aspirazioni di un adolescente
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aspirazioni di un adolescente
Giorgio Vindigni ASPIRAZIONI DI UN ADOLESCENTE Edizioni Helicon Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Dante Alighieri - Divina commedia Inferno - Canto XXVI – 116/120 “Diffondere la cultura è cosa meritevole; essa non ha confini né limiti di sorta. Impadronirsene gratifica lo spirito.” Giorgio Vindigni IL CAMBIAMENTO Camion militari inglesi, dallo chassis alto, tipo campagnola, con un motore a benzina dal sibilo inconfondibile, percorrevano le strade di Tripoli, condotti da prigionieri tedeschi in tuta marrone. Ogni giorno dalla città si recavano nelle caserme ubicate fuori le mura, in dei villaggi dove erano abituali sostare. Le truppe britanniche erano subentrate in Libia, in seguito agli eventi bellici, a quelle d’occupazione italiana, nel 1943. Già dal 1911 l’Italia giolittiana aveva conquistato il territorio libico sottraendolo al malato Impero Ottomano. Questo, sotto i Giannizzeri, aveva dominato quella Regione per ben quattrocento anni, assoggettandola al proprio servizio, lontana da quella civiltà mediterranea che aveva visto crescere altri popoli limitrofi. Migliaia d’Italiani, agricoltori, operai, professionisti, volsero tutta la loro attenzione e creatività nel far sorgere città, villaggi e fiorenti campagne. Altrettanti giovani militari sacrificarono la loro vita per la difesa di quel territorio occupato, durante l’ultimo ventennio prebellico, ed in particolare con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1926 partì per la Libia anche il geologo Ardito Desio, per conto della Reale Società Geografica Italiana. I mezzi a disposizione furono scarsi e le ricerche scientifiche si dovettero appoggiare alle carovane che occasionalmente erano organizzate a piedi, con i cammelli e, raramente, con automezzi che spesso rimanevano insabbiati e quindi impossibilitati a proseguire. Questi viaggi diedero modo al Geologo di tracciare un primo abbozzo della carta geologica della Regione, che completò nel 1931. In quattro mesi organizzò una spedizione nel Sahara libico, - 17 - Il cambiamento durante i quali percorse circa 4000 Km. che gli permisero di ricostruire la storia geologica dell’area in esame, raccogliendo una gran quantità di campioni di roccia e di fossili. Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, le spedizioni di Desio in Libia s’intensificarono, grazie anche all’aiuto del Governatore Italo Balbo, che gli fornì mezzi aerei per le ricognizioni, rifornimenti, guide. Egli ebbe modo così di compilare mappe geografiche e definire i confini di quella Regione. Nel 1938 fu convocato dallo stesso Governatore che lo interrogò sulle possibilità minerarie esistenti. Insieme a due geologi, un ingegnere ed un chimico, arrivò alla conclusione che l’unica possibilità era rappresentata dall’eventuale sfruttamento di sali potassio-magnesiaci scoperti nell’Oasi di Marada. Dal pozzo Mellata-Cini n. 8 fu estratta una piccola quantità di petrolio grezzo, testimonianza di quell’esistenza che avrebbe prodotto la ricchezza della Libia. Tale scoperta non fu presa in seria considerazione, anche per la mancanza di mezzi tecnici che non permettevano perforazioni ad oltre 800 metri. Ciononostante, Desio tornò in Italia e prese accordi con l’AGIP che inviò un nuovo programma d’esplorazione geo-petrolifera in tutta la Libia. Lo scoppio della guerra pose fine, purtroppo, a tutte le attività scientifiche. L’errata alleanza di Mussolini alla Germania Hitleriana, che si preparava ad invadere tutta l’Europa, fu fatale. La seconda guerra mondiale, mandò in frantumi tutto il lavoro svolto dall’Italia nel trasformare quella Regione desertica, in una colonia fiorente divenuta centro di commercio e finanza nell’Area mediterranea. Fu Francesco Saverio Nitti che, in un discorso al Parlamento italiano nel 1911, definì la Libia uno “scatolone di sabbia”, rappresentato dal deserto che si estendeva dall’Egitto alla Tunisia ed Algeria, e dal Mediterraneo alla Nigeria ed al Ciad. La posizione strategica della Libia e dei suoi mille e ottocento chilometri di costa, a breve distanza dall’Europa meridionale, la rendevano appetibile ai due fronti contrapposti, quello Inglese e quello Italo-tedesco. Fu Erwin Rommel che giunto ad El-Alamein, non lontana dal Nilo, ebbe il soprav- vento sulle truppe italo-tedesche, bloccando le forze corazzate dell’Afrikakorps e le unità mobili italiane che stavano sferrando una massiccia offensiva contro l’ottava armata britannica. - 18 - - 19 - Alla fine della dominazione italiana nel 1943, la Libia divenne una Regione strategica importante per il controllo dell’Area mediterranea. Gli Inglesi se ne resero conto ed insediarono in essa un’Amministrazione militare, la “British Military Administration”, mentre gli Americani costruirono ad Est di Tripoli la più importante base aerea del Mediterraneo, la “Wheelus Field”. Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, si stabilì in Libia un’Amministrazione fiduciaria inglese per le tre Province: la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. Il Paese, infatti, negli anni quaranta non era ancora in grado di finanziarsi autonomamente, perciò non fu concessa subito l’indipendenza. I prigionieri furono utilizzati nei vari servizi dei quartieri; ad alcuni di loro fu dato l’incarico di condurre i mezzi militari in tuta marrone, per distinguerli dagli autisti inglesi con incarichi particolari, che indossavano divise militari. La scuola di Giorgio si trovava a Sidi Mesri, località distante circa due chilometri dalla sua abitazione, nei pressi delle mura della città. Tutte le mattine lui, Beppe Nidini e Teresa, Mario Sguotti, la veneta Fiorella, Agostino Gadaleto e qualche altro compagno che si univa a loro, abitando nei pressi, si recavano nella stessa scuola, percorrendo insieme la strada, per partecipare alle lezioni che cominciavano alle ore otto. Non appena sentivano il sibilo del motore di un camion, facevano segno di chiedere un passaggio. L’autista fermava il mezzo, raccoglieva a bordo gli scolari e s’incamminava verso il vicino villaggio. Si tenevano bene ai bordi del cassone fino a quando, giunti a destinazione, bussavano sulla parete della cabina e l’automezzo si fermava. Salutavano il conducente che rispondeva con un gran sorriso, non conoscendo la loro lingua, che voleva significare un arrivederci poiché giornalmente percorreva quella strada e Il cambiamento di solito alla stessa ora. Superato il piccolo cancello, s’inoltravano fino a salire alcuni gradini ed entrare in un corridoio. Sulla prima porta a sinistra c’era la scritta “Classe quarta”. Due finestre sul lato sinistro illuminavano l’aula mentre una pedana con una scrivania, ed una lavagna alla sua sinistra, occupava la parete dirimpetto. Quasi tutti i giorni trovavano i compagni ad attenderli, visto che provenivano da villaggi limitrofi non molto distanti. C’era sempre però qualche ritardatario. L’insegnante, una bella signora di quarant’anni con i capelli castani raccolti sulla nuca, entrava con i registri sul braccio sinistro e la penna nella mano destra, con qualche minuto di ritardo, anche per non far pesare colpe sui ritardatari. La signora Bianchini era una madre di famiglia e considerava gli alunni tutti figli suoi. Durante l’intervallo faceva colazione anche lei, con i suoi alunni; attirava l’attenzione