazione di una rete di collagene anormalmente resistente che
si deposita a livello articolare. Dal 30 al 40% dei diabetici presentano queste
anomalie con una larga predominanza dei diabetici di tipo 1. La gravità del
danno articolare è in correlazione con il valore dell'emoglobina glicata.
L’irrigidimento articolare inizia alle mani, ed è predominante in tale sede.
Coinvolge in primis, simmetricamente, le articolazioni metacarpofalangee e le
interfalangee prossimali delle quinte dita, poi si estende alle altre dita. Si traduce clinicamente soprattutto in un deficit di estensione delle dita con impossibilità di affrontare le facce palmari delle mani e delle articolazioni interfalangee; segno patognomonico è il segno della preghiera, che deve essere considerato come predittivo di intubazione difficile.
A livello del rachide cervicale vi è una fissità dell’articolazione atlantooccipitale ed un deficit di estensione e di flessione della testa sulle prime vertebre cervicali: ciò può rendere difficile e finanche impossibile l’intubazione.
I tentativi per iperestendere la testa trovano ostacolo in una curvatura anteriore della colonna cervicale ed in una laringe anteriorizzata, con diminuzione
della visibilità delle corde vocali. Le difficoltà di intubazione possono essere
accresciute anche da un’alterazione delle fibre di collageno a livello della laringe. Il quadro clinico nella sua forma più complessa e grave si manifesta in
una sindrome specifica chiamata “Stiff Joint Syndrome”, che si osserva soprattutto nei diabetici di tipo 1, di piccola taglia. Essa non ha carattere familiare e si associa ad una cute tesa, lucida e ad una mobilità ridotta delle articolazioni.
Nei diabetici, le difficoltà di intubazione tracheale devono essere sempre sospettate.
Durante la visita anestesiologica deve sempre essere effettuata la ricerca del
segno della preghiera. Possono essere utilizzati altri test, in particolare il palm
test: si tratta di spalmare con dell'inchiostro la faccia palmare delle mani, che
poi viene applicata su un foglio di carta. L’impronta è tanto più ridotta quanto
maggiore è il danno articolare; la difficoltà di intubazione è correlata alla superficie dell’impronta.
I segni classici di intubazione difficile secondo i criteri clinici di Mallampati sono il più delle volte assenti. La mobilità del collo è il più delle volte in apparenza normale. La radiografia cervicale, di profilo, in iperestensione, è essenziale per precisare la diagnosi.
Gestione pre- ed intraoperatoria
I regimi terapeutici perioperatori proposti per il paziente diabetico distinguono
in genere tre condizioni fondamentali:
a. pazienti con diabete tipo 2 ben controllati dalla sola dieta. Essi
non vengono trattati con insulina, a meno che l’intervento chirurgico non sia particolarmente impegnativo o non sopravvengano
ulteriori fattori di stress
b. pazienti con diabete tipo 2 in trattamento con ipoglicemizzanti
orali e/o insulina: non vi è uniformità di vedute circa il loro trattamento
c. pazienti con diabete tipo 1: essi vengono sempre sottoposti a terapia insulinica.
136
137
Qualsiasi regime terapeutico venga scelto, tra i molti proposti, il trattamento
perioperatorio del paziente diabetico deve basarsi su tre considerazioni fondamentali:
1. i soggetti diabetici, anche quando non vengono sottoposti ad uno
stress chirurgico, sono in una condizione di deficit insulinico relativo od assoluto300
2. in tutti i diabetici lo stress chirurgico è tale da incrementare il fabbisogno di insulina
3. non vi sono criteri per stabilire a priori se il singolo paziente diabetico richiederà o meno insulina durante l’intervento chirurgico.
Un approccio sicuro e semplice è quello di programmare la terapia insulinica
per tutti i pazienti diabetici, tranne quelli con diabete tipo 2 in buon controllo
con la sola dieta301-302.
Poiché nel periodo perioperatorio le richieste insuliniche possono mutare rapidamente, si deve usare solo insulina rapida, che dovrà essere somministrata per via endovenosa. I perché di questa scelta sono:
• introdotta diretta in circolo, l’insulina è immediatamente efficace, ma la
sua durata d’azione è assai breve
• la brevità dell’emivita dell’insulina, che è di circa 8 minuti, impone la
reiniezione frequente di dosi elevate
• l’iniezione in bolo di insulina produce un picco di insulinemia, che tuttavia dura solo alcuni minuti
• la maggior parte dell’insulina iniettata in bolo viene inattivata senza
aver avuto efficacia, verosimilmente a causa di una saturazione dei re-
cettori cellulari dell’insulina; le dosi utilizzate sono alte, fino anche a
100 U.I./ora
• l’insulina degradata in grandi quantità produce dei peptidi idrofili che si
fissano sulle strutture gliali del cervello; questo fenomeno è implicato
nella genesi di quegli edemi cerebrali osservati in corso di coma chetoacidosico in giovani diabetici
• infine, un grosso bolo di insulina può provocare un significativo movimento di potassio, fosforo e magnesio dall’ambiente extracellulare a
quello intracellulare, e può pertanto predisporre i pazienti ad aritmie
cardiache.
Il modo più razionale di utilizzazione dell’insulina per via endovenosa è rappresentato dalla somministrazione continua, che permette di ottenere una insulinemia stabile, modulabile ed efficace a bassi dosaggi. Simultaneamente
alla infusione continua di insulina per via endovenosa, si deve realizzare anche una infusione continua di glucosio, al fine di prevenire brusche ed indesiderate variazioni glicemiche.
Essenziale è la frequente valutazione della glicemia per adattare la dose di
insulina alle varie circostanze. Come già detto, il paziente diabetico dovrebbe
affrontare l’intervento chirurgico in buon controllo metabolico; la glicemia dovrebbe mantenersi nel corso della giornata fra i 100 ed i 200 mg/dl in assenza
di significativa glicosuria e chetonuria e/o importanti episodi ipoglicemici.
Per facilitare il buon compenso del paziente si consiglia di ricoverarlo 2-3
giorni prima dell’intervento.
Si dovrà anche sospendere sia l’impiego degli ipoglicemizzanti orali, specie
di quelli a lunga emivita (es.: la clorpropamide) sia dell’insulina a durata
d’azione lunga o intermedia, ed effettuare un programma terapeutico individualizzato con insulina ad azione breve per via sottocutanea.
Il periodo di digiuno preoperatorio consigliato è di 12 ore, data la possibilità di
gastroparesi in questi soggetti303. Tuttavia, in pazienti anziani o in trattamento
con ipoglicemizzanti orali a lunga emivita o con insulina ad azione intermedia
o protratta, vi può essere un elevato rischio di ipoglicemia quando essi osservino un digiuno così prolungato.
L’impiego della infusione e.v. di glucosio, insulina e potassio (GIK) ha una
funzione fisiologica: fornendo glucosio, si riduce la velocità del catabolismo
proteico, che nel corso del digiuno e dello stress è accelerato a scopo neoglucogenetico. Fornendo separatamente glucosio ed insulina è possibile variare autonomamente la quota e la velocità di infusione dell’uno e dell’altra, in
138
modo da ridurre il pericolo di ipoglicemia o di iperglicemia marcate. La somministrazione di ioni potassio è necessaria per prevenire la ipopotassiemia
indotta dall’Insulina.
Anche nel corso dell’intervento è necessario un controllo ripetuto della glicemia che in questa fase deve essere mantenuta fra gli 80 ed i 200 mg/dl, in
modo da evitare il rischio sia di ipo- che di iperglicemie. Un controllo più stretto, con glicemie tra 100 e 120 mg/dl, viene richiesto in tre situazioni:
esecuzione di by-pass aorto-coronarico
chirurgia che preveda una momentanea interruzione del circolo cerebrale
interventi ostetrici.
A. Fase preoperatoria
a) Diabetico di tipo 1
Ospedalizzare il paziente almeno tre giorni prima dell’intervento.
Mantenere o realizzare il compenso glicemico mediante ottimizzazione della
terapia insulinica e del trattamento dietetico.
Iniziare l’infusione di insulina + glucosio 5% o 10% (secondo lo schema previsto per la fase intraoperatoria) fin dal giorno precedente l’intervento, qualora
l’alimentazione orale debba essere sospesa con anticipo (tabelle 27 e 28).
b) Diabetico di tipo 2.
In compenso accettabile con:
a) solo trattamento dietetico: nessuna modifica;
b) ipoglicemizzanti orali: evitare biguanidi nei 3 giorni precedenti, e preferire
sulfoniluree a breve emivita fino alla sera precedente l’intervento.
