Tertium non datur - Scienze e Ricerche

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Tertium non datur - Scienze e Ricerche
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
SR
SUPPLEMENTO AL N. 5 - MARZO 2015
Essere donna
e fare ricerca in Italia
Essere donna e fare
ricerca in Italia
Sommario
7
ELISABETTA STRICKLAND
Essere donna e fare scienza in Italia: un’impresa difficile
pag.
5
pag.
7
DAVIDE BARBA E MARIANGELA D’AMBROSIO
Donne e ricerca: “fare” genere nell’ambito scientifico
ALESSANDRA MAZZEO
23
Tertium non datur
pag. 13
DANIELA GRIGNOLI
Donne in ricerca pag. 18
ROSA MARIA FANELLI, ANGELA DI NOCERA
La presenza delle donne nel settore europeo della ricerca scientifica
e tecnologica
pag. 21
STEFANO OSSICINI
Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre. Donne e scienziate
pag. 25
VINCENZO VILLANI
Marie-Sophie Germain: matematica e fisica romantica dell’800
pag. 37
ANNA TOSCANO
Il gabbiano ha preso il volo. Valentina V. Tereshkova - Samantha
Cristoforetti. Una conquista lunga cinquantuno anni
pag. 39
GABRIELLA BERNARDI
Pino e le sue astronome
pag. 45
PATRIZIA TORRICELLI
Donne, e le parole per parlarne
63
pag. 47
AGOSTINA LATINO
Genesi e analisi della Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla
violenza contro le donne e la violenza domestica
pag. 50
PAOLA MAGNANO, ANNA PAOLILLO, GIUSEPPE SANTISI
Autostima e autoefficacia, identità di genere e soddisfazione
lavorativa. Implicazioni per la scelta di carriera pag. 61
DOMENICO CARBONE
Cos’è la politica? Opinioni a confronto tra le donne elette nei
comuni italiani pag. 68
LUCIA PIETRONI
Rosa vs Blu. I Gender Studies e la cultura del design 72
pag. 76
GIULIANA GUAZZARONI
La realtà aumentata nell’arte: una scelta di genere è mettersi in gioco
e performare
pag. 86
CHIARA D’AURIA
La donna cinese nel Nuovo Millennio pag. 92
SILVIA CAMILOTTI
Saperi e sapori d’altrove: le scrittrici (si) raccontano
pag. 103
LAURA MOSCHINI
Con occhi di donna: Margaret Fuller e la Repubblica Romana
(1847-49), Un’analisi di genere nel giornalismo del XIX secolo
Supplemento al n. 5, marzo 2015
pag. 107
3
SUPPL. N. 5 - MARZO 2015
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
Supplemento al n. 5, marzo 2015
Coordinamento
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Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli,
Carmela Saturnino, Roberto Scandone, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi,
Pietro Ursino
• Scienze biologiche e della salute:
Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide
Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio
Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano
• Scienze dell’ingegneria e dell’architettura:
Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guazzaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia,
Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano
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• Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie:
Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Sergio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ienna, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella
Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco
Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro
Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti
• Scienze giuridiche, economiche e sociali:
Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Agostina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria
Viviano
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SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Essere donna e fare scienza in Italia:
un’impresa difficile
ELISABETTA STRICKLAND
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
S
i discute tanto sull’eguaglianza di genere in
tutti gli ambiti della vita sociale e professionale, quindi non meraviglia che anche nella
ricerca scientifica si cerchi di analizzare cosa
è stato fatto e cosa si può fare ancora per superare la barriera costituita dagli stereotipi ed i pregiudizi
ereditati da una storia difficile per le donne nella cultura e
nella vita civile del nostro paese. E’ necessario infatti ricordare che le scuole pubbliche sono state aperte alle donne solo
nel 1874, tanto che intorno al 1900 sono aumentate vistosamente le iscrizioni femminili alle scuole di ogni grado e
quindi anche alle università. Ma prima di questo importante
giro di boa, l’educazione nelle famiglie era affidata ad insegnanti pagati privatamente, dando sempre la precedenza
o addirittura l’esclusiva ai maschi. Oggi le
donne rappresentano
circa la metà dei laureati in area scientifica
nel nostro paese, ma
solo un terzo dei ricercatori effettivi e un
quinto dei professori
di prima fascia nelle
università. Sono inoltre in numero esiguo
nelle posizioni apicali,
sia nelle università che
negli enti di ricerca. Il
fatto che in passato si
sia cercato di tenerle
lontano da un centro di
potere così importante
come il mondo della
scienza ha fatto leva su
una presunta inferiorità intellettuale della
donna, postulata ma ovviamente mai dimostrata. Assodato
quindi che le donne già da tempo mostrano di essere in grado di ottenere risultati rilevanti in campo scientifico, sarebbe
ora necessario intervenire sulla formazione dei futuri scienziati, occupandosi non solo degli aspetti tecnici, ma anche
dei fattori psicologici; con un atteggiamento più positivo nei
confronti di sè stesse e dei loro programmi di realizzazione è fatale che le donne possano sostenere più facilmente
la competizione maschile. Quindi le politiche di genere non
dovrebbero essere imperniate solo sulle seppur utili misure
necessarie per conciliare lavoro ed impegni familiari, ma devono anche permettere di lasciare alle spalle alcune visioni
tradizionali della carriera; questo è quanto si è rilevato in
modo preciso nel corso di un ciclo di seminari organizzati
dal Comitato Unico di
Garanzia di Ateneo
all’inizio di quest’anno all’Università ‘Tor
Vergata” a Roma, dedicati al “Work-life
balance”, il termine
attuale per il problema
della conciliazione.
Come è noto, le
donne tendono a partecipare più attivamente
alla ricerca nei primi
anni della carriera,
mentre con l’avanzare
dell’età le ambizioni
professionali lasciano
spesso il posto a priorità di tipo familiare.
E’ proprio la difficoltà
nel conciliare l’attività lavorativa con gli
impegni familiari ad
5
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
essere percepita dalla maggior parte dei ricercatori come
uno dei principali ostacoli alla parità di genere nel settore
scientifico. Un secondo ostacolo riguarda invece il già citato
atteggiamento autodiscriminatorio delle donne nei confronti
del loro ruolo professionale. Più della metà infatti sembra
ritenere di non essere in grado di raggiungere le posizioni
di maggiore responsabilità, in quanto meno disposte degli
uomini a combattere per la propria carriera. E’ quindi vitale
superare alcune visioni tradizionali della carriera e della suddivisione dei ruoli. Per fare un esempio concreto, i criteri di
reclutamento e incentivazione della carriera dovrebbero riconoscere anche caratteristiche come l’attitudine ad interagire
con i propri colleghi, a contribuire alla crescita dei propri
collaboratori e a condividere conoscenze ed informazioni,
nonchè a premiare un approccio alla ricerca aperto e interdisciplinare, incoraggiando un atteggiamento collaborativo
piuttosto che competitivo.
E’ fondamentale inoltre combattere la convinzione diffusa
che le carriere scientifiche non abbiano la ricaduta sociale
che offrono altre tipologie di studi, convinzione smentita
dalle indagini statistiche sulla condizione occupazionale dei
laureati, secondo le quali il loro grado di occupazione nelle scienze di base a cinque anni dalla laurea risulta essere
molto alta, salendo ulteriormente per chi è in possesso di un
dottorato di ricerca. Naturalmente questi dati vanno visti in
modo globale, cioè il mercato del lavoro va esteso oltre i
confini del proprio paese. E’ pertanto falso che questi titoli
di studio non siano adeguatamente spendibili sul mercato del
lavoro. Anche dal punto di vista della remunerazione, risulta
che il salario medio dei laureati in chimica, fisica, biologia
e matematica è inferiore solo a quello dei laureati nell’area
medica e di ingegneria, mentre è confrontabile con quelli
dell’area economica-statistica e politico-sociale.
Per avere un’idea di come le cose stiano comunque cambiando, basta guardare a quanto è successo nel 2014. Tre
eminenti signore hanno sfatato ogni leggenda volta a screditare il potenziale femminile nella ricerca scientifica, precisamente Mariam Mirzakhani, matematica, vincitrice della
6
prima Fields Medal attribuita ad una donna, Samantha Critoforetti, ingegnera, prima donna italiana lanciata nello spazio
ed attualmente a bordo della stazione spaziale internazionale
e Fabiola Gianotti, fisica, prima donna nominata Direttore
Generale del CERN di Ginevra.
Si tratta ovviamente di tre figure femminili notevolissime.
Maryam, di origine iraniana, ha una cattedra all’Università
di Stanford, guadagnata a soli 29 anni per importanti contributi in geometria iperbolica, teoria ergodica e geometria
simplettica. Samantha è aviatrice e astronauta, prima donna italiana negli equipaggi dell’ Agenzia Spaziale Europea,
coetanea di Maryam e laureata in ingegneria meccanica all’
Università Tecnica di Monaco, successivamente ammessa
all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli con conseguente
laurea in scienze areonautiche presso la Università Federico
II di Napoli ed infine specializzata negli Stati Uniti presso
l’Euro-Nato Joint Jet Pilot Training di Wichita Falls in Texas. Infine la fisica Fabiola Gianotti, che dopo la scoperta
della prima particella compatibile con il bosone di Higgs nel
luglio 2012, si è guadagnata vari titoli accademici ed una
copertina su Time Magazine.
L’anno appena trascorso è quindi stato semplicemente
straordinario per le scienziate italiane e non, un anno in cui
per la prima volta si è avvertita in modo palpabile un’aria
nuova nel mondo delle scienze che fino ad ora sembrava
impossibile respirare.
In conclusione bisogna insistere e combattere, l’assenza
delle donne dai luoghi di potere è estremamente importante come dato negativo: incidere sui meccanismi decisionali,
individuare nella trasparenza delle procedure il criterio principale per sottoporre alla verifica della collettività scientifica
le tante nomine che disegnano il panorama delle massime
istituzioni scientifiche è uno dei principali punti critici del
sistema di ricerca italiano. La certezza di una valutazione
oggettiva delle proprie qualità e dell’esistenza di una effettiva parità nella scienza è senza dubbio il modo per superare
questo ostacolo.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Donne e ricerca: “fare” genere
nell’ambito scientifico
DAVIDE BARBA E MARIANGELA D’AMBROSIO
Università degli Studi del Molise
La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere,
sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l’universo,
la terra, il proprio corpo, di rifiutare l’insegnamento calato dall’alto,
in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza
contro la passiva accettazione della fede.
Le mie favole, Margherita Hack
LE DISPARITÀ TRA UOMO E DONNA NEL MONDO
R
DELLE SCIENZE 1
iferire ancora una volta di disparità di genere sembrerebbe ripetitivo e privo di un
qualche interesse culturale, se non fosse
che il problema sta proprio in un’assenza: questo tema è sottaciuto nei programmi culturali che attengono allo sviluppo scientifico, e non
è sufficientemente pesato nell’analisi delle condizioni che
allontanano le donne dai traguardi meritati nell’ambito della
produzione scientifica nazionale e internazionale.
L’assenza produce il doppio effetto di un peggioramento
delle condizioni generali di accesso della componente femminile negli spazi di ricerca, sostenuti dalle politiche pubbliche, e la perdita di migliori e ulteriori occasioni per riflettere
su questo “difetto di genere” della ricerca scientifica.
Un primo sguardo, che sarà trattato più dettagliatamente
in seguito, afferma che l’ambiente che dovrebbe considerarsi
per sua “natura” più aperto a ricevere contributi significativi
senza opporre alcuna distinzione o discriminante di genere,
quello universitario, applica con costanza una distinzione di
genere che pone “ai margini” della ricerca scientifica l’offerta culturale al femminile. Il resoconto di questa inaspettata
evidenza, è offerto da un’ampia ricerca statistica che ha valutato 5,4 milioni di ricerche pubblicate da autori di diversi
paesi tra il 2008 e il 2012. In questo lavoro di Vincent Lari1 Davide Barba ha scritto il primo e terzo paragrafo, Mariangela D’Ambrosio il secondo e il quarto.
vière, dell’Università di Montreal in Canada, realizzata insieme a un nucleo di ricercatori dell’Università dell’Indiana
a Bloomington2, si dimostra il paradosso che, a fronte di una
presenza femminile consistente, e in alcuni casi addirittura
superiore a quella maschile, la produzione scientifica sottoposta a valutazione esperta, dei ricercatori di sesso maschile,
è superiore di molto a quella dei ricercatori dell’altro sesso.
Questo dato è confermato anche dal numero di citazioni e,
soprattutto dagli articoli scientifici con coautori, il cui primo
nome è quello di un uomo. In più, in questo studio si è dimostrato che anche quando le donne hanno una posizione dominante nell’elaborazione di una ricerca scientifica, che trova
il suo sbocco in un articolo sottoposto a valutazione esperta,
queste - nell’ambito della comunità scientifica di appartenenza – ricevono un numero di citazioni minore di quelle
ricevute dai colleghi maschi, e accedono in percentuale no2 Larivière V., Ni C., Gingras Y., Cronin B., Sugimoto R. C., Global
gender disparities in science, in Nature, 12, 2013. Lo studio si riferisce,
nello specifico, agli articoli scientifici pubblicati tra il 2008 e il 2012 circa
5.483.841 di pubblicazioni. Rispetto alla parità di genere, questa aumenta
solo nei paesi con una minore produzione scientifica. Sono nove gli Stati
in cui più donne che uomini firmano le ricerche scientifiche pubblicate, tra
cui Macedonia, Lettonia, Sri Lanka, Ucraina e Bosnia-Erzegovina.
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ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
tevolmente ridotta a forme di collaborazioni internazionali.
Risulta però interessante il dato che conferma la presenza
delle donne in aree disciplinari come le scienze sociali, educazione e infermieristica, lì dove le hard science sono ancora
monopolio prevalente degli uomini.
UNO SGUARDO DI CONFINE: ISTRUZIONE E RICERCA
Donne e ricerca scientifica: un binomio non sempre privo di ostacoli, dimostrato dalle tante criticità che segnano
i percorsi delle donne nei sistemi della ricerca scientifica e
dell’innovazione.
Ambiti questi ultimi che costituiscono elementi di discussione sui quali concentrarsi in modo urgente ed incisivo, soprattutto nelle attuali condizioni di crisi economico-finanziaria. La necessità di rilanciare lo sviluppo e la competitività
dell’Europa e dell’Italia, infatti, non possono prescindere
dall’incremento della partecipazione delle donne, in particolare, in tali settori.3
Sebbene le donne rappresentino una quota considerevole
all’interno dei percorsi accademici, continuano a persistere
per loro delle resistenze che si esplicano nella difficoltà di
raggiungere posizioni apicali, in particolar modo della ricerca scientifica.
