vai e vivrai - Amici del Cabiria

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vai e vivrai - Amici del Cabiria
VAI E VIVRAI
Sito: http://www.vavisetdeviens-lefilm.com/
Anno: 2004
Data di uscita: 28/10/2005
Durata: 153
Origine: BELGIO - FRANCIA - ISRAELE - ITALIA
Titolo originale: VA, VIS ET DEVIENS
Genere: DRAMMATICO
Formato: 35 MM, CINEMASCOPE
Produzione:
DENIS CAROT E MARIE MASMONTEIL PER ELZEVIR FILMS,
FRANCE 3 CINEMA, K2 PRODUCTIONS, BACKUP FILMS, CATTLEYA, OI OI OI PRODUCTIONS, SCOPE INVEST,
TRANSFAX FILM PRODUCTIONS
Distribuzione: MEDUSA (2005)
Regia: RADU MIHAILEANU
Attori:
ROSCHDY ZEM
YORAM
YAEL ABECASSIS
YAEL
RONI HADAR
SARAH
MIMI ABONESH KEBEDE
MADRE DI SCHLOMO
RAYMONDE ABECASSIS
SUZY
MOSHE ABEBE
SCHLOMO TEENAGER
MOSHE AGAZAI
SCHLOMO DA BAMBINO
SIRAK M. SABAHAT
Soggetto: RADU MIHAILEANU
Sceneggiatura: ALAIN-MICHEL BLANC - RADU MIHAILEANU
Fotografia: REMY CHEVRIN
Musiche: ARMAND AMAR
Montaggio: LUDO TROCH
Scenografia: EYTAN LEVY
Trama:
In Etiopia, durante la carestia del 1984-85, la popolazione di religione ebraica poté contare sull'aiuto di Israele e degli Stati
Uniti ed ebbe la possibilità di raggiungere la Terra Promessa per il progetto denominato "Operazione Mosè". Schlomo, benché
non sia ebreo e non possa vantare una discendenza semita, viene convinto dalla madre a mentire e a fingersi ebreo per sfuggire
alla morte. Arrivato in Israele il ragazzo si finge orfano e viene adottato da una famiglia di ebrei sefarditi provenienti dalla
Francia. Si può crescere con il continuo timore che la propria doppia menzogna venga scoperta? Si può dimenticare la propria
terra e la propria madre? Crescendo scoprirà la cultura occidentale, i pregiudizi razziali e la guerra nei territori occupati. Né
ebreo, né orfano, in fondo non è che un nero come tanti altri.
Critica:
Dopo la commovente e straordinaria fuga di una comunità ebraica sul finto treno di deportati, Radu Mihaileanu torna a
raccontare un nuovo viaggio, dall'Africa in Israele, e una nuova menzogna. Il protagonista anche questa volta si chiama
Schlomo, come il pazzo del villaggio in Train de vie, ma nel nuovo film, Vai e vivrai è un bambino ospite di un campo
profughi del Sudan dove nel 1984 migliaia di ebrei etiopi, i Falasha, aspettano di partire per Tel Aviv. E qui nasce la bugia: la
madre cristiana spinge il piccolo Schlomo a fingersi ebreo per salvarlo dalla carestia e dalla morte, mentre in realtà nessuno
dei due è un discendente del popolo d'Israele. Il film sarà nelle sale italiane dal 4 novembre (circa 80 copie, distribuito da
Medusa, che lo ha anche coprodotto insieme a Cattleya).
Il piccolo Schlomo arriva sano e salvo in Terra Promessa. Dichiarato orfano, è adottato da una famiglia di ebrei francesi,
benestante e di sinistra, che vive a Tel Aviv. Cresce con la paura che qualcuno scopra il suo segreto e le sue menzogne: né
ebreo, né orfano, solo nero. Conoscerà l'amore, il giudaismo e la cultura occidentale ma anche il razzismo e la guerra nei
territori occupati. Diventerà ebreo, israeliano, francese, tunisino, ma non dimenticherà mai la vera madre rimasta in Sudan e
che segretamente e ostinatamente sogna di potere ritrovare.
Ci sono voluti cinque anni per far tornare Mihaileanu dietro la macchina da presa. "Dopo l'enorme successo di Train de vie"
spiega l'autore, a Roma per presentare il film, "c'erano molte pressioni e attese per il mio film successivo. Ma oggi viviamo in
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un mondo dominato dalle immagini, e sono tornato a girare solo dopo aver trovato la storia che volevo raccontare". "Mi
ricordavo dell'operazione Mosè e della rimpatriata degli ebrei etiopi in Israele nel 1984", spiega il regista (che ha raccontato la
vicenda anche nel romanzo Vai e vivrai, edito da Feltrinelli), "ma non mi ero mai reso conto dell'enormità di questa avventura
umana. Poi grazie a un incontro con un Falasha, a Los Angeles, ho capito che in tutta questa storia loro erano rimasti delle
comparse. Quest'uomo mi ha raccontato la sua epopea, il suo viaggio a piedi fino al Sudan dove tutti gli ebrei erano in
pericolo di morte, la vita nei campi dei rifugiati, la loro accoglienza e le loro difficoltà in Israele. Ero allo stesso tempo
commosso e indignato dal fatto che non se ne sia parlato prima. Ho iniziato così ad approfondire, e ciò ha alimentato la mia
emozione, il mio desiderio di conoscere meglio i Falasha e, poco a poco, la voglia di dedicare loro un film".
La menzogna è anche in questo caso all'origine della vicenda che si sviluppa nel film. "Forse questo è legato al fatto che mio
padre, che si chiamava Buchman, ha dovuto cambiare nome durante la guerra, per sopravvivere. È diventato Mihaileanu per
poter affrontare il regime nazista, e in seguito quello staliniano. Da piccolo, insieme ai miei fratelli, ho studiato tutte le lingue
perché non sapevamo dove saremmo andati. Ho dovuto lasciare la Romania e ho sempre sofferto per il fatto di essere
chiamato 'straniero' ovunque mi trovassi. Oggi considero questa mia duplice identità una ricchezza. Ecco perché i miei
personaggi hanno delle difficoltà enormi alla partenza e si fanno prendere per qualcuno che non sono, in modo da liberarsi da
loro stessi e tentare di costruire un ponte verso gli altri".