Se sono in precario controllo glicemico: gestione preoperatoria come per i
diabetici di tipo 1.
Condizione
Soggetto normale
Obesità
Rapporto insulina/glucosio
0.1
0.15 - 0.20
Epatopatia
0.5
Glucocorticoidi
0.7
Infezioni
1.0
Chetoacidosi
1.0
Bypass aorto-coronarico
1.0
139
Tabella 27. Rapporto Insulina/Glucosio in relazione alle condizioni del paziente
B. Fase intraoperatoria
a) Paziente con diabete tipo 1
Fissare l’intervento preferibilmente nella prima mattinata;
controllare: glicemia, elettroliti sierici, glicosuria, chetonuria (tabella );
iniziare almeno 3 ore prima dell’intervento l’infusione di insulina, glucosio e
potassio e controllare ogni ora la glicemia per ottenere al momento
dell’intervento valori inferiori ai 200 mg/dl.
Regime infusionale (per vie venose separate):
1) soluzione glucosata 10% 500 ml + KCl 10 mEq = 100 ml/ora, oppure:
soluzione glucosata 5% 500 ml + KCl 5 mEq = 200 ml/ora
2) NaCl 0.9% 500 ml + insulina regolare 50 U.I. + Emagel 50 ml = regolare
la velocità di infusione sulla base dei valori glicemici (tabella 28).
0
30’
90’
210’
Glicemia
*
*
*
*
Potassio
*
*
*
Sodio
*
*
*
b) Paziente con diabete di tipo 2
1) Intervento chirurgico maggiore: gestione identica a quella del paziente con
diabete di tipo 1.
2) Intervento chirurgico minore (=intervento che non comporti o l’amputazione
di un grosso segmento osseo e che non duri oltre 60’; ad esempio, laparoscopia, asportazione di papilloma vescicale in endoscopia, tonsillectomia,
ecc.):
a) se non e richiesto un digiuno perioperatorio superiore alle 6 ore, ed il paziente è in buon controllo glicemico e non ha al mattino dell’intervento
una glicemia superiore ai 140 mg/dl, non è richiesto alcun trattamento intraoperatorio, ma solo controlli glicemici ogni 2 ore;
b) in tutti gli altri casi, comportarsi come con i pazienti diabetici di tipo 1.
Programma anestesiologico
Quando è possibile, preferire l’anestesia locoregionale a quella generale.
Premedicazione: fare con tempi e dosaggi abituali; è da evitare un marcato
torpore preoperatorio.
Induzione: preferire anestetici endovenosi (TPS, Propofol); eseguire una induzione rapida. Attenzione alla possibilità di intubazione difficile.
Mantenimento: miorilassanti, anestetici volatili alogenati ed N2O non influenzano la glicemia; evitare ipossia ed ipercapnia; evitare nel limite del possibile
le variazioni pressorie.
Tabella 28. Monitoraggio intraoperatorio
La determinazione della glicosuria, da molti proposta non è accettabile per il
monitoraggio della glicemia in circostanze, come quelle perioperatorie, caratterizzate da elevata instabilità.
La determinazione della chetonuria va eseguita solo per glicemie >250 mg/dl.
Lo scopo è quello di mantenere la glicemia fra gli 80 ed i 200 mg/dl. Negli interventi di lunga durata, dopo i 210’ controllare la glicemia ed il potassio ogni
120’.
In caso di mancata stabilizzazione della glicemia ai 90’ può essere necessario il controllo glicemico ogni 30’.
Risveglio: evitare la curarizzazione residua.
N.B.: i farmaci ganglioplegici, usati nella metodica di ipotensione controllata,
provocano spiccata ipoglicemia per blocco simpatico. Vanno inoltre considerati gli aspetti squisitamente anestesiologici (analgesia postoperatoria, condizioni speciali, ecc.) meglio codificati nella tabella 2.
Se c’è necessità di limitare l’apporto idrico, basterà aumentare la concentrazione di Insulina nella soluzione.
Condotta dell’anestesia nel paziente diabetico con neuropatia vegetativa251
Preoperatoriamente, occorre rilevare e correggere l’ipovolemia, per le note
difficoltà di adattamento del soggetto disautonomico nei confronti degli effetti
ipotensivanti dell’anestesia, così come del sanguinamento perioperatorio.
Il rischio aumentato di inalazione all’induzione, dovuto a gastroparesi ed a
stasi gastrica, deve imporre un periodo di digiuno preoperatorio più lungo, a
praticare un lavaggio gastrico preoperatorio e ad associare in premedicazione
140
141
Se la glicemia raggiunge valori inferiori ai 70 mg/dl, sospendere l’infusione
insulinica e mantenere solo l’infusione di glucosio ed effettuare controlli glicemici più ravvicinati.
la metoclopramide. Per facilitare lo svuotamento gastrico è stata proposta
l’eritromicina per via e.v. (200 mg 2 ore prima dell’intervento): essa si fissa sui
recettori della motilina, e può antagonizzarla; somministrata per os, non ha la
stessa efficacia.
Nel periodo perioperatorio, i problemi principali sono di natura emodinamica, poiché esiste una notevole instabilità pressoria, che si manifesta il più delle volte con episodi ipotensivi accompagnati da bradicardia, sia al momento
dell’induzione dell’anestesia che nel perioperatorio, in modo particolare quando si usano anestetici con grande potere vasodilatante oppure in occasione di
rapidi cambiamenti di posizione del paziente. Questi episodi ipotensivi devono essere trattati mediante riempimento vascolare e con simpaticomimetici
diretti (metoxamina, dimetorfina). La somministrazione di atropina o di simpaticomimetici indiretti (metaraminolo, mefentermina) dà risultati troppo incostanti. Si possono talora osservare poussées ipertensive con tachicardia che
si verificano sia spontaneamente nel corso dell’intervento che dopo la somministrazione di simpaticomimetici diretti. Esse rispondono bene alla somministrazione di #- o !-bloccanti. Per gli interventi maggiori, che possono implicare grandi variazioni volemiche e quindi ad elevato rischio di marcate variazioni pressorie, si impone il ricorso ad un monitoraggio cruento della pressione arteriosa; allo stesso modo, in questi interventi si deve mettere in atto una
sorveglianza della pressione venosa centrale ed, a seconda dei casi, perfino
il monitoraggio mediante catetere di Swan-Ganz.
La rachianestesia o l’anestesia epidurale sono, quando è possibile, da evitare, per il rischio di ipotensione arteriosa. L’ipovolemia relativa, indotta da queste tecniche mediante una vasodilatazione periferica imponente per blocco
del simpatico, espone ad un rischio elevato di ipotensione arteriosa che può
divenire un evento pericoloso in quanto nel disautonomico i meccanismi di
compenso fisiologico sono deboli.
I blocchi periferici e tronculari non hanno controindicazioni formali.
L’anestesia generale è più spesso preferita e la maggior parte dei farmaci
anestetici endovenosi o volatili sono stati utilizzati senza alcun problema.
L’intubazione tracheale è obbligatoria per il rischio di inalazione bronchiale. È
preferibile mettere in atto una ventilazione controllata, che dà la possibilità di
diminuire compensare la diminuita risposta ventilatoria all’ipossia ed
all’ipercapnia propria di certi pazienti diabetici disautonomici.
È necessario attuare una sorveglianza glicemica stretta per scoprire ogni ipoglicemia: la risposta degli ormoni della controregolazione è, in questi pazienti,
assai debole, e ciò rende l’ipoglicemia ben più pericolosa.
C. Fase postoperatoria (tabella 29)
Secondo la natura e la durata dell’intervento chirurgico, è necessario valutare
attentamente il fabbisogno calorico del paziente e la possibilità di attuare una
dieta liquida od una nutrizione parenterale totale.
142
143
Un aspetto particolarmente delicato della gestione perioperatoria del paziente diabetico anziano è quello del bilancio idro-elettrolitico, specialmente nei
casi di ridotta funzionalità renale o cardiaca.
Il miglior indice di valutazione dello stato di idratazione del paziente diabetico è il peso corporeo.
La somministrazione di liquidi deve essere individualizzata.
Nei pazienti che subiscono interventi chirurgici minori e che si rialimenteranno
dopo poche ore dall’intervento, si possono usare soluzioni glucosate al 5%
ad una velocità di infusione di 100 ml/ora.
Nei pazienti sottoposti ad interventi chirurgico maggiore e che non possono
rialimentarsi per alcuni giorni, si deve attuare un regime più elastico, basato
sul monitoraggio giornaliero dei vari elettroliti; in genere occorre infondere 23 litri di liquidi ad una velocità di circa 100 ml/ora; in casi particolari (sondino
naso-gastrico, drenaggi) la quantità di liquidi da infondere sarà superiore.
