Miti d`origine libro - Transeuropa Edizioni

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Miti d`origine libro - Transeuropa Edizioni
Michel Serres
R. G. HERGÉ:
GEORGES RÉMI O RENÉ GIRARD?
Copia, invenzione
Confesso di aver sottostimato Hergé quando lo chiamai il Jules Verne delle scienze umane. Cantore del sapere
esatto, l’autore dei Viaggi straordinari inventa, certo, il
quadro e le circostanze dei suoi racconti, ma nel contempo
prende in prestito il loro contenuto dall’astronomia o dalla storia naturale: non scopre né la Luna né i meridiani e
ricopia, a volte pesantemente, dai trattati sulla materia, la
lista dei pesci che il capitano Nemo contempla dall’oblò
del Nautilus e quella delle rocce che si incontrerebbero
se, penetrati attraverso la bocca dello Sneffel-Yokull, in
Islanda, avanzassimo verso il centro della Terra. Certo,
ancora legato alle scienze dure sebbene ritratto a imitazione di Janel come psicologo, Tournesol ha questo in comune con gli scienziati di Verne: che inventa un sottomarino
e cerca energie necessarie a lanciare nello spazio il suo razzo
. Lo pseudonimo Hergé è formato dalla pronuncia francese delle
iniziali di Georges Rémi, vero nome dell’autore di Tintin. Nel titolo,
Michel Serres gioca evidentemente con le iniziali del fumettista e dell’antropologo. [N. d. T.]
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a scacchiera. Hergé, tuttavia, va più lontano. Come il suo
predecessore, egli ci porta a visitare fiumi e deserti, isole e
foreste, montagne e ghiacciai, sorti sotto i passi di Tintin e
del capitano Haddock, ma, via via che si avanza, più che
le apparenze in cui vivono gli individui e le società, gli
esploratori scoprono da sé le cose nascoste che tengono
insieme questi uomini. Allora, lungi dal copiare, Hergé
davvero inventa.
Il falso e il vero
Vediamo, ad esempio, come se la cava in L’oreille cassée:
partiamo in viaggio con lui, in compagnia di Tintin, cronista dunque poliziotto. Al ladro! Chiamate dunque la polizia, Dupont e Dupond! Un feticcio raro è sparito dal Museo etnografico. Ecco la prima parola scritta sul frontone
dell’edificio sin dalla prima vignetta, come un titolo o un
avviso, e quasi fino alla fine del fumetto. Riproduce forse
i risultati di Durkheim, Lévy-Bruhl o Marcel Mauss? No,
sarebbe come rubare… Al ladro, dunque! No, errore: il
feticcio ritorna sul suo zoccolo sin dal giorno dopo, restituito dal finto-ladro. Farsa, scommessa, mistificazione?
Niente di meno, certo. Tintin non si lascia ingannare: dei
briganti son passati di là. Egli osserva, in effetti, che la
statuetta autentica ha l’orecchio spezzato, ma non il suo
sostituto. Immortalato dalla Castafiore, l’orrore che Hergé
nutriva per la musica – il modo più dispendioso di fare
rumore, diceva – mette sulla strada giusta? Chi è il feticcio? Lui, Georges Rémi, dall’orecchio tanto sordo? Il suo
eroe? Chi ancora? Ma dunque chi l’ha trafugato?
Che il vero resti tranquillo in fondo ad un vecchio baule mentre tutti viaggiano in capo al mondo alla ricerca del
falso uccidendosi l’un l’altro allegramente per quest’ultimo, forse la dice lunga sulle scienze umane: perché inseguire mari lontani – sul campo, come si dice – mentre la
verità aspetta nella stanza vicina? In queste materie sociali
noi sappiamo sempre già tutto, dal giornale e dalla letteratura, al contrario delle scienze dure, in cui, all’inizio, non
sappiamo nulla e i cui risultati ci sorprendono sempre.