"Ma il tema dell'identità", prosegue Mihaileanu, "riguarda qualsiasi persona costretta a lasciare il proprio Paese. E' un tema
tipicamente ebraico, ma è anche universale perché tutti quelli che sono stati costretti a ricostruirsi una vita in un paese
straniero si portano dietro il bagaglio dell'identità e dell'umorismo, unica arma per sopravvivere in certe circostanze. E questo
film è la versione etiope di E.T. in cui un bambino cerca sempre di tornare a casa".
Il film è diviso in tre capitoli, come il titolo francese originale, Va, vis et deviens (vai, vivi e diventa). "Va è lo sradicamento e
il viaggio verso la sopravvivenza, vis rappresenta l'adolescenza, l'incontro amoroso e la riconciliazione con la vita. Deviens è
il compimento del proprio destino: il divenire semplicemente uomo, e realizzare quella lacerazione di cui parlava sua madre
precedentemente".
Il piccolo Schlomo diventa grande in una realtà spesso ostile. "La società israeliana è variegata, come qualsiasi altra, ma a me
interessava raccontare l'aspetto umano. E tra gli israeliani ci sono naturalmente comportamenti diversi, si trovano persone che
accolgono gli etiopi a braccia aperte, come la famiglia adottiva di Schlomo, ma anche persone che li respingono. Io non ho
voluto nascondere la molteplice realtà d'Israele che, contrariamente a quanto si pensa spesso, è un paese come tanti altri. La
realtà del Paese è rappresentata dal padre adottivo: è giovane, bello, ricco, ha una bella moglie e adotta un bimbo nero. Poi le
cose vanno male, si è stancato di portare avanti battaglie in cui non crede più, ma non lascia Israele, il suo Paese".
A interpretare Schlomo da grande è Sirak M. Sabahat, un attore di 24 anni, nato nel nord dell'Etiopia e trasferito in Israele con
il secondo esodo, nel '91, quando nel suo Paese c'era la guerra. "La mia storia è molto simile a quella di Radu e del piccolo
Schlomo. Con la mia famiglia abbiamo impiegato un anno per raggiungere Addis Abeba, facendo migliaia di chilometri a
piedi. Durante il viaggio abbiamo perso molte persone care e poi, solamente con dei vestiti, come bagaglio, ci hanno imbarcati
in aerei militari, durante un'operazione chiamata 'Salomone', e finalmente siamo arrivati alla Terra promessa". Ma è stato solo
l'inizio. Oggi è un attore emergente, con un futuro davanti e alcune certezze: "Il colore della mia pelle è una condizione con
cui dovrò fare i conti per tutta la vita. Ma la cosa che conta è la famiglia, dove c'è la tua famiglia, c'è la tua casa". (Rita Celi,
La Repubblica - 26/10/2005)
«Va, vivi e diventa...», dice un’etiope (Messe Shibru Sivan) al figlio (Moshe Agazai). Poi lo allontana da sé, senza terminar la
frase. Il suo accorato “diventa” va inteso dunque in senso assoluto, intransitivo. E un po’ come se al bambino — che presto
riceverà un nuovo nome ebraico, Schlomo sua madre dicesse: fa dite stesso quell’uomo, e anzi quel singolo che hai diritto
d’essere. E il singolo, appunto, il “protagonista” di Vai e vivrai (Va, vis e deviens, Francia. Belgio, Israele e Italia, 2005,
140’). Dopo aver raccontato lo scempio di morte inflitto agli europei di radici ebraiche dalla follia identitaria nazista (Train de
vie, 1998), ora Radu Mihaileanu sposta la sua attenzione più a Sud, in un luogo in cui, in questi nostri anni, la morte ha fatto
scempio, appunto. E lo ha fatto, dice la voce fuori campo, ancora una volta procedendo per identità e appartenenza. Fra
l’Etiopia e il Sudan, in quel 1984 da cui il film inizia, gli uomini e le donne vengono o non vengono uccisi, muoiono o non
muoiono di fame e fatica in quanto cristiani, in quanto islamici, in quanto ebrei. E anche, certo, in quanto poveri.
Tra di loro, ammassati nei campi di raccolta e in attesa d’una via di fuga dal proprio destino, a un bambino cristiano capita
d’essere scambiato per quello che non è: un “falascià’, secondo la tradizione un discendente della regina di Saba e di Menelik,
figlio di re Salomone. Dunque, anche se nero e povero, ora gli viene riconosciuto il diritto di vivere, o almeno di provarci. La
sola condizione è che, mentendo, assuma quella stessa appartenenza che 40 prima, in Europa, lo avrebbe condannato a morte.
Mihaileanu e il cosceneggiatore Alain-Michiel Blanc affrontano con coraggio e generosità il tema più dolente di questo nostro
mondo che ha dimenticato le vecchie ideologie, ma che ne ha sostituito la ferocia con quella nuova dell’appartenenza, etnica o
religiosa che sia. Fin dall’inizio, fin da quando gli uomini e le donne in fuga dall’Africa sono raccolti nei centri di
smistamento in Israele, il loro film ci mostra la crudeltà d’un principio che, ancora una volta fa vivere o morire gli individui in
quanto appartengano o non appartengano.
Così, al bambino che la sua stessa madre ha allontanato da sé e dal proprio futuro disperato, a quel bambino, dunque, si
presenta un dilemma tragico. Se dice la verità, perde la vita, e non potrà mai ”diventare”. Se mente, perde il suo passato: non
tanto le sue radici, quanto proprio sua madre ha allontanato da sé e dal proprio futuro disperato, a quel bambino, dunque. si
presenta un dilemma tragico. Se dice la verità, perde la vita, e non potrà mai “diventare”. Se mente, perde il suo passato: non
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tanto le sue radici, quanto proprio sua madre, la vicinanza del suo corpo e della sua voce. Decide, il bambino, e diventa
Schlomo. appunto. Ma questa sua decisione è l’inizio l’una crudele fatica di vivere.