Anche secondo l’ultima edizione disponibile dell’indagine She figures4 pubblicata dalla Commissione Europea nel
2013, le donne in Europa rappresentano soltanto il 33% dei
ricercatori europei, il 20% dei professori ordinari e il 15,5%
dei direttori delle istituzioni nel settore dell’istruzione superiore.5
In generale, le donne rappresentano circa il 40% dei ricercatori nel settore dell’istruzione superiore, il 40% nel
settore delle amministrazioni pubbliche e il 19% nelle imprese. Mentre in tutti i settori il loro numero ha conosciuto
una crescita più rapida rispetto ai loro colleghi maschi6, le
ricercatrici incontrano ancora difficoltà nel raggiungere incarichi decisionali, con una media di una sola donna ogni due
uomini nei comitati scientifici e di gestione in tutta l’UE.7
3 Convegno nazionale, SCIENZA, GENERE E SOCIETÀ: A CHE PUNTO SIAMO? PROSPETTIVE DI GENERE IN UNA SCIENZA CHE SI
EVOLVE, Trento, 12 - 14 novembre 2014 intervento a cura di Ada Russo
e Alessandro Rizzo – Isfol.
4 She Figures 2012 è la quarta pubblicazione di una serie chiave di indicatori essenziali per comprendere la situazione delle donne nella scienza e
nella ricerca. Nel corso del tempo l’elenco degli indicatori utilizzati per descrivere la partecipazione delle donne a tutti i livelli e in tutte le discipline
scientifiche si è evoluto considerando l’istruzione superiore, il mercato del
lavoro, comprendendo l’equilibrio lavoro/vita familiare; e questo non solo
nei 27 paesi dell’UE, ma anche in Croazia, nell’ex Repubblica iugoslava di
Macedonia, in Islanda, Israele, Norvegia, Svizzera e Turchia. She figures
è prodotto dalla Commissione europea (Direzione generale per la ricerca e
l›innovazione e Eurostat) in collaborazione con i corrispondenti statistici
del gruppo di Helsinki «Donne e scienza».
5 Eurostat, She Figures, Gender in Research and Innovation, Directorate-General for Research and Innovation Directorate B — European Research, AreaUnit B.6 — Ethics and Gender, Bruxelles, 2012
6 Un aumento del 5,1% all’anno per le donne contro un aumento del 3,3%
per gli uomini dal 2002 al 2009.
7 Eurostat, She Figures, Gender in Research and Innovation, Directorate-General for Research and Innovation Directorate B — European Re8
She figures documenta inoltre che, sebbene la percentuale di studentesse universitarie (55%) e laureate (59%) abbia
superato quella degli uomini nel 2012, questi ultimi sono in
numero superiore tra gli studenti di dottorato e i dottori di
ricerca (le donne sono, rispettivamente, il 49% e il 46%).
La condizione italiana sembrerebbe confermare il trend.
Infatti, l’ultimo report sui laureati divisi per genere di AlmaLaurea 2012 testimonia che il 60,3% dei laureati sono donne,
che le stesse si laureano a 26,7 anni contro i 27,3 dei ragazzi;
che impiegano meno tempo (4,7anni contro 4,9 anni); che si
laureano di più in corso (40,3% contro 36,9%) e che ottengono voti più alti (104,1 contro 101,4).8
Al 31.12.2013, sul totale dei docenti di ruolo in tutti gli
Atenei Italiani ben 34.156 erano di sesso maschile contro i
19.290 di genere femminile.9
Ad esempio, nell’ateneo molisano, in tutti i settori disciplinari al 31.12.2013, risultavano 57 professori ordinari contro
4 di genere femminile; 92 professori associati contro 46 professoresse, ed infine risultavano essere ricercatori 38 maschi
e 31 donne.10
Dall’indagine Europea Iris emerge, inoltre, che le giovani italiane iniziano la loro carriera di studio con un giudizio
molto alto ottenuto alla maturità (87/100mi in media).11
In aggiunta, nella scala della carriera universitaria, che più
rappresenta la condizione di difficoltà femminile in ambito
accademico, le donne rappresentano il 44% dei ricercatori
con un dottorato nei primi gradi della carriera e soltanto il
20% dei ricercatori nei gradi più alti. L’insufficiente rappresentanza delle donne risulta ancora più evidente in campi specifici quali la scienza e l’ingegneria12 e nonostante la
percentuale di ricercatrici in Europa sia in aumento, la loro
presenza nelle discipline e carriere scientifiche rimane ancora insufficiente.
RICERCA E “VALUTAZIONI” DI GENERE
Continuerebbe ad esistere di fatto una differenza significativa, anche se leggermente indebolita, fra uomo e donna
nell’ambito della ricerca che si rivela già a partire dalle scelte
educative, alla quale si accompagna una dissomiglianza ulteriore a livello di percorsi di carriera successivi.13
search, AreaUnit B.6 — Ethics and Gender, Bruxelles, 2012
8 AlmaLaurea, Noè C., (a cura di), Genere e Scelte Formative, 2012
9 Banca dati on line dei docenti di ruolo (Ordinari, Associati e Ricercatori). Fonte MIUR al 31.12.2013
10 Banca dati on line dei docenti di ruolo Numero Totale dei docenti
di ruolo per Ateneo e Qualifica – Campobasso Unimol) Fonte MIUR al
31.12.2013.
11 Ibidem.
12 Commissione Europea, COMUNICATO STAMPA, Bruxelles, 5 aprile 2013
13 Negli ultimi decenni la tradizionale concezione del maschile e del
femminile come tratti ascritti degli individui ha subito un notevole indebolimento, sotto la spinta del pensiero costruttivista e della sua visione
del genere come prodotto sociale. E’ rivolta più attenzione al modo in
cui uomini e donne “fanno genere” e contribuiscono alla costruzione della
propria identità dando luogo ad un processo di reciproco posizionamento.
In Butler J., Gender Trouble, Routledge, London, 2004.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Il “Bibliometrics: Global gender disparities in science”
del 2014, il primo studio globale ed interdisciplinare dedicato alla disparità di genere proprio nei settori tecno-scientifici,
ha rilevato attraverso il Web of Science Database che più
del 70% delle firme degli oltre 5 milioni di articoli analizzati
fosse di genere maschile, contro il 30% delle donne14 e che
per ogni pubblicazione scientifica che ha una donna come
primo autore, ce ne sono due che hanno un uomo come prima
firma.15
A tal proposito, Paludi e Strayer hanno studiato come il
medesimo articolo scientifico venisse valutato diversamente
a seconda che si trattasse di autori donne o uomini16 tanto che
l’articolo accademico attribuito a dottori di genere maschile
veniva valutato più positivamente.
Trix e Psenka, hanno anche dimostrato come le lettere di
referenza per i dottorandi si differenziassero significativamente rispetto al sesso: per i maschi le lettere risultavano
essere più lunghe, dettagliate ed incentrate sull’eccellenza, mentre per le donne esse risultavano oltre che più brevi anche fondate sulla descrizione di capacità relazionali e
sull’impegno dimostrato.17
L’Eurostat già nel 2012 confermava, sempre nella ricerca She Figures, Gender in Research and Innovation, che in
Italia solo il 56,3% delle donne era inserito nel mondo della
ricerca contro il 63,7% rappresentato dagli uomini.18
Anche sulla scelta di studiare all’estero influirebbero motivi legati al genere: più accentuata per gli uomini: 16,6%
rispetto al 9,6% per le donne.19 In tutti gli ambiti disciplinari, anche in quelli caratterizzati da una maggiore presenza
femminile, la propensione degli uomini alla mobilità verso
l’estero è maggiore di quella delle donne.20
Le differenze d’istruzione devono essere lette anche pensando alle diverse aspirazioni occupazionali e al valore attribuito al lavoro: i giovani uomini sembrerebbero interessati
di più alle possibilità di guadagno, di carriera e al prestigio
14 Larivière V., Ni C., Gingras Y., Cronin B., Sugimoto R. C., Global
gender disparities in science, cit.
15 In linea con gli studi internazionali, Palomba studiando le differenze di genere al CNR, ha riscontato una diretta relazione tra produttività e
posizione accademica, riscontrando differenze maggiori al top della scala
di carriera. In Palomba R., (a cura di), Figlie di Minerva. Primo rapporto
sulle carriere femminili negli enti pubblici di ricerca italiani, Franco Angeli, Milano, 2000.
16 Paludi M. A., Strayer L. A., What’s in an Author’s name? Differential evaluation of Performance as a Function’s of Author’s name, in Sex
Roles, 12, 1985, pp. 353 - 361
17 Trix F., Psenka C., Exploring the color of glass: letters of recommendation for female and male medical faculty, in Discourse Soc., 14, 2003,
p. 191
18 Eurostat, She Figures, Gender in Research and Innovation, Directorate-General for Research and Innovation Directorate B — European Research, AreaUnit B.6 — Ethics and Gender, Bruxelles, 2012
19 L’area disciplinare del dottorato differenzia la propensione dei dottori alla mobilità verso l’estero. Migrano soprattutto i dottori di ricerca
nelle Scienze fisiche (31,5%) e nelle Scienze matematiche o informatiche
(22,4%), molto meno quelli che hanno conseguito un dottorato in Scienze
giuridiche (7,5%) o in Scienze agrarie e veterinarie (8,1%). Ibidem, p. 8
20 Ad esempio, tra i dottori di ricerca in Scienze biologiche, con la più
elevata presenza femminile (65,8%), si trova all’estero il 10,6% delle donne a fronte del 18,7% degli uomini. Ibidem, p.9
dell’occupazione mentre le donne sarebbero più attente alle
opportunità sociali e altruistiche connesse al lavoro.21
Il discorso, tuttavia, riprende il concetto di interiorizzazione delle aspettative sociali relative al ruolo giocato nel
contesto societario e agli stereotipi di genere: parte di queste preferenze sembrerebbero derivare proprio dai processi
culturali dominanti22, già a partire dal contesto scolastico
ed educativo. E’ il cosiddetto problema del “curriculum nascosto” che indirizzerebbe le donne verso ruoli stereotipati,
condizionando e compromettendo le reali preferenze e aspettative.23
Il genere supportato e approvato all’interno di un assetto sociale ed istituzionale così definito, viene di fatto creato quotidianamente attraverso una serie di interazioni che
tendono a definire e ridefinire gli incarichi professionali in
termini di ruolo sociale e di ruolo di genere.24
Gli stessi Gender Studies hanno sottolineato l’essenza del
genere inteso come non qualcosa “che si ha o che si è” quanto piuttosto come “quello che si fa”.25
Alla luce di quest’analisi, urge una riflessione socio-antropologica ed istituzionale che analizzi e promuova l’inserimento reale della componente femminile nei percorsi di
ricerca scientifica.
In termini generali, l’incoraggiamento alla presenza femminile nelle scienze viene per lo più analizzato attraverso tre
prospettive teoriche: la prima di tipo economico che richiama il concetto di massimizzazione del talento e delle capacità del genere femminile nel sistema istituzionale; la seconda
delle pari opportunità che si concentra sulle dinamiche di
disuguaglianza ossia di possibilità di accesso e di garanzie
nel sistema lavorativo;26 ed infine il tema della “diversità”
21 Daymont T., Andrisani P., Job preferences, College Major, and the
Gender gap in earnings in “Journal of Human Resources”, 19, 3, 1984,
pp. 408 - 428.
22 Hansen M., Social and economic inequality in the educational career:
Do the effect of social background characteristics decline? in “European
Sociology Review”, 13,3, 1997, pp. 305 - 321.
23 Eccles J., Hoffman L., Sex Differences in Preparation for Occupational Roles, in H. Stevenson & Siegal (a cura di), Child Development and
Social Policy, University of Chicago Press, 1984, pp. 367 - 420
24 Si veda, a tal proposito, la differenza fra ruolo sociale e ruolo di genere. Il ruolo sociale è l’insieme dei modelli di comportamento attesi, degli
obblighi e delle aspettative che convergono su un individuo. Il ruolo di genere va inteso, invece, come l’insieme di quei modelli che includono comportamenti, doveri, responsabilità e aspettative connessi alla condizione
maschile e femminile e oggetto di aspettative sociali a cui uomini e donne
sono chiamati a conformarsi (doppia dimensione del ruolo: aspettativa e
normativa). Inoltre, il ruolo di genere richiama i comportamenti verbali e
non che servono a definire socialmente il genere di appartenenza. Ruspini
E., Identità di genere, Carocci, Roma, 2009, p. 22
25 Si veda il concetto di Candace West e Don Zimmerman (1987) secondo cui il genere è una routine, una realizzazione sistematica e ricorrente ed
il “fare genere” un insieme di attività a livello sociale. Ancora il concetto
di genere come “atto performativo” ovvero qualcosa che si fa, e che facendo si riproduce nel tempo. In Butler J., Performative Acts and Gender
Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, Theatre
Journal, 40/4, 1988, pp. 519 - 531
26 Si pensi alla Carta per le donne, come programma di lavoro stratetico
per migliorare le condizioni lavorative del genere femminile in UE - Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 come programma di lavoro stratetico per migliorare le condizioni lavorative del genere femminile
in UE. Inoltre, La Commissione europea ha avviato, lo scorso ottobre, la
9
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
secondo cui le donne sarebbero portatrici di cambiamenti significativi
nella ricerca scientifica.27
Alle donne sono
riconosciute, infatti, pensiero divergente, capacità
multitasking, creatività,
problem
solving,
risorse
spendibili nel percorso innovativo
d’indagine.
Purtroppo, però,
esistono
alcune
criticità di fondo
tra le quali: la presunta idea di gender blindness of
science, cioè la “cecità nei confronti del genere all’interno
dell’ambito scientifico” che si traduce in un’attività eliminatoria della consapevolezza di genere e che diventa vero
e proprio esercizio di controllo da parte di strutture culturali e organizzative (soprattutto per mezzo di pratiche che
spersonalizzano e oggettivizzano);28 la tesi del pipeline29 (o
l’effetto coorte), secondo cui il problema risiederebbe nella
scarsa quantità di donne che preferiscono accedere ai percorsi formativi in ambito scientifico e tecnologico.30
Questa condizione sembrerebbe aggravata dal cosiddetto
chilly climate per cui le donne incontrerebbero un clima gelido all’interno degli ambienti legati alla ricerca accademica
– scientifica: non si tratterebbe di comportamenti discriminatori quanto di meccanismi apparentemente neutri che sono
agiti a favore degli uomini.31
Da uno studio dell’ISTAT del 2014, condotto sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca in Italia (che
hanno conseguito il titolo nel 2008 e 2010 in una Università
italiana), emerge una più elevata occupazione tra i dottori
delle Scienze matematiche e informatiche e dell’Ingegneria
industriale e dell’informazione (oltre il 97% lavora a sei anni
dal dottorato e oltre il 95% a quattro anni); risulta più bassa,
campagna triennale “Science: it’s a girl thing” per incoraggiare le ragazze
ad accostarsi allo studio di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.
27 Jasanoff S., Markle G. E., Petersen J. C., Pinch T. (eds.), Handbook of
Science and Technology Studies, Sage Publications, Thousand Oaks, 1995.
28 Maddock S., Parkin D., Gender Cultures: Women’s choices and strategies at work, “Women in Management Review”, 8, 2, 1993, pp. 3-9.
29 Termine coniato da Sue Berryman nel 1983. Solo però con l’articolo di
Joe Alper sulla rivista Science, acquista notorietà e credibilità scientifica.
30 Si veda la percezione del rischio nel genere femminile: per le donne
alcuni lavori e professioni sembrerebbero più pericolose ed impegnative
rispetto ad altre. Es: Ingegneri Edili; chimici.