H. G. HERGÉ: GEORGES RÉMI O RENÉ GIRARD?
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Viaggiate, lavorate, impegnatevi, non troverete mai che il
già riprodotto; fermatevi, guardatevi intorno, e troverete
il segreto del vero feticcio.
Etnografia del feticcio
Che darò invitando ad un viaggio preliminare, non nello
spazio, ma attraverso il tempo. Come prestito al portoghese del termine fetiço, secondo i «commercianti del
Senegal», il Presidente Charles de Brosses (-) lo
reintroduce in lingua francese, in piena età dei Lumi, nel
suo libro Du culte des dieux fétiches, pubblicato nel ,
opera pregevole in cui descrive in parallelo i culti dell’Antichità greca o egiziana e i riti delle tribù africane e amerindie. Anche se non inventa né l’antropologia comparata
né la parola feticismo già usata da Diderot, egli le lancia e
le consacra. I linguisti esitano ancora oggi, sembra, fra due
origini di quest’ultimo termine, allora aggettivo e oggi sostantivato. O fittizio, fabbricato da mano d’uomo, scolpito; oppure fata, colei o colui che pronuncia oracoli, dal
latino fari, parlare. Dunque, la statuetta parla, Hergé non
mancherà di farlo vedere.
Il XIX secolo assicurò la fortuna di questa parola e della
cosa che designa. Fondatore della sociologia, Auguste
Comte spiega la storia in tre momenti: le età teologica,
metafisica e positiva; ma la più antica si dispiega, a sua
volta, in tre epoche: feticista, politeista e monoteista. Come
dire che il culto di feticci, dèi lari e penati, astro del giorno, bestia totem o pianta allucinatoria, segna la prima era
del primo momento: dunque niente di più primitivo, di
più originario, immerso nell’ombra di foreste selvagge. Per
illustrare questa intuizione, consiglio, di passaggio, di scorrere con attenzione la lista dei nostri mesi: da dicembre a
settembre, regnano i numeri dieci, nove, otto e sette, un
modo positivo e saggio di contare; prima d’essi la storia
s’impone, poiché agosto e luglio fanno pubblicità ad Augusto e a Giulio Cesare, imperatore e generale romani;
ancor prima, giugno, maggio, aprile e marzo venerano gli
dèi del politeismo: Giunone, Maia, madre di Ermes, Ve-
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nere o Afrodite, e il signore della guerra. Ma, primitivamente, Febbraio si ricorda non delle febbri – come si crede – ma di una correggia di stoffa e di cuoio con cui i
cavalieri romani frustavano le donne incontrate nella notte dei Lupercali, e Gennaio dalla statua a due facce di
Giano, termine delle soglie, delle porte e dei limiti. Perché dunque Auguste Comte ha sostituito il vecchio calendario con uno nuovo, dato che quello più antico, già positivista, scandiva il tempo dal feticismo al politeismo e dalla storia alla scienza? Se non aveste notato che l’anno inizia sempre con strani oggetti ritualizzati, chi avrebbe potuto rubarvi questi feticci? Di più, e contrariamente a molti
dei suoi successori, il positivismo non mostra disdegno
alcuno per l’arcaismo di questo primo stadio, ma, al contrario, dichiara ch’esso contiene tutta l’energia motrice che
permette alle società di attraversare il tempo per pervenire infine alle scienze dure e dolci. Nella statuetta sta l’immensa potenza da cui tutto il racconto si dispiegherà.