Questa fatica racconta Vai e vivrai. Lo fa seguendo il filo degli anni, da quando il piccolo Schlomo passa da un orfanotrofio
alla casa di Yael (Yadi Abecassis) e Yoram (Roschdy Zem) a quando, adolescente (Moshe Abebe), scopre che il colore della
sua pelle non è quello giusto, e infine a quando, ormai adulto (Sirak M. Sabahat), si trova nella Gerusalemme contesa fra
israeliani e palestinesi.
Sempre Mihaileanu e Blanc restano fedeli alla loro scelta narrativa: è Schlomo il protagonista della loro storia, Schlomo in
quanto singolo, e non in quanto falascià finto o etiope cristiano vero. La sua condizione è la solitudine: la solitudine che gli
viene dall’aver abbandonato la madre (e dall’esserne stato abbandonato, per quanto in uno slancio d’amore), ma anche la
solitudine cui lo condanna il prevalere attorno a lui dell’ideologia dell’appartenenza. Per diventare quel singolo che ha diritto
d’essere, Schlomo dovrebbe già essere quello che non è. In questo paradosso,in questa contraddizione dolorosa passa la prima
parte della sua vita, con coraggio.
Ad aiutarlo, oltre all’amore della madre adottiva, sono due figure paterne tra loro opposte, ma nel senso di complementari.
Uno, Papy (Rami Danon) è stato tra i primi a venire in Palestina, subito dopo la guerra. E ora, quando Schlomo glielo
domanda, con tranquilla e coraggiosa saggezza gli dice che «la terra va spartita», e certo intende condivisa, non lacerata.
L’altro, Qès Amrah (Yitzak Edgar), etiope e rabbino, gli insegna a essere se stesso, prima ancora che falascià o cristiano.
Alla fine, quando da bambino è diventato e anzi si è fatto uomo, Schlomo torna in Africa, a cercare la madre. E infatti,
nell’ultima inquadratura, l’abbraccia al centro di un campo di raccolta. O almeno abbraccia una donna che ha negli occhi una
tristezza che a lui sembra di riconoscere. Intanto, la macchina da presa si alza in cielo e si allontana, abbracciando anch’essa
con il suo sguardo i singoli uomini e le singole donne che, attorno a loro, non possono né essere né diventare. (Roberto
Escobar, Il Sole-24 Ore - 15/11/2005)
Storia di un bambino senza patria, di Israele, degli ebrei etiopi Falasha. Nel 1984, un’azione israelo-americana chiamata
Operazione Mose portò in Israele, dai campi profughi del Sudan, migliaia di Falasha. Tanti morirono: su 8000 ne arrivarono
4000, gli altri furono uccisi dalla fame, dalla sete, dallo sfinimento, dalle torture, dagli omicidi. Questa è la premessa storica
che Vai e vivrai di Radu Mihaileanu racconta in bianconero. Poi, la vicenda. Una madre etiope cristiana fa partire, perché
soprava viva fingendosi ebreo, il suo bambino di sei-sette anni: il distacco è straziante, i profughi baciano la terra prima di
imbarcarsi su centinaia di aerei, dal finestrino il bambino vede la luna con la quale identificherà per sempre la madre perduta.
E’ la prima volta che i neri escono in massa dall’Africa non per venir venduti: per essere salvati. Ma il bambino si ribella,
nell’istituto dove è ospitato non mangia, picchia, urla, scappa, finche viene adottato da una famiglia francese dì Tel Aviv. E’
intelligente e orgoglioso, studia bene, però è nero: i genitori dei suoi compagni vogliono che venga ritirato da scuola. Fin qui
il film è commovente, molto interessante, ben fatto. Si appesantisce e diventa scialbo quando l’autore vuol raccontare l’intera
vita del protagonista, gravata dalla menzogna originaria. Bombardamenti, forme di razzismo israeliano, trasferimento per
studio a Parigi, laurea in medicina, servizio militare, tenace ricerca della madre, nozze con una ragazza bianca, lavoro come
medico, annuncio del primo figlio: tutto accade a precipizio, in vignette sommarie e didascaliche. Peccato, perché la storia
degli ebrei neri Falasha, poco nota, è appassionante ed esemplare (le forme del razzismo israeliano nei riguardi dei neri sono
inattese); e perché è sottile l’analisi della vita vissuta nella menzogna salvifica, «a fin di bene», una costante del regista già
autore di Train de vie. (Lietta Tornabuoni, La Stampa - 07/11/2005)
Il ritorno degli ebrei etiopi alla Terra promessa, la loro difficile integrazione in Israele, la storia di un bambino cristiano che
diventa ebreo per necessità, tra sradicamento e accoglienza. Su questi temi si dipana Vai e vivrai, il nuovo film di Radu
Mihaileanu, premiato dal pubblico allo scorso Festival di Berlino, dal 4 novembre nelle nostre sale. Otto anni dopo
l'emozionante Train the vie, accostato a La vita è bella per aver saputo affrontare in chiave surreal-umoristica il tema della
Shoah, il regista rumeno - che all' epoca polemizzò con Benigni accusandolo di plagio - racconta un' altra odissea ebraica, un
altro capitolo drammatico della storia di Israele, anche stavolta in bilico tra commedia e tragedia. «Devo ad un signore
incontrato per caso - racconta - l'aver scoperto una pagina di storia esemplare dimenticata da tanti: nel 1984 tra le centinaia di
migliaia di africani fuggiti dai propri paesi sotto la spinta della carestia e ammassati nei campi profughi del Darfour c' erano
anche quasi 40 mila ebrei etiopi dell' etnia Falasha. Si deve al coraggio degli uomini del Mossad se tanti di loro arrivarono in
Israele al termine di un' operazione denominata "Mosè" con chiaro riferimento all' antico viaggio verso la Terra promessa».