In tutti i pazienti la diuresi dovrà mantenersi sui 40 ml/ora.
L’infusione postoperatoria di soluzioni glucosate al 5% è essenziale per prevenire la chetosi; in genere, un regime idrico semplice prevede l’infusione alternata di 1 litro di Soluzione Glucosata al 5% ed 1 litro di soluzione salina 0.5
N, ciascuna contenente 10-20 mEq di KCl.
Il monitoraggio glicemico è essenziale anche in questo periodo. Tuttavia in
questa fase (sulla base delle condizioni metaboliche e fisiche del paziente) la
frequenza delle determinazioni può essere ridotta.
L’infusione e.v. di insulina dovrebbe essere continuata finche il paziente non
riprende ad alimentarsi per os e dovrebbe essere adattata ogni 2-4 ore.
Alla ripresa della alimentazione orale, il paziente potrà riprendere il suo regime terapeutico farmacologico abituale.
In presenza di complicanze (ad es., febbre e/o infezioni) sarebbe opportuno
continuare l’infusione e.v. di insulina rapida.
I pazienti affetti da diabete in buon compenso glicometabolico con la sola dieta non richiedono insulina quando si sottopongono ad interventi chirurgici minori, poiché lo stress è minimo. In questi soggetti non dovrebbe essere necessaria l’infusione con soluzioni glucosate o contenenti lattato; poiché si trat-
ta di soggetti anziani, rimane tuttavia fondamentale eseguire anche in questi
pazienti uno stretto controllo glicemico.
In altri paragrafi sono riportate in dettaglio le linee di comportamento auspicabili in varie condizioni, dal primo approccio al paziente diabetico anziano fino
al trattamento delle situazioni di emergenza metabolica.
La neuropatia disautonomica pone quindi dei problemi reali:
a) gastroparesi con nausea e vomito, che ritardano la rimozione del sondino nasogastrico;
b) ritenzione urinaria spesso indolore all’origine di un’infezione urinaria
che è la complicazione postoperatoria più frequente;
c) rischio di arresto cardiorespiratorio brutale: deve rendere assai cauta
l’utilizzazione postoperatoria degli analgesici morfinici e giustifica una
sorveglianza adatta, preferibilmente in un’unità di terapia intensiva;
d) disturbi del ritmo cardiaco ed infarto miocardico indolore: giustificano
un elettrocardiogramma quotidiano nel postoperatorio.
Interventi d’urgenza
Nei diabetici anziani non sembra esistere una maggiore predisposizione a
subire interventi chirurgici d’urgenza, rispetto alla popolazione generale.
Di fronte ad un paziente diabetico che debba venir sottoposto a procedure
chirurgiche d’urgenza, è sempre necessario ricercare i segni clinici di chetoacidosi o di condizione iperosmolare, e determinare immediatamente glicemia,
azotemia, elettroliti sierici, equilibrio acido-base ed osmolarità plasmatica. Si
deve poi iniziare una terapia a base di glucosio, insulina e potassio per conseguire un controllo glicemico ottimale. Talora si può verificare che un quadro
addominale suggestivo per una peritonite trovi risoluzione con un trattamento
come quello sopra esposto. Questo sta a significare che la sintomatologia
addominale era dovuta a chetoacidosi; di contro, può verificarsi che, a causa
di una importante neuropatia autonomica, una grave peritonite si manifesti
con scarso dolore addominale.
Possono comunque verificarsi due condizioni fondamentali:
1) L’INTERVENTO È DIFFERIBILE DI ALCUNE ORE:
A) Paziente con diabete tipo 1
Continuare il regime infusionale come nel periodo intraoperatorio, apportando
modificazioni della velocità di infusione insulinica in base ai valori glicemici,
sino alla ripresa dell’alimentazione orale.
Se l’alimentazione orale non viene ripresa entro 48-72 ore, va considerata
l’opportunità di instaurare l’alimentazione artificiale (parenterale od enterale).
B) Paziente con diabete tipo 2
1) Intervento chirurgico maggiore: continuare l’infusione di glucosio, insulina e potassio fino al ripristino dell’alimentazione per os, una volta ripresa la
quale si potrà continuare con la somministrazione sottocutanea di insulina fino alla fine della convalescenza; a quel momento, riprendere la terapia abituale.
2) Intervento chirurgico minore:
a) per i pazienti che non hanno ricevuto alcun trattamento particolare durante l’intervento, riprendere la terapia abituale al ripristino dell’alimentazione
orale;
b) nei pazienti che hanno ricevuto durante l’intervento l’infusione di glucosio,
insulina e potassio, continuare tale regime e riprendere la terapia abituale
al ripristino dell’alimentazione per os.
144
Se il laboratorio non conferma il sospetto clinico di chetoacidosi o condizione
iperosmolare, si procede all’intervento con gestione operatoria simile a quella
descritta per gli interventi di elezione. Poiché è prevedibile una insulinoresistenza, è consigliabile aumentare la dose di insulina della soluzione infusionale.
In presenza di chetoacidosi o condizione iperosmolare, l’intervento sarà rinviato di qualche ora per l’attuazione dei provvedimenti necessari alla correzione dello squilibrio acido-base o della iperosmolarità.
2) L’INTERVENTO NON È DIFFERIBILE:
Iniziare immediatamente l’intervento, attuando contemporaneamente la terapia reidratante.
Il protocollo gestionale sarà quello del tipo dell’intervento di elezione o del tipo
terapia dell’emergenza metabolica a seconda dei dati di laboratorio.
Chirurgia ambulatoriale
Possono essere realizzati tranquillamente, a patto che il paziente sia in buon
controllo metabolico.
L'assunzione del farmaco ipoglicemizzante avverrà normalmente al mattino,
preferibilmente sul luogo dell'intervento. Dato che il soggetto dovrà essere digiuno, si provvederà a somministrare una soluzione glucosata per e.v.
145
TRATTAMENTO POSTOPERATORIO DEL PAZIENTE DIABETICO
L'intervento dovrà essere realizzato in prima mattinata.
Generalmente la rialimentazione del paziente potrà avvenire all'ora di pranzo,
con un pasto leggero. Dopo il paziente potrà tornare al proprio domicilio, se i
valori glicemici saranno soddisfacenti; se la glicemia è elevata (> 250 mg/dl),
il rientro a domicilio verrà differito, e così avverrà anche se il paziente lamenta
vomito.
Nome______________________________________________________________________
Per un controllo postoperatorio dei livelli glicemici del paziente che sia più
semplice e che, in reparti spesso oberati di lavoro, riduca al minimo i rischi di
incidenti (essenzialmente legati al mancato riconoscimento dell'esaurimento
dell'infusione di glucosio e quindi alla somministrazione accidentale della sola
soluzione insulinica con grave conseguente rischio di una marcata ipoglicemia), si consiglia di somministrare al paziente diabetico, in questa fase, una
soluzione unica contenente insulina, glucosio e potassio, secondo gli schemi
riportati nelle tabelle 30 e 31.
CONTROLLO METABOLICO
Età_____ UNITA’ OPERATIVA________ Letto n°_____ Intervento effettuato_______________
Durata intervento______ ore Tipo di anestesia_______________ Ora di invio in Reparto_______
Catetere peridurale
SI
NO
Catetere venoso centrale
SI
NO
Glicemia = Arrivo in Reparto + ogni________ ore per________ ore
Kaliemia = Arrivo in Reparto + ogni________ ore per_________ ore
Emogasanalisi
SI
NO
ore__________________________________ Diuresi = Oraria
GIK
SI
NO _____ ml/ora
Sol. Glucosata____% ____ ml
Insulina_____ U
+
K ______ mEq
ANALGESIA
___
farmaco_________________________
dosi_____________________
Peridurale SI
Livello________
NO --
a boli-------- tempi____________________
___ continua__________ml/h
----- farmaco____________________________________
e.v.
SI
NO
infusione continua______ml/h
---- infusione controllata______________________
i.m.