Maestri temporanei della generazione successiva alla
mia, Freud e Marx meditarono abbondantemente su questa cosa bizzarra che già Comte e de Brosses avevano reso
popolare; ne hanno ornato i nostri costumi. Il secondo
definisce il feticismo della merce dando una dimensione
religiosa alla superiorità del valore di scambio sul valore
d’uso. La statua passa di mano in mano, tutti la desiderano, posseggono, trafugano, comprano… Ma, di fatto, a
cosa serve? Presto un artigiano la produrrà in serie. La
psicanalisi, da parte sua, spiega così l’attaccamento nevrotico all’oggetto scelto: nel suo desolante linguaggio, chiama feticcio il pene assente della madre. Cosa c’è di rotto
nel corpo che è stato rubato? È davvero l’orecchio? Come
non ridere di quelle analisi? Capovolgendole. Se dunque,
Arumbaya o Bibaro, attraversando il mare e arrivando in
questi paraggi, lo stregone di laggiù, osservasse tale e
talaltro contemporaneo qui, davanti al loro televisore, che
direbbe, lui primitivo? Che li veda, fermi a tempo fisso,
come per un rito al quale obbediscono parecchie ore al
giorno, di fronte a un oggetto squadrato, loquace, scolpito, musicale, costruito in legno verniciato e vetro brillan-
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te, che pronuncia oracoli… Allucinati, immobili, come drogati, ma gridando a volte e gesticolando, presi dalla pornografia, raramente, da mercanzie senz’uso, spesso, e dalla violenza sempre, poiché il sacrificio umano, vero protagonista delle trasmissioni, vi si mostra in dettaglio parecchie decine di migliaia di volte all’anno. Con generosità
Comte aveva scorto la ragione dietro il feticismo; eccolo
riscoperto, non senza qualche umiltà, nei nostri comportamenti di fronte al denaro, ai prodotti desiderati, ai nostri oggetti preferiti e, ora, di fronte a una tecnica risultato
della scienza positiva che li somma tutti e tre.
Ah, dimenticavo: chi dunque sospettare di feticismo,
ancora, se non l’onesto Samuel Goldwood, collezionista,
se non il pittore Balthazar che conserva preziosamente
statuetta e pappagallo, se non gli esploratori che sottraggono la prima ai cosiddetti selvaggi, se non guardie e ladri
che le corrono dietro e gli uni dietro gli altri, se non i visitatori del Museo alle prime cinque vignette, se non la portinaia: «Ah, questi fiori, si direbbe che stanno per ridere!», se non tutti o quasi tutti… Se non gli organizzatori
dell’esposizione, se non il Museo stesso? Sapete che, da
almeno dieci anni, i paesi occidentali aprono un Museo al
giorno? Chi potrà dire che non viviamo nell’epoca feticista? Chi ha l’orecchio così rotto da non intendere questa
verità? Il cammino del progresso che conduce dal primitivo all’odierno, e irreversibilmente verso i Lumi, non riproduce forse il vecchio disegno che si compiaceva di
mettere il disegnatore al centro del mondo, salvo che qui
il polo d’attrazione si pone al punto terminale? Quando i
nostri pensieri smetteranno di cantare i nostri meriti? Ecco:
il viaggio promesso nel tempo si compie qui stesso e oggi,
come quello di Tintin e del cane, che adesso riprendiamo.
Alla ricerca delle origini
Correre, dunque: la città, prima, i vivi e i morti, la portinaia e i passanti, le strade e le automobili assassine, i grassi
sazi di zuppa e i magri lanciatori di coltello, i vecchi barbuti e i sapienti distratti, alla ricerca di un pappagallo,
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detentore di un segreto, quello dell’assassinio di Balthazar,
uccello chiacchierone come un feticcio-fata che pronuncia oracoli. La decifrazione di una placca d’immatricolazione-auto apre a un secondo viaggio in battello, dall’altro lato del mondo. Un terzo comincia a Las Dopicos, capitale, come si sa, della repubblica di San Teodoro, quando il piroscafo si allontana e lascia Tintin senza risorse
davanti a ladri pericolosi coi quali la polizia collabora; egli
vi rischia la vita, spalle al muro, di fronte al plotone d’esecuzione, presso il generale Alcazar, bombardato da cospiratori e sotto il tiro di criminali. Il quarto e ultimo spostamento inizia quando sprofonda nel fiume e si salva dalle
sue cadute; meglio, quando, ritornato in piroga sullo stesso fiume, la sua guida lo abbandona a se stesso, solo: eccolo
infine nella foresta delle primitività, alla fonte stessa del
feticismo, nel luogo in cui si modella la statua, dove parla
l’oracolo, in compagnia di Ridgewell, vecchio esploratore
che decise di abbandonare la «civiltà» per vivere insieme
agli Arumbaya. Là succederanno le cose fondamentali. Da
là ripartiranno i viaggi di ritorno.
