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A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T I am a passenger “........“Oh, the passenger He rides and he rides He sees things from under glass He looks through his window’s eye”..”. from: Iggy Pop, “The Passenger”, 1977 Sylvie Fleury (1961 Genève, Switzerland), Dan Graham (1942 Urbana, Illinois, USA), Edward Ruscha (1937 Omaha, Nebraska, USA), Thomas Struth (1954 Geldern, Germany), Blair Thurman (1962 Nouvelle-Orléan, Louisiana, USA), Jeff Wall (1946 Vancouver, British Columbia). Mito del primo Novecento, ‘automobile è progressivamente divenuta protesi, congegno che determina inquadrature e tempi del vedere, per uno sguardo perso in un paesaggio che dalla macchina è stato radicalmente modificato. La mostra I am a passenger propone lavori realizzati tra il 1967 e il 2003 da artisti europei e americani che originano dalla trasformazione della percezione legata all’uso diffuso dell’automobile. Le opere presentate, per la loro qualità, per le generazioni cui appartengono gli autori e per la loro rilevanza storica, costituiscono significativi esempi del modo in cui l’arte contemporanea si è posta il problema del narrare e rappresentare il presente. Avventure di quell’atteggiamento mimetico che, per molti, è ciò che caratterizza la conoscenza propria dell’arte e che ne costituisce la sua problematica ragion d’essere. Pop, minimalismo, arte concettuale, fotografia documentaria sono gli ambiti cui potrebbero essere ricondotti i lavori presentati, che però si sottraggono ad un’identificazione precisa con tendenze e movimenti. Essi si definiscono, piuttosto, in terrains vagues che interrogano e inquietano il nostro rapporto col mondo e con l’arte proprio in virtù del loro scarto, della loro posizione laterale. Artisti in mostra: Sylvie Fleury, Dan Graham, Ed Ruscha, Thomas Struth, Blair Thurman, Jeff Wall Sylvie Fleury: Dalle calzature di lusso esposte accanto alle shopping bags e alle scatole d’imballaggio, dalle pitture murali eseguite con il fard o con motivi che riprendono una griffe, dai monocromi in pelliccia sintetica, alla riproduzione in formato gigante delle copertine di noti giornali femminili (Vogue, Playgirl), il lavoro di Sylvie Fleury è contrassegnato dai simboli v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4 A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T della moda, della cosmetica e del lusso, che utilizza come linguaggio plastico. L’artista presenta oggetti investiti a priori dal desiderio femminile; in altre sue opere, per esempio con le lussuose macchine americane, ridipinte o ‘compresse’, o la serie dei First Spaceship on Venus-Primo missile su Venere, gioca anche con le fantasie maschili, guardando con ironia ai rituali del potere e alla loro forza distruttiva. Sylvie Fleury crea le sue opere con un insieme di buon gusto e trasandatezza, come in Gucci Satellite, 1997, dove, sistemato in un insolito e poco elegante porta-televisore in pelliccia sintetica verde, il video di un piede femminile calzato Gucci preme sull’acceleratore di un’automobile, mentre l’audio rimanda il rumore del motore. L’opera, non apertamente critica come vorrebbe un certo femminismo, e priva di riferimenti dotti, lascia al contempo affascinati e perplessi. Per più di cinquant’anni, Dan Graham ha seguito e documentato la simbiosi tra l’architettura e chi ci abita, con una pratica che comprende la scrittura, la performance, i video, le installazioni, la fotografia e la scultura. La sua tendenza critico-analitica è emersa con Homes for America (1966-67), non un’«opera d’arte», ma un articolo di rivista, in cui una sequenza di immagini dello sviluppo suburbano nel New Jersey è accompagnata da un testo che analizza l’uso del suolo, il decadimento dell’architettura e delle abilità costruttive (il dittico View Interior, New Highway Restaurant, Jersey City, N.J. 1967-2003 appartiene alla serie citata). Come nel lavoro successivo, l’intento di Dan Graham è di superare, attraverso una sottile critica, il distacco dell’approccio minimal di Sol Lewitt o Carl Andre, utilizzando come materiale primo la realtà ripetitiva, anonima, priva di qualità del nuovo paesaggio di suburbia, «mai menzionato e quasi soppresso», a suo dire, dal Minimalismo, che pure in esso aveva trovato la fonte prima di ispirazione e motivazione. Le fotografie, i disegni, i dipinti e i libri d’artista di Ed Ruscha sono la registrazione dei mutevoli simboli della vita americana degli ultimi cinquant’anni. Le sue opere più conosciute sono le rappresentazioni dei logo di Hollywood, di anonimi edifici industriali, delle stazioni di benzina, in paesaggi archetipici che distillano le immagini della cultura popolare traducendoli in un linguaggio apparentemente facile, diretto e accessibile, elegantemente laconico