Protagonista un piccolo etiope di famiglia cristiana affidato dalla madre ai Falasha in fuga fingendolo ebreo. «Volevo fare un
film sulle madri - spiega il regista - quasi una versione etiope di E.T. in cui un bambino cerca di tornare a casa. E' un film su
quattro madri ma anche una metafora del nostro mondo che, come il bimbo, per salvarsi avrebbe bisogno di donne e madri del
genere». (R.S., Il Corriere della Sera - 26/10/2005)
Potrei definire Vai è vivrai la versione etiope di E.T. Pure qui il protagonista guarda la luna e vuole tornare a casa». Con
l’ironia che ha fatto di Train de vie un successo internazionale rileggendo in chiave comica-grottesca l’Olocausto (vi ricordate
la diatriba con La vita è bella a proposito di chi sia stato il primo?), il regista ebreo rumeno Radu Mihaileanu presenta la sua
nuova attesa fatica, a breve nei nostri cinema per Medusa. E sì perché Vai e vivrai rispolvera, a vent’anni di distanza, una
storia complessa e dimenticata. Sconosciuta ai più. Nonostante abbia coinvolto migliaia di persone costrette a una nuova
«fuga dall’Egitto» verso Israele. È la storia dei Falasha, i «senza terra», gli ebrei dell’Etiopia che nel 1984 furono protagonisti
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della cosiddetta «Operazione Mosè»: una missione organizzata da Stati Uniti e Israele per riportare nella «terra promessa» gli
ebrei etiopi, vittime delle carestie e della fame. Una vera diaspora a piedi, attraverso le montagne, senza acqua né mezzi, in
lotta con le malattie, fino ai campi profughi hi Sudan dove li attendeva il ponte aereo per Israele. Ottomila di loro ce la
faranno, altri quattromila moriranno tra l’Etiopia e il Sudan. Tra chi si salvò c’è Sirak Sababat, il protagonista del film, un
ventiquattrenne, oggi attore di teatro in Israele, che in quel tragitto perse gran parte della famiglia e una volta arrivato ha
vissuto le difficoltà dell’inserimento, compreso il razzismo delle frange religiose più integraliste.
«Ho lottato molto per sopravvivere a racconta l’attore - avevo dieci anni e il viaggio è durato un anno. Ho visto persone
morire e cose che un bambino non dovrebbe vedere mai. Dopo quello che ho vissuto mi sento vicino a chiunque soffra. Per
questo sono solidale con gli israeliani come con i palestinesi: la religione viene dopo, prima c’è l’essere umano». Questa la
storia vera di Sirak. Nel film invece l’escamotage narrativo vuole il piccolo protagonista proveniente da una famiglia cristiana:
sua madre, per salvarlo, lo affida a una donna ebrea che lo porterà in Israele dove il piccolo fingerà per tutta la vita di essere
ebreo, affrontando persino dispute teologiche. Adottato da una famiglia di sinistra, aperta e democratica, il ragazzo conoscerà
anche l’amore, la comprensione e l’impegno civile. «Purtroppo - spiega il regista - i media ci affidano un’immagine di Israele
completamente stereotipata. Quella di una potenza militare forte, con i carri armati che vanno ad uccidere i bambini
palestinesi. La verità è che entrambi sono vittime di una situazione da cui non si esce. Israele negli anni Settanta è stato un
paese fortemente di sinistra e così l’ho raccontato». Per superare i luoghi comuni. Giocando nuovamente sul tema del «falso»,
come in Train de vie, dove gli ebrei fingevano di essere nazisti per salvarsi. «La menzogna per me è un tema ricorrente spiega il regista - . Il mio vero cognome è Buchman, ma mio padre lo cambiò in Mihaileanu per sfuggire ai nazisti. Ho sempre
avuto un doppio punto di vista. A mia volta io sono fuggito dalla Romania per scappare dal regime di Ceausescu. Passando da
Israele sono arrivato in Francia, dove vivo. In principio, come il protagonista del film, mi sentivo straniero ovunque. Solo oggi
so che tutto questo è una grande ricchezza».
Una ricchezza da mostrare attraverso ogni sfaccettatura. «La società israeliana, come tutte, - prosegue non ha un solo punto di
vista: non tutti sono razzisti o integralisti, come non tutti sono dì sinistra». E lo vediamo in Vai e vivrai. «Quando i profughi
etiopi arrivarono in Israele tanta parte della popolazione li accolse con grande entusiasmo, mentre molti rabbini integralisti si
scagliarono contro», giudicandoli non «abbastanza ebrei», soprattutto per il colore della pelle. Ancora oggi non mancano atti
di razzismo nei confronti dei «Falasha», racconta l’attore: «In un piccolo paesino, Or Yahuda, il sindaco ha espulso dalla
scuola elementare dei piccoli etiopi perché giudicava che ritardassero l’andamento della classe. Quando abbiamo proiettato il
film in questo villaggio ho temuto molto: nessuno nella scuola si era opposto a quella decisione, eppure di fronte a Vai e
vivrai in tanti si sono commossi. A dimostrazione che il cinema può servire molto». (Gabriella Gallozzi, L'Unità - 26/10/2005)
Dall’Etiopia a Israele, verso la vita. E l’inizio degli anni 80, l”Operazione Mosè” porta in Terra Santa i falascià, gli ebrei
discendenti dalla regina di Saba, in fuga dal regime filosovietico dì Menghistu. Vai e vivrai, di Radu Mihaileanu, inizia
proprio da quell’esodo biblico, focalizzando però l’attenzione sulla sorte di un solo fuggiasco, il giovanissimo Schlomo. Salvo
per caso, perché in realtà non è ebreo: è un cristiano, che la madre riesce ad affidare, all’ultimo momento, a un’altra donna, lei
sì ebrea, il cui figlio è morto da poche ore.
Una volta giunto in Israele, però, i guai non sono affatto finiti. La “seconda” madre, infatti, muore poco dopo: Schlomo,
ufficialmente orfano, ha gravi problemi d’inserimento. Non mangia, è aggressivo, non socializza. Pensa solo alla vera
mamma, che ha lasciato tra le lacrime, e con la quale è ormai impossibile ogni comunicazione. La situazione comincia a
migliorare qualche tempo dopo, quando una giovane coppia di origine francese decide di adottarlo. Ma il ragazzo ha la pelle
nera, e c’è anche chi mette in dubbio l”ebraicità” dei falascià. Sembra incredibile, eppure la mala pianta del razzismo colpisce
anche qui: esclusione, diffidenza, intolleranza sono all’ordine del giorno.