Tutto il racconto, che si può dire iniziatico, attraversa
spazi d’Utopia come da una chiusa all’altra, risalendo il
tempo di tutta la storia fino a giungere alle nostre origini:
al palo sacrificale al centro del villaggio Bibaro e, dall’altro lato, presso i loro nemici Arumbaya, fra le capanne,
sotto uno stesso palo dove troneggia un altro feticcio.
Statua e sostituzione
Aspettando di scoprire queste vere origini, osservate
come i diversi viaggi strappano e lanciano l’eroe da un’avventura a un’altra, secondo nuove direzioni. Si tratta sempre di una sostituzione. Certo, un falso feticcio prende il
posto del vero, ma questa stessa operazione si ripete indefinitamente: un compratore prende il posto di un altro; si
confonde una cifra per il suo contrario; una valigia giace
sul molo – a sinistra o a destra di Tintin? – sostituita a
un’altra, di uguale forma e colore; un ladro si fa passare
per poliziotto, un colonnello per caporale e cospiratore;
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la rivoluzione depone un generale che subito riconquista
il suo controllo; un condannato a morte sale alle cariche
più alte dello Stato per ricadere in una prigione; un vile
assassino si muta in servitore generoso; una testa, ridotta,
passa dall’alto del tronco alla sommità d’una pertica… E
chi sarà sacrificato? Tintin o il suo cane, una bestia o un
uomo, chi al posto di chi… Il racconto non cessa di declinare lo spostamento di sedie musicali.
Non finirò mai, neanch’io, di meditare su questa operazione di sostituzione, così generale che si trova dappertutto, sebbene spesso nascosta, dalle matematiche in politica – chi rappresenta chi? – e a teatro – chi recita quale
ruolo? – e così profonda, anche, che essa concerne tutto,
precisamente l’oggetto derubato, ciò che lo circonda e lo
rende possibile. Cos’è un feticcio, in verità? Tutti lo prendono per la stessa cosa o ognuno per un’altra? La statuetta
simbolizza questo, Tizio o qualche universale sostituto,
come un jolly, un gettone, un domino bianco, un equivalente generale? Come pensare lo scambio senza l’operazione di sostituzione?
Ma cosa significa questa parola? Ecco una breve ricognizione della sua famiglia. Nella prima pagina, stabile sulla
sua base come un piede nel suo zoccolo, la piccola statuetta
casca giù, instabile, e tutto il racconto dice come vi tornerà, di nuovo stabile, trionfante e spezzata, nell’ultima vignetta; allo stesso modo, il feticcio risale fino al palo dove
il suo sostituto troneggia al centro del villaggio, nel bel
mezzo dei viaggi, al culmine del racconto. L’autore del libro Statues dovrà ancora copiare la storia e le origini di
questo sostantivo, così ricco e diverso che ogni tappa o
circostanza del racconto di Hergé e del suo stesso libro
manca di un passaggio? Veramente no. Ma rimane il mistero: come fa questo oggetto stabile-instabile, mirabilmente chiamato statua, a contenere simili segreti, ivi compre. Per giocare a Sedie musicali si forma un cerchio di sedie: i giocatori ballano intorno (camminando all’esterno del cerchio) e devono,
quando finisce la musica, sedersi sulle sedie che rispetto al numero
dei giocatori sono sempre inferiori di un’unità. Chi resta in piedi viene eliminato, e si ricomincia togliendo una sedia. [N. d. T.]
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so quello del movimento e dello scambio? Meglio, il motore di ogni racconto, senza dubbio, come anche di ogni
dimostrazione, consiste in questa sostituzione sistematica
di un oggetto costante e incostante, di un ostacolo, di un
sostantivo, di un soggetto esistente – o di una sostanza,
come dicono i filosofi – presi per un altro. Vogliate perdonare questo riassunto ripetitivo: questa statua della superstizione sostantiva la sostituzione. Sì, il feticcio, davvero
semovente sebbene statico, contiene il motore di questo
racconto: lo si ruba meno di quanto non passi di mano in
mano, di soggetto in soggetto, da posto a posto, dalla periferia al centro e da ieri a oggi.