il modo con cui spizzicava il pane, con il pollice e l’indice, forse per assaporarlo maggiormente. Quei gesti facevano tornare alla mente di Giorgio quando, in possesso di un pezzo di pane, cominciava a gustarlo lentamente, senza divorarlo. Erano ansiosi di unirsi agli altri compagni per dare sfogo ai loro rapporti, scambiarsi puerili opinioni su questo o quel compagno, sui maestri e le attenzioni che questi prodigavano loro. Tutto era ben diverso da quello che Giorgio aveva vissuto durante il suo soggiorno a Modica da profugo. Solo pochi mesi prima andava a piedi a scuola che, a volte, marinava con un compagno per raggiungere una sorgente, “a funtana”, nella quale lavavano un’insalata raccolta furtivamente in un orto vicino, per gustarne il sapore e alimentarsi. I suoi sentimenti si facevano sempre più vivi nel ricordare e paragonare la vita che stava vivendo, con quella che aveva vissuto durante il periodo della guerra, lontano dalla presenza paterna, con le conseguenti privazioni. Giorgio era avvantaggiato sugli altri, provenendo già dalla quarta elementare. A Modica aveva dovuto interrompere l’anno scolastico per fare ritorno in Africa e riabbracciare il pro- 20 - prio genitore. Aveva occupato, fin dal primo giorno, un banco in prima fila. Il suo carattere rispecchiava il proprio temperamento irrequieto. Da piccolo aveva dovuto affrontare i problemi collegati alla guerra, la fame, il freddo, la mancanza di generi alimentari e di conforto, tutti elementi che influirono sul suo carattere, nel voler primeggiare sugli altri, cercando di imitare chi era a lui superiore. La nobile immagine dello zio Italo di Messina, lo aveva talmente impressionato da volerne seguire le gesta. Colto, poeta, pittore, dalla notabile personalità fisica ed intellettuale, pur non avendo avuto l’occasione di vederlo spesse volte, aveva colpito la sua fantasia. Non solo, ma l’aver ritrovato finalmente il padre, gli dava maggiore conforto ed incoraggiamento nei comportamenti. Quella scuola ospitava tutte e cinque le classi elementari. Un gran cortile per la ricreazione ed un rifugio sotterraneo, che era stato costruito negli anni precedenti, per salvare gli abitanti della zona dai bombardamenti inglesi, che portarono all’occupazione della Libia ed alla capitolazione delle truppe italiane. Era stato probabilmente colpito da qualche obice; vi erano ancora i segni di una parziale distruzione proprio sulla scalinata d’accesso. Sarebbe stato interessante ispezionarlo per conoscere e paragonarne la fattezza e le dimensioni con quello che aveva lasciato a Modica, che era servito poi ad essere oggetto dei suoi giochi con gli altri bambini. Quel periodo sembrava tanto lontano, eppure erano trascorsi soltanto alcuni mesi. Gilberto, Giuseppe, Gianni, Giuliano e poi le sorelle Alessia, Amelia, Lucia e gli altri, che componevano il gruppo dei suoi compagni di gioco, gli riaffiorarono alla mente. Aveva appreso i loro giochi, le abitudini e il dialetto. Tutto sembrava così remoto, e lo era, infatti, essendo quei luoghi oltre il mare, in un clima ambientale ed atmosferico diverso da quello che stava affrontando. Sembrava di vivere in un altro mondo; la lingua italiana era d’obbligo. L’abbigliamento doveva essere consono alla comunità con - 21 - Il cambiamento cui si era in contatto. Non più le scarpe rotte, i pantaloncini con le bretelle, il cappottino rammendato. Ora c’era papà che badava a comprare un abbigliamento adatto a Giorgio. Anche se in ristrettezze per affrontare e sanare le ferite subite, bisognava pur dare un senso migliore alla vita di tutti i giorni, nel ben compararsi con gli altri. Il freddo incalzava e dovevano coprirsi bene per andare a scuola, a piedi; capitava a volte che non s’imbattessero nei camion militari inglesi cui chiedere un passaggio. Allora percorrevano un’altra strada, quasi parallela a quella abituale, e spesso incontravano Maria, una graziosa compagna dai capelli lunghi ed ondulati, gli occhi celesti ed una bella voce da soprano. Giorgio andava spesso a trovarla, non abitando lontano da lei, ed insieme si esercitavano in canzoni quali “Voglio amarti cosi” o “Nel tepor di una notte incantata”. La sua vocazione era quella di diventare una cantante lirica; con la sua ugola d’oro riusciva ad imitare anche il canto degli uccelli. Giorgio aveva una bella voce e spesso cantava, invitato dalla madre a farlo alla presenza di ospiti; si nascondeva dietro una porta per non essere visto, ma amava gli applausi ed i complimenti. Chissà, forse un giorno, da grande, avrebbe potuto esibirsi insieme a Maria su di un palcoscenico. Era necessario un cappello per ripararsi dal freddo invernale e dalla pioggia, quella qualche volta che cadeva su Tripoli. Non ne aveva uno ed il padre gli procurò un berretto militare di lana grigioverde; quello che i soldati portavano giornalmente in testa. All’occorrenza staccava i bottoni che tenevano alto il copricollo, facendolo scivolare dietro la nuca per ripararsi dalle intemperie; cartella a tracolla e via a scuola a piedi. Le lezioni giornaliere non erano pesanti. La lingua araba obbligatoria, quella sì lo era, in particolare per lui, per non averla studiata nelle precedenti classi elementari. Gli altri compagni conoscevano già la scrittura e la lettura, da destra verso sinistra; per Giorgio era tutto novità e dovette impegnarsi con tutte le sue energie per capire il perché di quei segni alfabetici, vocali e consonanti che, pur leggendosi nello stesso modo, si scrivevano in maniera diversa a seconda se erano posti ad inizio della parola oppure in mezzo o alla fine della stessa. Il papà era molto severo e pretendeva che il figlio raggiungesse gli altri nella conoscenza della lingua araba. Egli cercò di impegnarsi, ma non poteva certo applicarsi tutti i giorni ad essa per impararla, trascurando gli altri impegni giornalieri. Beppe e Teresa, della villa accanto, reclamavano la sua presenza, nei pomeriggi liberi dalla scuola, per giocare nel loro giardino od in quello di Giorgio. Per parlare fra loro presero dei tubi e li unirono per le due estremità fino a collegare le abitazioni, attraverso le siepi dei giardini interposte. Chi metteva a turno l’orecchio all’inizio del tubo, ascoltava la voce di chi parlava dall’altro capo; si alternavano quindi per la risposta. Avevano ideato un mezzo di comunicazione a distanza, senza vedersi. Soddisfatti si sentivano degli inventori e non mancavano di divulgare la notizia agli altri compagni. Settembre era il mese dei datteri freschi, dolci e deliziosi al gusto, che gli fecero ricordare quelli secchi e pressati che gli Inglesi, durante l’occupazione della Sicilia, avevano distribuito ai profughi, possessori di “carta annonaria”, insieme alle scatolette di latte condensato ed alle buste di quello in polvere. Giornalmente passava un carro, spinto a mano, pieno di quei frutti; gli interessati all’acquisto uscivano al vociare del venditore ambulante. La mamma li faceva trovare in cucina a Giorgio e Emma, sua sorella maggiore. Li lavavano sotto l’acqua corrente e, sgusciatoli con la pressione del pollice, indice e medio, li facevano scivolare direttamente in bocca. Le prime volte li contavano, ma poi la numerazione non seguiva più il salto del dattero attraverso le labbra. Un giorno Giorgio notò un indigeno arrampicato su di una palma alta oltre dieci metri, dai rami già potati, che trafficava su in cima al centro di