quanto profondo. Ed Ruscha ha spesso ribadito che le sue fotografie e le sue opere sono semplicemente una raccolta di ‘fatti’, una ‘collezione di ready made’, una domanda posta — com’era per gli artisti concettuali— sulla natura dell’arte, sul ruolo e la funzione dell’artista nel mondo contemporaneo. Oltre che con l’arte concettuale, il lavoro di Ruscha ha forse qualcosa in comune con la pop art, per l’appropriarsi del quotidiano, tuttavia il suo uso scanzonato dell’ironia, del paradosso e dell’assurda giustapposizione lo hanno messo assolutamente a parte rispetto a quel movimento. Royal Road Test è uno dei libri fotografici a buon mercato che Ruscha creò negli anni Sessanta e che semplicemente catalogavano le cose banali che si potevano incontrare in un normale viaggio in auto attraverso il West americano (Twentysix Gasoline Stations, 1962; Some Los Angeles Apartments, 1966; Nine Swimming Pools and a Broken Glass, 1968). I libri di Ruscha sono al contempo un tributo e una pungente parodia della romantica visione della strada descritta da artisti e scrittori come Jack Kerouac e Robert Frank. Questo è evidente proprio in Royal Road Test, 1967 in cui Ruscha documenta sé stesso mentre fa cadere una macchina da scrivere vintage da una Buick in corsa. Anche la serie Vacant Lots 1979/2003 appartiene allo stesso tipo di produzione: le quattro immagini, edite nel 2003, derivano infatti dalle riprese fotografiche per il libro Real Estate Opportunities, del 1970, una raccolta di immagini che dovevano avere il carattere di convenzionali foto da agenzia immobiliare, di lotti vuoti ripresi con il contesto.L’effetto di shock e lo humor prodotti dai libri di Ruscha sono forse diminuiti, ma negli anni Sessanta, il lavoro andava letto contro una produzione fotografica altamente estetizzante, un sovvertimento del mercato, in rapida espansione, di ciò che l’artista descriveva come «limited edition, individual, hand processed photos». Thomas Struth è uno degli esponenti della cosiddetta «scuola di Düsseldorf», formatasi ai corsi di Bernd e Hilla Becher (ne fanno parte Andreas Gursky, Thomas Ruff, Axel Hütte, Candida Höfer). E’ noto al grande pubblico soprattutto per il ciclo delle Museum photographs, iniziato nel 1989 e composto da fotografie a colori di grande formato scattate all’interno dei maggiori musei del mondo con il fine di riprendere i visitatori e le opere d’arte con lo stesso sguardo e sotto la stessa luce; altrettanto note le immagini di architettura, i ritratti di singole persone o gruppi familiari, dove la fotografia è strumento di esplorazione e di analisi v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4 A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T psicologica, così come il ciclo Paradise, dove anche i paesaggi naturali entrano a far parte dei soggetti rappresentati da Struth con le foto scattate nelle foreste, nei deserti e nelle giungle del Giappone, dell’Australia, della Cina, dell’America e dell’Europa. “Viale Eritrea, Rom”, 1988, appartiene al periodo inziale del lavoro di Struth, centrato sulla rappresentazione —sobria, in bianco e nero e senza rielaborazione dell’immagine — di paesaggi urbani. Si tratta di vedute inespressive e impassibili, prese spesso al centro di qualche incrocio, che offrono vedute prospettiche punteggiate/scandite da un ritmo apparentemente senza fine di facciate, case e condomini «ordinari», piazze strade e crocevia senza nessun valore. Privi di persone e di movimento, immagini come Viale Eritrea fanno zittire la cacofonia tradizionalmente associata all’esperienza urbana. Nella loro accurata composizione e per l’attenzione al dettaglio topografico, richiamano alla mente le vedute di fotografi dell’Ottocento quali Eugène Atget e Charles Marville. Il lavoro di Blair Thurman (shaped canvas, installazioni, neon) reca le tracce di vari riferimenti, che si combinano e intersecano fra loro. Le sue opere, dalle forme astratte, sembrano ad un primo sguardo affini all'estetica minimalista, all'astrazione americana del dopoguerra e alla Pop-art. Blair Thurman reinterpreta però il tutto a modo suo: al di là della Storia dell'arte, l'artista, che ama giocare con le ambivalenze, si ispira alla letteratura, al cinema, e soprattutto all'iconografia della cultura di massa —spesso presente l'automobile— allontanandosi dal carattere autoreferenziale proprio all'astrazione, per volgersi verso la rappresentazione di una soggettività inedita, lavorando con simboli e segni della realtà concreta. Come in Aurora, insieme frammentario in cui patterns in bianco e nero rimandano alle piste modello e alla segnaletica stradale orizzontale e in cui il mito, cui il titolo dell’opera allude, è ricondotto al movimento perpetuo delle highways americane e al girovagare rappresentato nei road movies, come per esempio