Il vivente, il vero
Ma a che servono queste parole complicate? A comprendere quanto cerco sin dall’infanzia, il segreto di quest’oggetto la cui silhouette mi affascina nel suo slittamento
dal vero al falso attraverso lo spazio e il tempo e il cui
rattoppo nel suo stato finale di statua ricostruita, dalle
orecchie alle dita dei piedi, raccomodata a mezzo di cerotti, stecche, cordicelle e placche inchiodate mi incanta
per il suo realismo e la sua intelligenza delle cose vive.
Spero di riparlare ancora di queste zeppe, che mi faranno
dire: eccolo, infine, il vero feticcio, il buon sistema, quello
che funziona. No, la vita non ci rompe un orecchio solamente, ma le membra, ma il torace e il cuore, ma le gambe
nostre claudicanti e le spalle esauste. I nostri volti devastati di rughe rammentano i solchi di lacrime e la colonna
vertebrale si piega sotto il peso di tristezze passate.
Un corpo vivente non resta a lungo vergine e liscio; la
salute, la gioia di vivere, non escludono i colpi; al contrario, non esistiamo che per le sofferenze gagliarde contro
l’avversità; i buoni organismi presentano una testa scolpita, un corpo stanco e coraggioso, una potenza devastata,
ma sempre in piedi. Prima di aver ricevuto la prima incornata, come sapere se il torero si comporta con coraggio?
Non c’è vero vivente che non sia straziato. Le cicatrici rinforzano. Non c’è verità se non falsificata. Il falso testimo-
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nia per il vero. Non c’è bontà se non tentata. Quale virtù
senza tribolazioni? Non c’è buon sistema che non sia rotto. Se tutto funziona nulla funzionerà. Ogni prova mi precipita davanti a un tal feticcio: non c’è dio vero che non
sia ferito.
Il quasi-oggetto
Transitando dunque da una persona a un’altra, dall’Europa all’America del Sud, dal Museo alla foresta, dalla terraferma sul transatlantico, per finire in fondo al mare, come
se fosse meglio – troppo pericoloso – che nessuno s’impossessasse del suo vero valore, al contrario del tesoro di
Rackham-il-Rosso… Questo strano oggetto traccia le relazioni fra coloro che lo possiedono e le circostanze del
loro tempo. Opera d’arte, oggetto di culto, testimone-reliquia d’una cultura, scrigno prezioso ripieno di diamanti
e di sapere, statua sul piedistallo… L’insieme delle sue qualità assomma i suoi incontri. Da molto tempo lo chiamo
un quasi-oggetto. Esso porta le tracce delle tentazioni e
tribolazioni che ad ogni tappa subisce o di cui ciascuno
patisce del proprio. Immaginatevi palloni che conservino
i segni dei colpi di piede; che, sui biglietti di banca, si
possan riconoscere le ignominie di tutti quelli che le hanno toccate; ma sulle parole, a volte, riusciamo a leggere le
tracce di quelli che le hanno dette.
Il feticcio comporta un segreto: il diamante più altre
cose. Ma il vascello Il Liocorno ne trasporta uno, anche
lui, mille volte più ricco e scintillante: il tesoro di Rackhamil-Rosso, profusione di perle, d’oro e diamanti. Questo tesoro, Tintin e compagnia lo ricercano, ancora, al di là dei
mari, delle isole e del tempo, per ritrovarlo, proprio qui,
nella cantina caotica dei fratelli Loiseau. Decisamente, le
arti nascondono fortune. Nell’affaire Tournesol, i protagonisti si passano un ombrello di cui a nessuno viene il
dubbio che dissimuli un segreto, ancora una volta, una
scoperta scientifica formidabile. Feticcio, documento,
ombrello… Ecco tornare daccapo il segreto dei segreti di
questo racconto, la cui unità si ordina attorno ai movi-
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menti d’una cosa. Così lo Scettro d’Ottokar, altro quasioggetto, cuce insieme i personaggi e le circostanze della
storia. Dite, dove si trova il Segreto del Liocorno? Nel globo terrestre. Dove giace questa sfera? Fra le mani di san
Giovanni l’Evangelista, che ha scritto l’Apocalisse. Che significa quest’ultima parola? La Rivelazione dei segreti.