essa, con un recipiente di argilla a portata di mano. Il papà gli spiegò che quell’indigeno avrebbe legato il contenitore intorno alla cima, ne avrebbe segato alcuni teneri rami, provocando la fuoruscita di un liquido biancastro e dolce, simile al latte, con una minima - 22 - - 23 - Il cambiamento gradazione alcolica: il “Leghbi”. Se ne poteva acquistare qualche bottiglia anche al Bar, dove era servito al bancone. Qualche giorno dopo, Giorgio si accorse che il papà aveva acquistato una quantità di datteri inusuale; li aveva sparsi su di una piattaforma e lasciati ad essiccare al sole. Il fatto lo incuriosì e lo indusse a chiedergli quali fossero le sue intenzioni per avergli proibito di toccarli. Non ebbe una risposta esauriente, bensì di pazientare ed attendere per assistere alla loro lavorazione. Trascorsero alcuni giorni ed una domenica, libero dagli impegni d’ufficio, Antonio cominciò a lavorare sulla frutta che, nel frattempo, si era ben asciugata. Liberò i datteri dal seme ed iniziò a macinarli facendo uso della macchina per tritare la carne. Prese la poltiglia che ne uscì e cominciò ad amalgamarla. Il giorno precedente lo aveva visto trafficare con delle arachidi; le aveva liberate dall’involucro, messe ad abbrustolire in una padella calda e, raffreddate, le aveva ripulite dalla pellicola che le ricopriva. Aveva preparato anche delle mandorle usando lo stesso procedimento. Lavorò il tutto durante la mattinata. Formati dei salami, li mise al forno per farli consolidare. A lavoro ultimato, confezionò il contenuto con una carta speciale e lo depose in un luogo asciutto. Giorgio osservò il procedimento ed attese di poterne gustare qualche pezzetto. Non gli fu concesso; il dolce sarebbe stato pronto solo per le festività del Natale. Egli cominciava i preparativi per trascorrere le feste natalizie, senza acquistare prodotti industriali, contenenti conservanti, non genuini quindi come quelli da lui approntati. Trascorsa qualche settimana, una sera giunse a casa con un pacchetto contenente budella e della carne in un altro involucro. Procedette nel lavare le budella e nel lavorare la carne dopo averla macinata nella solita macchinetta per tritare. Sale, semi di finocchio ed altre spezie furono lavorati insieme ed inseriti, per mezzo di un imbuto, nelle budella predisposte. Ne risultarono delle salsicce che Antonio stese in delle canne per farle asciugare. Sarebbero diventati dei salamini. Quante belle cose sapeva fare il suo papà! Quante ne avrebbe fatto per non farlo soffrire la fame durante la sua lontananza. Si abbandona- va a questi pensieri nell’aiutarlo mentre lavorava, ma tornava subito ad osservare attentamente quanto stava per fare per apprendere ciò che non gli era stato possibile imparare durante la sua assenza. Erano trascorsi tre mesi dall’inizio della scuola e Giorgio non riusciva ad apprendere facilmente la lingua locale. Sì, aveva fatto dei progressi, ma era ancora lontano dal raggiungere gli altri compagni. Il Maestro, di nazionalità libica, non dimostrava molta comprensione; non teneva conto che egli era giunto da poco tempo dall’Italia e che, quindi, avrebbe dovuto imparare la lingua araba con maggiore impegno. I primi mesi trascorsero tra l’ambientamento ad uno “status vitae” completamente diverso da quello vissuto durante la pubertà. L’Africa non era la Sicilia, anche se non molto lontana, e se qualche retaggio dall’occupazione araba, dei secoli precedenti, era presente. Il clima era più mite di quello siculo. I mezzi di trasporto consistevano in carri lunghi, con ruote gommate d’auto, trascinati da un cavallo. Gli autobus di vecchia fattura, residui ante guerra, funzionavano ancora e trasportavano persone verso la città o la periferia. Essendo ancora sotto l’occupazione delle truppe britanniche, i libici continuavano a comportarsi come furono costretti negli anni dell’occupazione italiana; i posti a sedere erano riservati agli europei, essi dovevano stare seduti sulla piattaforma in fondo al mezzo, pochi in ogni caso perché la maggior parte preferiva viaggiare sui carri. Altri viaggiavano sui dromedari ben equipaggiati sulla groppa. Il giardino della villa pullulava d’alberi da frutta di varie qualità, tutti ben inquadrati da far pensare alla cura che era stata prodigata nel piantarli. Alcuni erano stati innestati e qualcuno di essi produceva due tipi di frutta, appartenenti alla stessa specie. La villa si trovava in Via Paolucci Fulcieri de Calboli, proprio di là dalle mura della città di Tripoli; era la terza di un complesso di quattordici villette. Tutto ciò che circondava Giorgio era novità; la scuola, i compagni, i nuovi amici. L’abitazione ampia con un bel giardino, non era lontana dall’accam- - 24 - - 25 - Il cambiamento pamento formato da baracche, dove la mamma lo mandava a comprare le uova fresche. Distaccato dalla strada principale da un arco, l’agglomerato di abitazioni consisteva in capanne di tela pesante variopinta a strisce dai colori scuri, con strutture di legno, simili ad una tendopoli. In ognuna di esse, le mamme, a viso scoperto sotto un barracano, accudivano alle faccende domestiche ed ai bambini, che giocavano tra loro, sporchi di sabbia, alcuni con il moccolo alle narici, dove le mosche trovavano utile ristoro. Stavano accovacciati con le gambe incrociate ad imitazione dei loro padri. Una camiciola li copriva appena e andavano a piedi nudi. Alcuni curiosavano osservando il suo abbigliamento, con grandi occhi scuri sui quali alcune mosche si posavano, strofinandosi le zampette posteriori ed accarezzandosi le ali, quasi a volerle tenere sempre in ordine per spiccare il volo. Tutte queste distrazioni e problematiche di ambientamento, non riuscivano a fare assimilare facilmente a Giorgio, che pur studiava, la lingua araba; avrebbe avuto bisogno di più tempo da dedicare ad essa. Il voto che riportò sulla pagella del primo trimestre fu un quattro. Il padre si aspettava che il figlio, da tutti giudicato intelligente ed intraprendente, superasse quello scoglio della lingua straniera. Egli, invece, aveva riportato in pagella un risultato così scarso. Non fu per nulla soddisfatto e, senza riflettere, lo punì. Gli mollò un ceffone e poi ancora un altro. Più lui si ribellava, sorpreso da quella reazione, e più il padre lo picchiava per fargli comprendere l’importanza dell’apprendimento di quello che sarebbe stato il mezzo di comunicazione giornaliero in quel Paese in cui vivevano. Solo la madre e la sorella riuscirono, dopo vari tentativi, a calmare il genitore furibondo e deluso da quel voto. Giorgio ebbe molta paura e gli schiaffoni gli arrossarono la pelle; non capiva quel modo di agire così violento del padre. Egli lo aveva tanto amato e desiderato in quei lunghi anni di lontananza, causati da una guerra disumana ed irrazionale, promossa dal suo mito, Mussolini. Antonio lo ammirava per la sua politica imperialistica e d’emigrazione verso quel Paese nel quale era matu- rato il suo benessere. Affermava che l’albero andava curato e sostenuto con un tutore perché sviluppasse ben eretto verso l’alto. Un metodo educativo che egli cercò di applicare ai suoi figli; con Gregorio, purtroppo, non funzionò. Il figlio grande lo aveva deluso, non avendo voluto studiare; non voleva che si ripetesse lo stesso errore. La lezione diede i suoi frutti; l’Arabo era lo scoglio che avrebbe dovuto superare. Mise fine a tutte le sue distrazioni e cominciò