(continua) Dossier - L`intelligenza. Funzioni intellettive
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(continua) Dossier - L`intelligenza. Funzioni intellettive
8 DOSSIER S in alute l’intelligenza 9 S in alute DOSSIER l’intelligenza Funzioni intellettive: cosa ne pensano gli studiosi Le tappe dello sviluppo intellettivo Oggi sappiamo che esistono molti tipi diversi di intelligenza e che il risultato finale dipende, nel singolo individuo, dal “cocktail” delle competenze intellettive possedute e dalla capacità di gestire emozioni e sentimenti. Lo studio delle capacità mentali, che un tempo si avvaleva soprattutto di misurazioni come il Quoziente Intellettivo (Q.I.), viene attualmente approfondito anche tramite l’analogia con il funzionamento dei computer, che secondo alcuni potrebbe raggiungere, in un futuro non troppo lontano, un livello di complessità tale da simulare in tutto e per tutto i processi che avvengono nella nostra mente. L’intelligenza inizia a svilupparsi già prima della nascita, come dimostrano numerosi studi condotti sul feto e sulle sue reazioni agli eventi esterni ed interni. Ma è solo a contatto con le esperienze che il bambino si evolve mentalmente, assimilando ed elaborando le informazioni che provengono dall’ambiente. Secondo la maggior parte degli studiosi, lo sviluppo intellettivo procede attraverso una sequenza di stadi: l’esponente più famoso di questo orientamento è J. Piaget, che ha descritto minuziosamente le fasi dell’evoluzione intellettiva dalla nascita alla preadolescenza. segue da pagina 7 ro abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d’animo altrui. 7. Intelligenza intrapersonale, relativa alla comprensione delle proprie emozioni e alla capacità di esprimerle in forme socialmente accettabili. 8. Intelligenza naturalistica, che riguarda la capacità di riconoscere e classificare gli oggetti naturali. In seguito, Gardner ha ipotizzato un nono tipo di intelligenza, quella esistenziale, che si esprime come capacità di riflettere sulle categorie concettuali e sulle questioni fondamentali della vita. Secondo questo studioso, ogni essere umano possiede tutti questi tipi di intelligenza: le differenze sarebbero dovute alle diverse combinazioni con cui essi sono presenti nei singoli individui. L’intelligenza nel cuore Una decina di anni dopo un altro docente di Harward, Daniel Goleman, ha aperto un’interessante prospettiva di studio descrivendo l’intelligenza emotiva, che ha molti punti di contatto con le intelligenze intrapersonale e interpersonale analizzate da Gardner. Autoconsapevolezza, disponibilità, ottimismo, apertura alla comunicazione, capacità di risolvere i conflitti, atteggiamento collaborativo, fiducia, empatia, sono i principali “ingredienti” dell’intelligenza emotiva, da cui secondo Goleman dipende l’uso efficace e flessibile delle facoltà cognitive. In altre parole, l’affermazione personale e il successo non sarebbero le conseguenze di un quoziente intellettivo elevato, ma piuttosto gli effetti di una grande capacità di gestire in modo positivo le proprie emozioni, sia nei confronti di se stessi che degli altri. L’intelligenza emotiva si può migliorare coltivandola fin dall’infanzia: sia i genitori che gli insegnanti possono fare molto per aiutare il bambino a riconoscere, esprimere e modulare le proprie emozioni e sensazioni, con l’obiettivo di contribuire al benessere psicologico di se stesso e degli altri. Questa educazione affettiva presuppone però che gli adulti siano a loro volta emotivamente intelligenti, perché si tratta di capacità da insegnare non tanto con le parole quanto, piuttosto, con l’esempio concreto. Il bambino che vive quotidianamente, nel contesto di rapporti affettivi solidi, esperienze di comprensione reciproca, dialogo, elaborazione positiva dei conflitti, controllo degli impulsi distruttivi, solidarietà, sviluppa in modo naturale la propria intelligenza emotiva e impara a considerare i propri