31 Cherubini A. M., Colella P., Mangia C., (a cura di), Empowerment e
orientamento di genere nella scienza. Dalla teoria alle buone pratiche,
Franco Angeli, Milano, 2011, p. 22
10
invece, tra i dottori delle Scienze
storiche, filosofiche, pedagogiche
e psicologiche (intorno all’88% in
media).32
RICERCA
SCIENTIFICA
E BISOGNO DI
PARITÀ
Anche nelle decisioni delle donne
che hanno ottenuto
lauree in materie
scientifiche si avvertirebbe, comunque, una “inautenticità di genere”
che le porterebbe
sempre più ad abbandonare i settori della ricerca scientifica.33
Riguardo l’occupazione, tra le donne il lavoro a termine
è molto più diffuso che tra gli uomini, con una differenza
di circa dieci punti percentuali. Nella coorte di dottori del
2008 ha un lavoro a termine il 48,6% delle donne occupate,
rispetto al 38,5% degli uomini; nella generale crescita del
lavoro precario il distacco di genere si mantiene nella coorte
del 2010: 57,6% di donne, rispetto al 48,4% di uomini.34
Sempre secondo la metafora del leaky pipeline35 (“tubo
che perde”), esistono pratiche discriminatorie all’interno di
tutto il percorso di carriera, anche nelle fasi iniziali nel raggiungimento di posizioni apicali. Infatti, nel tubo che perde
“gocciolano via” e vengono perdute costantemente le risorse
umane femminili, con una diminuzione continua della probabilità di arrivare al top management.36 Diversi gli elementi
critici che influenzano il processo lavorativo accademico:
mancanza di supporto all’inizio della carriera (mentoring
inesistente); rischio di non riuscire a rimanere nelle carriere
32 Le aree disciplinari associate ai redditi più alti sono le Scienze mediche, Scienze fisiche, Ingegneria industriale e dell’informazione, Scienze
economiche e statistiche e Scienze giuridiche: a sei anni dal conseguimento del titolo il reddito netto mediano mensile supera i 1.900 euro. Più contenuti (in media tra 1.400 e 1.450 euro) sono invece i redditi dei dottori in
Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico artistiche e in Scienze
storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche. ISTAT, L’inserimento
professionale dei dottori di ricerca, Anno 2014
33 Faulkner W., Nuts and Bolts and People: Gender-Troubled Engineering Identities, in Social Studies of Science, 37(3), 2007.
34 Una quota complessivamente modesta, pari al 14,3% degli occupati,
lavora con regime orario part-time (il 19,5% delle donne e il 9,3% degli
uomini). Ibidem.
35 Si vedano: Berryman, 1983; Alper, 1993; Svinth, 2006
36 Esiste quindi una segregazione di tipo non solo orizzontale legata allo
stereotipo ma anche verticale collegata alla difficoltà di raggiungere posizioni scientificamente rilevanti. In Guglielmi S., Falcinelli D., (A cura
di), Donne al lavoro in R&ST. I percorsi, le aspettative e gli ostacoli per
le donne impegnate nella ricerca. Un’analisi qualitativa, 2010, p. 19 - 20
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
scientifiche nel momento in cui si decide di avere un figlio;
rischio di disinvestire a causa delle aspettative non soddisfatte di carriera; rischio di isolamento ed esclusione a fine
carriera.37
Un elemento utile per comprendere la natura del tipo di
lavoro svolto ed il conseguente livello raggiunto, seguendo
la differenza di genere, è rappresentato dalla possibilità per
i dottori di svolgere attività di ricerca e sviluppo nell’ambito dell’attività lavorativa: nel 2010 solo il 38,2% di donne
contro il 42,5% dei maschi riusciva a conciliare ricerca e lavoro.38
Dal rapporto ISTAT, inoltre, si evince anche che la soddisfazione generale delle donne rispetto all’attività lavorativa intrapresa dopo il conseguimento del titolo di dottore
di ricerca nel nostro Paese, risulta influenzata da elementi
negativi quali il grado di autonomia e le mansioni svolte, la
possibilità di carriera e la sicurezza del lavoro.39
Lo confermano i dati: le donne ricercatrici hanno sistematicamente redditi da lavoro più bassi degli uomini, anche per
una maggiore propensione a regimi orari ridotti. Il 19,5%
delle lavoratrici ha un lavoro part-time, rispetto al 9,1% dei
lavoratori mentre il numero medio di ore lavorate settimanalmente è pari a 35,5 per le donne, a 40 per gli uomini.
L’area delle Scienze mediche è quella in cui si registrano
le maggiori disuguaglianze di genere con differenziali che,
per la coorte del 2008, vedono il reddito netto mediano mensile degli uomini superare quello delle donne di 660 euro.40
Esisterebbero anche quelle che Reskin definisce “code
occupazionali” ossia alle donne è permesso di accedere a
posizioni manageriali o ad avere ruoli di responsabilità solo
quando, a parità di qualifiche e competenze, i colleghi maschi sono già occupati in posizioni di rilievo o promossi.41
La Kanter riteneva tali meccanismi insiti nella società
stessa che opera sul genere femminile una pressione di tipo
occupazionale che interviene nella scelta dei percorsi formativi e di carriera,42 unita ad una scarsità di politiche sociali
effettivamente inclusive per le donne.
In particolare, nella realizzazione del differenziale di potere fra uomo - donna esisterebbe un sistema di cooptazione
attraverso il quale nelle organizzazioni si tenderebbe all’omologazione e a promuovere la riproduzione “omosociale”
(homosociability): i dirigenti uomini, cercando dei propri
37 Ibidem, p. 21
38 La quota è più bassa tra le donne: 3 su 10 sono impegnate in attività
lavorative per nulla connesse alla ricerca.
39 Il divario più elevato si riscontra rispetto alla possibilità di carriera
offerta alle donne (in una scala da 0 a 10 le donne esprimono un punteggio
medio pari a 5,1, gli uomini un punteggio pari a 5,6) e alla stabilità e sicurezza del posto di lavoro (5, per le donne e 6,1 per gli uomini). ISTAT,
L’inserimento professionale dei dottori di ricerca, Anno 2014, pp.5-7
40 ISTAT, L’inserimento professionale dei dottori di ricerca, Anno
2014, p.7
41 Reskin B., Scientific Productivity, Sex and Location in the Institution
of Science, in American Journal of Sociology, 83, 1978. Reskin B., Bringing the Men Back in Sex Differentiation and the Devaluation, of Women’s
Work, Gender&Society 2(1), pp. 58-81, 1988
42 Kanter R. M., Men and women of the corporation, Basic Books, New
York, 1977.
simili, faciliterebbero e sponsorizzerebbero l’ingresso di uomini nel gruppo compatto del management.43
A ciò si aggiunge l’ormai nota metafora del glass ceiling
(soffitto di cristallo) immagine popolare per riferirsi alle barriere invisibili che le donne incontrano nel fare carriera. Tali
barriere funzionano da sbarramento a dispetto di competenze
e performance e si accompagnano ai cosiddetti gender schema44 e agli stereotipi di genere.45
Sembrerebbe che le organizzazioni, non solo quelle scientifiche, abbiano un carattere gendered in quanto attuerebbero
sia una segregazione orizzontale che verticale che si esprimerebbe in termini di penalizzazioni quali: l’isolamento e la
funzione totemica delle poche donne ai vertici; la marginalità e l’esclusione dai processi decisionali.46
Altresì, alla donna sembrerebbe assegnato tutto il lavoro di
cura e della presa in carico dell’intero sistema famiglia, non
solo di quello legato alla maternità.
Tale attribuzione asimmetrica delle responsabilità familiari, mal si combinerebbe con i tempi lavorativi a causa della
carenza di misure conciliative quali l’offerta pubblica di servizi, l’organizzazione dei tempi e degli orari, delle politiche
sociali in generale.
Questi dati e questi orientamenti, sembrerebbero confermare la teoria dell’accumulazione dei vantaggi e degli svantaggi secondo la quale il soffitto di vetro appare il risultato di
piccole condizioni sfavorevoli che si sommano e che creano,
nel tempo, uno svantaggio significativo nell’intera vita professionale delle donne.47
Per questi motivi, si ritiene che le donne debbano e possano ottimizzare le proprie potenzialità indirizzandole verso
la difesa della propria passione e della propria motivazione,
43 Questo concetto richiama il fenomeno dell’old boys network che limita l’accesso delle donne ai gruppi di ricerca a causa di accordi taciti tra
uomini ricercatori.
44 Il gender schema è quel frame cognitivo (positivo, negativo o neutrale) necessario, senza il quale non saremmo in grado di mettere insieme
le infinite informazioni a cui accediamo quotidianamente e senza il quale
non potremmo formulare alcuna generalizzazione o dare senso al mondo sociale. Gli schemi più rilevanti, nella percezione della competenza
professionale di uomini e donne, sono gli schemi di ruolo: quelli associati, per esempio, alle figure dell’avvocato, del professore, del padre, della
donna. Come la lista suggerisce alcuni ruoli sono professionali (avvocato,
professore), altri si riferiscono al ruolo familiare (padre); altri ancora si
riferiscono al ruolo che un individuo gioca nella società nel suo complesso
(la donna). Ma la scienza è maschile? Uno studio di Sonnert e Holton del
1995, ha evidenziato come su 699 donne e uomini scienziati con percorsi
di successo, più della metà degli intervistati pensavano che le donne facessero scienza diversamente: l’essere inclini al lavoro più ampio e sintetico;
avere un approccio più cauto e meticoloso; prestare maggiore attenzione ai
dettagli e scegliere differenti aree di ricerca. In Guglielmi S., Falcinelli D.,
(A cura di), Donne al lavoro in R&ST. I percorsi, le aspettative e gli ostacoli per le donne impegnate nella ricerca. Un’analisi qualitativa, 2010
45 Interessanti sono anche le teorizzazioni di Robert K. Merton intorno
all’Effetto San Matteo (1968) e all’ Effetto Matilda di Margaret Rossiter
(1995). Entrambe si rifanno al mancato riconoscimento del contributo delle donne alla scienza.
46 In Guglielmi S., Falcinelli D., (A cura di), Donne al lavoro in R&ST. I
percorsi, le aspettative e gli ostacoli per le donne impegnate nella ricerca.
Un’analisi qualitativa, 2010, p. 23
47 Merton Robert K., The Matthew Effect in Science, in: Science, 159,
1968. Merton Robert K., The Sociology of Science. Theoretical and Empirical Investigations, Chicago University Press, Chicago, 1973
11
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
riconoscendosi la possibilità auto legittima e il diritto-dovere
di cambiare l’ordine delle cose. Specularmente, si dovrebbe intervenire sulla creazione di una reale rete di supporto
istituzionale alle ricercatrici; su trasformazioni organizzative
e politiche in relazione ai percorsi di carriera delle donne;
sull’attuazione di politiche di pari e vere opportunità; sugli
interventi di promozione del cambiamento culturale.
In particolare, si dovrebbero favorire tempi di lavoro coerenti con le esigenze di cura/famiglia; attuare misure di sostegno alla mobilità e all’internazionalizzazione delle donne;
promuovere e creare consulenza per il career-development;
eliminare e decostruire gli stereotipi e gli schemi di genere
operanti nelle organizzazioni; sensibilizzare, formare e promuovere il diversity management.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Tertium non datur
ALESSANDRA MAZZEO
Università degli Studi del Molise
L’
università italiana si sta
preparando alla Terza
Missione.
In antitesi con quanto
evoca la denominazione,
essa non ambisce a più ampi orizzonti da conquistare, ma rinsalda lo “stare con i piedi per terra”,
attraverso la valutazione delle attività che inducono effetti benefici, diretti e tangibili, sulla società e sul territorio. Tali sono le attività culturali e
sociali, oltre che quelle di valorizzazione economica della conoscenza legate all’industrializzazione, all’internazionalizzazione delle imprese e
all’occupazione, che generano ricadute economiche in grado di spalmare generosamente progresso, sviluppo e benessere sociale.
Nell’attuale panorama accademico nazionale, la definizione dei criteri per la valutazione della Terza Missione è
un argomento ostico, sul quale il dibattito è necessario, ma
insidioso.
Nell’intento di circoscriverne gli ambiti, l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) si è adoperata per districare il ginepraio interpretativo già dal 2013, in un workshop il cui documento
di lavoro [1] è stato redatto nell’intento di “contribuire al
percorso con il quale la legge prevede la pubblicazione, ogni
due anni, del Rapporto sullo stato delle università e della
ricerca”, aprendo un “percorso di confronto … allo scopo di
giungere a definizioni condivise e affidabili degli indicatori”.
Il documento procede specificando che “per terza missione si
deve intendere l’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società, fornendo
un contributo che accompagna le missioni tradizionali di insegnamento e di ricerca. Esistono molte modalità con cui la
terza missione prende forma ... È utile tuttavia condividere
una prima distinzione tra: a) terza missione di valorizzazione economica della conoscenza; b) terza missione culturale
e sociale ”.
Rispetto al significato attribuito alla valorizzazione economica della conoscenza, l’obiettivo della Terza Missione è inteso come “crescita economica attraverso la trasformazione
della conoscenza prodotta dalla ricerca in conoscenza utile
ai fini produttivi”, prendendo “atto che la conoscenza prodotta dalla ricerca richiede ulteriori attività di contestualizzazione e applicazione prima di dispiegare potenziali effetti
virtuosi sul sistema economico”.
Rispetto al significato culturale e sociale, l’obiettivo della
Terza Missione è inteso come produzione “di beni pubblici che aumentano il benessere della società, … a contenuto
culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali,
scavi archeologici, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio della comunità, consulenze
tecnico/professionali fornite in equipe), educativo (educazione degli adulti, life long learning, formazione continua) o
di consapevolezza civile (dibattiti e controversie pubbliche,
expertise scientifica) … per la fruizione dei quali non è pre13
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
visto il pagamento di un prezzo o, in ogni caso, di un prezzo
di mercato”.
La recente pubblicazione online del documento La valutazione della terza missione nelle università italiane - Manuale
per la valutazione [2], il cui testo è posto in consultazione
pubblica fino al 15 marzo 2015, data entro la quale viene data
l’opportunità di inviare commenti e proposte di integrazione
o modifiche, riporta esplicitamente che “la valutazione della
terza missione è un processo graduale, che richiederà alcuni
anni per la messa a regime”.
I gruppi di lavoro che, a livello europeo, sono stati incaricati di definire i criteri e i parametri per la valutazione
della Terza Missione universitaria hanno ravvisato analoga
complessità delle interazioni da considerare e la necessità di
studio approfondito e diacronico, giungendo per ora all’elaborazione del Green Paper e dei relativi corollari [3-7],
pur se l’approccio, almeno al più facilmente quantificabile
trasferimento tecnologico (TT) inteso come valorizzazione
economica della conoscenza, è stato avviato per tempo.
L’Unione Europea, infatti, si è impegnata attivamente nella soluzione di quello che si era profilato, alla fine del secondo millennio, come il paradosso europeo, ossia la ridotta capacità, rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, di trasformare
le conoscenze scientifiche in nuovi prodotti e processi capaci
di favorire l’incremento dell’occupazione e lo sviluppo industriale ed economico, predisponendo parte del cammino che
la Terza Missione oggi è chiamata a compiere puntualmente
e sulla cui efficacia l’università sarà valutata.