a studiare con più intensità. Chiese aiuto a un compagno, che aveva frequentato le altre classi precedenti nella stessa scuola. Il padre di Mario, immigrato in Libia i primi anni del ‘900, prese a cuore la preparazione di Giorgio. Egli aveva appreso la Lingua locale da un piccolo manuale pratico-teorico, che il Cav. Padre Giuseppe Bevilacqua dei Frati Minori, originario di Barrafranca in Provincia di Enna, aveva scritto nel 1912, intitolandolo “Imparare senza maestro – L’ARABO VOLGARE – che si impara in Tripolitania e Cirenaica”. Non volendo egli compilare una grammatica di tutta la Lingua Araba, scrisse un manuale pratico per coloro che volevano in breve comprendere ed esprimere le prime impressioni ed i bisogni della vita quotidiana. Si limitò a dare il valore più esatto di alcuni segni da aggiungersi per necessità alle lettere italiane, allo scopo di rendere il suono di quelle arabe. Insistette, però, che per apprendere la vera pronuncia di alcuni suoni bisognava ascoltarla dalla bocca di chi già conosceva la Lingua. Ebbene, con la scusa di trascorrere qualche ora di gioco con Mario, Giorgio si recava da suo padre che, con grande pazienza, conoscendo già la fonetica dell’Arabo locale, nonché le lettere dell’alfabeto, riuscì, poco alla volta, a far apprendere il più possibile la scrittura e la lettura della lingua straniera all’adolescente, al punto da fargli raggiungere la sufficienza nel secondo trimestre. Antonio fu soddisfatto del risultato; si complimentò con lui abbracciandolo, questa volta, ed incitandolo a fare sempre meglio per il suo bene. Quale premio per il risultato ottenuto, lo portò con lui a fare un giro domenicale per fargli conoscere meglio la città in cui era nato. Scesero dall’autobus in Piazza Italia, o - 26 - - 27 - Il cambiamento Piazza del pane, com’ era anche chiamata. Al centro di essa sorgeva la fontana dei cavalli marini, simile a quella che si trova a Roma, nei pressi dello Zoo, in Villa Borghese. Allungando lo sguardo verso Corso Sicilia, notarono l’imponente palazzo del Banco di Roma cui facevano seguito altri importanti edifici. In fondo a destra, il così detto Palazzo Colosseo, per la sua forma arrotondata tipica dell’Anfiteatro romano. Avanzarono verso il Suk-el-Muscir ed il Suk-el-Turk, caratteristica zona artigianale la prima e commerciale la seconda, dove pullulavano tanti piccoli negozi forniti di prodotti tipici locali, quali pentole, vassoi, piatti di rame o d’argento cesellati a mano, sandali, tessuti orientali, oggetti ornamentali in genere. Stradine strette s’inoltravano nei Suk i cui immobili erano, di tanto in tanto, collegati da piccoli ponti. Giorgio si trovò in un mondo tutto diverso da quello che fino allora aveva vissuto. Modica era una città antica, barocca, rispetto a quella in cui stava vivendo con belle case e palazzi, con strade più larghe e asfaltate. Piazze e gallerie ornate da archi e colonne sormontate da capitelli corinzi, come la “Galleria De Bono”, con ristoranti e negozi. Locali Suk el Mushir Piazza Italia o Piazza del Pane cinematografici chiusi e all’aperto. Un bel porto e le spiagge. Egli si sentiva catapultato in un altro mondo, protetto dal papà che gli era tanto mancato negli anni della pubertà. Corso Sicilia - 28 - - 29 - Il cambiamento Perduta la guerra, gli Italiani non erano più visti di buon occhio dalla popolazione indigena, mentre dagli Inglesi erano trattati da vinti, con distacco. Conoscere la lingua araba era, quindi, di vitale importanza, per non essere reputati dei nemici, per riaprire un discorso con coloro che avevano subito un’occupazione territoriale con imposizioni per nulla ortodosse, considerata la diversità etnica e religiosa. Gli invasori italiani avevano occupato le loro terre, ma avevano portato benessere costruendo città e villaggi, facendo fiorire terreni agricoli strappati al deserto. Antiche città romane, come Sabratha, Leptis Magna e Cirene, con il loro teatro greco-romano ed i templi, riapparvero dalle dune di sabbia che le avevano ricoperte nei secoli. Contrariamente a come operarono gli Inglesi che non sprecarono energie; raccoglievano ciò che in Libia cresceva spontaneamente: lo sparto, una pianta erbacea delle Graminacee con lunghe foglie giunchiformi, usata per ricavare una fibra per cordami e cellulosa, per la fabbricazione della carta. Non mancarono, oltretutto, di esportare reperti storici verso i musei londinesi. L’Italiano era, in un certo qual senso, Palazzo Colosseo - 30 - più vicino al Libico, sia territorialmente sia civicamente. L’Inghilterra era un’isola molto lontana che non aveva subito, nei secoli passati, l’influsso della civiltà musulmana. I libici, a loro dire, vivevano meglio sotto la dominazione turca, che osservava la stessa religione musulmana, ma che li aveva schiavizzati per ben 400 anni. Di tanto in tanto, la famiglia dei Senussi provocava movimenti insurrezionali per l’ottenimento dell’indipendenza dall’occupazione inglese, portando nelle piazze una marea di gente, armata di pietre e spranghe che tenevano nascoste sotto i barracani. La loro dimostrazione di forza era rivolta sì contro gli occupanti, ma anche contro tutti coloro che non professavano la stessa fede musulmana, di qualsiasi nazionalità. Molti Coloni italiani avevano già abbandonato le “concessioni agricole”, rese fiorenti da tanti sacrifici, per fare rientro in Italia come profughi; da proprietari di terreni concessi dal “Regime” a emigranti nel proprio Paese d’origine. Non riuscirono a sopportare le rivendicazioni e i soprusi degli indigeni, spinti da odio personale nel ricordo di tragedie perpetrate a loro parenti dalle truppe d’occupazione, agli ordini del Generale Graziani, per la conquista della Libia. Altri rimasero e continuarono a lavorare in condizioni molto difficili, privati anche dei mezzi di sussistenza, in attesa di tempi migliori. Né gli Inglesi, nuovi occupanti, li protessero dalle rappresaglie. Molti abbandonarono i villaggi. Altri resistettero con sacrifici ed a rischio della loro stessa esistenza. Mal sopportavano gli ebrei che gestivano tutto l’apparato commerciale e che ritenevano politicamente pericolosi per le rivendicazioni sulla Palestina. Le pretese degli Israeliti di far ritorno in quella “terra promessa”, avevano attirato l’odio di tutti i Musulmani del Medio oriente e dell’Africa settentrionale. Saper leggere le notizie riportate sulla stampa araba, parlare quella lingua voleva significare, quindi, conoscere il loro modo di pensare per regolare i propri comportamenti. Le lezioni della lingua locale, impartite due volte la settimana, erano preziose, impegnative e da non perdere. Fin dai primi giorni di scuola, tutte le classi erano invitate, - 31 - Il cambiamento prima dell’inizio delle lezioni, a sistemarsi nel cortile. Una per volta era chiamata ad avanzare verso un tavolino su cui si trovavano dei contenitori. Una persona incaricata chiamava ogni alunno per nome, anche per controllarne la presenza, e lo invitava ad ingoiare una pillola color verde scuro ed una marrone, contenenti olio di fegato di merluzzo e vitamine. Ricostituenti già somministrati durante l’Era fascista a quei giovani che, in seguito, avrebbero dovuto servire la Patria. Alcuni non accettavano volentieri tali imposizioni e, fingendo di ingoiarle, le mettevano tra i denti e la guancia per poi gettarle tornando in classe, naturalmente al riparo dalla sorveglianza. Non c’era via