Scambio, uso, letteratura
Dire dunque che il feticcio non ha valore d’uso suppone la credenza che si usano cose solamente per il corpo
biologico e individuale: mangiare, bere, vestirsi, in breve
godere e consumare. Tuttavia lo scambio passa per servizio collettivo. Allora il valore di scambio può diventare
valore d’uso. Il feticcio serve alle relazioni e le concretizza:
come il furetto del bosco, Mesdames, uno scettro, una
palla, da golf per esempio, il denaro, un diamante, per
esempio, e le parole, espressioni e immagini… Ma cosa
importa la teoria, se l’importante è che qui il racconto,
sotto la penna comica e il pennello colorato di Hergé, sa
perfettamente stimare il valore del feticcio dal diamante
gigante che racchiude, più la deriva stessa di questa stima,
attraverso la riproduzione in serie del modello, nella piccola bottega artigianale del fratello di Balthazar; ognuno
può ormai procurarselo a meno di  euro, ammettete che
è regalato. Dunque come vi si trovavano de Brosse e Comte,
in Hergé che non l’aveva letto (mi si creda) si ritrova Marx,
ecco davvero quanto volevo dimostrare.
Ma voglio mostrare soprattutto che le scienze umane,
in generale, si trovan sempre già nella letteratura, in generale, ancor prima di nascere. Hergé non ha affatto bisogno di economisti, di psicanalisi o antropologia né di
etnologi, poiché disegna ciò che le scienze e i sapienti credono di spiegare, senza dirlo pesantemente. Meglio, egli
inventa e va più lontano di loro. Allora il progetto critico
si rovescia: le sedicenti scienze storiche, umane o sociali,
come si vuole, spiegano, a loro dire; ma non fanno comprendere al modo delle matematiche quando queste registrano l’esperienza fisica: poiché le suddette scienze dolci
H. G. HERGÉ: GEORGES RÉMI O RENÉ GIRARD?
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non leggono in un’opera o un uso se non ciò che vi si trova
già. Dunque il racconto letterario implica già questo sapere. Quello che, precisamente, ho appena mostrato, nel caso
de l’Orecchio spezzato. Di conseguenza riformulare con
saggezza proprio quel che la narrazione diceva in linguaggio popolare porta a una ridondanza arrogante, così come
spiegare il suddetto racconto con una di queste scienze
costituisce una tautologia. Il solo progetto intelligente consisterebbe allora nel rovesciare ironicamente la situazione, spiegando le scienze umane per mezzo della letteratura, più potente rispetto a quelle, più semplice e profonda.
Si capisce allora perché le scienze umane hanno messo a
morte le umanità: esse hanno ucciso la loro verità.
Quale? Eccola.
La vittima
Alla prima pagina e all’ultima, davanti alla statuetta,
prima del furto e dopo la restituzione, il guardiano del
museo canta l’aria famosa della Carmen: «Toréador»…
Nell’arena il torero espone la sua vita. La morte si presenta quasi ad ogni vignetta de l’Orecchio spezzato: presso i
ladri, di fronte al plotone d’esecuzione, durante gli attentati contro il generale che gioca a scacchi prima di contrarre l’itterizia, sotto l’altare dei Bibaros, sulla barca trasportata dal fiume, al posto di frontiera, dietro il parapetto della nave… Tintin ha tanto coraggio quanto il più temerario dei matador. È questione di morte.