Non resta altra scelta che lottare, nascondendo a tutti la verità che scotta. Mihaileanu accompagna il suo eroe attraverso gli
anni, fino ai giorni nostri: una storia individuale che rispecchia le tragedie dell’eterno conflitto mediorientale, lanciando un
messaggio non banale di comprensione e solidarietà. Schlomo. finto ebreo e finto orfano dalla pelle nera, è un escluso che urla
il suo sascrosanto diritto alla vita. (Luigi Paini, Il Sole-24 Ore - 15/11/2005)
Secondo un vecchio luogo comune, molti registi fanno sempre lo stesso film. Quasi nessuno però lo fa cambiando il colore dei
personaggi. Fra questi cineasti “meticci” per vocazione figura a pieno titolo il franco-rumeno Radu Mihaileanu, l’autore di
Train de vie e del meno riuscito (ergo invisibile) ma sempre molto interessante Ricchezza nazionale, ambientato fra i pigmei
segregati nell’Africa di oggi anziché fra gli ebrei a rischio Shoah nell’Europa del ’41.
Premiato due volte a Berlino (dal pubblico e dalla giuria), anche Vai e vivrai affronta il problema della razza e dell’identità
rovesciandolo nel suo opposto, il travestimento. Tradotto alla lettera il titolo originale Va, vis et deviens suona infatti “Va,
vivi e diventa”. Ma diventa cosa , esattamente? Se lo chiede per due ore e mezza sullo schermo, e per quasi vent’anni nella
finzione, anche il piccolo protagonista. Un bambino etiope, dunque di pelle nera, che nel prologo vediamo accampato con la
madre in un campo profughi in Sudan.
Siamo nel 1984, la carestia impazza, ma fra quei disperati di origini e culti differenti ci sono anche dei Falasha, gli ebrei etiopi
instradati dai servizi segreti israeliani verso la Terra Promessa con un ponte aereo (la famosa Operazione Mosè). Così la
madre, per salvare il bambino, lo affida a una Falasha che ha appena perso suo figlio. E quando anche la donna muore il
piccolo etiope, trasportato in Israele, si trova costretto a crescere con l’identità, i ricordi, la religione di un altro. Con il nome
di Salomon, detto Shlomo (i Falasha discendono da Salomone e la regina di Saba), il bimbo viene adottato da una coppia di
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sefarditi progressisti a Tel Aviv. Diventa grande con quel segreto in petto fra scuola, kibbutz, amori, servizio militare (con
annesse lacerazioni sull’uso delle armi). Scopre sulla propria pelle quanto possono essere razzisti gli israeliani, specie con i
cugini “negri”. Finendo malgrado tutto per imparare a convivere con la sua identità multipla: né nero, né ebreo, né orfano (la
madre sopravvive chissà dove in Africa). Ma un po’ tutto questo alla volta. Anche perché il rispetto degli ebrei integralisti si
ottiene battendoli sul loro terreno, la religione. Ma se la scena in cui vince la gara di eloquenza contro un piccolo ortodosso è
da antologia (tema: “di che colore era Adamo?”) , Mihaileanu sa anche rendere universale e metaforica questa storia così
speciale da essere esemplare, trasformando l’odissea del piccolo Shlomo in una parabola buona a tutte le latitudini.
Non tutto è perfetto in questo tentativo generoso e un po’ folle di girare un film epico-intimista su una pagina decisiva quanto
vergine, almeno al cinema. Qua e là fa capolino un pizzico d’enfasi o di ottimismo forzato; altri momenti risultano invece
contratti, forse sacrificati per ragioni di durata. Ma Vai e vivrai, con tutte le sue imperfezioni, resta uno strano mélo, denso,
emozionante, “fuori formato”. Un film diverso (forse non abbastanza), sul tema della diversità. (Fabio Ferzetti, Il Messaggero
- 04/11/2005)
In Train de vie, degli ebrei, ai tempi dell’Olocausto, si fingevano deportati custoditi da militari nazisti. In questo nuovo film
dell’ebreo rumeno oggi cittadino francese Radu Mihaileanu c’è invece un bambino indotto dalla madre a fingersi ebreo per
uscire dall’Etiopia, dove dei veri ebrei, ma di pelle nera, i Falasha, erano oppressi dal regime filosovietico di Menghistu e
pativano fame e miseria. Quell’esodo, con meta Israele, era stato organizzato negli anni Ottanta, d’intesa anche con gli Stati
Uniti, per far arrivare a Gerusalemme quei falasha che avevano tutto il diritto di vivere finalmente nella Terra Promessa,
lontani da persecuzioni. In mezzo a loro, appunto, il bambino protagonista della storia che la madre chiama con il nome
ebraico fittizio di Schlomo e se ne separa, pur tra le lacrime, per salvargli la vita («vai e vivrai» gli dice). Tre momenti. La
difficile affermazione del bambino, oltre a tutto di colore, in un mondo e in una cultura cui, con molto impegno, deve far
credere di appartenere. Il suo desiderio, cresciuto, di adoperarsi per gli altri, con un viaggio in Francia dove diventerà medico.
Il suo ritorno alle origini per ritrovare la vera madre anche se la famiglia israeliana che l’aveva adottato non gli aveva lesinato
affetti e cure. Il primo momento, Mihaileanu lo ha svolto con un piglio quasi documentario e con immagini spesso
monocrome: la condizione dei Falasha in Etiopia, poi la fuga a piedi attraverso il Sudan, fino agli aerei che li trasporteranno in
Israele. Il secondo momento, mentre attorno, con il trascorrere del tempo, l’accento cade anche su varie circostanze storiche e
politiche, dà finissimo risalto ai travagli di Schlomo costretto a fingere perfino con una ragazza che l’ama e sempre alle prese
con le difficoltà dell’integrazione. Pagine calde, qui, psicologicamente molto studiate, con un disegno preciso di tutti i
caratteri, sia in primo piano sia di sfondo. Il terzo momento, senza patetismi, è l’incontro con la vera madre che aveva avuto il
coraggio di privarsene perché vivesse. Forse i temi sono molti e s’intrecciano fra loro non sempre con il rispetto per la sintesi,
ma la novità dell’argomento e, nel suo svolgersi, la sensibilità con cui è trattato favoriscono sia l’adesione sia, spesso,
l’emozione. Schlomo, a seconda dell’età, è interpretato da tre attori diversi, fra gli altri, si fa però soprattutto notare l’attrice
israeliana Yael Abecassis: una madre adottiva di forte segno. (Gian Luigi Rondi, Il Tempo - 26/10/2005)
Pochi sanno chi siano i Fallasha. Meno ancora cosa fu «l’operazione Mosé>. Anche per questo un film dedicato a quel popolo,
e a quel dramma, assume un significato particolare. «Io stesso scoprii questa storia quasi per caso, durante il lancio americano
di Train de vie - racconta Radu Mihaileanu (regista rumeno del film sul1’Olocausto che nel ‘98 somigliò curiosamente a La
vita è bella di Benigni).