Easy rider. Jeff Wall inizialmente noto per le lightboxes —grandi pellicole retroilluminate con un’importante presenza fisica, quasi scultorea— in cui le immagini, usualmente di forte impatto, rimandano alla storia della fotografia come pure, per i riferimenti nei contenuti e nei temi, alla pratica pittorica ha poi ampliato la sua ricerca alla fotografia in bianco e nero e a colori. Il dialogo intrattenuto con la tradizione della Storia dell’arte (con gli “antichi maestri” ma anche con le esperienze contemporanee) è stato più volte sottolineato dalla critica, ma non vi è nell’opera di Wall alcuna tentazione neo-accademica o il desiderio di ristabilire la nuova pienezza del linguaggio figurativo: d’altronde, l’osservatore è sempre costretto a confrontarsi con mises en scéne di cose e gesti che rimangono sospesi e oscuri, che minano la convinzione propria del senso comune della corrispondenza tra la fotografia realtà. From Landscape Manual, del 2003 è un’immagine tratta dal libro “Landscape Manual” del 1969, appartiene quindi agli esordi dell’attività di Wall, è tuttavia coerente e spiega gli esiti successivi del suo lavoro. “Landscape Manual” fu autoprodotto nel 1969-70, e contiene un testo accompagnato una serie di immagini in bianco e nero di Vancouver, scattate dal finestrino di un’automobile: come in molti lavori successivi, soggetto principale delle inquadrature sono la desolazione delle periferie, le azioni senza scopo, i paesaggi senza qualità, un insieme di luoghi insignificanti che sembrano non appartenere ad una situazione precisa piuttosto essere il contesto generico, quindi universale, di un uomo generico; “Landscape Manual” è un’opera di Arte Concettuale che utilizza testo e fotografia ed è al contempo, considerando i successivi sviluppi della produzione fotografica di Jeff Wall, critica in atto alla ripresa fotografica “d’autore” a favore di una foto che, nell’abbandono delle qualità estetiche convenzionali della fotografia artistica lette come an-estetizzazione del mondo, attraverso la mimesi di uno “stile amatoriale”, cerca un’apertura meno velata al reale. v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4 A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T I am a passenger “........“Oh, the passenger He rides and he rides He sees things from under glass He looks through his window’s eye”..”. from: Iggy Pop, “The Passenger”, 1977 Sylvie Fleury (1961 Genève, Switzerland), Dan Graham (1942 Urbana, Illinois, USA), Edward Ruscha (1937 Omaha, Nebraska, USA), Thomas Struth (1954 Geldern, Germany), Blair Thurman (1962 Nouvelle-Orléan, Louisiana, USA), Jeff Wall (1946 Vancouver, British Columbia). Myth of the early twentieth century, the automobile has gradually become a prosthesis, a device that determines frame and time of viewing, for a glance lost in a landscape that the car itself has radically changed. The exhibit “I am a passenger” presents works produced between 1967 and 2003 by European and American artists and originated from the transformation of perception and landscape due to the widespread use of the automobile. The exhibited works, for their quality, for the generations the authors belong to, and for their historical importance are significant examples of the ways contemporary art has raised the problem of the representation and the narration of the present time. They can be considered adventures of a mimetic attitude that, as opposed to logical thought, is what characterizes art, as well as its problematic reason for continuing to exist. Pop, Minimalism, Conceptual art and documentary photography are the areas to which the exhibited works belong, although they escape from a precise identification with trends and movements. They are rather placed in terrains vagues and they question and disturb our relationship with the world and with art, by virtue of their difference and of their lateral position. Sylvie Fleury creates her works using both good taste and shabbiness, such as in Gucci Satellite, 1997, an unusual and inelegant piece of furniture, covered with a synthetic green fur; the video inside shows an elegant female foot wearing a Gucci shoe stepping on gas pedal while driving, with the soundtrack of the distorted engine noise. The work, not openly critical as might be requested by current feminism and lacking in high references, is at the same time fascinating and disturbing. v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4 A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T For more than fifty years, Dan Graham has followed and documented the symbiosis between architecture and those who live in it, with a practice that includes writing, performance, video, installations, photography and sculpture. His critical and analytical attitude emerged with Homes for America (1966-67), not