· Nel 1995, su decisione della Commissione Europea, fu
creata la rete dei centri di collegamento per l’innovazione,
l’Innovation Relay Centres Network, con l’obiettivo di realizzare una piattaforma europea che facilitasse l’applicazione
industriale dell’innovazione basata sulla ricerca.
· La strategia elaborata nella sessione straordinaria del
Consiglio Europeo, tenuta a Lisbona nel marzo 2000, aveva
fissato l’obiettivo di fare dell’Unione Europea la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010 e
individuava i temi della conoscenza come portanti per l’innovazione e l’imprenditorialità, il welfare, l’inclusione sociale, il lavoro.
· The Oslo Agenda for Entrepreneurship Education in Europe, 2006 [8], la Risoluzione 2011/C 161 E/15 del Parlamento Europeo del 20 maggio 2010 sul dialogo universitàimprese Un nuovo partenariato per la modernizzazione delle
università in Europa, la Relazione della Commissione al
Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico
e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni del 2014 Research and innovation as source of renewed growth [9] e il
Report 2013 sullo Stato dell’Unione dell’Innovazione [10]
sollecitano, tra l’altro, azioni mirate ad aumentare il numero
di ricercatori e a facilitarne l’acquisizione di competenze manageriali, anche attraverso l’attivazione di corsi specifici sin
dalle scuole di grado inferiore, nell’intento di stimolarne la
specializzazione nel TT e l’inclinazione all’imprenditorialità
14
e all’interlocuzione con le imprese.
· La Raccomandazione 2008/416/CE relativa alla gestione della proprietà intellettuale nelle attività di trasferimento
delle conoscenze e al codice di buone pratiche destinato alle
università e ad altri organismi pubblici di ricerca [11] auspicava, già nel 2008, tempestive azioni mirate alla concessione di incentivi e riconoscimenti economici e di carriera
ai ricercatori universitari dediti al trasferimento tecnologico,
finalizzato all’incremento delle attività imprenditoriali direttamente derivate dalla ricerca universitaria.
· Il programma Horizon-2020 (H2020), infine, pone una
forte enfasi sul concetto di innovazione, inteso come necessità di portare sul mercato prodotti, servizi, processi nuovi
o migliorati, attraverso la formulazione di proposte di successo imprescindibilmente basate sull’adozione di metodologie tipiche delle realtà aziendali, come per Innovative
Action, SMEs Instrument, Fast Track, ERA-NET per la ricerca traslazionale e Innovative Medicines Initiative (IMI)
supportata, preferenzialmente, dalla collaborazione con le
grandi industrie farmaceutiche aderenti all’European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations
(EFPIA). La proprietà intellettuale (o Intellectual Property,
indicata universalmente con l’acronimo IP) e il relativo TT
assumono, nei progetti da presentare nell’ambito di H2020,
una grande importanza, testimoniata sia nella Guide to IP in
H2020 [12], che da azioni quali Healt2Market, finanziata
direttamente dalla Commissione Europea allo scopo di fornire i necessari servizi connessi al TT, per la trasposizione
dei risultati conseguiti con le attività di ricerca in risultati
commercializzabili.
In Italia, il percorso tracciato dall’Unione Europea per
consentire di porre le basi di una forte capacità innovativa
dell’università non è stato pedissequamente seguito e molte
delle indicazioni suggerite non hanno trovato un efficace riscontro applicativo.
Attualmente, l’Innovation Union Scoreboard 2014 [13]
pone l’Italia tra gli innovatori moderati, intesi come gli Stati membri dove la performance di innovazione è inferiore
del 50%-90% rispetto alla media europea, e i ricercatori
italiani accusano scarsa capacità di accedere ai fondi europei stanziati per la ricerca, in particolare nel settore Health,
Demographic Change and Wellbeing - come sottolinea la
professoressa Angela Santoni, rappresentante per l’Italia nel
comitato H2020 [14] - sempre più spesso e più tenacemente
collegati alla capacità di inserire nei progetti l’innovazione
tecnologica industrializzabile.
Benoît Battistelli, Presidente dell’European Patent Office
(EPO), nella presentazione del rapporto annuale EPO del 26
febbraio scorso [15], sottolinea come il ruolo dei settori industriali ad alto contenuto di tecnologie protette da brevetti
costituisca una solida base per l’economia della conoscenza
nella UE ed esprime soddisfazione per il record di deposito
di domande del 2014: 274.174 richieste, delle quali il 35 %
proveniente da Stati membri della UE, con un incremento
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del 3,1% rispetto all’anno precedente e una crescita continua per il quinto anno consecutivo; una forte presenza di
richieste nel settore delle tecnologie mediche, con 11.124
domande e un incremento del 3,2%; la maggiore crescita (+
12,1%) registrata nel settore delle biotecnologie; il 6% delle
domande presentate, circa 16.450, proveniente dalle università europee. Come conseguenza della mole di documenti da
processare, L’EPO continua a riformare le procedure interne
perseguendo il miglioramento della qualità e dell’efficienza
dei servizi offerti, tanto che è stato il primo patent office ad
ottenere la certificazione ISO 9001. La riforma più importante sarà l’approvazione del Brevetto Unico Europeo, ormai
nella fase finale.
L’Italia non è allineata ai risultati dell’EPO: il numero di
domande di brevetto italiane presentate nel 2014 è aumentato
dello 0,5%, facendo registrare il primo incremento dal 2010;
resta in undicesima posizione nella UE per numero di domande depositate e diciannovesima per numero di domande
in rapporto al numero di abitanti; registra un calo del 3,3%
del numero di brevetti concessi rispetto al 2013, con 2.274
brevetti contro i 4.728 ottenuti dalla Francia e i 13.086 della
Germania, che pur mostrando un calo paragonabile, hanno
numeri molto più importanti; è ancora esclusa dalla procedura del Brevetto Unico Europeo [16].
L’ANVUR è molto cauta nell’interpretazione dei dati relativi ai brevetti e ritiene “necessario assicurare una definizione comprensiva del concetto di trasferimento tecnologico, non limitandolo alle attività di brevettazione e di imprenditorialità accademica, ma estendendolo alle molteplici
attività attraverso le quali
la conoscenza originale
prodotta dalle università …
viene trasformata e resa disponibile alla società e al sistema economico”. Il citato
Manuale non prende una posizione netta rispetto all’importanza dell’IP sottesa al
trasferimento tecnologico,
lasciandola su un piano non
preminente nel novero delle
attività di Terza Missione e
indica che nel “caso dei brevetti, l’unità di osservazione
è la “famiglia brevettuale”,
definita come l’insieme della
documentazione relativa ad
un’unica invenzione per la
quale siano state depositate
domande di brevetto presso
più uffici nazionali ed internazionali. I confini della documentazione sono dati da
riferimenti comuni o collegati ad un documento “prioritario”, identificabile con la prima domanda depositata in
ordine cronologico”. Sarebbe utile valutare, invece, i progressi compiuti dall’università nel lungo iter necessario per il conseguimento e il
mantenimento in forza dei titoli di proprietà intellettuale ed
evidenziare le differenze tra le procedure poste in essere dalle varie strutture sottoposte a valutazione.
La differenziazione delle procedure potrebbe essere abbozzata sulla base di alcune considerzioni:
- la domanda di primo deposito generalmente non è una
pubblicazione, ovvero non è resa accessibile al pubblico
per evitare che, in caso di mancata concessione del brevetto, il suo contenuto possa essere liberamente utilizzato
da terzi;
- le domande di entrata in fase nazionale non costituiscono garanzia di concessione di brevetto;
- in analogia con la pubblicazione di articoli su riviste
internazionali, che spesso riguardano un unico filone di ricerca sviluppato dal ricercatore con pubblicazioni che ne
completano il quadro nel tempo, così le famiglie di brevetti comprendono alcune pubblicazioni che costituiscono un
ampliamento della valenza dell’invenzione e dovrebbero
rientrare nel novero dei prodotti di IP da rilevare ai fini
della valutazione;
- l’attuazione dell’invenzione è un criterio imprescindibile per il mantenimento dell’esclusività delle produzioni
connesse al brevetto, quindi va controllata nel tempo per
verificare che non siano stati elisi i diritti derivanti dai titoli
di proprietà intellettuale;
- le fasi che scandiscono l’attività brevettuale sono:
15
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·l’emissione dell’International Search Report - Written Opinion con parere favorevole alla concessione
di brevetto;
·la pubblicazione dei brevetti concessi nei singoli
Paesi;
·la pubblicazione delle note relative al termine del
periodo di opposizione, da parte di terzi, ai brevetti
concessi;
·l’attuazione dell’invenzione oggetto dei brevetti
concessi, eseguita entro i termini fissati dal Codice
della Proprietà Industriale.
Sarebbe opportuno, conseguentemente, rilevare separatamente le pubblicazioni di seguito indicate, ciascuna da collocare nel relativo periodo sottoposto a valutazione:
a) la prima pubblicazione che risulti corredata da un rapporto che esprime giudizio positivo per la brevettazione, alternativamente rappresentata da:
- pubblicazione della prima domanda di deposito,
corredata dal Rapporto di Ricerca con Opinione
Scritta trasmesso dal Ministero dello Sviluppo Economico - Ufficio Italiano Brevetti e Marchi sulla
base della documentazione fornita dall’European
Patent Office;
-pubblicazione WIPO/PCT, corredata dall’International Search Report – Written Opinion trasmessi
dall’International Searching Authority del Patent
Cooperation Treaty (PCT), generalmente rielaborata sulla base delle obiezioni eventualmente riportate nel primo Rapporto di Ricerca;
b)almeno uno dei brevetti pubblicati all’atto della con16
cessione, rielaborati sulla base delle modifiche richieste dai singoli patent office e in particolare dall’EPO e
dall’United States Patent and Trademark Office, che
richiedono intenso e lungo lavoro di revisione, da concordare con gli esaminatori, che risulta in differenze
dei brevetti concessi, riscontrabili nei testi, nelle rivendicazioni e spesso anche nei titoli;
c) almeno una pubblicazione relativa alla notifica del termine del periodo di opposizione, da parte di terzi, al
brevetto concesso;
d)almeno una pubblicazione cartacea o online di catalogo commerciale contenente uno o più prodotti protetti
dal brevetto, che attesti l’attuazione dell’invenzione.
Il documento ANVUR procede specificando che, nell’ambito del TT, vi è la necessità di raggiungere un buon equilibrio negli interessi, a volte conflittuali, tra pubblico e privato.
Esso specifica che la “buona gestione della valorizzazione
richiede il riconoscimento esplicito della diversità … rispetto all’università … di soggetti privati orientati al profitto, le
cui logiche strategiche e operative sono diverse da quelle del
settore pubblico … Per questa ragione una buona valorizzazione della ricerca suppone la messa in campo di regolamenti interni e schemi di collaborazione esterni che regolino
dettagliatamente i confini e le sovrapposizioni tra interesse
pubblico e interesse privato, allo scopo di consentire ad ogni
soggetto di collaborare senza rinunciare alle proprie specificità”. In modo analogo, il Green Paper raccomanda una
gestione “generosa” del portafoglio di IP, che non va intesa
nella finalità di generazione di profitto per l’università, ma
piuttosto nel senso dell’utilità per la società. È esplicito che
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l’università, a fronte di tale “generosa” gestione, vedrà il riconoscimento di una quota premiale, ritenuta necessaria per
favorire l’adozione e il consolidamento di questa ulteriore
direzione in cui muovere le attività accademiche sottoposte a
meccanismi di valutazione.
Una parallela valutazione di merito non è stata adottata per
i ricercatori. Nelle aree disciplinari 1-9, il merito scientifico,
almeno per le finalità strettamente connesse al reclutamento,
alla progressione di carriera universitaria e all’incentivazione prevista dalla L240/2010, è valutato su base bibliometrica
e ciò induce a finalizzare la ricerca universitaria alla diffusione dei risultati nell’ambito della comunità scientifica internazionale.
La terza possibilità, ovvero il diritto del personale universitario dedito alla ricerca ad assumere un ruolo attivo e gratificante nella concretizzazione della Terza Missione relativa
al TT, ad oggi non è stata offerta, tertium non datur.
La premialità - intesa come finanziamento della ricerca e
come titolo valutabile ai fini delle progressioni di carriera
e dell’incentivazione - sarebbe importante non solo per accertarsi di lavorare nella direzione realmente avallata dalle
istituzioni, ma soprattutto per porsi con la dovuta autorevolezza nell’indirizzare la ricerca verso i nuovi traguardi
stabiliti, tamponando la radicalizzazione del protagonismo
vantato dalle professionalità che operano a latere del ricercatore e che, pur essendo indispensabili, non configurano le
peculiarità tecnico-scientifiche dei risultati, inducendo un
arretramento della posizione dei ricercatori nella prospettiva manageriale auspicata dalla UE. Il suddetto Manuale, a
tale proposito, sottolinea che “l’esperienza suggerisce che il
trasferimento tecnologico che non coinvolge attivamente i
ricercatori è destinato al fallimento … la valorizzazione non
può essere realizzata dai ricercatori senza il supporto di personale tecnico-amministrativo di elevata professionalizzazione e senza la sistematica interazione con soggetti esterni.
L’esperienza internazionale suggerisce che tra ricercatori e
strutture di ateneo per la valorizzazione si viene a creare una
relazione dialettica, non una subordinazione … la struttura
tecnico-amministrativa non si deve porre come una sovrastruttura burocratica, ma come una struttura di servizio e
facilitazione”.
Negli Stati Uniti le donne sostengono tenacemente le attività di TT, impegnandosi a stimolare la correlazione tra accademia e imprenditoria. Sono attive in organizzazioni che
aiutano l’upgrade nelle carriere scientifiche, l’assunzione
di ruoli manageriali nelle connesse attività imprenditoriali e
l’assunzione di cariche di prestigio all’interno delle aziende. Sono supportate da blog, prodotti editoriali, associazioni
come Women in Bio (WIB) [17], Women Lead [18], Leading Women [19]. Le associate si intersecano in procedure
di mentoring, dove ognuna può essere sponsorizzata da una
donna che ha già raggiunto livelli più elevati di carriera e,
a sua volta, è mentore di un’associata più giovane che guida sapientemente, trasferendole le competenze acquisite e
sensibilizzandola sulle insidie fronteggiate nelle esperienze
vissute.