Un amico mi spiegò che i Falasha erano gli “ebrei d’Etiopia”: cioè gli 8.000 neri di religione ebraica, discendenti del re
Salomone e della regina di Saba, che nel 1984 una carestia costrinse, insieme a altre centinaia di migliaia di africani, a
abbandonare la propria terra». Per soccorrere i correligionari Israele varò allora «l’Operazione Mosé»: «decisero insomma di
accoglierci. E noi, a costo di molti dolori e immani fatiche racconta Sirak Sabahat, 23 anni, un Falasha oggi divenuto attore
raggiungemmo quella che per noi era davvero la Terra Promessa. Cioè non solo la salvezza dalla fame; ma la meta del nostro
cammino di fede». Non tutti in Israele, però, aprirono le loro braccia: «I gruppi ultra-ortodossi decisero che un nero non può
essere ebreo spiega Mihaileanu e l’integrazione è stata lenta e dolorosa».
Così, vent’anni dopo, Mihaileanu affida proprio a Sirak il ruolo di protagonista del suo Vai e vivrai: cioè del toccante racconto
di quest’esodo «ignoto». Non che, più in generale, della ricerca di un’identità. Nel soggetto del film, per salvare il figlio
cristiano dalla carestia, la madre del piccolo Shiomo lo dichiara ebreo, e lo affida ai profughi dell’«Operazione Mosé». Giunto
in Terra Santa Shlomo sarà salvo ma dovrà continuamente nascondere il suo segreto, fino a non capire più cosa sia realmente.
Cristiano? Ebreo? Nero? Bianco? «Non solo questa storia, ma anche la mia e quella di Sirak, che interpreta Shiomo spiega il
regista - cercano di rispondere alla stessa domanda: «Chi sono io?». Per fuggire ai nazisti, infatti, il padre di Mihaileanu
dovette cambiare cognome (si chiamava Buchman), e trasferirsi a Parigi, finendo per sentirsi straniero tanto in Romania che in
Francia. «Allo stesso modo la mia integrazione nello stato dì Israele fu uno shock conferma il Falasha Sirak - lì c’era molta
gente che ci guardava storto. Avevamo una cultura troppo diversa; e poi vedevamo per la prima volta in una nostra cose come
l’elettricità, l’automobile, la televisione». Ma la ricerca della propria identità non vuole essere, in Vai e vivrai, solo un
riferimento autobiografico. «E certo un tema fortemente ebraico ma, al tempo stesso anche universale - considera Riccardo
Tozzi, produttore Cattleya del film (che in Italia uscirà il 4 novembre) la vita lo pone ogni giorno a un numero infinito di
persone, in tutto il mondo». E poi ad accompagnare questo dramma ebraico se (secondo uno stile tipicamente yddish) anche
un bel po’ di umorismo: «Ovunque vada, ogni ebreo porta con sé un bagaglio dl dolore - commenta il regista ma un po’ di
posto lo lascia anche all’ironia. Un arma che può aiutare a sopravvivere». (Giacomo Vallati, L’Avvenire - 26/10/2005)
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Grandi temi che nascono da una singola storia. Come quella di Schlomo, protagonista di Vai e vivrai, su cui il regista Radu
Mihaileanu costruisce una vera e propria epopea. Così l'idea di raccontare la grande migrazione di migliaia di ebrei etiopi, i
Falasha discendenti del re Salomone e della regina di Saba, cui nel 1984, grazie all'operazione Mosè organizzata da Israele e
Usa, fu consentito di tornare nella loro Terra Promessa, diventa nel film un'analisi delle varie realtà presenti nello Stato
d'Israele e apre a tutta una serie di temi, delicati e universali: la patria, l'identità, la famiglia, la religione, l'integrazione tra
culture, l'intolleranza.
Tutte questioni con cui sia il regista sia l'attore protagonista del film, una coproduzione tra Cattleya e Medusa che lo
distribuisce dal 4 novembre, si sono personalmente scontrati. «Mi sono sempre sentito uno straniero - dice Mihaileanu, autore
nel 1998 del fortunato Train de vie - perché sono dovuto andar via dalla Romania di Ceausescu per riparare in Francia via
Israele.
Ma anche prima avevo un problema d'identità perché mio padre, per sfuggire ai campi di concentramento, cambiò il cognome
ebreo in Mihaileanu. Ora però ho capito che la mia casa è ovunque. O meglio, i miei figli sono la mia casa».
Sulla stessa lunghezza d'onda l'attore Sirak M. Sabahat, ebreo etiope emigrato nel 1991 in Israele, che sottolinea come «la
questione dell'identità per uno come me di colore è il problema d'una vita. Ciò che più conta è la famiglia, lì è la mia casa e
quindi adesso è Israele».
Proprio come accade allo Schlomo del film, il cui nome non a caso è lo stesso del protagonista di Train de vie, che nel corso
del film seguiamo prima timido bambino, poi adolescente inquieto e infine adulto, compiutamente maturo. Su di lui pesa la
decisione della madre cristiana che, al momento dell'operazione Mosè, lo spaccia per ebreo perché almeno lui, fuggendo
dall'Etiopia, si salvi dalla carestia.