SI
NO farmaco____________________ dosi____________
altri
SI
NO
MONITORAGGIO:
(specificare)_______________________________________________
ECG
Respiro
Funzione vescicale
Il medico
Tabella 29
146
147
XIV. PREVENZIONE E TRATTAMENTO DEL PIEDE DIABETICO
Glicemia (mg/dl)
Ritmo di infusione
Ritmo di infusio-
Ritmo di infusione del
della soluzione
ne dell’Insulina
Glucosio (g/ora)
(ml/ora)
(U/ora)
> 250
50
5.0
2.5
201-250
40
4.0
2.0
171-200
30
3.0
1.5
141-170
20
2.0
1.0
121-140
15
1.5
0.75
101-120
10
1.0
0.50
81-100
8
0.8
0.40
61-80
5
0.5
0.25
< 60
0
0.0
0
Anche questo argomento è stato da noi ampiamente trattato in una precedente monografia, a cui rimandiamo per gli aspetti generali304. Riportiamo in questo paragrafo alcuni aspetti peculiari di questa patologia nell’età avanzata.
Il piede diabetico è una causa significativa di morbilità e mortalità nei diabetici
anziani e il rischio di sviluppare patologie degli arti inferiori aumenta con
l’incremento dell’età. Questa patologia include la presenza di ulcerazioni, amputazioni, alterazioni scheletriche del piede e fratture. In questi pazienti
l’amputazione è 20 volte maggiore rispetto ai non diabetici e l’ulcera è un importante fattore di rischio per l’amputazione.
In un campione di diabetici ospitati presso case di riposo, circa l’8% presentava ulcere e di questi circa il 39% presentava neuropatia, il 24% presentava
patologia vascolare periferica e il restante entrambe305.
I fattori di rischio per lo sviluppo di ulcere sono306-307:
• pregresse ulcere
• neuropatia periferica/autonomica
• arteriopatia periferica
• nefropatia diabetica
• retinopatia diabetica/riduzione del visus
• limitazioni della motilità articolare e deformazioni ossee
• incremento dell’età
• scarsa igiene locale
• vivere da solo
• fumo e alcool.
Molti anziani non sono capaci di esaminare e monitorizzare lo stato dei propri
piedi sia per riduzione del visus che per riduzione della mobilità. I pazienti che
vivono in case di riposo sono quelli a maggior rischio. Per questo bisogna addestrare il personale di assistenza ad effettuare una ispezione regolare dei
piedi, valutare lo stato circolatorio periferico, la funzione muscolo-scheletrico
e della sensibilità308.
Sebbene non vi siano evidenze dirette su quale sia il miglior modo e miglior
frequenza di monitorizzare gli arti inferiori, è invece evidente il beneficio di
uno screening multidisciplinare e un programma di protezione degli arti inferiori nei pazienti che presentano un aumentato rischio di sviluppare ulcere.
Queste indagini sottolineano anche la necessità di utilizzare scarpe speciali309-311.
In letteratura vi sono molte indagini che hanno utilizzato interventi educativi e
che hanno incluso le problematiche relative al piede nei pazienti di tipo 2, ma
Soluzione: Sol. Glucosata 5% 500 ml + Insulina Rapida 50 U.I. + Emagel 50 ml
(Concentrazione insulinica della soluzione: 1 U.I. ogni 10 ml)
Tabella 30
Glicemia (mg/dl)
Ritmo d i infusione
Ritmo di infusio-
Ritmo di infusione del
della soluzione
ne dell’Insulina
Glucosio (g/ora)
(ml/ora)
(U/ora)
> 250
50
5.0
5.0
201-250
40
4.0
4.0
171-200
30
3.0
3.0
141-170
20
2.0
2.0
121-140
15
1.5
1.5
101-120
10
1.0
1.0
81-100
8
0.8
0.8
61-80
5
0.5
0.5
< 60
0
0.0
0
Soluzione: Sol. Glucosata 10% 500 ml + Insulina Rapida 50 U.I. + Emagel 50 ml
(Concentrazione insulinica della soluzione: 1 U.I. ogni 10 ml)
Tabella 31
148
149
questi ultimi aspetti sono stati generalmente sottovalutati o sono state utilizzate metodologie non validate. Ad esempio, una indagine che prevedeva
l’utilizzo di una combinazione di immagini realistiche delle sequele della patologia degli arti inferiori e un intervento educativo sui pazienti con una checklist di istruzione ha determinato una riduzione significativa di una serie di importanti end-points quali ulcerazioni e amputazioni al follow-up di un anno312.
In Italia è da tempo in corso un programma nazionale313-314 che prevede, dopo l’addestramento di circa 1/3 dei team che operano nelle strutture preposte
all’assistenza del paziente diabetico utilizzando la metodologia
dell’educazione terapeutica strutturata, con distribuzione anche di apposito
materiale illustrativo, una serie di interventi omogenei sui pazienti diabetici,
con follow-up annuali. I primi dati saranno disponibili tra pochi mesi.
XV. IL DIABETICO ANZIANO NELLE ISTITUZIONI
150
Il progressivo invecchiamento della popolazione, che caratterizza demograficamente in particolar modo i Paesi industrializzati, comporta tra le altre conseguenze un continuo incremento del numero di persone che trascorrono
l’ultima parte della loro esistenza nelle case di riposo. Il fenomeno, in Italia, è
particolarmente rilevante nelle regioni nelle quali questa dinamica demografica è più accentuata e nelle quali, generalmente, sono presenti più strutture
adatte alla residenza protetta. A questa crescita numerica si accompagna una
radicale trasformazione delle loro funzioni: sorte in anni ormai lontani con finalità caritative o di beneficenza pubblica a favore dei meno abbienti, le residenze per anziani stanno assumendo caratteristiche eminentemente assistenziali e sanitarie, accogliendo un numero sempre maggiore di ospiti non
autosufficienti, affetti da patologie croniche invalidanti o bisognosi di riabilitazione.
Tra gli ospiti delle case di riposo i diabetici sono una percentuale non trascurabile, sia per l’elevata prevalenza della malattia nel corso della terza e quarta
età, sia per la frequente associazione del diabete con altre condizioni invalidanti315-317. Quest’ultima circostanza pone particolari problemi di assistenza
diabetologica accentuati dalle modificazioni comportamentali indotte
nell’anziano dalla permanenza nella struttura residenziale, costante quali la
sedentarietà e la progressiva perdita di iniziative a favore di una sempre più
marcata dipendenza dall’istituzione: all’interno della popolazione affetta da
diabete, infatti, i pazienti istituzionalizzati rappresentano un sottogruppo con
caratteristiche ed esigenze peculiari.
Come abbiamo già accennato, sono disponibili poche informazioni sulla prevalenza di diabete fra quanti risiedono nelle case di riposo. Negli USA è stata
segnalata una prevalenza quasi doppia rispetto alla popolazione generale318319
, mentre un’indagine italiana condotta nel Friuli-Venezia Giulia ha rilevato
una prevalenza del diabete noto pari al 10.6%320, dato che appare molto indicativo se confrontato con la prevalenza della popolazione italiana, anche della fascia di età più avanzata.
Un altro elemento che differenzia i diabetici residenti nelle case di riposo deriva dal tipo di terapia cui vengono sottoposti: una maggiore utilizzazione della
terapia insulinica da sola o associata ad antidiabetici orali rispetto alla popolazione generale321.
L’eterogeneità dei pazienti diabetici residenti nelle case di riposo impedisce
qualsiasi schematizzazione nel fissare gli obiettivi terapeutici e, quindi, di impostare il trattamento antidiabetico ottimale. All’alternativa fra il trattamento
aggressivo, mirante al conseguimento dell’euglicemia o comunque di approssimarla il più possibile allo scopo di prevenire o rallentare l’insorgenza di
151
complicanze diabetiche, ed il trattamento non aggressivo, volto a prevenire le
complicanze acute iper- o ipoglicemiche della malattia, è da preferire, infatti,
un approccio flessibile ed individualizzato che tenga conto di numerosi variabili riguardanti le condizioni generali del paziente, della patologia diabetica e,
principalmente, il grado di assistenza che la struttura ospitante è in grado di
assicurargli (tabella 30).
_________________________________________________________
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Età
Aspettativa di vita
Grado di autosufficienza
Condizioni cliniche generali
Durata nota del diabete
Presenza o meno di complicanze tardive
Stato nutrizionale
Capacità incretoria insulare residua
Compliance dietetica e farmacologica
Assistenza (generale e specialistica) disponibile nella struttura
_________________________________________________________
Tabella 30. Variabili da considerare nell’impostare il trattamento di un
anziano diabetico istituzionalizzato
L’aspettativa di vita residua è la prima variabile da considerare. Essa è in funzione dell’età anagrafica, delle condizioni cliniche generali (in particolare della
concomitanza di patologie a prognosi infausta) e del grado di autosufficienza
del paziente. Una ridotta aspettativa di vita controindica il trattamento aggressivo, dal momento che i rischi che ne derivano non sono bilanciati dai benefici
a lungo termine sull’insorgenza e la progressione delle sequele del diabete. In
questi casi è indicato un approccio meno aggressivo, limitato, quando possibile, alla sola terapia dietetica. Quando si rende necessaria la terapia orale
e/o insulinica, la posologia va ridotta al minimo indispensabile per evitare il rischio di ipoglicemie iatrogene.