LINK
1. http://anvur-miur.cineca.it/eventi/index.php/showevento/28
2. http://www.anvur.org/attachments/article/26/M~.pdf
3. http://www.e3mproject.eu/docs/Green%20paper-p.pdf
4. http://www.e3mproject.eu/docs/Delphi-E3M-project.pdf
5. http://www.e3mproject.eu/docs/State-art-method-ranking-HE-act.pdf
6. http://www.e3mproject.eu/docs/Three-dim-third-mission-act.pdf
7. http://www.e3mproject.eu/docs/Concep-Framework-Third-Mission-Indicator.pdf
8. http://ec.europa.eu/enterprise/policies/sme/files/support_measures/training_education/doc/oslo_agenda_final_en.pdf
9. http://ec.europa.eu/research/innovation-union/pdf/state-of-the-union/2013/research-and-innovation-as-sources-ofrenewed-growth-com-2014-339-final.pdf#view=fit&pagemode=none
10. http://ec.europa.eu/research/innovation-union/pdf/state-of-the-union/2013/state_of_the_innovation_union_
report_2013.pdf#view=fit&pagemode=none
11. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32008H0416&from=IT
12. https://www.iprhelpdesk.eu/sites/default/files/documents/EU_IPR_Guide-to-IP-H2020.pdf
13. http://ec.europa.eu/enterprise/policies/innovation/files/ius/ius-2014_en.pdf
14. http://www.apre.it/ricerca-europea/horizon-2020/rappresentanti-comitato-h2020/
15. http://www.epo.org/about-us/annual-reports-statistics/annual-report/2014/foreword.html
16. http://www.epo.org/about-us/annual-reports-statistics/annual-report/2014.html
17. http://www.womeninbio.org/
18. http://www.womenleadinc.com/landingpage/
19. http://www.leadingwomen.biz/
17
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Donne in ricerca
DANIELA GRIGNOLI
Dipartimento di Economia, Gestione, Società e Istituzioni, Università degli Studi del Molise
I
1. LA PARITÀ NELLE SOCIETÀ EVOLUTE
l “corso della storia dell’umanità” discende da una
socialità tra gli esseri umani che non conosce disuguaglianze, né discriminazioni, si origina dalle
società simbolo di inclusione sociale sia per l’elevata estensione dell’uguaglianza, e sia per l’organizzazione del lavoro articolata su una forma di
divisione tra i sessi.
Nel corso del tempo, queste forme di socialità
umana sono, in un primo momento, abbandonate
a favore di organizzazioni societarie fondate su un
sistema di disuguaglianze e di esclusione sociale
che “raggiungono il massimo con le grandi civiltà
agricole” e, in seguito, recuperate, con l’affermazione di forme di convivenza sociale più evolute
(Saporiti, 2004). Quest’ultime società che si propongono come fine ultimo quello di conseguire
l’uguaglianza tra le donne e gli uomini, nonché le
pari opportunità nella loro complessità1 anche attraverso la promozione dei programmi di sviluppo
del genere umano non sempre conseguono nella
pratica i risultati attesi.
A tal proposito, Amartya Sen sottolinea come il
mondo contemporaneo con il suo processo evolutivo, nonostante promuova una grande quantità di
programmi di sviluppo e “viva un aumento senza precedenti dell’opulenza globale, di contro nega libertà elementari a
un numero immenso di esseri umani” (2000). In particolare,
questa sua posizione è corroborata dalle evidenze empiriche
esistenti, in forme societarie sviluppate riguardo all’esclusione o alla limitazione politica, civile e sociale che vivono
alcuni attori sociali o intere categorie, tra le quali le donne.
In particolare, le società più sono evolute e più avvertono
1 Questo è almeno il disegno del “Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite”.
18
la spinta ad implementare le pratiche per il processo di inclusione civile, politico e sociale di tutti gli individui; processo che resta, ancora oggi, conflittuale, difficoltoso e lungo2,
nella fattispecie, per le donne che ancora non godono delle
condizioni di parità con l’uomo in tutti i campi3.
2 Tra gli strumenti giuridici a disposizione per l’eliminazione di ogni
forma di discriminazione in particolare nei confronti della donna si ricorda
la Convenzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel
dicembre 1979 entrata in vigore nel 1981. Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “discriminazione nei confronti della donna” concerne
ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come
conseguenza o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, da parte delle donne, quale che sia il
loro stato matrimoniale, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro
campo, su base di parità tra l’uomo e la donna.
3 Dichiarazione dei governi partecipanti alla IV Conferenza sulle donne,
Pechino, 4-15 settembre 1995; adottata da quasi 149 governi e approvata
con riserva da 40 paesi a maggioranza cattolica o islamica.
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2. QUANDO CAMBIA LA VITA DELLE DONNE IN
ITALIA
In Italia, il problema della disuguaglianza fra i sessi è diventato oggetto di dibattito pubblico solo dopo che le donne
sono diventate cittadine a pieno titolo, ossia solo dopo la caduta del regime autoritario.
Inoltre, i diritti civili delle donne sono stati per lungo tempo “sospesi”. Infatti, prima degli anni settanta, si assumeva
che le donne, con il loro ruolo esclusivamente domestico,
avessero lo stesso status del marito o del padre.
Dal 1970 in poi, la vita delle donne cambia profondamente, anche grazie alle leggi sul divorzio (1970), sulla riforma
del diritto di famiglia (1975), sull’istituzione dei consultori
familiari (1976), sulla parità di trattamento tra uomini e donne (1977) e sull’aborto (1978).
Il processo formale del diritto di eguaglianza è continuo
fino ad arrivare alla Legge dell’8 marzo 2000, in cui appare manifesta la scelta politica legislativa tendente a favorire
concretamente l’eguaglianza nella condivisione dei compiti
e delle responsabilità tra i coniugi nella cura dei figli e nella
gestione degli impegni familiari (Grignoli, Mancini 2006).
In tal modo, si riconosce l’importanza del ruolo sociale
della maternità, si acquisisce la consapevolezza di non poter
discriminare la donna per il suo ruolo di genitrice e si richiede una suddivisione di responsabilità tra uomini e donne che
deve condurre ad una reale parità tra uomo e donna all’interno della società, così da sopprimere ogni manifestazione di
discriminazione4.
Di qui, la storia recente della società italiana appare più
dinamica e complessa e la tutela, nonché la promozione formale dei nuovi diritti politici, civili e sociali conduce all’inclusione sostanziale delle donne in tutte le sfere della vita.
In particolare, queste donne dispongono di “pari opportunità” politiche, civili e sociali anche e, soprattutto, grazie
al quadro normativo che ha profondamente mutato il corso
della loro vita (a livello nazionale, la Costituzione italiana
riconosce l’eguaglianza tra uomini e donne - art. 3 della costituzione -, e tale parità viene riconosciuta anche a livello
salariale - art. 37 - e di accesso a tutte le carriere - art. 51;
a livello internazionale, la carta delle Nazioni Unite già nel
suo preambolo riconosce l’eguaglianza dei sessi come diritto
fondamentale).
Inoltre, è anche da ricordare la strategia (2010-2015)
a livello europeo per la parità tra donne e uomini. “Questa
strategia deve contribuire a migliorare la posizione delle
donne nel mercato del lavoro, nella società e nelle posizioni
decisionali, tanto nell’Unione europea quanto nel resto del
mondo”5.
4 Cfr. la “Dichiarazione sull’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna”.
5 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni
del 21 settembre 2010, Strategia per la parità tra donne e uomini 20102015 [COM(2010) 491 def. - Non pubblicata nella Gazzetta ufficiale].
Nel corso dell’ultimo decennio, anche se il tasso di occupazione delle donne è aumentato in maniera significativa
questo deve continuare ad aumentare per conseguire l’obiettivo fissato dalla Strategia Europea 2020 (tasso di occupazione femminile del 75%). Inoltre, è necessario continuare
a migliorare la qualità dei posti di lavoro e delle politiche
di conciliazione della vita privata e di quella professionale, nonché sostenere la “parità nel processo decisionale” attraverso anche un monitoraggio dei progressi conseguiti, in
particolare nel settore della ricerca.
Per questo motivo, la Commissione Europea ha avviato
una strategia per promuovere la ricerca scientifica delle donne (“Gruppo di Helsinki donne e scienza”, 1999) attraverso
il conseguimento di specifici obiettivi, quali l’aumento del
numero di donne impegnante nel mondo della scienza, la riduzione della segregazione sia orizzontale (concentrazione
di donne in alcuni settori o discipline) che verticale (tendenza delle donne ad occupare le posizioni più basse nella gerarchia); l’eliminazione delle differenze salariali e la garanzia
di giustizia e di equità.
Nonostante questi programmi e i successi nei percorsi di
alta formazione, ancora oggi, la situazione delle donne nel
lavoro di ricerca è analoga alla condizione della donna in
generale. Cosicché la donna “in ricerca”, quando non rinuncia del tutto al suo lavoro scientifico, solitamente si ferma ai
gradini più bassi dei percorsi di carriera.
Questo dato è sicuramente poco confortante per il soggetto
interessato che si sente depotenziato, per la famiglia che ha
investito senza cosiddetto tasso di ritorno e per la società che
non vede restituirsi quanto potrebbe sia in termini economici
che da un punto di vista della qualità della ricerca.
La Commissione Europea per la Scienza e la Ricerca elabora una relazione dal titolo She figures6 e i dati elaborati e
presentati nella Relazione del 2006 rilevano che nell’Unione
Europea solo il 29% dei ricercatori sono donne; e solo 15%
delle donne consegue le posizioni apicali nelle carriere accademiche; questa asimettria di genere è ancora più evidente
nel settore dell’ingegneria.
Questa tendenza negativa è confermata da un modello per
l’avanzamento di carriera delle donne basato sulla cosiddetta segregazione verticale, ossia nelle posizioni più basse
dell’organigramma accademico si rileva una buona presenza
femminile, nelle posizioni più alte tale presenza si impoverisce. Infatti, le donne sono il 44% dei ricercatori e solo il 18%
dei professori ordinari.
Tuttavia un forte segnale positivo, nel periodo tra il 2002
e il 2006, è dato dall’aumento del tasso delle donne ricercatrici che cresce a un ritmo più sostenuto rispetto a quello dei
colleghi maschi. Infatti, per le donne si rileva un aumento
percentuale pari a a del 6,3, mentre per gli uomini l’aumento
percentuale è 3,7%.
6 Commissione Europea, Rapporto She Figures 2009, Statistics and
Indicators on Gender Equality in Science.
19
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Questo permette di asserire che le donne
stanno cercando di diventare cittadine con
un potere di azione politico, civile e sociale capace di sintetizzare nuove partecipazioni per il progresso integrato della società, dopo aver vissuto in prima persona,
direttamente o subendolo, tutto il processo
di ri-costruzione sociale del femminile
e del maschile, che ha prodotto profondi
mutamenti nelle nuove forme di socialità
tra i due sessi, mettendone in discussione
il vecchio modello della rigida divisione
dei ruoli.
In sintesi, l’integrazione delle donne alla
vita politica, civile e sociale ha una valenza positiva per la società in quanto riduce
la disuguaglianza sociale subìta dalle donne; si costituisce come una delle variabili
generali del mutamento del sistema politico, civile e sociale ed è necessaria allo
sviluppo globale di un Paese.
3. LA SOCIETÀ DEL GENERE UMANO
FONDATA SUL LAVORO
La prospettiva delineata avvicina i ruoli
femminili e maschili e, nella fattispecie, i
maschi e le donne in quanto uguali come
essere umani dovrebbero liberarsi dal determinismo maschi-femmine ed individuare e vivere un differente modello societario, ossia la società del genere umano.
Questa concezione della società permette di superare la
questione del considerarsi, e, ancor di più, dell’affermarsi
maschi o femmine, favorisce l’integrazione dei generi, e apre
alla molteplicità di esperienze che nel vivere concreto è possibile conoscere e che di fatto stabiliscono legami e relazioni
lungo altre dimensioni.
In questo modello di società, i maschi non devono essere
più il punto di partenza, il principale soggetto attivo nella
storia, ma un individuo tra gli altri che può condurci ad interrogarci su cosa significhi oggi essere un cittadino libero in
una società sviluppata.
Partendo da questo interrogativo una prospettiva utile è
data dal ragionare sulla relazione tra la donna e il sistema
della ricerca scientifica e sulle sue trasformazioni.
La conquista delle posizioni femminili nella sfera pubblica
e della ricerca scientifica contribuisce a estendere il processo
di inclusione sociale femminile tout court, consolidando quel
percorso di empowerment che permette a tutte le donne di
accedere alle varie libertà sostanziali7.
7 Per ulteriori approfondimenti si veda John Stuart Mill, Saggio sulla
libertà, (1859), trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1981; La soggezione delle
donne, (1869), trad. it. Era Nuova, Ellera Umbra (PG), 1998.
20
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Editore, Milano, 2011
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
La presenza delle donne nel settore
europeo della ricerca scientifica e
tecnologica
ROSA MARIA FANELLI, ANGELA DI NOCERA
Dipartimento di Economia, Gestione, Società e Istituzioni dell’Università degli Studi del Molise
N
1. INTRODUZIONE
ei settori della ricerca scientifica
e tecnologica, come è noto, la
presenza femminile è meno rilevante rispetto agli altri settori
economici e sociali. Tale carenza comporta un sottoutilizzo di molti talenti e di
conseguenza un minor arricchimento quantitativo e
qualitativo della ricerca scientifica in Europa. Una
presa di coscienza di tale mancanza si è avuta durante i lavori della Conferenza: “Donne e Scienza”,
organizzata congiuntamente dalla Commissione e
dal Parlamento Europeo, che si è tenuta a Bruxelles
il 28 e 29 aprile del 1998. In tale occasione scienziati e politici, oltre a mettere in luce l’esigenza di intensificare gli sforzi al fine di aumentare la presenza
femminile nella ricerca europea, si sono prefissati di
raggiungere due obiettivi fondamentali:
• stimolare il dibattito e lo scambio di esperienze
tra gli Stati Membri su tale questione, per ottimizzare l’efficacia degli sforzi intrapresi a tutti i livelli di governo;
• sviluppare un approccio coerente inteso a promuovere le
donne nelle attività di ricerca finanziate dall’Unione europea,
suscettibile di aumentare in modo significativo la partecipazione delle donne per tutta la durata del Quinto programma
comunitario di ricerca. In tale ottica, la Commissione prevede una partecipazione delle donne nella misura del 40% alle
borse “Marie Curie”, alle assemblee consultive e ai Comitati
di valutazione.
Allo stato attuale però nel settore Ricerca e Sviluppo
(R&S) le donne rappresentano appena il 35% degli occupati
e le ricercatrici un terzo del totale (Fig. 1). Nell’ambito dei
Paesi europei solo la Lituania e la Lettonia, dove un ricercatore su due è di sesso femminile, sembrano aver raggiunto, in
termini quantitativi, una buona condizione di pari opportunità. Per converso, negli altri Paesi europei la distanza di gene-
re nel campo della scienza è ancora rilevante e difficilmente potrà essere colmata nel breve periodo. Nel mondo della
scienza, come del resto negli altri settori di attività, il soffitto
di cristallo, che frena l’ascesa delle donne, verso posizioni
apicali e di leadership è ancora ben ancorato. Uno sguardo ai percorsi accademici ne rappresenta una testimonianza.
Nelle Università, infatti, tra i professori di prima fascia, le
donne, anche se in aumento, costituiscono una percentuale
che oscilla, da Paese a Paese, tra il 10 e il 30%. I picchi si
hanno in corrispondenza dei settori delle scienze umanistiche e sociali. Oltre che nei percorsi accademici, la presenza
femminile è alquanto limitata anche nei Comitati Scientifici
e negli Organi che dirigono le Istituzioni Universitarie. Anche qui esistono rilevanti differenze tra i Paesi dell’Unione
Europea. In Svezia ad esempio circa la metà dei componenti
dei Consigli di Amministrazione delle Università è donna, in
Italia la stessa percentuale scende al 17%. Tale percentuale
21
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Fig. 1 – Incidenza percentuale delle donne sul totale dei ricercatori nei paesi europei.