a ''work of art”, but a magazine article in which a sequence of images of suburban development in New Jersey is accompanied by a text that explores the use of land, the decay of architecture and construction skills (the diptych “Interior View, New Highway Restaurant, Jersey City, NJ 1967/93” belongs to the series cited above). As in his later works, the intention of Dan Graham is to overcome, through subtle criticism, the detachment typical of Minimal art, using the repetitive and anonymous landscape of suburbia, "never mentioned and almost abolished," he said, by Minimalism, although Minimalism itself had found the primary source of inspiration and motivation in it. During the 1960s, Ed Ruscha created a series of mass produced, cheaply printed photographic books cataloguing the various kinds of banal roadside sites one might encounter on a typical drive through the American West, such as Twenty six Gasoline Stations (1962), Some Los Angeles Apartments (1966), and Nine Swimming Pools and a Broken Glass (1968). Ruscha's books paid tribute to and slyly parodied the romantic vision of the road epitomized by writers and artists such as Jack Kerouac and Robert Frank, also subverting the rapidly expanding market for what the artist described as "limited edition, individual, hand processed photos." In Royal Road Test, 1967, Ruscha painstakingly documented himself dropping a vintage typewriter from a speeding Buick. For his book Real Estate Opportunities 1970 Ruscha made a series of photographs, intended to look like conventional real estate photographs of empty lots captioned with the locations. Four photographs from the Real Estate Opportunities shooting sessions were later edited in 2003 as Vacant Lots 1970/2003. "Viale Eritrea, Roma", 1988, belongs to the initial period of Thomas Struth’s work, centered on the representation of urban landscapes. These expressionless and impassive views, often with the vantage point in the center of the streets, depict an endless series of 'generic' facades, houses and condos, squares and crossroads. Without people and motionless, images as Viale Eritrea, Roma, silence the cacophony traditionally associated with urban experience. In their accurate composition and attention to topographical detail, they are reminiscent of the views of Nineteenth Century photographers such as Eugène Atget and Charles Marville. The work of Blair Thurman (shaped canvas, installations, neon) bears traces of several references which combine and intersect each other. In his abstract shapes we can perceive echoes of Minimalism, post-war American abstraction and Pop Art. Blair Thurman reinterprets everything in his own way, beyond art history. He loves to play with ambivalence: literature, film, and especially the iconography of mass culture (very often linked to the world of cars) place his work away from the self-referential character of abstraction, toward the representation of an unprecedented subjectivity, working with symbols and signs of reality. As in the installation Aurora (1996), in which black and white patterns recall toy model tracks and road markings, and where the myth that the title of the work alludes to is brought back to the perpetual movement of American highways and to wandering represented in road movies such as Easy rider. "From Landscape Manual" (1969/2003), an image originally taken for the publication "Landscape Manual" (1969), belongs to the beginning of Jeff Wall research. "Landscape Manual" was a self-released booklet published in 1969-70. It contained a text accompanied by a series of black and white images of Vancouver taken from a car window. As in many of his later works, the main subject of the shots are desolate suburbs, actions without purpose, landscapes without quality: a set of places that seem insignificant and that seem to belong not to a specific place but, rather, to a generic context of a generic man. "Landscape Manual" was a work of conceptual art that used text and photography, as it was usual in that period. But it is at the same time a seminal work, considering the further development of the photographic production of Jeff Wall: Landscape Manual contains a critical attitude to the idea of authorial photos, in favor of a photographic practice in which, by leaving behind the conventional qualities of “artistic photography” (read as aestheticization of the world) and v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4 A V O N C A M P O L I N N O P R O F I T through the mimesis of an "amateur style", is introduced a less veiled opening to reality. The exhibit work was printed in a limited edition in 2003. v i a d e p a o l i 2 3 3 3 1 7 0 p o r d e n o n e i t a r t @ a v o n c a m p o l i n . i t | + 3 9 0 4 3 4 2 4 1 4 3 2 + 3 9 3 3 5 6 1 0 3 6 2 8 + 3 9 3 3 5 6 4 7 1 1 8 4