Quando l’aspettativa di vita è sufficientemente lunga (empiricamente si può
fissare un termine di almeno cinque anni) entrano in gioco altri fattori. In primo luogo va valutato il tempo trascorso dalla diagnosi di diabete, che con la
sua durata condiziona la maggiore o minore possibilità di sviluppare una o più
complicanze nell’arco di qualche anno e, pertanto, può indirizzare o meno
verso un trattamento intensivo. La scelta del tipo di terapia dipenderà, oltre
che dalle esigenze più propriamente metaboliche, da elementi quali la coesistenza di altre patologie croniche, lo stato nutrizionale e funzionale del pa-
152
ziente e la sua potenziale compliance, secondo quanto già detto in altra parte
di questa monografia.
A questi fattori vanno aggiunti il tipo e la qualità dell’assistenza che
l’istituzione è in grado di offrire. In teoria l’istituzionalizzazione dovrebbe risolvere alcuni dei principali problemi della terapia del diabete nell’anziano, quali
l’inadeguata alimentazione e la scarsa compliance terapeutica. Invece, alcune esperienze322, evidenziano come il controllo metabolico e la necessità di
ospedalizzazione non corrispondo alle aspettative. L’offerta di pasti nutrizionalmente adeguati non basta a rimuovere tutte le possibili cause di malnutrizione e, soprattutto, non modifica il comportamento alimentare. Infatti, si può
osservare come in questi istituti diabetici in soprappeso frequentano assiduamente i distributori automatici di bevande e alimenti o che ricercano, a tavola, la compagnia di ospiti inappetenti ben disposti a lasciar loro parte del
pasto. Analogamente, somministrare regolarmente la terapia non preserva
automaticamente dallo scompenso metabolico, che è una delle più frequenti
cause di ricovero.
Esiste uno standard assistenziale minimo per gli anziani affetti da diabete che
ogni struttura residenziale dovrebbe assicurare ai suoi ospiti (tabella 31)323.
_____________________________________________________________
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Valutazione iniziale
Anamnesi ed esame obiettivo generale
Anamnesi dietologica
Valutazione geriatria
Esami di laboratorio: glicemia, esame delle urine, emoglobina glicata, assetto lipidico, creatininemia, ECG
Visita oculistica
Terapia a lungo termine
Adozione del trattamento migliore per raggiunger i livelli glicemici desiderati
Valutazione della glicemia con la frequenza necessaria a verificare il raggiungimento
degli obiettivi terapeutici
Valutazione annuale delle complicanze tardive del diabete
Valutazione annuale geriatria
_____________________________________________________________
Tabella 31. Standard assistenziali minimi per gli anziani affetti da diabete mellito.
Essa comprende, al momento dell’ammissione nella struttura, una valutazione clinico-anamnestica generale e geriatria, una serie mirata di esami di laboratorio per determinare il grado del compenso glicemico, l’assetto lipidico e la
funzione renale, un elettrocardiogramma ed una visita oculistica. In base agli
elementi raccolti, vanno fissati gli obiettivi metabolici ed un conseguente piano terapeutico, da monitorare periodicamente sotto il profilo metabolico, le
153
complicanze e, globalmente, geriatrico. È evidente che, quanto più impegnativa è la terapia antidiabetica, tanto maggiore dovrà essere la collaborazione
richiesta al personale della casa di riposo.
Al riguardo l’esperienza del Friuli – Venezia Giulia324 inducono alla cautela,
dal momento che la situazione rilevata è apparsa soddisfacente solo dal punto di vista delle dotazioni strumentali per il monitoraggio della glicemia. Tutte
le case di riposo interpellate prevedevano periodicamente, infatti, per gli ospiti
esami di laboratorio, la maggior parte disponeva di reflettometro ed in molte
era possibile eseguire estemporaneamente glicosuria, chetonuria e l’esame
multiparametrico delle urine. Per quanto riguardava l’assistenza medica, invece, solo due istituzioni disponevano di una guardia medica attiva, mentre in
27 il medico era presente per alcune ore, assicurando nelle altre la reperibilità; in nove prestava solo attività ambulatoriale ed in sei interveniva solo su
chiamata. Due terzi delle strutture disponeva del consulente fisiatra, il 61%
poteva assicurare agli ospiti una consulenza diabetologica e solo il 50% prevedeva una consulenza oculistica. Da sottolineare quest’ultimo aspetto molto
insoddisfacente, considerando l’elevata prevalenza di patologie oculari potenzialmente menomanti nella popolazione anziana.
Infine, l’assistenza diabetologica quotidiana viene assicurata dal personale
infermieristico (ma in un terzo delle case di riposo la presenza dell’infermiera
professionale è limitata alle ore diurne) e da altre figure professionalmente e
culturalmente meno qualificate.
Da questi dati risulta l’esigenza di preparare (e motivare) adeguatamente tutto il personale di assistenza non solo alla gestione dell’ospite diabetico, ma
soprattutto alla prevenzione ed al tempestivo riconoscimento degli squilibri
metabolici e delle loro cause contingenti. Fino a quando questo requisito non
viene soddisfatto è opportuno astenersi dall’intraprendere programmi terapeutici ambiziosi, che potrebbero essere causa di vere e proprie catastrofi
metaboliche.
XVI. ALTERAZIONI FUNZIONALI E INVALIDITÀ FISICA
154
Il diabete è spesso associato ad alterazioni funzionali e invalidità tali da determinare handicap, anche sociale L’ampio spettro delle complicanze vascolari, gli scompensi metabolici acuti, le reazioni avverse dei farmaci, gli effetti
della condizione sulla nutrizione e sullo stile di vita possono creare vari livelli
di compromissioni funzionali e/o disabilità. Queste variazioni, a loro volta,
possono rendere vulnerabili verso altre comorbilità, incidere sull’autonomia e
sulla qualità della vita. Lo stesso incremento degli anni, anche in assenza di
specifiche condizioni morbose, è associata spesso ad alterazioni funzionali
che impediscono la prevenzione delle malattie e, in loro presenza, un miglioramento sarà efficace solo in parte325.
Sebbene nello studio di Framingham326 l’indagine relativa ai soggetti anziani
(74+6 anni) ha considerato il diabete inferiore nel limitare alterazioni funzionali rispetto all’ictus, alla depressione, alla frattura dell’anca, alle malattie cardiovascolari, all’osteoartrite e alle malattie respiratorie croniche, nell’Health
and Retirement Survey327 il diabete è stato identificato, al follow up di 2 anni,
come un predittore importante nell’impedire l’evoluzione positiva delle cause
che determinano difficoltà della mobilità. Nella prima fase di un’altra indagine328, il diabete è stato visto come un fattore di rischio indipendente per
l’ammissione nelle residenze sanitarie assistite, probabilmente per i suoi effetti sullo stato funzionale e sui livelli di disabilità. In uno studio spagnolo329
sulla relazione tra malattie croniche ed invalidità, condotto su oltre 1000 pazienti con età superiore ai 65 anni e dimoranti in casa, è stato evidenziato
come il diabete sia una delle malattie croniche (insieme alle malattie cerebrovascolare, i disordini dell’ansia e la depressione) associate fortemente alla disabilità. Un’altra indagine ha concluso che vi è una forte predittività di mortalità a 5 anni negli anziani affetti da diabete (così come l’ipertensione e le neoplasie)330. Uno studio prospettico di coorte, durato 3.4 anni) ha dimostrato
come il diabete sia uno fattori associato con gli esiti funzionali peggiori in una
popolazione con età superiore ai 65 anni331.