sentimenti non come un ostacolo al pensiero, ma come una grande risorsa. Il Q.I.: realtà o illusione? Il primo test di intelligenza è stato elaborato nel 1905, dallo psicologo francese Alfred Binet, per valutare le capacità intellettive degli alunni di scuola elementare. Si trattava di una scala, cioè di una serie di prove di difficoltà crescente, suddivise in gruppi. Ciascun gruppo corrispondeva al livello medio di capacità di soggetti di una determinata età cronologica. Confrontando i risultati ottenuti da un soggetto con quelli ottenuti dal gruppo dei coetanei, la scala consentiva di definire l’età mentale dell’esaminato. Alcuni anni dopo, il tedesco Wilhelm Stern introduceva il concetto di Quoziente Intellettivo (Q.I.), ottenuto dividendo l’età mentale per l’età cronologica. Da allora in poi, sono stati elaborati numerosissimi test per misurare il Q.I. dei bambini e degli adulti. Ma il concetto stesso di Q.I. è stato messo in discussione ormai da tempo, perché considerato rigido e potenzialmente discriminatorio: in ef- fetti, le prove dei test misurano capacità a cui si attribuisce valore in un determinato gruppo socio-culturale, ma non è detto che il fatto di non possedere tali capacità sia indice di scarsa intelligenza. Per sopravvivere nella jungla occorre senza dubbio essere intelligenti, ma è altrettanto sicuro che l’indigeno se la caverebbe assai male di fronte alle prove verbali della WAIS-R! Inoltre bisogna considerare che il livello di prestazione ai test può essere influenzato da una quantità di altri fattori: tipo di contesto, situazione emotiva, rapporto con l’esaminatore, livello sociale, sono tutte variabili che incidono sul rendimento della persona esaminata, rendendo quindi piuttosto discutibile il risultato finale. In conclusione, al giorno d’oggi il Q.I. può essere considerato come una misura indicativa di certe abilità, ma non più come la “fotografia” dell’intelligenza nel suo complesso. Mente e computer 1996: Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi, viene sconfitto in un incontro di sei partite da un avversario di nome Deep Blue. Ma il vincitore non poté fare salti di gioia, né rilasciare interviste, né diventare un testimonial pubblicitario, perché era... un computer IBM! Agli occhi di molti, quell’episodio assunse un significato inquietante: era proprio vero che esistono le macchine intelligenti, capaci di pensare come un essere umano? La questione sta al centro degli interessi di una branca scientifica giovane (la sua nascita si può far risalire agli anni ‘50) ma già enormemente sviluppata: la cosiddetta MASCHI E FEMMINE: CHI E’ PIU’ INTELLIGENTE? Per secoli ha prevalso la convinzione di una superiorità intellettiva dell’uomo rispetto alla donna. Il fatto che le scoperte importanti, le opere artistiche immortali, i sistemi di pensiero più profondi fossero opera di individui di sesso maschile è stato addotto a conferma di questa tesi. Che non regge, però, alla prova dei fatti: l’assenza delle donne è stata, in realtà, causata dal loro ruolo sociale subalterno e dai vincoli posti dalla maternità. Mano a mano che si attenua il peso di questi fattori, la donna emerge infatti come individuo dotato intellettivamente quanto l’uomo, an- Intelligenza Artificiale (A.I., ovvero Artificial Intelligence). Basandosi sulla tecnologia dei computer, l’A.I. si pone l’obiettivo ambizioso di creare software che simulano in tutto e per tutto l’intelligenza umana, sollevando problemi enormi di natura non solo tecnica, ma anche e soprattutto etica e filosofica. Limitandoci però ai fatti, dobbiamo dire che molte operazioni svolte dalla nostra mente sono già alla portata delle macchine: i computer sono in grado, per esempio, di decidere strategie di investimento, di formulare diagnosi mediche, di riconoscere oggetti, di scrivere sotto dettatura, e perfino di imparare. Ma tutte queste operazioni vengono svolte sulla base di dati e procedure inseriti da chi ha programmato