Chi muore? Alla fine, due ladri la cui espressione patibolare mostrava dall’inizio che, i malvagi, si destinavano
ad una tale sorte. Ma chi rischia di morire? Tutti, e il nostro eroe per primo. Ma egli si salva sempre. Come? La
dimostrazione riprende: grazie a miracoli successivi che
fanno ancora appello alla sostituzione. Nel momento in
cui Tintin dev’essere passato per le armi, il capo dello Stato cambia due volte, in entrambe osannato; quando il revolver è puntato sulla sua tempia, il fulmine d’improvviso
“attraversa” la stanza, fuoco per fuoco; quando i banditi
lo gettano nel fiume, i piranha convergono su di lui: chi lo
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LA SPIRALE MIMETICA
ucciderà, i ladri o i pesci? Chi muore al palo del sacrificio? L’uomo o il cane? Chi parla? Il feticcio? Milou, in
genere così chiacchierone? Ridgewell, il ventriloquo? Il
feticcio scolpito, l’oracolo facondo?
Che sovente si esponga e si salvi con pari frequenza fa
allora di Tintin il feticcio stesso, passando anche lui di mano
in mano. E chi, in effetti, nella sua infanzia, quella che
dura da  a  anni, mai s’identificò con questa testa tonda e bianca, impersonale e quasi assente, un foro al centro
della vignetta e nel vortice del fiume pieno di pericoli, attirando i piranha dei nostri desideri e le frecce acuminate
dei nostri bisogni d’identità? Ma dunque chi è il feticcio?
Il soggetto, quello che giace annegato sotto lo specchio
tranquillo del fiume, in mezzo ai mulinelli d’acqua, centro
verso il quale convergono i pesci terribili, detto altrimenti
la vittima. Di cui riconoscete sul corpo i segni di sfollagente.
E, tanto per riparlarne, non trovate che la statuetta ricostruita somigli a un qualche san Sebastiano, segnato dalle
frecce? Sì, il termine vittima significa la sostituzione, di
nuovo: il vicario, luogotenente, prende il posto del curato, quando manca; un circuito suppletivo funziona al posto d’un altro, più facile, e talvolta, vice versa; dall’alto
della passerella, un vice-ammiraglio dà gli ordini dell’ammiraglio, quando costui sta mangiando o danzando. Curiosamente, dunque, la vittima si trova là, al centro, al palo,
nel buco… Al posto d’un altro. Non ci sono che errori
giudiziari, non ci sono che fucilati per errore. La sostituzione lavora ancora e sempre, quando il cospiratore riceve sulla testa la sua propria bomba, e quando lo stregone
Arumbaya, accusato di abusi, fugge sotto le frecce e le pietre, a sua volta linciato. Il condannato a morte diventa re,
il carnefice vittima, l’innaffiatore innaffiato. Chi è il Feticcio? Tintin, onnipotente e condannato, re-sacrificale allora, sostituto universale, vittima e sempre vincitore, ma
anche Milou cui si sarebbe potuto strappare il cuore, il
generale e lo stregone, voi ed io, perché, ben lo sapete,
potete, a piacere, diventare buono o cattivo, guardia o ladro, selvaggio o sapiente… Siete anche tutto e improvvisamente senza distinzione…
H. G. HERGÉ: GEORGES RÉMI O RENÉ GIRARD?
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Il sacro
Ma, soprattutto, valore di scambio o d’uso, che importa, statua o sostituto, che importa, quasi-oggetto o segno
di relazioni, che importano ancora tutte queste spiegazioni, poiché ogni cosa, insomma, si lega davanti al plotone
d’esecuzione o sotto il palo dei Bibaro, in faccia alla morte. La morte soltanto, in fin dei conti, ci fa, ci scolpisce in
forma di persona, ci scioglie la lingua e mette insieme i
nostri collettivi. Ecco il segreto delle umanità, che è quello dell’umanità, ossia il segreto del feticcio. Questo segreto è il sacro. Il segreto del racconto e quello delle teorie, è
il sacrificio umano; lo si trova alle origini, nel fondo della
foresta, in mezzo a tribù dette primitive come nell’apparecchio televisivo. Più profondo dell’antropologia del presidente de Brosses, del positivismo di Comte, della psicanalisi di Freud e dell’economia di Marx messi insieme, il
sacrificio fabbrica feticci di cui tutti discorrono animatamente. Hergé aveva letto l’opera di Girard prima ancora
che fosse scritta? Il tratto chiaro della sua matita lo mostra
al di là di ogni dubbio. Nella radura della foresta, si taglian
teste per «ridurle» e farne statuette, portate su picche.