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, 2009
Figura 2 – Presenza delle donne in comitati scientifici
Fonte: Commissione Europea, 2012
colloca l’Italia agli ultimi posti nella graduatoria dei Paesi
Europei seguita solo dalla Repubblica Ceca, dalla Slovacchia e dal Lussemburgo (Fig. 2). Anche la distribuzione di
risorse finanziarie, previste dai Programmi Quadro di Ricerca europei, a sostegno di progetti coordinati e/o che vedono
un coinvolgimento attivo delle donne mette in luce alcune
differenze di genere. La quota di fondi da distribuire per tale
finalità, infatti, è lontano dall’obiettivo del 40% fissato dalla
Commissione Europea.
In ambito europeo si riscontrano poi delle differenze in
merito ai comportamenti e agli strumenti adottati dai diversi
22
Stati Membri per raggiungere gli obiettivi
di cui sopra.
Nei Paesi nordici,
come ad esempio in
Germania, nel periodo 1996-2000, sono
stati destinati 720
milioni di marchi
tedeschi (pari a 368
milioni di EURO) a
borse che consentono alle donne di acquisire le qualifiche
necessarie per poter
ottenere cattedre di
insegnamento. In Danimarca, il programma FREJA (Femala
Researchers in Joint
Action) dispone di un
bilancio di 78 milioni
di corone danesi (10,5
milioni di EURO) su
quattro anni per finanziare i progetti di
ricerca condotti da
giovani donne dotate
di qualifiche molto
elevate. In Svezia si
sono create 32 cattedre universitarie, 73
posti di assistenti di
ricerca e 120 borse
di post-dottorato da
poter attribuire ad
esponenti del sesso
femminile, mentre in
Finlandia sono state
decise quote (pari al
40%) per la composizione di tutti i Comitati e Assemblee
equivalenti, compresi
i quattro Consigli Na-
zionali della Ricerca.
Nei Paesi Bassi, poi, il governo ha nominato agenti incaricati di attuare la parità delle opportunità nelle università,
mentre nelle scuole secondarie è stata condotta una campagna di sensibilizzazione per incoraggiare le giovani donne
ad optare per gli indirizzi scientifici. In Italia, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica ha creato un
«Gruppo di lavoro su culture delle differenze e studi delle
donne nella Istituzione universitaria».
In Francia, Irlanda e Lussemburgo sono state adottate differenti misure a livello di percorsi educativi, per incoraggia-
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
re le giovani donne ad intraprendere la carriera scientifica.
Il Regno Unito ha creato un’unità di sviluppo in seno al
Dipartimento dell’Industria e Commercio, che lavora in cooperazione con il Ministero dell’Istruzione ed il Consiglio
della ricerca.
In Germania, nell’ambito del Ministero Federale dell’Istruzione è stata creata un’unità intitolata «Le donne nei
settori dell’istruzione e della ricerca». In Italia, al Consiglio
Nazionale delle Ricercche (CNR) è stata creata nel 1998 una
Commissione «pari opportunità».
Nella maggior parte degli Stati membri si osserva una crescita dell’importanza degli studi e delle ricerche di genere
(“gender research”).
In base all’approccio utilizzato dal Quinto Programma
Quadro (1998-2002) la promozione della ricerca deve avvenire su tre livelli: da parte delle donne, per e sulle donne.
Nel primo caso si devono promuovere le donne in quanto
ricercatrici, nel secondo caso si deve effettuare un maggior
controllo nella fase di elaborazione dei progetti di ricerca e
della dimensione di genere in tutti i settori coinvolti nella
ricerca e, infine nel terzo caso deve essere considerato il contributo e il ruolo delle donne nella ricerca.
2. DONNA E RICERCA SCIENTIFICA IN EUROPA
L’Unione Europea, con il nuovo programma Horizon
2020, individua nel superamento delle diseguaglianze di genere una questione strategica per la crescita economica e per
il miglioramento della competitività del sistema europeo. Le
attività di ricerca e l’accesso alle tecnologie dell’informazione devono costituire, quindi, irrinunciabili motori per lo
sviluppo europeo. A tal fine bisogna eliminare le asimmetrie
che ancora limitano la presenza femminile nel settore della
ricerca scientifica e tecnologica. Tali asimmetrie possono essere ascritte sostanzialmente sia a problemi di segregazione
orizzontale rispetto alle scelte formative e ai settori di impiego che di segregazione verticale: quali gender pay-gap e
conciliazione vita-lavoro. A partire dal secolo scorso, nella
maggior parte dei paesi industrializzati e, quindi, anche in
Italia si è assistito ad una crescita della scolarizzazione femminile. Nelle attuali generazioni, infatti, le donne hanno tassi
di accesso all’Università e di laurea superiori a quelli degli
uomini (Triventi, 2010). Alcuni studi internazionali hanno
però messo in luce che la parità nell’accesso all’istruzione
universitaria non ha generato una riduzione delle disuguaglianze di genere in altri aspetti della carriera universitaria
e occupazionale (Jacobs, 1995; Charles e Bradley 2002;
Gerber e Shaefer, 2004). Anche se le ragazze si iscrivono
all’Università in misura maggiore rispetto ai ragazzi, di solito le stesse frequentano i settori di studio meno remunerativi
con una più bassa probabilità di proseguire la carriera accademica. Inoltre a parità di tasso di istruzione se le donne
riescono ad entrare nel mercato del lavoro, rispetto ai loro
colleghi uomini, ricevano in media uno stipendio inferiore e
hanno progressioni di carriera più lente (Cobalti e Schizzerotto 1994; Reyneri, 2005; Gerber e Cheung, 2008). A questo
punto sorge una domanda spontanea: Come si può liberare
il capitale umano femminile? Forse promuovendo l’accesso
delle donne nell’ambito della ricerca scientifica e tecnologica? Per rispondere a tale domanda bisogna analizzare la
presenza femminile nelle scienze sotto tre principali punti di
vista: economico, di pari opportunità e della diversità. Nella
prospettiva economica l’assenza della donna può essere interpretata come uno spreco di metà dei talenti a disposizione, in quella delle pari opportunità come una mancanza di
uguaglianza nella possibilità di accesso, mentre per l’ultima
le donne sarebbero portatrici di diversità da valorizzare e il
loro ingresso nella ricerca scientifica potrebbe apportare dei
cambiamenti significativi (Jasanoff, Markle; 1995). La mancanza di un riconoscimento della dimensione di genere nella
scienza e la sua influenza sui contenuti e sui metodi genera
un forte e crescente impatto negativo nella qualità della ricerca, nelle politiche della ricerca e nell’utilizzo dei risultati
scientifici in termini economici e sociali (Prages, 2009).
L’interesse dell’Unione Europea intorno al tema del ruolo
della donna in questo settore è cresciuto notevolmente fin dal
1999, quando la Commissione pubblicò una Comunicazione
dal titolo “Donne e scienza - Mobilitare le donne per arricchire la ricerca europea”, rivolta a promuovere la parità di
genere e, per cominciare, favorire una maggior partecipazione delle ricercatrici al Quinto Programma Quadro.
Ogni Direzione Generale (DG) della Commissione ha promosso iniziative per favorire la parità di genere nei settori di
competenza; in questa ottica la DG Ricerca ha posto un grande impegno nel monitorare attentamente la presenza femminile nei progetti finanziati dai Programmi Quadro.
Il Parlamento Europeo, d’altro canto, in una Risoluzione
adottata il 21 maggio 2008 ha proposto altre misure che possano valorizzare il ruolo della donna:
• nuovi criteri di formazione delle commissioni di valutazione che impongano una composizione equilibrata sotto il
profilo della rappresentanza di genere;
• introduzione di criteri di valutazione dei progetti di ricerca che tengano in particolare considerazione la presenza
femminile nelle unità proponenti;
• criteri di valutazione del personale e dell’attività di ricerca che superino quelli basati sul numero delle pubblicazioni,
considerando altre capacità, quali quella di costituire equipe
di ricerca e formare giovani di talento;
• risorse finanziarie destinate specificamente al sostegno
di progetti proposti da donne che tipicamente accedono con
maggior difficoltà ai finanziamenti per la ricerca;
• misure volte a incoraggiare le donne a seguire percorsi di
studio ad indirizzo scientifico-tecnologico.
Si ritiene fondamentale, infine, favorire un cambiamento
culturale rimuovendo gli stereotipi che influenzano la percezione della scienza, che si formano nei bambini fin dai loro
primi anni di scuola, e coltivando l’interesse per la conoscenza e la tecnologia soprattutto nelle ragazze.
Tutto questo difficilmente avverrà in assenza di azioni positive volte ad incoraggiare le donne ad intraprendere un percorso di studio e lavoro nel mondo della scienza, proponendo
23
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modelli di ruolo, favorendo la formazione di reti di studiose,
implementando strategie efficaci per incentivare studentesse e ricercatrici a candidarsi per borse di studio e incarichi
scientifici o per favorire il reinserimento professionale dopo
interruzioni di carriera (Commissione Europea, Direzione
Generale Ricerca, 2001).
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47-80.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre.
Donne e scienziate
STEFANO OSSICINI
Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria e Centro Interdipartimentale En&Tech, Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia
È
il 7 novembre 1911, le agenzie di stam- Institution di Londra. Prima donna a ottenere il premio Nopa di tutto il mondo rilanciano l’annuncio bel, nel 1903. Prima donna docente alla Sorbona nel 1906.
dell’Accademia delle Scienze di Svezia: Prima donna a essere accolta nell’ Accademia Francese di
Marie Sklodowska-Curie (1867-1934)
è stata insignita del suo secondo premio
Nobel, questa volta per la chimica. Premio Nobel che
segue quello del 1903, per la fisica, ottenuto assieme al
marito Pierre Curie (1859-1906) e a Henri Becquerel
(1852-1908).
Marie è la/il prima/o scienziata/o a ricevere un secondo premio Nobel. A tutt’oggi è l’unica/o ricercatrice/ore
ad aver ottenuto due premi Nobel in due discipline scientifiche diverse, fisica e chimica. Gli altri pluripremiati
sono lo statunitense John Bardeen (1908-1991) due volte
premio Nobel per la fisica, nel 1956 per la scoperta del
transistor e nel 1973 per la spiegazione della superconduttività; l’inglese Frederick Sanger (1918-2013) due
volte premio Nobel per la chimica, nel 1958 per lo studio
della struttura dell’insulina, e, nel 1980 per i suoi studi
sul DNA e lo RNA; infine Linus Pauling (1901-1994),
premio Nobel per la chimica nel 1954 per le sue ricerche sul legame chimico e premio Nobel per la pace, nel
1962, per la sua battaglia contro la proliferazione delle
armi nucleari.
Marie Curie è abituata ad arrivare per prima [1]. Prima
alla laurea in fisica alla Sorbona di Parigi nel 1893, prima al concorso per l’insegnamento della fisica nel 1896,
prima donna a ottenere il dottorato in fisica in Francia nel
1903. Della commissione per la sua tesi di dottorato facevano parte due futuri premi Nobel, Gabriel Lippmann
Marie Curie
(1845-1921), premio per la fisica 1908 per lo sviluppo
della fotografia a colori, e Henri Moissan (1852-1907), pre- Medicina nel 1922. E dopo la morte, prima donna sepolta,
mio per la chimica nel 1906 per aver isolato il fluoro e per per i suoi meriti scientifici, nel Panthéon a Parigi, nel 1995.
l’invenzione del forno a arco elettrico. La commissione concluse i suoi lavori giudicando le scoperte presentate come
Risultati non da poco, basti pensare che ad oggi sono solo
il più grande contributo scientifico mai fatto in una tesi di 47 (di cui 18 a partire dal 2000, e ben 5 nel solo 2009) le
dottorato. Prima donna a essere ricevuta, nel 1903, alla Royal donne che hanno ricevuto il premio Nobel, a fronte di circa
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800 uomini. In fisica le donne premiate, in oltre un secolo,
sono solo 2 (su un totale di 199 laureati): Marie Curie e la
tedesca Marie Goeppert-Mayer (1906-1972), nel 1963, per
gli studi sulla struttura del nucleo atomico. In chimica 4 (su
169 laureati): di nuovo Marie Curie, sua figlia Irène JoliotCurie (1897-1956), nel 1935, per la scoperta della radioattività artificiale, Dorothy Crowfoot-Hodgkin (1910-1994), nel
1964, per la determinazione attraverso i raggi x della struttura
delle biomolecole, Ada Yonath
(1939-...), nel 2009, per gli
studi sulla struttura e la funzione dei ribosomi. In medicina
in tutto 11 (su 207 laureati) ,
fra cui Rita Levi-Montalcini
(1909-2012), nel 1986, per la
scoperta dei fattori di crescita.
Una sola per l’economia (su 75
laureati), Elinor Ostrom, nel
2009, per gli studi sulla “governance”. 13 per la letteratura (su 111 laureati), compresa
Grazia Deledda (1871-1936),
nel 1926, e 16 (su 127 laureati)
per la pace.
Oltretutto, questa volta, il
premio Nobel del 1911 è solo e
tutto suo, di Marie. Nel 1903 il premio ottenuto per la fisica
era stato condiviso con il marito Pierre Curie e con Henri
Becquerel, per la scoperta e le ricerche sulla radioattività.
E molti, sia in Francia, che all’estero, l’avevano considerata
come una mera appendice del marito, un’assistente e nulla
di più.
In una lettera del 1903, indirizzata a Stoccolma e firmata
da diversi membri dell’Accademia delle scienze di Francia,
solo Henri Becquerel e Pierre Curie erano stati proposti per
il Nobel di quell’anno. Fu Gösta Mittag-Leffler (1846-1927),
famoso matematico e membro dell’Accademia reale svedese, che considerava profondamente ingiusta quella scelta,
ad avvertire Pierre Curie che il nome di Marie non era stato
menzionato per il premio. Nell’agosto 1903 Pierre rispose
evidenziando in dettaglio il contributo di Marie e proponendo un riconoscimento contemporaneo. Mittag-Leffler approfittò del fatto che Marie era stata proposta da altri l’anno prima e così si arrivò al riconoscimento anche per lei [2].
Eppure riguardo al ruolo dei due Curie, la storia era andata
esattamente all’opposto. Henri Becquerel, nel marzo 1896,
aveva osservato l’emissione di radiazione ionizzante da parte
di certi sali di uranio. Raggiunto all’inizio del 1896 dalla notizia della scoperta dei raggi x da parte del tedesco Wilhelm
Röntgen (1845-1923), futuro primo premio Nobel per la fisica nel 1901, Becquerel si mise ad indagare se i materiali
fosforescenti, materiali che, esposti per qualche tempo ad
una sorgente luminosa, emettono una debole luce dopo che la
sorgente è stata eliminata, fossero in grado di produrre oltre
alla luce anche raggi x [3]. Prese allora una scheggia di sol26
fato di uranio e potassio, fosforescente una volta esposta alla
luce solare, e la pose su di una lastra fotografica avvolta in
strati di carta nera. Sviluppata, la lastra mostrò la forma della
scheggia fosforescente. Un effetto paragonabile a quello dei
raggi x. Ma ecco che, il 26 febbraio 1896, il caso intervenne.
Becquerel preparò il sale di uranio e la lastra fotografica, ma
il tempo era incerto e lasciò il tutto in un cassetto. Il sole
non si fece vedere per alcuni
giorni, ed il 1 marzo Becquerel sviluppò lo stesso la lastra
fotografica sicuro di trovare
al più una debole traccia della
scheggia. Con sorpresa, invece, la forma della scheggia era
particolarmente intensa. Era la
scoperta della radioattività.