Schlomo scoprirà però che la vita non è facile neanche in Israele dove il colore della pelle dei Falasha, unici ebrei neri al
mondo, non passa sempre inosservato. «Questo perché - spiega il regista - Israele ha al suo interno mille anime e opinioni. Dal
canto mio volevo raccontare a fondo una società che siamo abituati a conoscere solo attraverso la tv». (Pedro Armocida, Il
Giornale - 26/10/2005)
Lo Schlomo di Vai e vivrai ha lo stesso nome del fool che portava il suo popolo a scappare in Russia per le persecuzioni
antiebraiche. Qui è un bambino etiope che, come tanti, cerca di sfuggire alla fame e al regime di Menghistu. Per salvarlo da
morte certa nei campi profughi del Sudan, la madre cristiana lo fa fingere ebreo e lo manda in Israele, dove, tra l’84 e l’85, gli
Stati Uniti e il Mossad stanno rimpatriando i Falasha, gli ebrei etiopi. Adottato con amore da una famiglia d’origine francese e
non troppo praticante, il ragazzo vive la duplice finzione del non essere, oltre che nero, né orfano nè ebreo. Ogni cosa è
difficile: farsi accettare dalla comunità rabbinica, mantenere un legame con la madre, lasciarsi amare da Sarah, capire la realtà
politica del Paese: ma la parabola di Schlomo (ben riassunta dal titolo originale, che ricalca le tre fasi del film) si realizza
grazie alla sua volontà di essere e diventare, semplicemente, uomo. Mihaileanu parte dalla complessità di un fatto storico poco
noto (l’operazione “Mosè”) e la riveste di un senso universale. La paradossalità dello script evidenzia l’insensatezza del Caso,
del dogmatismo religioso e del razzismo di ritorno”. Da vedere, vivere e rivedere. (Raffaella Giancristofaro, Film Tv 11/11/2005)
Il titolo originale Va, vis et deviens (Vai, vivi e diventa), in Italia Vai e vivrai, che Radu Mihaileanu dice gli viene da un libro
che ha molto amato, Vita e destino di Vassili Grossman, esprime con precisione la parabola del suo nuovo film, infanzia,
adolescenza, età adulta di un ragazzo etiope che arriva in Israele, cresce tra contraddizioni e felicità fino alla conquista di una
diversa consapevolezza. Schlomo, il protagonista che cambia tre volte secondo le età (è prima Moshe Agazai, poi Moshe
Abede e Sirak M.Sabahat), ha lo stesso nome del personaggio di Train de vie, e a quel film che lo ha fatto conoscere in tutto il
mondo Mihaileanu ritorna nell'idea dello scambio, di un'identità fortemente rivendicata che è solo apparenza ma può divenire
salvezza. Qualcosa che riguarda un po' anche la sua vita. Drammaturgo, regista di teatro, attore, sceneggiatore (suoi insieme a
Alain Dugrand soggetto e sceneggiatura di questo Vai e vivrai), Mihaileanu è nato in Romania, il padre come ha spesso
raccontato è stato costretto a cambiare nome per sfuggire i nazisti, e lui stesso ha lasciato il paese negli anni di Ceausescu
arrivando prima in Israele, poi in Francia dove ha studiato cinema. Schlomo infatti è cristiano ma la mamma per salvarlo da
fame e guerra lo fa credere ebreo. Siamo nel 1984, anno dell'operazione Mosè in Etiopia, quando il mossad con gli Stati uniti
organizza il trasferimento clandestino, di nascosto al governo etiope allora Menghistu, in territorio israeliano di migliaia di
falascia, gli ebrei d'Africa che il mito vuole discendere da Salomone e dalla regina di Saba. Israele ha bisogno di popolare il
suo territorio e le colonie, i falascia che in patria sono «stranieri» e «senza terra» sognano da sempre il ritorno nella «Casa di
Israele». L'Etiopia vuol dire per loro discriminazione, la guerra civile con l'Eritrea, la fame. Eccoli allora in marcia attraverso
il Sudan dove dovrebbero aspettarli gli israeliani. Le cose non sono però così semplici, i falascia muoiono in moltissimi lungo
viaggio o nei campi profughi sudanesi... Il piccolo Schlomo arriva in Israele coi ponti aerei dal Sudan negoziati dagli Usa,
viene adottato da una famiglia israeliana laica e di sinistra (la mamma è Yael Abecassis attrice per Amos Gitai), cresce amato
e protetto nonostante il razzismo del suo nuovo paese, lo stesso che subiranno gli altri falascia, insieme a miseria,
emarginazione, condizione da cittadini di categoria inferiori - il tasso di suicidi tra loro è altissimo. Intorno alla vita di
Schlomo che non smetterà neppure da grande di pensare alla madre naturale, c'è la storia d'Israele negli ultimi vent'anni,
l'occupazione, gli scontri politici all'interno della società israeliana, la violenza quotidiana di un conflitto che negli occhi del
ragazzino è guerra di vittime della guerra stessa da entrambe le parti. Il tutto nell'impeto di emozionalità che sembra essere la
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cifra prediletta da questo regista, come se il meccanismo del sentimento, che riesce a funzionalizzare alle sue esigenze, possa
contenere una risposta a ogni problema. La realtà però è spesso da un'altra parte. E nelle sue storie in prima persona ha
bisogno anche di conflitto, nervi scoperti, dissonanze capaci di conquistare una sua vitale verità. (Cristina Piccino, Il
Manifesto - 07/11/2005)
A quasi sette anni da Train de vie, piccolo gioiello di umorismo yiddish, torna il regista rumeno Radu Mihaileanu. In tutto
questo tempo l’autore ha sviluppato un paio di progetti, poi abbandonati, e ha scritto il romanzo Vai e vivrai (ed. Feltrinelli),
ispirato alla vera storia di un ebreo falasha o falasa (significa “emigrato” o “esiliato” in ge’ez, la lingua sacra degli abissini),
un ebreo etiope. Le sue pagine sono diventate film, presentato all’ultimo Festival di Berlino. Racconta il percorso di Schlomo
piccolo africano: dall’Etiopia a un campo del Sudan, fino a Israele. Il bambino viene spinto dalla madre, cristiana, a fingersi