la macchina, la quale in effetti non ragiona, ma semplicemente esegue computazioni, cioè calcoli, ad una velocità sbalorditiva: centinaia di milioni di operazioni al secondo per il PC che sta sulla nostra scrivania, migliaia di miliardi di operazioni al secondo per certi supercomputer destinati a scopi scientifici o militari. È questa enorme potenzialità di calcolo che consente alla macchina di produrre “comportamenti” simili a quelli dell’uomo, semplicemente scegliendo di volta in volta un’operazione tra migliaia e migliaia di alternative possibili. Invece l’uomo, a differenza dalla macchina, è in grado di andare oltre le regole note, creando soluzioni nuove che per il computer non sono accessibili. C'è tuttavia chi sostiene che questo potrà avvenire in un futuro neanche troppo lontano. che se con un tipo di intelligenza diverso: più intuitivo, creativo e sintetico che analitico e pragmatico. La neuropsicologia spiega questo dato chiamando in causa le differenze tra i due emisferi cerebrali. Quello destro, che prevale nel sesso femminile, governa appunto le funzioni creative e sintetiche, mentre il sinistro, più attivo nel sesso maschile, privilegia la logica e le capacità analitiche, cioè quel tipo di pensiero che nel nostro contesto culturale è “premiante” per quanto riguarda il successo lavorativo e sociale. Comunque, sia detto per inciso, il Q.I. più elevato (addirittura 228 punti) appartiene a una certa Marilyn Vos Savant: già, proprio una donna! QUANTO CONTANO I CROMOSOMI Da parecchi decenni gli studiosi si chiedono se l’intelligenza dipende dalla dotazione genetica, e quindi si eredita, oppure è il risultato delle stimolazioni ambientali. A tutt’oggi non abbiamo una risposta definitiva, ma secondo l’ipotesi più accreditata esiste una componente di eredità biologica sulla quale, però, agisce in misura considerevole l’appor- to delle esperienze fatte a contatto con un determinato ambiente: se questo è positivo e ricco di stimoli favorisce lo sviluppo delle facoltà cognitive; se invece è povero e deprivante impedisce che si evolvano le potenzialità genetiche dell’individuo. Gli studi condotti su gemelli monozigoti (cioè geneticamente identici) ma allevati in ambienti e circostanze di vita diversi confermano sostanzialmente questa ipotesi. L’ idea che la mente del neonato fosse una “tabula rasa” su cui soltanto l’esperienza postnatale poteva incidere i primi segni è stata abbandonata ormai da parecchi anni. Oggi sappiamo con certezza che già molto prima di nascere il bambino possiede numerose funzioni ed è in grado di esprimere capacità per molti versi sorprendenti. Per esempio, sappiamo che il feto percepisce e riconosce il battito cardiaco della madre, reagisce agli stimoli sonori esterni, discrimina alcuni sapori e odori, e così via. Il suo cervello si sviluppa ad una velocità incredibile: le cellule nervose (neuroni) aumentano infatti, durante i 280 giorni della gravidanza, al ritmo di 250.000 al minuto. Secondo la più nota teoria dello sviluppo mentale infantile, quella elaborata dallo psicologo svizzero Jean Piaget, l’evoluzione dell’intelligenza attraversa una serie di stadi. Dalla nascita a tutto il 4° mese di vita il lattante, mettendo in atto azioni di tipo riflesso, scopre per caso risultati interessanti e tende a ripetere i gesti che li hanno prodotti: ad esempio, inizia a portare intenzionalmente il pollice in bocca per succhiarlo. È la fase delle reazioni circolari primarie. Dai 5 ai 9 mesi circa compaiono le reazioni circolari secondarie, che consistono anch’esse nella ripetizione intenzionale di schemi d’azione che hanno esercitato un effetto interessante, ma non sul proprio corpo, bensì sulle cose: ad esempio, tirare la cordicella che fa muovere il giocattolo appeso sopra la culla. Verso gli 11-12 mesi, il bimbo arriva alla fase delle reazioni circolari terziarie, caratterizzate dall’intenzione di ottenere un risultato provando, cioè facendo “esperimenti” sugli