Cos’è un feticcio? Un corpo sacrificato «ridotto». Una statua cadavere. Noi non collezioniamo che corpi morti. Da
questa tomba profonda, escono il valore e il desiderio. Noi
non giochiamo che con questi cadaveri secchi. Che cos’è
una palla da golf? Un quasi-oggetto? Certo, poiché essa
corre in mezzo ai giocatori. Ma da dove viene e come fabbricarla? Riducendo una testa umana. Appena liberato
dalla morte Tintin riceve questa minuscola testa sulla sua.
Ammirate il perfetto rigore dei sacrifici a catena: anzitutto il sacrificio umano a cui Tintin si sottrae grazie al
ventriloquo Ridgewell che parla al posto della statuetta
rossa. Che cos’è un feticcio? Una statua che parla. Secondariamente, il sacrificio animale: lo stregone tenta di strappare il cuore palpitante di Milou. In terzo luogo, il boia,
colpevole, rimpiazza la vittima, innocente, e fugge, sotto
una gragniuola di coltelli, frecce e proiettili, a rischio di
linciaggio. E per finire, la palla da golf colpisce l’orecchio
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LA SPIRALE MIMETICA
di Tintin, col rischio di romperlo. Misurate allora, e con la
maggiore serietà del mondo, il più autentico dei progressi
umani. Religione, anzitutto: non è meglio sacrificare una
bestia piuttosto che un uomo? Diritto, in secondo luogo:
non è meglio condannare un colpevole piuttosto che un
innocente? Gioco, infine: non è preferibile una palla di
legno piuttosto che un cane, un miserabile oppure un uomo
integro, senza cuore né testa? Non vi sono progressi nella
storia se non nei rimedi alla nostra violenza. Tutto il resto,
di ritorno, può dedursi da La Violenza e il Sacro.
I Bibaro, silenziosi, si riuniscono attorno ad un palo,
assistendo al sacrificio; gli Arumbaya, taciti, si dispongono a corona attorno allo stregone brandendo il coltello; i
soldati si allineano davanti al muro e puntano l’arma, pronti
a fucilare Tintin, ebbro di tequila e paura; i piranha in
cerchio nuotano verso la testa immersa… Sì, il sacrificio
riproduce il linciaggio per mezzo del quale le nostre società si placano e si riuniscono… Non è meglio, davvero,
andare in massa allo stadio, la domenica, per vedere calciare un pallone? Tutti si riuniscono attorno alla vittima
feticcio, come fanno le suddette teorie, linciatrici di letteratura, come anche voi ed io, cari lettori, abbiam fatto.
Violenza
Dovevo avere meno di sette anni. La vergogna delle
guerre della prima metà del XX secolo cominciava. Gli album non esistevano ancora, le avventure non arrivavano
che settimana dopo settimana recapitate pagina a pagina
dal settimanale. Ho creduto di morire d’angoscia dopo la
vignetta dei piranha. Ma che accadrà a Tintin, annegato,
perduto, divorato, scomparso in mezzo a pesci sconosciuti e feroci, sotto il remo levato dei ladri, trascinato da un
fiume che conoscevo bene, figlio di un marinaio della
Garonna, che vedevo scorrere attorno alla fragile barca di
mio padre… A quel tempo noi tutti ci ammalammo d’una
violenza che ci fulminò durante il primo terzo della mia
vita. Ma la mia vita trascorse più rapidamente di quelle
sette giornate d’inferno?