ebreo per poter fuggire dalla carestia del suo paese e rientrare nell’Operazione Mosè, ovvero l’iniziativa congiunta di Israele e
Stati Uniti per portare in Terra Santa migliaia di ebrei etiopi, discendenti del Re Salomone e della Regina di Saba. Mihaileanu
sa raccontare una pagina ancora troppo poco conosciuta della Storia e ha uno sguardo diretto, onesto e pieno d’amore per gli
esiliati del mondo. (Luca Barnabé, Ciak - 15/11/2005)
Radu Mihaileanu si è fatto ispirare per il suo film successivo al celebrato Train de vie da una grande storia vera. Quando alla
fine del 1984 una massa di profughi da molti paesi africani flagellati dalla carestia si riversò nei campi sudanesi, e tra loro
migliaia di ebrei etiopi (Falasha) in fuga dalla fame e dal regime di Menghistu, una brillante operazione israeliana sottrasse
una grande parte di questi ultimi ai pericoli che correvano in una terra islamica integralista. I Falasha sono l'unica comunità
ebraica in terra d'Africa ma anche gli unici ebrei di pelle nera. Le leggende sulla loro origine hanno ispirato Bob Marley e il
culto dell'Etiopia come culla originaria della civiltà. Avevamo lasciato uno Schlomo internato nei campi di sterminio nazisti
senza sapere se si sarebbe salvato (in Train de vie) e ne troviamo ora un altro. Viene dall'Etiopia con la mamma, non sono
ebrei, sono cristiani, ma mentendo la madre riesce a caricare il figlio su un aereo della salvezza per Tel Aviv. L'infanzia,
l'adolescenza, la giovinezza di Schlomo, che in Israele verrà accolto come un vero figlio da un'ignara famiglia di sefarditi
francesi di sinistra, scorreranno all'insegna della menzogna. Il suo percorso di crescita, meglio reso dal titolo originale
francese "Va, vis et deviens", lo porterà alla fine a "diventare" uomo, a ritrovare la verità. Dopo aver conosciuto, nella nuova
patria, l'accoglienza e la generosità, ma anche la diffidenza di un nuovo apartheid. (Paolo D'agostini - la Repubblica
4/11/2005)
Il regista del tragicomico gioiello yiddish Train de vie, Radu Mihaileanu, ci rammenta l'exodus degli etiopi ebrei in Terra
Santa coi falasha («emigrati» in lingua abissina), i discendenti di Salomone e la regina di Saba. Autore anche del romanzo,
propone una lettura in chiave privata, la fatica della doppia identità di un ragazzino cristiano, Schlomo. Che si dice ebreo per
scappare dall'inferno africano, perde la madre vera e ne acquista una adottiva (super Edipo) ma riesce comunque a fidanzarsi e
laurearsi, diventa medico senza frontiere, finché... Il faticoso rapporto umano è raccontato senza troppa emotività rischiandodi
sottovalutare il calore della psicologia, ma interessanti sono gli interni progressisti di Israele, il kibbutz e il rabbino, le lotte
interne e le varie forme di razzismo. Una storiona, con fin troppo melò ma anche sincera partecipazione per tutti quelli
costretti a fuggire. (Maurizio Porro - Corriere della Sera 4/11/2005)
In concorso nella sezione Panorama di Berlino, “Vai e vivrai” racconta con sensibilità e passione la storia del piccolo e grande
Schlomo, un “goy” (un non ebreo), che, verso la metà degli anni ’80, è costretto a fuggire dall’Etiopia, fingendosi ebreo,
lasciando per sempre la madre alla ricerca della salvezza. Il film porta alla luce gli anni nei quali Israele e Stati Uniti aiutano
migliaia di ebrei etiopi a trovare rifugio verso lo stato di Israele, nell’operazione denominata “mosé”. Ma il piccolo Schlomo
non è ebreo, la sua è solo una copertura per sfuggire a morte sicura.
Ancora una volta il tema di partenza dell’ultima pellicola di Radu Mihailanu (“Train de vie”) si trova nello scambio di
identità, nell’essere o non essere, allo stesso tempo, qualcuno, per raccontarci di questo viaggio e della crescita del piccolo
Schlomo. In essa si trovano tutte le contraddizioni di una società ancora divisa per classi, origini geografiche o religione.
Etichette, come le definisce lo stesso regista, stereotipi: arabi, ebrei, algerini, rumeni, francesi o tedeschi. Freni all’interazione
culturale, alla fratellanza dei popoli. Il regista intravvede nel protagonista quella scossa in grado di far cambiare lo stato delle
cose. Arrivato in Israele, Schlomo è costretto a convivere con delle regole che non gli appartengono, a mentire. Fino a quando
viene adottato da una famiglia. Dapprima spaesato, giudicato male dal resto della società, Schlomo cresce, impara ad essere
un bravo ebreo, a capire le regole di quella società, non per sottomettersi, ma per cambiare lo stato delle cose. Con enormi
difficoltà. Il suo pensiero però è sempre rivolto verso casa: sua madre, la sua terra. Decide così di diventare medico e aiutare
gli altri nelle zone di guerra, fino al ritorno in patria. Assistiamo ad un percorso emotivamente forte, fatto di piccoli passi, in
una lotta ostinata. La macchina da presa ne coglie tutti gli aspetti: i cambiamenti fisici, storici, sociologici, politici. Il conflitto
israeliano/palestinese, l’accordo tra Arafat e Rabbin, la sua morte, i conflitti che ne seguono.
La storia assume i connotati di un’enorme contraddizione e di progressivi scontri che vedono, da un lato Schlomo e dall’altro
la famiglia adottiva, la società ebrea, l’enorme peso di questa bugia, del non essere ebreo pur avendone capito l’essenza.
Anche l’amore tarda a trasformarsi in unione.
Delicato, commovente, a tratti esplosivo, il film cerca di unire le due parole di vita e trasformazione. (www.fice.it)
7
Note:
PRESENTATO IN CONCORSO AL 55MO FESTIVAL DI BERLINO (2005) NELLA SEZIONE 'PANORAMA'.
- PREMIO CESAR 2006 PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE A ALAIN-MICHEL BLANC E
RADU MIHAILEANU.
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