di scampo, gli ordini andavano eseguiti. Bisognava ingoiare quelle indesiderate pastiglie. Di tanto in tanto circolava per la scuola un camice bianco; era un dentista inviato dalle Autorità sanitarie preposte, per controllare eventuali carie nelle giovani dentature. Capitava spesso di udire le urla di qualche compagno per l’estrazione di un dente. Non essendo ancora adolescenti, ma neppure bambini, vivendo le trasformazioni somatiche e psichiche proprie di quell’età, simpatie ed antipatie s’incrociavano tra i banchi di scuola e nel cortile. Discorsi, in parte spinti verso l’altro sesso, che portavano a condurre a delle azioni a volte sconsiderate. Si affermava che le Venete, al contrario delle ragazze meridionali, erano di facili costumi e non avevano certi pregiudizi. Era necessario, quindi, scegliere una compagna veneta da sottoporre alla realtà di tale teoria. Fiorella era una compagna ideale, abitava proprio nella villa a fianco a quella di Giorgio. Fu scelto lui, quindi, a fare da esca, ad accompagnarla per visitare il rifugio situato in fondo al cortile e farle delle “avances”. Nell’attesa, gli altri rimasero all’esterno. All’improvviso videro uscire dal rifugio il compagno che si accarezzava la guancia colpita da uno schiaffone. Giorgio non gradì quella mossa, ed interpretò lo schiaffo come una sfida. Fiorella era troppo carina, la vedeva spesso giocare nel giardino dalla sua veranda, ma non riusciva ad avere contatti fino a quando non decise di chiamarla per giocare con lui. Ella rimase stupita da quell’invito, ma non rifiutò. La mamma, una bella donna dai capelli lunghi e neri, usciva per andare al lavoro e lei rimaneva sola con la nonna. Uno di quei pomeriggi, Giorgio si sentì chiamare e la vide gesticolare facendogli cenno di ascoltarla. L’avvenimento lo turbò ma non si tirò indietro. La nonna era uscita per fare delle compere e lei si annoiava a stare da sola. Fecero due passi nel giardino osservando le varie piante da frutta, quando s’imbatterono in un camaleonte. Non fu facile distinguerlo perché mimetizzato con il colore del ramo su cui si trovava. Caratteristica di questi rettili è, infatti, quella di cambiare colore con il mutare delle condizioni ambientali. Si avvicinarono e notarono come i due grandi occhi ruotavano in tutte le direzioni, indipendentemente l’uno dall’altro, cercando una preda da catturare. Attesero che un insetto si posasse su di una foglia e notarono con quale velocità e precisione estrasse la lunga lingua protrudibile, con apice ingrossato e vischioso, catturandolo. Di tanto in tanto una cavalletta saltava da una pianta all’altra, si posava sul terreno e poi ripartiva scattando con la spinta delle due lunghe zampette posteriori e sorretta dalle sue larghe ali. Appartenente alla specie di insetti ortotteri, recava danni gravi alle coltivazioni. Si diceva che gli Arabi ne andassero ghiotti. Quando esse passavano a milioni, offuscavano il cielo e lasciavano le coltivazioni interamente distrutte; la loro presenza era una calamità. La veranda di Giorgio era abbastanza lunga e si poteva percorrere con il carrettino sorretto da tre cuscinetti. Lei si sedette e lui la spingeva avanti e indietro. Rimaneva accovacciata con le gambe incrociate, che rimanevano scoperte fino all’inguine. Quella vista lo scosse e cercò di distrarsi parlando della scuola e dei compagni vicini di casa. Essi erano sette fratelli; povera mamma, chissà quanti tagli aveva subito sulla pancia per far nascere ciascuno di loro. Lei lo ascoltò ed, ergendosi a maestra, gli spiegò che i bambini non nascevano facendo un taglio sulla pancia della madre, bensì da lì e, spostando l’indumento intimo, evidenziò il sesso. Quella mossa inaspettata lo stupì e incuriosì - 32 - - 33 - Il cambiamento al tal punto che avrebbe voluto rivedere quanto gli era stato mostrato. Era la prima volta che si trovava in tale situazione. Insistette anche quando si era stesa sulla sedia a sdraio per prendere il sole; purtroppo l’occasione non si rinnovò mai più. Era iniziata l’età dell’adolescenza. Il sorgere dei sentimenti è paragonabile al bocciolo di un fiore che, schiudendosi, fa apparire lentamente i primi petali. Ingrandendosi essi esplodono in quella bella immagine profumata, dai variopinti colori. Qualcosa era cambiata in lui; si sentiva attirato da quella sua coetanea, carina, intraprendente ma non sempre disponibile; non partecipava, infatti, ai giochi che giornalmente si svolgevano con Beppe e Teresa, cui si univa spesso anche Mario. Il sentimento del bello e del brutto, dell’attrazione verso l’altro sesso, dell’amicizia, della gioia e del dolore, dell’amore, cominciarono a svegliarsi in lui. Era l’età dello sviluppo, quella in cui l’apprendimento scolastico è sovente intaccato dalla moltitudine di interessi che circondano quella transizione, dalla pubertà all’adolescenza. La villa successiva a quella abitata da Fiorella era la prima della serie delle quattordici che erano state costruite. Il papà di Giorgio l’aveva prenotata prima che si decidesse a cambiarla per l’altra più grande dove abitò in seguito. In essa viveva la Signora Perini con la figlia Flora. Una bella ragazza dai capelli neri, lunghi ed ondulati. Dopo la morte del marito, la madre non uscì più dalla sua abitazione; condusse una vita di clausura. La figlia andava al mercato per fare la spesa giornaliera e sostituiva la madre nelle incombenze fuori casa. Quell’assenza, tra gli abitanti delle ville, incuriosì Giorgio al punto che un giorno decise di andare a conoscere la madre della ragazza, per scoprire i segreti di una vita non vissuta. Avendo visto passare Flora davanti la sua abitazione con le borse della spesa, le andò incontro con la scusa di volerla aiutare. Apertasi la porta, apparve una distinta signora dai capelli argentati, vestita di nero, che lo fece entrare per ringraziarlo di aver aiutato sua figlia. Asserì che ella lo conosceva, avendolo visto più volte transitare davanti casa sua. Lei sapeva tutto del vicinato; gli altri non sapevano nulla di lei. Un giovedì fu invitato a scuola un mago che visitò tutte le aule durante la mattinata. Lo spettacolo era stato offerto dalla scuola per motivi culturali e d’apprendimento alla creatività. Giorgio assisteva dalla prima fila. Una colomba che sortiva da un fazzoletto, delle carte che si moltiplicavano, altre che scomparivano. Il prestigiatore cercava di accontentare tutti nelle loro richieste. Dopo un movimento delle mani, osservò i piccoli spettatori e li invitò a porre attenzione su quello che stava per fare. Chiamò Giorgio e gli fece annusare un uovo. Appena si avvicinò, tenendo l’oggetto sulla palma della mano, urtò con l’altra il suo naso dal quale ne uscì una piccola colomba vivace, tutta bianca, mentre l’uovo scompariva. La vittima prescelta rimase attonita e si toccava il naso nel timore che si fosse rotto; nel frattempo si sentiva più importante degli altri. L’inverno incalzava, ma la pioggia era rara in quella Regione. Quell’anno, però, diluviò per più giorni. L’Uadi, il lungo letto del torrente che formatosi all’interno del deserto discendeva Il letto dell’Uadi (torrente che si forma nel deserto e corre irruento fino al mare) - 34 - - 35 - Il cambiamento tortuosamente fino al mare, era strapieno d’acqua piovana che, frammista alla sabbia, formava una valanga giallastra che procedeva a grande velocità, invadendo prima i campi coltivati ed oltre fino alle