oggetti: ad esempio, tentando di avvicinare a sé un oggetto servendosi di un bastone. I fenomeni fin qui descritti appartengono allo stadio dell’intelligenza sensomotoria, che dura fino ai 24 mesi. A partire da questa età si verifica un cambiamento importante: il bambino non è più vincolato alla presenza fisica degli oggetti nei suoi tentativi di ottenere un risultato, ma diventa capace di provare mentalmente le varie soluzioni possibili e di mettere in pratica quella che presumibilmente è più efficace. Ciò segna il passaggio allo stadio dell’intelligenza rappresentativa, vera premessa del pensiero intelligente. Le immagini mentali degli oggetti sono però ancora, all’inizio di questo stadio, dipendenti dalle esperienze reali del bambino: pur essendo capace di rappresentarsi mentalmente, ad esempio, il cucchiaio con cui mangia la pappa, egli non possiede ancora il concetto di cucchiaio, cioè non incorpora nella rappresentazione di questo oggetto tutti quelli che hanno la stessa funzione. Ciò avviene in una fase successiva, parallelamente alla comparsa del linguaggio, quando le parole iniziano ad essere veri e propri sim- boli che si riferiscono a categorie generali di oggetti. Fino ai 6 anni circa il bambino perfeziona e arricchisce queste competenze, ma a partire dai 7 anni si verifica un fondamentale “salto di qualità”: il pensiero diventa di tipo logico, nel senso che permette di compiere operazioni sui dati della realtà classificandoli, mettendoli in sequenza, sommandoli, ecc. Questa è la fase del pensiero operatorio concreto, che dura fino agli 1112 anni ed è seguita da quella del pensiero operatorio formale, in cui il bambino diventa capace di ragionare astrattamente, sulla base di ipotesi e deduzioni, in modo del tutto simile a quello dell’adulto. Anche se la teoria di Piaget ha subito nel corso degli anni numerosi rimaneggiamenti ed è stata oggetto di molte critiche, nei suoi aspetti fondamentali resta un ottimo punto di riferimento per capire e interpretare i processi dello sviluppo intellettivo nei bambini normodotati che vivono in un contesto sufficientemente stimolante. Diverso, invece, è il caso dei bimbi che subiscono prima, durante o dopo la nascita, un danno cerebrale. Questi hanno in genere difficoltà di sviluppo intellettivo, che possono andare da un grado lieve ad una notevole gravità. Le cause di danno cerebrale sono molteplici: si va da quelle ereditarie (soprattutto malattie metaboliche) a quelle dovute ad alterazioni cromosomiche (come la sindrome di Down), a quelle provocate da prematurità, infezioni o intossicazioni durante la gravidanza, alle malattie infettive (soprattutto virali) o altre malattie gravi contratte nella prima infanzia. È importante sottolineare che il ritardo mentale comporta inevitabilmente problemi di apprendimento e di linguaggio, ma non è vero il contrario. Difficoltà di linguaggio e/o di apprendimento possono infatti esistere come condizioni isolate, in soggetti che hanno un livello di intelligenza potenzialmente normale. Occorrono quindi valutazioni accurate da parte di specialisti per poter diagnosticare la presenza e la gravità di un ritardo. Se quest’ultimo effettivamente esiste, il bambino può giovarsi notevolmente di trattamenti riabilitativi sistematici e, in età scolare, di apporti didattici adeguati. La riabilitazione del ritardo mentale si basa oggi su tecniche sofisticate di tipo neuropsicologico che mirano al potenziamento della memoria e delle strategie di risoluzione dei problemi, avvalendosi anche di strumenti informatici. Non bisogna quindi cedere alla disperazione di fronte a questo tipo di diagnosi: il recupero, infatti, è sempre possibile in una certa misura; inoltre anche le persone che hanno una capacità mentale al di sotto della norma possono condurre un’esistenza dignitosa ed equilibrata se si coltiva il più possibile la loro intelligenza emotiva che, come abbiamo visto, ha ben poco a che fare con il Q.I.