Ed era stata proprio Marie
a scegliere, nel 1897, come
tema della sua tesi di dottorato
la scoperta di Becquerel. Era
stata lei a intuire l’esistenza
di altri materiali radioattivi,
diversi dall’uranio, intuizione che portò alla scoperta del
polonio e del radio. Era stata
lei a scegliere il nome di radioattività per questi fenomeni. Pierre era intervenuto solo successivamente, quando si
era reso necessario utilizzare un metodo fine, quantitativo,
per la misura dell’intensità della radioattività [4]. La scelta
era caduta sugli strumenti basati sull’effetto piezoelettrico
(quell’effetto per cui alcuni cristalli sono in grado di generare una differenza di potenziale elettrico quando sono soggetti
ad una deformazione meccanica), effetto e strumenti scoperti
e costruiti, a partire dal 1880, da Pierre a da suo fratello Jacques Curie (1856-1941) [5,6].
Per cui il premio Nobel ad entrambi i coniugi Curie fu una
decisione sacrosanta [7-10]. Anche se molti continuavano a
vedere in Pierre il vero artefice e in Marie un semplice aiuto.
Ancora nel 1909, Hertha Ayrton, una fisica inglese di cui
parleremo più a lungo nel seguito, stanca di leggere continuamente sui giornali inglesi il solo nome di Pierre quale
scopritore del radio, mandò una lettera alla Westminster
Gazette: “Si sa che è molto difficile eliminare gli errori, ma
sembra che l’errore che attribuisce ad un uomo i meriti di
una donna abbia più vite di un gatto”.
Nel 1906 Pierre era morto, investito da una carrozza trainata da cavalli. Marie aveva preso il suo posto di professore
alla Sorbona ed era riuscita a isolare per la prima volta, nel
1910, il radio nella sua forma pura, metallica. Un’impresa
ragguardevole, che accanto alla precisa determinazione del
numero atomico del radio stesso, allo studio dei suoi composti, alla scoperta del polonio, al lavoro per la scelta e la
determinazione di un’unità di misura per la radioattività (su
proposta di Marie, nel 1909, a tale unità fu dato il nome di
curie, in onore di Pierre) [11] le era valso questo secondo
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
premio, ora privo di ombre.
Ma neanche questa volta Marie poté godersi il riconoscimento senza angustie. Dopo la morte di Pierre, Marie aveva
passato un periodo terribile di depressione [12]. Tornata a
vivere nella casa natale di Pierre a Sceaux, alle porte di Parigi, le erano state di grande conforto e aiuto per il ritorno al
lavoro e alla normalità la vicinanza e il sostegno del suocero
Eugéne Cuire (1827-1910), medico, che era stato sulle barricate durante la rivoluzione del 1848 e che assieme ai figli
adolescenti aveva trasformato la sua casa in un’infermeria
nelle tragiche giornate della Comune di Parigi del maggio
1871. Nonno Eugéne divenne, anche, una figura fondamentale per la prima figlia di Marie, Irène [13].
In quegli anni Marie, Mé per le figlie, mise in piedi un
interessante esperimento di educazione alternativa organizzando una scuola per le sue figlie e i figli e le figlie dei suoi
amici [14].
I Perrin: Jean Baptiste Perrin (1870-1942) professore alla
Sorbona, futuro premio Nobel per la fisica nel 1926 per i suoi
studi sulla struttura atomica della materia, e sua moglie Henriette Duportal (1869-1938), nota scrittrice e, assieme alle
sue sorelle, una delle prime donne in Francia a raggiungere
la laurea.
I Langevin: Paul Langevin (1872-1946) professore di fisica al Collegio di Francia, allievo di Pierre e suo successore al
Collegio, un’autorità nel campo delle proprietà magnetiche
della materia, e sua moglie Emma Jeanne Desfosses (18741970) .
Henri Mouton (1869-1935) chimico-fisico e biologo
dell’Istituto Pasteur, scopritore insieme a Cotton dell’effetto
Cotton-Mouton sulla doppia rifrazione della luce in un liquido in presenza di un campo magnetico trasverso.
Gli Chavannes, famiglia protestante: Edouard Chavannes
(1865-1918), considerato il più grande sinologo del suo tempo e sua moglie Alice Dor (1866-1927), poetessa.
Il celebre scultore Jean Magrou (1869-1945) e sua moglie
Jeanne Rixens, nipote del pittore André Rixens (1846-1925).
E infine gli Hadamard, famiglia di origine ebraica: Jacques
Salomon Hadamard (1865-1963), presidente della Società
Matematica di Francia, uno dei grandi matematici del secolo
scorso, forte sostenitore della causa sionista, e sua moglie
Louise-Anna Trénel (1858-1960), figlia del Direttore della
Scuola rabbinica di Francia.
In questa scuola, denominata la Società degli Scienziati
per l’Insegnamento Sperimentale, Marie insegnava fisica,
Jean Perrin chimica, Paul Langevin matematica, Henri Mouton scienze, Henriette Duportal storia e francese, Alice Dior
inglese, tedesco e geografia e Jean Magrou disegno e belle
arti. Molto peso veniva dato alle attività pratiche, di laboratorio, alle attività artistiche e a quelle sportive, e soprattutto
all’eguaglianza fra maschi e femmine. Come ricorderà anni
dopo Irène Curie, probabilmente lei è stata la prima cittadina
in Francia a mettere gli sci ai piedi.
Un’altra allieva di quella scuola, l’adolescente, era nata
nel 1894, Isabelle Chavannes, futura ingegnere chimico industriale, di cui rimangono gli appunti, scoperti pochi anni or
sono, relativi proprio alle lezioni, in quella scuola, di Marie
Curie [14], ricorda che una volta Marie pose loro il seguente
quesito “Come fareste per mantener caldo il liquido contenuto in questo recipiente?”. Fra gli studenti Francis Perrin
(1901-1992) futuro fisico, Jean Langevin (1899-1990), anche
lui diventerà un fisico, Pierre (1894-1916) e Etienne (18991916) Hadamard, entrambi moriranno in guerra a Verdun,
Irène Curie, le star della scuola, propongono soluzioni ingegnose: circondare il recipiente di lana, isolarlo con metodi
raffinati, etc.., Marie sorride e dice: “Ebbene, io comincerei
col mettere un coperchio”.
Questa serenità non dura però molto. A fine 1910 Marie viene candidata all’Accademia delle scienze di Francia,
l’Accademia dei cosiddetti Immortali, in sostituzione del
chimico-fisico Dèsiré Gernez (1834-1910), deceduto. E’
vero, sarebbe la prima donna a far parte dell’Accademia, ma
è già premio Nobel e professoressa alla Sorbona. Non sembrano esserci ostacoli. Ma il 16 Novembre 1910 la notizia
della sua candidatura diventa pubblica con un articolo del
quotidiano Le Figaro. E subito si scatena una campagna di
stampa diffamatoria.
Molti amici della cerchia di Marie erano noti per le loro
posizioni progressiste e cosmopolite. Ad esempio Emile Borel (1871-1956), figlio di un pastore protestante, matematico,
specialista di teoria delle funzioni, membro dell’Accademia
delle scienze e sua moglie Marguerite Appel (1883-1969),
scrittrice nota sotto lo pseudonimo di Camille Marbo, e figlia
di Paul Appel (1855-1930) matematico e preside della Facoltà di scienze della Sorbona. In vecchiaia Marguerite pubblicò il libro di memorie “Á travers deux siécles: souvenirs et
rencontres”, una miniera di informazioni sugli anni difficili
della Curie [15]. Assieme i due Borel avevano fondato il periodico mensile “Revue du mois”, che si occupava di letteratura, arte, teatro, scienza e politica. Era su quella rivista che
era apparso il necrologio scritto da Marie per Pierre [12].
Fra le altre amiche di Marie, una figura notevole era quella
di Loïe Fuller (1862-1928), statunitense, pioniera della danza
moderna, apertamente omosessuale, che aveva lavorato con
i fratelli Lumière [16]. La Fuller aveva brevettato numerosi
apparati illuminotecnici che facevano uso di luce elettrica,
anche prodotta mediante particolari gel chimici [17]. Aveva
addirittura pensato di utilizzare per i suoi abiti di scena la
luminescenza prodotta dal radio della Curie. Fra l’altro Loïe
Fuller era membro della Società astronomica di Francia.
Ma gli amici della Curie erano, soprattutto, noti per la loro
attività durante l’affare Dreyfus, e per essere stati, fin dalla
fondazione, membri influenti della Lega per i Diritti dell’Uomo.
Alfred Dreyfus (1859-1935), ufficiale alsaziano di origine
ebraica, ingiustamente accusato di spionaggio a favore della
Germania nel 1895, era stato prima condannato ai lavori forzati, poi graziato nel 1899 dal presidente della repubblica e
infine riabilitato pienamente nel 1906. In suo favore ci fu una
mobilitazione degli intellettuali progressisti culminata nella
famosa lettera di Emile Zola (1840-1902), “J’Accuse”, al
presidente della repubblica, pubblicata sull’Aurore.
27
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Nonostante la completa dimostrazione dell’innocenza di
Dreyfus, il caso restò per decenni uno spartiacque fra destra
e sinistra in Francia. Ancora nel 1908 durante la cerimonia
della inumazione delle ceneri di Zola al Panthéon, Alfred
Dreyfus subì un attentato in cui rimase ferito.
E’ la stampa di destra francese, con in testa il quotidiano
antisemita e ultranazionalista L’Action Francaise, diretto da
Leon Daudet (1867-1942), figlio dello scrittore Alphonse
Daudet (1840-1897), a menare le danze contro la candidatura di Marie all’Accademia. Non solo vengono ritirate fuori le
accuse a Marie di aver rubato la scena al marito Pierre, ma la
si accusa, lei di famiglia cattolica, che però non aveva voluto far battezzare le figlie, di essere, invece, di origine ebrea.
Su Le Figaro esce un lungo saggio, intitolato “Il travestito
verde” (verde era il colore dell’abito degli accademici) della
scrittrice Marie de Régnier (1875-1963) che accusa la Curie
di tradire l’eterno ideale femminino: le donne sono fatte solo
per l’amore, la devozione e non per l’ambizione [18].
Viene scelto un candidato da opporre alla Curie, il fisico
Edouard Branly (1844-1940), uno dei pionieri delle radiocomunicazioni. I nazionalisti francesi non avevano ancora digerito il fatto che il Nobel del 1909 per la fisica era stato dato
solamente all’italiano Guglielmo Marconi (1874-1937) e al
tedesco Ferdinand Braun (1850-1918). Branly era cattolico e
aveva lasciato la Sorbona per l’Università Cattolica. Divenne, suo malgrado, il campione della destra.
Su L’Action Francaise comparve un articolo di Daudet intitolato “Dreyfus contro Branly” [19]. Notare la finezza, la
Curie non veniva neanche nominata, ma la sua candidatura
veniva tacciata come femminista e eccentrica, frutto di quel
covo di intellettuali, ebrei e ugonotti che era la Sorbona.
La votazione dell’Accademia avvenne il 23 gennaio 1911,
occorreva una maggioranza di 30 voti. Alla prima votazione
Branly ottenne 29 voti, la Curie 28 e il fisico Marcel Brilluoin (1854-1948) uno. Alla seconda Branly ne ottenne 30, la
Curie rimase a 28. Branly aveva vinto.
Marie non entrerà mai a far parte dell’Accademia delle
Scienze, non vorrà neanche più essere candidata e da allora non pubblicherà più i suoi lavori sulle riviste scientifiche
dell’Accademia. Per vedere una donna membro di questo
istituto bisognerà attendere fino al 1962.
Ma questo è solo un piccolo assaggio di quello che la Curie
dovrà affrontare nell’anno del suo secondo Nobel.
A partire dalla cooperativa di insegnamento, organizzata
per le ragazze e i ragazzi dei suoi amici, era nata una forte
amicizia tra Marie e Paul Langevin, amicizia che lentamente
si era trasformata in una storia di amore. Nel 1910 i due avevano affittato un piccolo appartamento vicino alla Sorbona,
dove solevano passare i momenti liberi assieme.
Paul Langevin aveva una difficile situazione familiare;
sposato con quattro figli, il suo matrimonio era stato un
continuo di litigi spesso violenti e di discussioni feroci. La
famiglia della moglie gli rimproverava sia le sue tendenze
progressiste che il suo magro stipendio di professore. Accettando un lavoro nell’industria avrebbe potuto guadagnare
ben di più [20,21].
28
La moglie di Langevin, Jeanne, sospettando qualcosa, era
riuscita con l’aiuto della sorella a intercettare una lettera di
Paul a Marie. Poco dopo, nella primavera del 1911, uno strano furto era avvenuto nell’appartamento dei due a Parigi e
diverse lettere di Paul e Marie erano state trafugate. Ne nacque un complicato scontro fra le varie parti, Jeanne arrivò a
minacciare apertamente di morte Marie [2,22]. Lo scontro
venne mediato da Jean Perrin e dal cognato di Jeanne, Henri
Bourgeois (1864-1946), editore del giornale conservatore Le
Petit Journal. Pare che ci furono anche ingenti versamenti di
denaro. Alla fine si giunse, comunque, ad un accordo: Paul
e Marie non si sarebbero più visti, mentre Jeanne rinunciava
alla pubblicazione delle lettere, che rimanevano però in suo
possesso.
Nei primi giorni di novembre del 1911 si svolse a Bruxelles la prima delle famose conferenze Solvay. Ernest
Solvay (1838-1921), di formazione chimico-fisico, era un
imprenditore di successo. Assieme al fratello Alfred Solvay
(1840-1894) aveva sviluppato un processo industriale per la
produzione di carbonato di sodio. Le sue industrie si espansero rapidamente in tutto il mondo, rendendolo ricchissimo.
Solvay, di ideali socialisti, introdusse, in anticipo sulle legislazioni, un sistema pensionistico per i lavoratori nel 1878,
istituì l’orario lavorativo di 8 ore nel 1897 e nel 1913 concederà le ferie pagate.
La passione per la scienza era rimasta una sua costante e
dopo una discussione con il chimico tedesco Walther Nernst
(1864-1941), che sarà premio Nobel per la chimica nel 1920,
si decise a organizzare una conferenza scientifica sui temi
allora scottanti della nuova fisica e della nuova chimica.
Quella del 1911, dal titolo Radiazioni e Quanti, preseduta da
Hendrik Lorentz (1853-1928), premio Nobel per la fisica del
1902, fu la prima di una serie di prestigiose conferenze che
durano tuttora [23].
Di quella conferenza ci resta una famosa foto che vede
assieme, all’Hotel Metropol di Bruxelles, i 24 partecipanti,
fra cui ben 10 premi Nobel presenti e futuri, tra i quali Max
Planck (1858-1947), Albert Einstein (1879-1955) e Ernest
Rutherford (1871-1937). La delegazione francese era composta da Jean Perrin, Henry Poincarè (1854-1912), Marcel
Brilluoin, Paul Langevin e Marie Curie. Inutile dire che
quest’ultima era la sola donna presente.