strade cittadine, le cantine e gli archivi sotterranei di Pubbliche Istituzioni. Fu un vero disastro. I pompieri ed i militari inglesi d’occupazione portarono soccorso su gommoni galleggianti. Qualche giorno di pioggia torrenziale mise in ginocchio l’economia agricola e la pubblica organizzazione amministrativa. Alcuni anziani fecero osservare come tale fenomeno fosse raramente accaduto, la qual cosa non aveva portato i responsabili a considerare la costruzione di chilometri di argini. Dopo qualche mese la maestra Bianchini dovette lasciare l’insegnamento in quella classe. La tristezza pervase negli alunni; volevano troppo bene a quella che consideravano come una madre che seguiva amorevolmente i propri figli. Giorgio si sentiva attratto da quella figura materna e ne seguiva le istru- Il torrente Uadi invade la città di Tripoli - 36 - zioni. Era stata la prima insegnante che gli aveva dato fiducia e apprezzamento. Le loro attese non furono, però, deluse. Un nuovo maestro, il signor Ragusa, prese il suo posto. Capì il loro disappunto perché conosceva la bontà d’animo di quella signora. Non ne approfondì il motivo, ma precisò che era felice di averne preso il posto, con una classe così bella e compatta. Il nuovo maestro era un elemento interessato all’insegnamento scolastico e non solo. Dopo alcuni giorni, egli portò una grande scatola che depose sulla cattedra. Illustrò, quindi, il suo contenuto invitando gli scolari a prestare molta attenzione. Chiamandoli in ordine alfabetico, consegnò loro una scatola di fiammiferi con dentro due vermiciattoli su di una foglia di gelso. Spiegò che si trattava di bachi da seta. Dovevano portarli a casa, riporli in un cartone e procurare loro da mangiare foglie di gelso. Crescendo ed aggrappandosi a qualche rametto predisposto, il baco avrebbe tessuto una rete tipo quella dei ragni, alla quale si sarebbe agganciato il bozzolo, una specie di uovo creato con la bava secreta nel procedimento di rinchiudersi all’interno. La spiegazione continuò con la formazione di una crisalide e della sua trasformazione, a tempo dovuto, in farfalla. Questa avrebbe forato l’involucro per svolazzare nella scatola disseminando uova piccolissime. Da queste sarebbero nati altri bachi, che avrebbero iniziato un nuovo ciclo riproduttivo. Il maestro fu chiaro: tutti dovevano adoperarsi per far conoscere anche ai propri cari l’origine della seta. Fortunatamente nel giardino della villa c’era una pianta di gelso. I compagni limitrofi andavano da Giorgio per raccogliere le foglie; egli ne portava anche a scuola per favorire coloro cui non era possibile rintracciarne. Fu interessante seguire il processo dello sviluppo illustrato dal maestro. Dopo la riproduzione, al secondo ciclo, quando i bozzoli furono più numerosi, prima che la crisalide si trasformasse in farfalla e lo bucasse, egli ne fece bollire alcuni, per uccidere la crisalide, cercando di trovare il bandolo della matassa. Ci volle molta pazienza ed alla fine cedette e non forzò l’esperimento, avendo ricavato solo alcuni centimetri di filo finissimo. Egli - 37 - Il cambiamento pensò alla pazienza che ebbero i Cinesi nell’estrarre dai bozzoli la seta, da cui ricavarono quei bellissimi tessuti, che contribuirono al loro progresso. L’evoluzione di quegli esperimenti colpì la fantasia dell’adolescente che cominciò a sviluppare il suo ingegno nella scoperta di nuove esperienze. Si avvicinavano le feste natalizie ed il papà cercò di organizzarle nel migliore dei modi. Per sette anni aveva trascorso il Natale dagli amici lontano dalla sua famiglia. Quell’anno volle festeggiare il ritorno dei suoi cari in compagnia delle stesse persone, ma in casa sua con la moglie ed i figli. Aveva curato la preparazione alimentare con arte culinaria, salumi, dolciumi, persino il torrone alle mandorle. Nel giardino era cresciuto un bel cocomero dalle dimensioni eccezionali; era troppo bello ed avrebbe fatto un figurone nel mostrarlo agli altri. Lo curò gelosamente chiudendolo in un piccolo recinto perché nessuno potesse toccarlo. Qualche giorno prima della festa, si avvicinò al frutto, tolse la rete che lo circondava, tagliò il ramo dal fusto strisciante, le cui foglie erano ormai appassite. Lo ammirò nella sua forma dal colore verdastro che cominciava a schiarirsi, in particolare al contatto del terreno sabbioso, sottratto alla zona desertica, ma arricchito di humus che lo rendeva, insieme al caldo clima africano, molto fertile. Aprì le palme delle mani, lo prese con delicatezza e si preparò per sollevarlo, immaginando il peso che avrebbe raggiunto quella mole. Appena lo spostò, udì gracidare un rospo che saltellando fuggiva da sotto il cocomero, insieme ad altri due di più piccole dimensioni. L’accaduto sorprese Antonio che, sbalordito, si accorse di aver disturbato una famigliola di anfibi, che dentro quel frutto avevano trovato il loro habitat naturale. Conosceva l’esistenza di quegli animaletti, non li combatteva perché nottetempo cacciavano insetti, lumache, molluschi e talvolta anche piccoli topi. La loro funzione non era quindi nociva. Non pensò più allo scopo che si era prefissato. Si limitò a lasciare che quella carcassa, ormai vuota, continuasse ancora a fare da rifugio a quei piccoli esseri viventi, brutti con il corpo tozzo ed appiattito, la pelle di co- 38 - lore variabile dal bruno al verde olivastro, ricca di ghiandole sebacee. Avrebbe rimosso i resti durante la sistemazione del terreno. Trascorsi alcuni mesi, al maestro, cui s’erano affezionati, succedette un altro insegnante, il signor Rosario Casella che svolse le lezioni degli ultimi due mesi dell’anno scolastico, impegnando quei giovani studenti maggiormente nell’apprendimento dell’aritmetica. Egli era anche un bravo fotografo e cercò di invogliare gli alunni a tale diversivo. A guerra finita, le attività scolastiche ripresero con insegnanti ingaggiati man mano che se ne presentava l’occasione. Ciascuno cercava di soddisfare le proprie esigenze economiche ed ambientali. Questi furono probabilmente i motivi che causarono le varie sostituzioni dei maestri. Simpatico e ben preparato, l’ultimo diede il ritocco finale alla preparazione degli alunni, prima che terminasse quell’anno scolastico. La pagella fu soddisfacente; Giorgio ebbe la promozione alla quinta elementare. Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane (o Frères) - 39 - Il cambiamento Il papà teneva molto alla preparazione del figlio; l’alternanza degli insegnanti, durante la quarta elementare, lo aveva fatto decidere per l’iscrizione ad una scuola privata, in un certo qual senso d’elite, quella dei “Fratelli di San Giovanni Battista de La Salle”, nel centro di Tripoli, chiamati anche “Freres” o scuola dei “Fratelli delle scuole cristiane”. Far parte di quella scuola era un privilegio, quindi bisognava farlo al più presto onde evitare di rimanerne fuori. La maggior parte dei compagni rimase nella scuola di Sidi Mesri, per terminare le elementari con gli stessi insegnanti. I cambiamenti nella scuola rispecchiavano il sistema di riorganizzazione della vita pubblica in Libia, durante l’occupazione inglese. Per le campagne si trovavano ancora relitti bellici; aerei abbattuti il cui alluminio delle carlinghe era stato usato da alcune persone, tra cui Antonio, per costruire pentole e tegami. Altri furono interessati agli strumenti di bordo, anche se non più utilizzabili. Ciò che interessò di più i ragazzi, furono i cuscinetti delle ruote. Con delle tavole costruivano un carrettino, formato da una piattaforma, al quale applicavano un volante, tipo bici, collegato con un bullone; ponevano, quindi, un cuscinetto sotto di esso ed altri due ai lati posteriori del carrettino. Un ragazzo saliva e l’altro spingeva, a turno, lungo la strada che costeggiava le ville che abitavano. A volte legavano il cane al volante, con una corda, e si facevano trainare fino a quando la povera bestia non si ribellava. Era un gioco che ripetevano spesso durante la calda estate. Questa cominciava a farsi sentire, anzi era giunta con irruenza, rispetto all’estate siciliana. La sera la mamma preparava la cena nella veranda all’aperto, per sopportare meglio la calura estiva. La lampada sul tetto invitava un certo numero di gechi, pronti ad acchiappare gli insetti che erano attratti dalla luce. Giorgio temeva che cadessero sul tavolo, cenava quindi con una certa tensione, anche se rassicurato dal padre che emulava quei piccoli rettili dalle zampette palmate a ventosa. Per - 40 - alcuni, essi erano portatori di fortuna, per altri erano utili per la decimazione degli insetti. A cena finita, il ragazzo prendeva una scopa e, facendosi aiutare dalla sorella Emma, cercava di farne cadere qualcuno; non sempre li colpiva perché quasi tutti riuscivano a fuggire. Per proteggere la villa da alcuni ladruncoli, che da qualche tempo circolavano da quelle parti, Antonio portava un materasso nella veranda, vi sistemava un’ascia sotto, all’altezza del cuscino, e dormiva coperto, dalla testa ai piedi, tipo mummia egizia, per non essere punto dalle zanzare che pullulavano in quel clima caldo ed umido. Gli faceva compagnia il cane arabo “Topolino”, un nome non propriamente adatto ad un animale fedele solamente al padrone, che ricusava qualunque altra persona, che badava solamente a fare la guardia alla villa. Se qualche passante si avvicinava al cancello, cominciava ad abbaiare ferocemente, girando su se stesso, come a volersi guardare intorno per evitare di essere sorpreso alle spalle. Correva, quindi, da un lato all’altro del confine lungo la strada, si dirigeva sul retro della costruzione, e tornava dall’altra parte verso il cancello, furioso per non aver potuto mordere qualche preda. Quando Giorgio con la mamma e la sorella giunsero a Tripoli, Antonio spiegò a Topolino che quella era la sua famiglia e che quindi andava rispettata ed obbedita. Con lo sguardo rivolto al padrone sembrò capire perfettamente quanto stava per dirgli, scodinzolò in segno d’amicizia e leccò la mano di Giorgio. I patti erano stati chiari e conclusi con una bella ciotola di saporita zuppa. Qualunque altra persona si aggirava per la villa o veniva a trovare i Vinci, doveva fare molta attenzione. Avvicinandosi sarebbe stato morso, in particolare quando era legato alla catena. Una volta un visitatore interpose, tra lui e Topolino, la bicicletta con cui era giunto alla villa. L’animale ringhiò alla sua presenza e, appena l’ospite si avvicinò, riuscì ad azzannare la ruota posteriore e ne perforò il copertone e la camera d’aria. Era una bestia terribile, ma intelligente e meravigliosa. - 41 - Il cambiamento Giornalmente transitavano autobus proprio vicino allo spiazzo del mercatino, non lontano dalle abitazioni di Giorgio e Beppe, per collegare vari punti della città. Per sfuggire alla calura, essi s’incontrarono con Mario e, saliti su quel mezzo di trasporto, si diressero al Lido di Tripoli. La spiaggia era bella ampia ed il mare pulito. Misero in borsa i vestiti, e si sdraiarono al sole. Il forte caldo li invitava a tuffarsi in mare, uscire dall’acqua, fare delle passeggiate per poi ribagnarsi, e così per tutta la mattinata. Per dissetarsi, praticarono una buca nella sabbia e vi sotterrarono un melone per tenerlo fresco; dopo il bagno lo presero, lo lavarono in riva al mare e ne tagliarono delle fette che si spartirono per rinfrescarsi. Alla fine della mattinata si rivestirono e tornarono a pranzo a casa. Giorgio sentiva la pelle che scottava, non era abituato a sopportare tutto quel sole, i cui raggi lo avevano colpito. Il pomeriggio tutto il torace, le spalle e le gambe erano di fuoco. Non vi era posizione alcuna che potesse confortarlo, se non che stare seduto su di una sedia. Il caldo e la crema sparsa per il corpo attiravano le mosche e le zanzare, insetti caratteristici dell’ambiente africano. La mamma prese due veli e li imbastì a modo di camiciola larga, da dare il minimo fastidio a Giorgio, per tenere lontano gli animaletti fastidiosi. La sofferenza durò alcuni giorni. Egli preferì giocare nel giardino della villa piuttosto che andare a soffrire sotto il sole della spiaggia. Ci tornò in seguito, ma fece attenzione a non scottarsi, riparandosi dai raggi solari sotto la tettoia di una cabina. La frutta era copiosa sugli alberi ed Antonio andava fiero nel vedere ricompensato il proprio lavoro. Tutti i giorni dedicava il suo tempo, libero dagli impegni di lavoro in ufficio, al giardino. Amava vedere la frutta pendere dai rami e raccomandava ai suoi figli di non sciuparla. Giorgio ed Emma approfittavano della sua assenza per arrampicarsi e gustare le albicocche, le susine, i fichi. Non appena sentivano l’ululato del cane, capivano che il papà era giunto in bicicletta all’altezza dello spiazzo del mercatino, a cinquecento metri circa dalla villa. Scendevano di corsa e, come nulla fosse, si dedicavano ad altro. Giorgio si accorse quel giorno che il papà si era recato nella cameretta da disimpegno e lo seguì. Aprì una cassapanca e si accinse a mettere in ordine alcuni oggetti. Spiegò al figlio che quel baule conteneva le “riserve” che durante la guerra sopperivano alle difficoltà nel trovarle. Si trattava di lamette per radere la barba, qualche digestivo, caffè, zucchero, e poi canottiere, calze nuove, camicie e fazzoletti, un poco di tutto. Non mancavano i profumi da lui stesso preparati con i fiori di zagara e alcool. C’era anche il sapone che lui stesso produceva con i residui dell’olio di oliva che rimanevano nel fondo delle damigiane. Egli, infatti, nel mese di novembre di ogni anno, si recava nei negozi dei Mercati generali, assaggiava un sorso d’olio, lo agitava in bocca, poi aspirava con le labbra aperte ed i denti chiusi per fare entrare dell’aria. A suo dire, in quel modo ne tastava il sapore e l’acidità. Dopo aver provato in vari negozi, riteneva che il migliore era quello prodotto in Tunisia e ne faceva riempire una damigiana. A casa aggiungeva un pugno di sale grosso che, a suo dire, avrebbe attirato le impurità trascinandole in basso nel contenitore; i residui li avrebbe utilizzati per fare il sapone. Le ristrettezze causate dalla guerra inducevano a industrializzarsi per soddisfare le esigenze personali. Il caldo africano estivo aveva messo a dura prova il fisico esile di Giorgio; nonostante l’abbondanza, rispetto alla penuria in cui era cresciuto durante la guerra, non riusciva ad ingrassare ma diventava sempre più alto. Seguiva molto da vicino il padre, che gli era stato lontano durante la sua pubertà, per cercare di apprendere il più possibile e recuperare tutto ciò che di lui aveva perduto. Antonio amava i lavori di bricolage. Ricordava ancora il suo vecchio mestiere d’ebanista che aveva svolto da giovane; con il legno riusciva a creare una cassapanca, un tavolo da gioco ben lucidato “ad olio di gomito”, come