C’è sempre più consapevolezza che il declino funzionale negli anziani sia altamente variabile e dipende da numerosi fattori. Nel 1971, il Manitoba Longitudinal Study on Aging332 ha condotto una intervista ad una coorte rappresentativa di soggetti di età compresa tra 65 e 84 anni e nel 1983 ai sopravvissuti
(circa il 20%). L’analisi è stata eseguita su circa 100 indicatori di funzionalità
per identificare i predittore ipotizzati come positivi per la sopravvivenza. Analoghe osservazioni sono state eseguite in un’ulteriore indagine333. L’analisi di
un ampio spettro di caratteristiche socio-demografiche e dello stato di salute
in una coorte di uomini e donne, di età compresa tra 70 e 79 anni, seguiti in
USA per tre anni, ha dimostrato che il diabete è uno dei principali fattori pre-
155
dittivi di declino funzionale. Lo studio AWARE334, confrontando in maniera
crociata oltre 400 pazienti diabetici di età superiore ai 65 anni con un analogo
gruppo di controllo, ha mostrato nei primi un aumento significativo delle disabilità fisiche, motorie e della vista. In un’altra indagine incrociato di una comunità di messicani d’America, di età superiore ai 65 anni335, il diabete si è rivelato come predittivo di una peggiore performance del test di funzionalità agli
arti inferiori; invece, i dati di uno studio su una popolazione meno numerosi di
afro-americani anziani (> 70 anni) anche loro affetti da diabete ha mostrato
una maggiore disabilità e peggiori condizioni generali rispetto ad un gruppo di
controllo più numeroso. Anche il NHANES III336, condotto su diabetici con età
superiore a 60anni e non ricoverati, ha mostrato che il diabete rappresenta la
maggior causa di disabilità fisica. L’alterazione di almeno una delle funzioni
fisiche esaminate è stata osservata nel 63% delle donne diabetiche (42% nei
controlli) e nel 39% degli uomini (25% nei controlli), con una stretta associazione tra diabete e le forme più gravi di invalidità. Inoltre è risultato che il diabete sviluppa il doppio o il triplo delle probabilità di determinare disturbi motori, risultando, con la cardiopatia ischemica, uno dei maggiori responsabili di
invalidità in entrambi i sessi, mentre lo stroke lo è per gli uomini. Il Women’s
Health and Aging Study337 ha esaminato la relazione tra l’invalidità degli arti
inferiori ed in diabete in oltre 1000 donne disabili di età superiore ai 65 anni. È
risultato che le diabetiche avevano una maggiore prevalenza di disturbi motori, della compromissione nelle attività del vivere quotidiano e una limitazione
severa nell’autonomia di marcia. I fattori che contribuiscono a spiegare alcune
di queste associazioni sono l’arteriopatia ostruttiva periferica, la neuropatia
periferica e la depressione. Altri elementi importanti di questa associazione
sono rappresentati dall’obesità, la riduzione dell’acuità visiva e le malattie
cardiovascolari. Analoghi risultati sono stati osservati in uso studio prospettico osservazionale di coorte338 in una comunità di donne bianche di età compresa tra 65 e 99 anni, con il diabete che risulta associato ad una aumento
del 42% del rischio per qualsiasi tipo di invalidità e del 53-98% per alterazioni
aspecifiche quali camminare in piano o nel fare lavori domestici.
XVII. ALTERAZIONI COGNITIVE
156
È grazie ai notevoli progressi nel trattamento del diabete e delle sue complicanze che i pazienti che ne sono affetti possono vivere fino a tarda età. Ma
questo successo comporta tuttavia un aumentato rischio di fragilità, che nei
soggetti diabetici essere più elevato rispetto al resto della popolazione. In particolare, nell’ultimo decennio crescenti preoccupazioni circa il declino cognitivo di questi pazienti hanno indotto la comunità scientifica a porre l’accento
sull’analisi delle evidenze epidemiologiche e la plausibilità fisiopatologia di
questa associazione339.
Utilizzando un’ampia batteria di tests è stata dimostrata una riduzione della
funzione cognitiva negli anziani affetti da diabete tipo 2340. Mediante test
semplici, quali il Folstein MMSE, il Mental Score abbreviato e il Clock Test,
diversi studi di comunità hanno mostrato una peggiore funzione cognitiva nei
diabetici con diabete tipo 2. Ad esempio è stata dimostrato che la ridotta tolleranza glucidica è legata ad una diminuzione cognitiva341-342 e che la stessa
iperinsulinemia potrebbe essere associata, nelle donne, a riduzione della funzione cognitiva e della demenza343. Uno studio precedente344 aveva dimostrato che il diabete tipo 2 può essere associato sia con il morbo di Alzheimer che
con la demenza vascolare, mentre il Rochester Study345 ha evidenziato come, sia negli uomini che nelle donne con diabete tipo 2, la demenza è aumentata in maniera significativa; un’altra indagine correlava il diabete tipo 2
alla demenza vascolare346. Un cattivo controllo glicemico può essere associato ad una riduzione transitoria della capacità cognitiva, alterazione che può
regredire in seguito al riequilibrio della glicemia347. Nelle donne diabetiche
con età superiore a 72 anni è stato evidenziato un rischio di compromissione
cognitiva doppio rispetto ai controlli e un aumento del 74% del rischio di declino cognitivo348. Quando il diabete durava da oltre 15 anni, il rischio di avere
un calo cognitivo basale è apparso triplicato e il rischio di declino raddoppiato.
Anche l’ipertensione arteriosa è apparsa inversamente associata alla performance cognitiva, con una correlazione, nella mezza età, tra livelli pressori e
funzione cognitiva negli anni successivi349-350. Anche il Framingham Study351,
al follow up di 20 anni ha dimostrato negli uomini che diabete tipo 2 e ipertensione arteriosa sono significativi fattori di rischio indipendenti per la ridotta
performance cognitiva (su test di organizzazione visiva e memoria). Questi
dati sono stati confermati da altre indagini da cui, in particolare, è stato evidenziato come la ridotta performance cognitiva è correlata all’iperinsulinemia
in presenza di ipertensione352-353.
Dal momento che il riconoscimento precoce del deficit cognitivo negli anziani
con diabete può dare molti benefici, è importante l’esecuzione di test cognitivi
in tutti i pazienti anziani quando si vuole fare una valutazione funzionale. A
157
seconda della gravità, l’alterazione della funzione cognitiva potrebbe avere
una grossa implicazione nell’aumentare il rischio di ospedalizzazione, di riduzione dell’autosufficienza, di una minore probabilità di presentarsi ai controlli
periodici specialistici e un aumento del rischio di ricovero in istituti sanitari354
(tabella 32).
___________________________________________________________
-
Indirizza il medico a considerare la presenza di malattie cerebrovascolare e di ricercare gli altri fattori di rischio vascolare
Può essere un indicatore precoce della presenza del morbo di Alzheimer ed iniziare
immediatamente il trattamento
Permette ai pazienti e ai familiari di beneficiare dell’assistenza sanitaria e sociale
Crea le opportunità per intervenire sulle alterazioni del diabete che possono peggiorare il deficit cognitivo: ottimizzare il metabolismo glucidico, lipidico e controllare la
pressione arteriosa.
Tabella 32. Benefici del riconoscimento precoce del deficit cognitivo
del diabetico anziano
La riduzione della funzione cognitiva può determinare una scarsa aderenza al
trattamento, un peggior controllo glicemico da dieta inadeguata o da errori terapeutici, con un aumento del rischio di sviluppare crisi ipoglicemiche nel caso in cui il paziente anziano, dimenticando di aver assunto la terapia, la assume una seconda volta.
XVIII. DEPRESSIONE E DIABETE
158
Uno degli aspetti trascurati nei passati decenni, ma probabilmente non di minore importanza, è quello volto alla comprensione della relazione tra diabete
mellito e disturbi dell’umore, in particolare il disturbo depressivo. Questa attenzione è da considerarsi in linea con la tendenza a valutare le problematiche del diabetico anziano nella sua completezza, quindi non solo da un punto
di vista strettamente organico, ma anche psicologico. Non a caso la classica
definizione medica di “stato di apparente buona salute” è stata già da molti
medici sostituita con la corrispondente stato di apparente benessere psicofisico”.
L’interesse per la relazione tra depressione e diabete non è un mero esercizio
epidemiologico, ma getta le sue fondamenta sull’osservazione clinica delle
conseguenze che la depressione può avere sulla gestione della malattia diabetica.
La prevalenza di depressione nelle persone diabetiche può essere due-tre
volte superiore rispetto a quella della popolazione adulta e spesso negli anziani non è sufficientemente riconosciuta e trattata355. La presenza di questa
associazione è apparsa indipendente dall’età, sesso o dalla concomitanza di
altre patologie croniche356. Talora la depressione può essere un fattore predittivo per la comparsa di diabete tipo 2357.
La frequenza di suicidio è più altra tra gli anziani che tra gli altri gruppi di età
e, per i soggetti di età superiore agli 85 anni, è il doppio della media nazionale. Inoltre, la presenza di depressione è risultata il più importante
indicatore di mortalità nei pazienti diabetici ospedalizzati358.
Uno dei momenti in cui può svilupparsi un quadro depressivo deriva
dall’impatto psicologico della diagnosi nel diabetico tipo 2, specie
nell’anziano, nel momento in cui gli si comunica la necessità di modificare
abitudini ormai radicate nella sua vita personale e sociale
Spesso, però, la depressione è il risultato diretto delle complicanze ingravescenti del diabete, le pressioni della gestione della malattia o la frustrazione di
un controllo glicemico irregolare. A loro volta, una scarsa aderenza al trattamento, una minore attività fisica e uno scarso controllo glicemico sono spesso
il risultato della depressione359.
La depressione può anche indurre un aumento dell’assunzione di alcolici –
considerazione importante a causa degli effetti collaterali dell’alcool sulla psiche e sul fisico – e l’abuso di alcolici è quattro volte più frequente nei maschi
anziani che delle loro coetanee femmine.
La diagnosi di depressione non è semplice. Un suo tardivo riconoscimento
può avere delle conseguenze serie dal momento che ha un decorso a lungo
termine, è invalidante ed ha un grosso impatto sulla qualità della vita360. Alcu-
159
ni farmaci, come quelli per il trattamento dell’ipertensione, dei disturbi cardiaci
e i tranquillanti, possono causare depressione. Inoltre, i sintomi
dell’iperglicemia sono spesso confusi con la depressione.
Il processo diagnostico si fa ancora più complicato quando è presente un deficit cognitivo, ma la distinzione tra depressione e demenza è fondamentale,
perché la depressione è reversibile e spesso risponde prontamente al trattamento di sostegno e ai farmaci antidepressivi.
Naturalmente tutto quello che abbiamo scritto su questa correlazione presenta ancora, dal punto di vista scientifico, molti punti oscuri, ma l’associazione
ormai dimostrata tra diabete e depressione non può esimerci da alcune considerazioni di natura pratica, come l’importanza di diagnosticare il disturbo
depressivo nei diabetici anziani, vista che risulta intuitivo come il trattamento
della patologia psichiatrica può migliorate il controllo del diabete. Questo aspetto è già stato espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha
validato una serie di semplici questionari, non ancora però di uso corrente,
per promuovere lo screening dei disturbi depressivi in ambito ambulatoriale.
Naturalmente, i pazienti positivi allo screening andrebbero inviati ad uno specialista psichiatrico o psicoterapeuta, emergendo, anche in questo caso, la
necessità della gestione multidisciplinare della malattia diabetica.
XIX. VALUTAZIONE FUNZIONALE
160
La valutazione funzionale del diabetico anziano è una tappa essenziale del
processo di inquadramento iniziale e va eseguita usando strumenti ben valicati. Senza adeguati metodi valutativi la compromissione funzionale potrebbe
essere clinicamente non evidente361. Mentre alcune indagini dimostrano una
forte associazione tra diabete e compromissione funzionale, bisognerebbe ricordare che almeno la metà del grado di invalidità non dipende direttamente
dalle complicanze secondarie al diabete e questo enfatizza l’importanza di
una valutazione completa.
La valutazione dello stato funzionale dovrebbe derivare da un rapporto multidisciplinare comprendente almeno tre aree di valutazione:
1. funzionalità fisica
2. funzionalità mentale
3. funzionalità sociale.
In ogni caso, è richiesta un’ulteriore valutazione con misurazione della capacità di autogestione e di possibilità di vivere in modo autonomo (misurate generalmente con le attività del vivere quotidiano). I benefici della valutazione
funzionale in termini generali sono riportati nelle tabelle .
Tanto più elevato è lo stato funzionale, tanto maggiore sarà la sua capacità
predittiva per una buona qualità e spettanza di vita362-363. Solo se la valutazione è strutturata diventa obiettiva, misurabile, facile da seguire ed è in grado di discriminare appropriatamente i soggetti su una base individuale.
La valutazione funzionale è la prima componente del CGA (Comprehensive
Geriatric Assessment) che il geriatra utilizza come metodologia essenziale364.
Infatti, è cruciale nella valutazione iniziale ed è utile nella pianificazione della
cura, della riabilitazione e per il monitoraggio del progresso clinico. Il CGA
può essere utilizzato in molte situazioni cliniche dal momento che non comprende solamente una valutazione basale dello stato funzionale, ma varie
tecniche limitate di screening, valutazione di problemi sociali e medici, indirizzando il trattamento iniziale e programmando il follow-up. Il CGA e le sue varianti (quale in package valutativo domiciliare) si sono dimostrati in grado di
ridurre la mortalità (del 12% a 12 mesi), di aumentare le possibilità di permanere al proprio domicilio dopo un ricovero ospedaliero (il 26% a 12 mesi), di
ridurre il numero e la durata del ricovero ospedaliero (il 12% a 12 mesi) ed è
stato osservato un netto miglioramento delle condizioni fisiche e cognitive365.
Non tutti i pazienti possono beneficiare di questo approccio: nella tabella 33
sono illustrati i criteri che individuano quale diabetico tipo 2 anziano può beneficiare del metodo di valutazione comprensivo di una misurazione dello stato funzionale.
161
__________________________________________________________
!
!
!
!
!
Presenza di una sindrome geriatrica: stato confusionale, depressione, cadute, incontinenza, immobilità, ulcere da pressione
Evidenza di declino funzionale
Coesistenza di morbilità che necessitano di un regime farmacologico complesso
Disabilità secondarie ad arteriopatia obliterante o neuropatia agli arti inferiori, che
necessitano un programma di riabilitazione motoria
Assenza di malattie terminali o di una sindrome demenziale avanzata
Tabella 33. Criteri per individuare i pazienti diabetici anziani da sottoporre
a valutazione geriatrica
Purtroppo, però, la maggior parte delle strutture diabetologiche, per la valutazione funzionale, non utilizza di routine il CGA, né fa riferimento a strutture
geriatriche per una proficua collaborazione; e questo nonostante che, come
abbiamo già detto, vi siano forti evidenze sul valore prognostico della valutazione dello stato funzionale per la spettanza di vita e di vita attiva nel diabetico anziano e che gli strumenti da utilizzare siano ampiamente validati.
XX. ORGANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA
162
Del tutto recentemente l’European Union Geriatric Medicine Society ha pubblicato le linee guida cliniche per il trattamento del diabete di tipo 2366.
La sezione B è dedicata al disease management del diabete di tipo 2 nel paziente anziano.
Inizia con una affermazione che non può non essere condivisa e, cioè, che il
diabete mellito, essendo una malattia progressiva, multisistemica, cronica e
spesso complicata, ha la necessità di un trattamento adeguato che può essere gestito, in qualsiasi momento, solo da un team professionale “dedicato”.
Solo un team diabetologico è in grado di colmare, nella pratica quotidiana,
quel gap che esiste in tutto il mondo tra la stesura di una linea guida e la gestione reale della malattia.
In un primo momento si è molto enfatizzato sulla tipologia e sul numero di figure professionali necessarie per la gestione del diabete, non soffermandosi
abbastanza sul come attuare le linee guida e sul come strutturare l’intricato
processo del trattamento per poterlo incentrare sul paziente, specie quello
anziano, che richiede un controllo continuo e che spesso si trova in una situazione di vulnerabilità.
Il principio su cui si basa il trattamento del paziente è incentrato sulla individuazione delle responsabilità dei vari componenti del team per la cura del paziente. Un piano terapeutico strutturato in modo chiaro e trasparente è possibile solo se il team diabetologico è formato da personale addestrato e motivato, che rivolge le sue attenzioni a diabetici anch’essi motivati.
Gli operatori sanitari devono essere in grado di mettere i pazienti diabetici in
una condizione tale da fargli prendere delle decisioni sulla terapia e sul loro
stile di vita, in maniera indipendente.
I componenti del team multidisciplinare potranno ottenere questo tipo di approccio se sono in grado di:
! trattare sempre le persone con rispetto e dignità
! informare i pazienti su tutti i servizi di cui possono beneficiare, mettendoli a conoscenza sul loro diritto di scelta
! collaborare con altre figure professionali o altre strutture, al fine di pianificare le indagini diagnostiche e la terapia
! pianificare la terapia antidiabetica, tenendo conto delle esigenze fisiche, emotive e mentali del paziente
! assicurare la disponibilità di una assistenza appropriata, affidabile,
tempestiva ed egualmente accessibile a tutti i soggetti affetti da diabete mellito.
Nella pratica clinica, il disease management per la gestione del diabete mellito deve possedere almeno cinque qualità:
163
!
!
!
!
!
valutare i risultati ed il metodi di cura adottato
identificare ed accettare le linee guida approvate
mettere il paziente in grado di autogestirsi
utilizzare protocolli di screening “aggressivi” per la valutazione delle
complicanze secondarie al diabete
eseguire una valutazione specialistica iniziale utilizzando un sistema a
due vie.