soleva dire, per descrivere la fatica del braccio nello strofinare le sostanze lucidanti sul legno. Intagliava ed incastonava gli angoli con una perfezione da maestro. Terminato un oggetto, lo osservava con entusiasmo e soddisfazione, che comunicava - 42 - - 43 - Il cambiamento anche agli altri, cercandone approvazione e complimenti. Uno di quei giorni, mentre il figlio aiutava Antonio porgendogli il pialletto per levigare il legno, udì delle zampogne e suoni di tamburo cadenzati; incuriosito si affacciò e vide che davanti la villa transitavano dei dromedari tutti ornati a festa, il primo dei quali portava un baldacchino multicolore sulla groppa, con una tendina dalla quale s’intravedeva una giovane sposa. Il padre spiegò che si trattava di una festa nunziale. Quello era l’ultimo dei sette giorni necessari per l’evento. I giorni precedenti erano dedicati alle cerimonie preparatorie; alla visita dei parenti, poi delle amiche, indi la consegna dei regali, le cure epidermiche della sposa, le istruzioni e raccomandazioni alla giovane donna, ed altre cerimonie, il tutto con perfetto ordine secondo la tradizione. Lo sposo non era autorizzato ad assistere a tali cerimonie. Egli festeggiava per conto suo, con i suoi amici e famigliari in particolare l’ultimo giorno, nell’ attesa che la sposa lo raggiungesse nell’abitazione destinata alla prima notte delle nozze. Il racconto proseguì dicendo che giunta in camera, la giovane sarebbe stata accompagnata da una donna anziana e consegnata allo sposo; ciò che incuriosì Giorgio fu quando il padre gli riferì che quella presenza non si sarebbe allontanata se prima non fosse stata soddisfatta pecuniariamente. Era l’ultima spesa che lo sposo avrebbe affrontato, dopo tutte quelle già subite per soddisfare le richieste del padre nel cedere la figlia in sposa. L’autunno era alle porte e bisognava che Giorgio si preparasse ad affrontare il nuovo anno scolastico. Un vestito, camicia e scarpe nuove dovevano sostituire l’abbigliamento ormai consunto e ristretto a causa della sua crescita. Si sentiva tutto ragazzo, i capelli ben tagliati con la riga al lato sinistro, la cintura ai pantaloncini e la giacca, la cartella di fibra marrone con un manico e fibbia lucida. La sua vita cominciava a cambiare, ad essere ambientata ad un livello superiore di maturità. Giunse il tanto atteso primo giorno di scuola. La mamma e la sorella gli stettero appresso per prepararlo aiutandolo a vestirsi ed aven- do cura che non dimenticasse nulla. Il padre lo attendeva fuori con la bicicletta, cui aveva fatto adattare un porta persone, nel retro. Era il mezzo di trasporto di cui disponeva per essere libero dagli orari del mezzo pubblico. Sui pantaloni, sotto il ginocchio, aveva indossato dei gambali in cuoio anche per non sporcare i pantaloni che, durante l’estate, egli proteggeva applicando delle molle alle caviglie. Suonò il campanello e Giorgio dovette correre per salire in bicicletta. Il tragitto non fu breve, si teneva con le braccia avvinghiate attorno al bacino del padre per non cadere; ci avrebbe fatto l’abitudine. La scuola, che aveva già visitato, gli parve più bella, piena di ragazzi che si dirigevano verso le aule che gli insegnanti, in tunica nera con un pettorale quadrato bianco, avevano loro indicato con un sorriso sulle labbra. Ai più alti fu chiesto di occupare gli ultimi banchi, mentre ai primi posti furono sistemati quelli più bassi di statura. Giorgio dovette sedersi nell’ultima fila, anche se poi cercò di guadagnare un posto libero a metà classe. La scuola gli piacque. Quelle tuniche nere degli insegnanti, gli richiamarono alla memoria i chierici Salesiani che correvano nel cortile dell’oratorio di Modica. Era trascorso un anno da quei giorni, e tutti gli avvenimenti che si erano susseguiti, in concomitanza al suo rientro a Tripoli, non gli avevano fatto dimenticare l’Oratorio, quel grande cortile con archi intorno, caratteristico di tutti gli immobili e scuole dei figli di Don Bosco. Sentì molta nostalgia del passato, non della guerra, delle privazioni e della fame, ma dei giochi puerili che avevano riempito quegli anni, degli insegnamenti ricevuti, durante le attività all’aria aperta, dalle tuniche nere instancabili e piene d’energie giovanili, che li facevano additare quale esempio da imitare nella vita quotidiana futura. In lui cominciava a maturare un’idea che più volte aveva sfiorato la sua anima. Diventare anche lui un trascinatore di giovani verso la perfezione di una vita onesta, religiosa, sportiva, responsabile delle proprie azioni. Fu distolto dai suoi pensieri dall’entrata in classe di Fratello Arnaldo. Un bel giovane alto e robusto, che avrebbe avuto cura di educare allo studio ed - 44 - - 45 - Il cambiamento allo sport quegli adolescenti, fino al compimento delle scuole elementari. L’insegnamento dell’Arabo era stato affidato ad un insegnante libico di madre lingua. Il primo giorno trascorse tranquillo, senza tante emozioni, se non quelle di fare nuove amicizie, di studiare gli atteggiamenti degli insegnanti, i loro pregi scolastici, sportivi, religiosi. Tutta l’attenzione degli alunni fu rivolta su Fratello Arnaldo. Iniziarono a vederlo quale simbolo di forza e di sportività. Dopo le prime lezioni di Lingua italiana e Storia, introdusse i giovani allievi all’amore per lo sport; il calcio era rappresentato dalla squadra della Juventus, il ciclismo da Gino Bartali. Fausto Coppi era altrettanto campione, ma la sua fede comunista non lo avvicinava agli ambienti religiosi. Al primo giorno seguirono gli altri, sempre più intensi d’attività. Formata una squadra di calcio, che partecipasse ad un mini campionato, Giorgio assunse il ruolo di terzino. Egli si dedicò a costruire gli scudetti da attaccare alle magliette, con cartone e spilli da balia, dove spiccava il tricolore della bandiera nazionale. L’insegnante fungeva da istruttore e da arbitro nelle partite. Le notizie del campionato italiano giungevano via radio e attraverso i giornali che arrivavano in aereo il giorno dopo. La squadra di Giorgio rappresentava la Juve; i Fratelli tifosi del Milan, del Torino e dell’Inter avevano formato altre squadre. Due giorni la settimana si allenavano per la partita del sabato. Le migliori voci furono reclutate per formare il coro dell’Istituto. Tutte voci bianche dovute all’età, divise in soprani e contralti. Giorgio, che aveva una bella voce, fu uno dei prediletti del maestro di canto. Il coro preparò canti popolari ed altri religiosi che eseguiva la domenica durante la Santa Messa nella Cappella. Stretta e lunga, con due file di banchi, l’Armonium si trovava al centro di essa, sulla destra, ed il coro occupava i banchi limitrofi. Tutti gli occhi dei cantori dovevano essere rivolti verso il maestro, che con le braccia dava gli attacchi, e le modulazioni indicate nello spartito. Nel mese di novembre era previsto un concerto con orchestra e cantanti lirici, che sarebbe stato tenuto nella Cattedrale di Tripoli, alla presenza di autorità religiose e civili. C’erano solo due mesi di tempo per preparare le parti riguardanti il coro. I partecipanti delle diverse classi furono costretti a sospendere gli allenamenti sportivi. Il Vescovo Mons. Facchinetti, aveva esortato i responsabili della rappresentazione canora affinché tutto si svolgesse nel migliore dei modi. - 46 - - 47 - S. E. Mons. Vittorino Facchinetti Vicario Apostolico della Tripolitania