A. La pratica clinica nella gestione degli anziani affetti da diabete mellito
Il medico responsabile della gestione degli anziani affetti da diabete mellito
dovrebbe decidere sul tipo di cura da consigliare, sul numero di pazienti che
possono essere seguiti in maniera adeguata e su come deve essere organizzato tutto il sistema di assistenza.
Basandoci sulle linee guida dell’European Policy Group (IDF) del 1998-99,
l’infrastruttura necessaria per fornire un servizio per i diabetici di qualità globale deve possedere i seguenti requisiti:
• disponibilità di un team diabetologico multidisciplinare
• presenza di una serie di servizi direttamente accessibili ai pazienti anziani, anche se affetti da disabilità
• adozione di standard e protocolli di cura
• utilizzo di un modello di educazione terapeutica basata sui bisogni del
paziente
• possedere un sistema di archiviazione strutturata
• possibilità di usare un sistema di richiamo per la valutazione annuale
• consulenza con un oculista nella struttura per lo screening della patologia retinica
• un sistema di informazioni efficiente con possibilità di accesso a dati
clinici anonimi, che fornisca al paziente informazioni sul servizio, permettendogli di confrontarlo con altri centri
• un efficace sistema di revisione
• un continuo processo di sviluppo professionale per ogni componente
del team.
B. Organizzazione dell’assistenza per livelli.
Ogni livello di cura deve prevedere la presenza di un team motivato. Il livello
di organizzazione dipende, invece, dalla presenza o meno di supporti specialistici.
Nelle strutture di qualsiasi livello di cura, il paziente dovrebbe avere un accesso libero e continuato ad almeno una delle figure preposte all’assistenza.
164
Da questo deriva l’importanza vitale del ruolo dell’infermiere specializzato che
dovrebbe avere i seguenti ruoli:
• insegnare, educare e fare del counseling ai pazienti e a chi li assiste,
tenendo conto dei vari contesti clinici
• educare il paziente all’autogestione
• istruire il paziente all’autocontrollo glicemico
• fornire istruzioni e supporto in caso di necessità di trattamento insulinico e di proseguimento della terapia in ambito ospedaliero o a domicilio
• collegare e coordinare il team multidisciplinare per assicurare il trattamento ottimale del paziente
• fornire un supporto continuo ai pazienti e a chi li assiste.
La complessità del trattamento del diabete mellito dell’anziano richiede principalmente, ad ogni livello di cura, una terapia strutturata e concordata sulle
linee guida accettate a livello locale.
I criteri essenziali per ottenere l’assistenza migliore nei diabetici anziani sono
diversificati in base al livello di assistenza.
a. Livello di cura primaria
Presenza di:
• un medico di medicina generale e l’accesso ad un team costituito da
un infermiere, un dietista, un geriatra ed un infermiere specializzato in
diabetologia o in medicina di comunità o di distretto. Ogni componente
del team deve avere delle responsabilità ben definite
• una struttura che abbia un sistema di registrazione dedicato e che preveda una valutazione della qualità, oltre ad un sistema di rivalutazione
periodica per migliorare l’assistenza clinica
• un protocollo ben strutturato e condiviso con gli specialisti di secondo
livello, con accordo sulle varie responsabilità e sulla durata del follow
up. Questo protocollo deve includere anche i criteri necessari per
l’invio diretto del paziente alla struttura specialistica o ad altri componenti del team multidisciplinare.
Questi ultimi sono:
1. al momento della diagnosi
2. consulenza dietologica
3. consulenza podiatrica
4. rapporto con infermiere specializzato in diabetologia
5. consulenza oculistica per lo screening della retinopatia diabetica
165
6. paziente affetto da gravi complicanze vascolari (maculopatia o retinopatia preproliferante, piede diabetico, arteriopatia periferica)
7. paziente con perdita progressiva dell’autonomia o con immobilità da
varie cause
8. paziente con scompenso ventricolare sinistro o angina instabile
9. paziente con scarso controllo metabolico (che non abbia, cioè, raggiunto i valori target di emoglobina glicata o della pressione arteriosa o
dell’assetto lipidico)
10. pazienti con alterata funzionalità renale
b. Secondo livello di cura
Deve avere i seguenti requisiti:
• presenza di medico specialista in diabetologia che presti la propria opera in modo da rispondere alle esigenze degli anziani
• capacità di fornire protocolli strutturati di cura con pronta disponibilità
ed accesso ai servizi specializzati nella cura della patologia oculare,
della patologia vascolare, di quella renale, cardiologia, geriatria, neurologica, dermatologica e dei servizi psicosociali.
c. Terzo livello di cura (Centri di eccellenza)
Devono possedere le seguenti proprietà :
• centri di eccellenza clinica in grado di fornire l’intera gamma dei sevizi
clinici specialistici
• in grado di eseguire ricerche di base e di applicazione clinica
• che organizzi corsi di educazione e di addestramento rivolti ai professionisti della sanità
• partecipazione a programmi di accreditamento con riconoscimento nazionale e internazionale dei propri risultati.
C. Indicatori di risultato del sistema di management del diabete negli
anziani
Il rapporto costo/efficacia è un altro indicatore di qualità, ma esula da questa
trattazione.
Le misure devono essere valide, affidabili ed appropriate ai bisogni del disease management e delle risorse disponibili.
Come protocollo per lo sviluppo della qualità e per la valutazione della realizzazione del disease management, si può adottare un ciclo di verifica clinico
(multisciplinare) quale quello dell’European Diabetes Policy Group IDF Guidelines 1998-99, riportati nella figura 8.
Scegliere (nuovi*) risultati
d’interesse nel rappresentare tutti i campi di inchiesta
Fissare degli standard**
di prestazione
Promuovere dei cambiamenti per migliorare i servizi
e/o i processi
Raccolta dei dati di routine
e dei dati di resoconto
annuale
Confrontare i risultati con gli
standard condivisi
Analizzare i dati usando
indicatori di risultato
validi ed attendibili
*ogni ciclo può identificare ulteriori risultati di interesse
** in linea con le raccomandazioni nazionali o di altre, provenienti da servizi di cura di pari importanza
Figura 8. Ciclo di verifica clinico
Ogni sistema di disease management richiede una rivalutazione (in genere
annuale) delle prestazioni, al fine di assicurare che siano stati raggiunti gli
standard di cura, che la qualità della cura sia elevata e che si attuino delle
strategie di miglioramento.
I risultati che interessano la gestione dei diabetici anziani sono quelli clinici
(vascolari ed altre complicanza), metabolici, preventivi, di processo, funzionali
e di qualità della vita.
166
D. Indicatori di risultato per il Disease Management nei diabetici anziani
167
Nella tabella 34 sono riportate una serie di misure di risultato da prendere in
considerazione per valutare le prestazioni del proprio disease management o
per fornire una misura oggettiva della qualità erogata dal proprio servizio. È
logico che si possono adottare altre misure, in base alle proprie preferenze e
disponibilità.
Clinici
Percentuale di ospedalizzazione
Percentuale di ricoveri in istituti
Percentuale con acuità visiva > 6/36 nell’occhio migliore
Tasso di cecità segnalate
Tasso di amputazioni
Tasso di nuovi casi di infarto miocardio
Tasso di incidenza di ictus
Tasso di ipoglicemie
Tasso di mortalità cardiovascolare
Metabolici
Percentuale di HbA1c compresa tra 6.6-7.5% e >7.5%
Percentuale con valori pressori nel target (es. <130 mmHg)
Percentuale di pazienti a rischio CV >15% a 10 anni di trattamento con statine
Prevenzione
Percentuale di pazienti che hanno smesso di fumare
Percentuale di pazienti che svolgono attività fisica regolare (5 volte/settimana)
Percentuale trattata cn ACE-inibitori
Di processo
Percentuale di pazienti che hanno avuto una rivalutazione annuale
Percentuale sottoposta a screening oculistico
Percentuale inviata al chirurgo vascolare
Funzionale
Percentuale valutati con: Bartel (o Katz) ADL*, IADL**, velocità di cammino, MMSE***,
GDS****
Qualità della vita
Percentuale valutata con:
- generici: EuroQUOL, SF36
- specifici per patologia: ADDQOL
*Activities of Daily Living
** Instrumental Activities of Daily Living
*** Mini Mental State Examination ****Geriatric Depression Score
Tabella 34. Scelta degli indicatori e delle misure per determinare i risultati
nei diabetici anziani
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Della stessa collana
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Finito di Stampare il
____________Edizione
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