Forse Jeanne Langevin avrà visto questa conferenza come
una rottura del patto firmato nei mesi precedenti, fatto sta
che il 4 novembre 1911 un articolo apparve sul quotidiano
dal titolo “Una storia di amore: madame Curie e il professor Langevin”. Nell’articolo si parlava della scomparsa da
Parigi sia di Madame Curie che di Langevin, e quest’ultimo
veniva accusato di aver abbandonato la moglie e i quattro
figli per seguire Marie. La storia venne ripresa e alimentata
da diversi giornali.
La replica di Marie, affidata al periodico Le Temps, fu
immediata. La vicenda della fuga era una pura invenzione,
una vera follia. In quei giorni, lei era stata a Bruxelles per
partecipare ad una conferenza importante assieme ad una
ventina dei migliori scienziati del mondo. Henri Poincarè,
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Emil Borel, Jean Perrin e il fratello di Pierre Curie, Jacques,
intervennero sulla stampa in suo favore. L’interesse sembrò quindi scemare e nel frattempo, come abbiamo visto, il 7
novembre, l’Accademia delle Scienze di Svezia annunciava
il secondo premio Nobel a Marie. Interessante è che l’Accademia svedese stessa, allarmata dal clamore, aveva contattato diverse volte l’ambasciatore di Svezia a Parigi onde
rimanere informata sugli sviluppi della vicenda, venendone
rassicurata.
Questa volta, però, contrariamente al 1903, l’interesse dei
giornali francesi per il premio non fu particolarmente vivo, la
notizia fu spesso relegata nelle pagine interne.
Contemporaneamente si lanciarono sulla affare Curie-Langevin sia il Petit Journal che soprattutto, ancora una volta,
Leon Daudet con il suo famigerato l’Action. Ne nacque, così,
una replica fortemente ampliata della campagna dell’anno
precedente, quella relativa alla nomina di Marie all’Accademia delle Scienze. Gli attacchi alla Curie diventarono feroci,
sia su l’Action che su L’Intransigeant. Marie venne accusata
di essere una sorta di vedova nera, per giunta straniera e probabilmente ebrea, che rubava il marito ad una povera donna
francese e toglieva il padre ai suoi quattro figli. Una donna
fredda e calcolatrice, una intellettuale emancipata, ostile al
culto della famiglia, che aveva fondato la sua fama sul lavoro
del marito morto, di cui ora disonorava la memoria.
Di più, si arrivò ad insinuare che la storia tra Marie e Paul
era nata quando Pierre era ancora in vita e che quest’ultimo,
disperato per il tradimento della moglie e dell’amico, si era
suicidato. Questo era il vero motivo del suo incidente del
1906!
Su l’Excelsior comparve perfino una studio morfologico
di Marie, accompagnato da disegni che la ritraevano in forma
parossistica. Immagini simili fra non molto compariranno
sulle peggiori pubblicazioni razziste, annunciando un triste
futuro. Di nuovo si lanciarono accuse contro la presunta lobby massonico-ebraico-tedesca-ugonotta, attiva nelle Università, pronta a difendere una straniera contro una francese. Il
23 novembre venne raggiunto il culmine. La rivista L’Oeuvre
diretta da Gustave Téry (1870-1928), che era stato in gioventù un libero pensatore estremista e che all’inizio del secolo si
era trasformato in un acceso nazionalista, un fondamentalista
cattolico violentemente antisemita, pubblicò presunte copie
di alcune delle lettere di Marie e Paul, quelle trafugate nello
strano furto della primavera precedente, lettere che dimostravano il legame tra i due. Naturalmente gli estratti venivano
accompagnati dalle solite accuse e dal grido “la Francia siamo noi” e non questa accolita di cosmopoliti senza dio, senza
patria, senza famiglia e dreyfusardi. Quel giorno stesso una
folla rumoreggiante si raccolse attorno alla casa dei Curie a
Sceaux, alle porte di Parigi. Marie Curie e la sua famiglia
erano ormai assediate al grido “Abbasso la straniera, ladra di
mariti! Tornatene in Polonia!” Sassi vennero lanciati contro
le finestre. Occorreva fare qualcosa [2,22].
La pubblicazione delle lettere di Marie aveva prodotto
dei cambiamenti anche in alcuni dei suoi amici e colleghi,
evidentemente non pronti ad accettare la sua storia d’amore.
Altri, i Perrin, i Borel, Jacques Curie, Loïe Fuller rimasero,
invece, al suo fianco. E sono i Borel, questa volta, a prendere
il timone in mano.
Marguerite Borel e Andrè-Louis Debierne (1874-1949),
chimico, da sempre collaboratore dei Curie, che nel 1899
aveva scoperto l’attinio e nel 1910 assieme a Marie aveva
isolato il radio metallico, si precipitano a Sceaux per affrontare la teppaglia e per proteggere Marie e Eve Curie (19042007), la più piccola delle sue due figlie. Lo stesso Debierne
si reca poi alla scuola frequentata dalla figlia maggiore Iréne
per sottrarla al clamore. Emil Borel prepara per tutte loro una
stanza in un suo appartamento alla Scuola Normale, di cui è
il Direttore. Qui Marie trova finalmente riparo.
La situazione diventa complicata e incandescente. Il ministro della pubblica istruzione convoca Borel e gli ingiunge
di far sloggiare la Curie da un appartamento che appartiene
all’Università, un’istituzione che lei, con la sua presenza, sta
screditando. Il ministro minaccia di rimuovere Borel dal suo
incarico, Borel non indietreggia di un passo. Terrà le Curie
a casa sua finché sarà necessario ed è pronto a presentare le
proprie dimissioni e quelle di altri docenti della Sorbona e a
farne un caso pubblico se il ministro insiste. Borel non verrà
rimosso e Marie rimarrà in quella casa alla Sorbona.
Marguerite Borel è convocata da suo padre, Paul Appel,
preside della facoltà di scienze della Sorbona, che aveva sostenuto Marie nella sua battaglia per l’Accademia, ma che
oggi chiede alla figlia di non immischiarsi in questo affare e
le rivela che si sta pensando di chiedere a Marie di lasciare
la Francia e proseguire il suo lavoro in Polonia. Marguerite è
furibonda, e risponde al padre “Se tu giocherai un ruolo qualsiasi in questo idiota movimento nazionalista, se insisterai
con la richiesta che la Curie debba abbandonare la Francia,
giuro che non mi rivedrai mai più”. Del trasferimento forzato
della Curie in Polonia non se ne farà più niente [15]. Per il
momento Marie è salva, grazie al coraggio civile di pochi.
Durante i giorni nei quali Marie rimarrà dai Borel molte
cose succedono. I suoi amici intervengono a più riprese. Jacques Curie manda una lettera aperta ai giornali in sua difesa,
piena di dignità e buon senso. Il matematico Paul Painlevè
trasforma la sua conferenza all’Associazione degli studenti
universitari in una apologia di Marie. Altri, come Loïe Fuller, vanno ostentatamente a visitarla.
Ma, mentre sugli altri periodici la storia sembra perdere
peso, l’Oeuvre continua nella sua campagna, annunciando,
fra l’altro, che Jeanne Langevin ha denunciato per abbandono del tetto coniugale Paul, e che Paul e Marie sono stati
convocati in tribunale per il 9 dicembre. In teoria, il giorno
dopo, il 10 dicembre, Marie dovrebbe essere a Stoccolma per
ricevere il premio Nobel. Gli eventi sembrano precipitare di
nuovo.
Paul Langevin sfida a duello Gustave Téry. Il duello avviene il 26 novembre, al mattino, nel bosco di Vincennes, ma
nessuno dei due spara, ci si limita solo a puntare le armi. Lo
stesso giorno una viva descrizione del mancato duello compare su diversi quotidiani di Parigi. La notizia fa il giro del
29
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mondo e raggiunge anche la Svezia.
Svante Arrhenius (1859-1923), chimico svedese, premio
Nobel per la chimica nel 1903 e membro del comitato per
il Nobel, scrive a Marie dicendole che per lui e molti colleghi è preferibile che lei non si faccia vedere il 10 dicembre
alla premiazione e che qualora l’Accademia avesse creduto
all’autenticità delle lettere non le avrebbe conferito il premio [2]. Marie Curie è profondamente addolorata e distrutta,
scrive a Gösta Mittag-Leffler, che ancora una volta è dalla
sua parte, e si consiglia con lui sul da farsi. Infine spedisce
una lunga lettera a Arrhenius rivendicando la validità del suo
lavoro scientifico, chiedendo rispetto per la sua vita privata e
annunciando che sarà a Stoccolma, pronta a ricevere il premio. La lettera termina con la frase: “In tutta questa vicenda
penso di non aver nulla da rimproverarmi, se non di aver
trascurato i miei interessi.” [24].
Così Marie sarà a Stoccolma, accompagnata dalla figlia
Irène e dalla sorella Bronia, e riceverà dalle mani del re di
Svezia il suo secondo premio Nobel. Il discorso di accettazione del premio sarà privo di paure e pieno di rivendicazioni
dei suoi meriti.
Ma lo stress è stato troppo, appena tornata in Francia la
Curie avrà un crollo psicofisico e dovrà essere ricoverata in
ospedale [25]. Nel frattempo, il 9 dicembre, Paul Langevin
e Jeanne si separano e nella causa di separazione non viene
fatta alcuna menzione di Marie Curie. Paul e Marie rimarranno buoni amici per il resto della loro vita, ma la loro storia
d’amore è irrimediabilmente finita.
Il 1912 sarà l’anno del recupero e della guarigione, opera
soprattutto di Hertha Ayrton, la fisica inglese amica di Marie,
che la invita a trascorrere con le figlie un lungo periodo in
Inghilterra, in incognito, lontano dai riflettori e dalla stampa
francese. Un lungo soggirono che coinciderà con il punto più
alto del movimento delle suffragette, di cui Hertha Ayrton è
una delle espeonenti più importanti e la sua casa un punto di
riferimento.
Hertha Ayrton ha molti punti in comune con Marie Curie e ha avuto anch’essa una vita piena di difficoltà e scontri affrontate con un piglio molto battagliero [26]. Anche
lei, scienziata sposata con uno scienziato, quando William
Ramsay (1852-1916), chimico scozzese, premio Nobel per la
chimica nel 1904, se ne uscì con la battuta che il merito delle
donne scienziato era dovuto agli uomini coautori dei loro articoli, rispose con grande spirito che, guarda caso, anche Sir
William Ramsay aveva sempre pubblicato lavori assieme a
dei collaboratori maschi.
Hertha Ayrton (1854-1923), alla nascita Phoebe Sarah
Marks, adottò il nome Hertha da adolescente prendendo
spunto da un poema popolare dell’epoca che attaccava le
convenzioni religiose. Rimase per tutta la vita un’agnostica, comunque sempre orgogliosa della sua origine ebraica.
Avendo presto perso il padre, un orologiaio che era dovuto
fuggire dalla Polonia, cominciò giovanissima a lavorare per
potersi mantenere agli studi e per aiutare la madre a mantenere la numerosa famiglia, otto fra fratelli e sorelle.
30
Hertha fu sempre incoraggiata nei suoi intendimenti dalla
madre, dalla scrittrice George Eliot (1819-1880) che la prese
a modello per il personaggio di Mirah nel suo romanzo Daniel Deronda, e da Barbara Leigh-Smith Bodichon (18271891) che l’appoggiarono anche finanziariamente. Barbara
Bodichon era una delle più note militanti del movimento per
il voto alle donne. Nel 1857 aveva scritto il libro Women
and Work e nel 1866 aveva fondato il primo comitato per
il suffragio femminile. La Bodichon contribuì pure alla nascita del primo collegio femminile a Cambridge, il Girton
College, fondato nel 1873, che solo nell’aprile 1948 verrà,
per un numero ristretto di donne, aggregato all’Università di
Cambridge, mentre il suo pieno riconoscimento ci sarà infine
nel 1972 [27].
Hertha riuscì ad essere ammessa al Girton College nel
1876, dove si diplomò in matematica. A quel tempo non era
permesso alle donne conseguire una laurea. La Ayrton lavorò allora come insegnante iscrivendosi in seguito, nel 1884,
al Collegio Tecnico di Finsbury. Qui costruì uno sfigmomanometro e inventò uno strumento per la divisione esatta delle
linee [28].
Nel 1885 sposò William Edward Ayrton (1847-1908),
professore di fisica e ingegnere elettrico, politicamente progressista, vedovo e con una piccola figlia a carico, Edith Ayrton (1879-1945), la quale divenne scrittrice e sposò Israel
Zangwill (1864-1926), anche lui scrittore e noto esponente
del movimento sionista. William e Hertha ebbero una figlia, Barbara Bodichon Ayrton (1886-1950). Entrambe le
ragazze, Barbara e Edith, giocheranno un ruolo importante
nel movimento di emancipazione delle donne, nella battaglia
delle suffragette.
Nel 1893 Hertha riprese i suoi studi e le sue ricerche scrivendo diverse lavori sulla lampada ad arco, che confluirono
in un libro molto diffuso, pubblicato nel 1902 [29]. Nel 1899
ricevette, per le sue pubblicazioni, un premio dall’Istituto degli Ingegneri Elettrici (IEE) e ne divenne nello stesso anno il
primo membro donna. All’epoca l’istituto contava ben 3300
membri. Fu anche la prima donna a tenere un seminario di
fronte alla Royal Society nel 1904. Royal Society che l’insignì, nel 1906, della prestigiosa medaglia Hughes, ma che,
nel 1902, le aveva rifiutato l’affiliazione in quanto donna
maritata. Occorrerà aspettare il 1946 per avere la prima donna membro della Royal Society [27,30].
Nei primi anni del novecento Hertha passò ad occuparsi
di problemi di idrodinamica e dinamica dei materiali discreti
[31]. E’ sua una notevolissima monografia, oggi riscoperta
e apprezzata, sulle ondulazioni, le increspature e il movimento della sabbia, ricca di ingegnosi esperimenti, svolti costruendo appositi strumenti [32]. Fu tale lavoro a portarla a
Parigi per una presentazione dove ebbe modo di riincontrare
Marie Curie, conosciuta a Londra nel 1903, di cui era diventata grande amica. La sua attività scientifica, così come la
sua amicizia con Marie, durò tutta la vita, fino alla sua morte
nel 1923.
Hertha Ayrton si era da sempre impegnata in battaglie sociali, soprattutto in favore dell’emancipazione delle donne e
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fu sempre pronta ad agire in prima persona. Già nel 1876 si tà, impreparate, per motivi di salute. Fu il primo di una lunera iscritta alla Società centrale per il suffragio alle donne. ga serie di scioperi della fame; negli anni se ne conteranno
Fece poi parte della Unione nazionale delle società per il suf- diverse centinaia. Nel settembre 1909 il governo, temendo
fragio alle donne (NWSS) partecipando a diversi congressi, le conseguenze degli scioperi della fame, varò una nuova
moltissime manifestazioni e comizi, anche come oratrice. legge, che imponeva la nutrizione forzata delle prigioniere
L’11 dicembre del 1906 era presente al famoso banchetto al con mezzi violenti e degradanti, utilizzando imbuti e tubi inSavoy Hotel di Londra organizzato dalla NWSS per festeg- seriti a forza in bocca, nel naso, nel retto delle prigioniere. I
giare la liberazione delle femministe imprigionate per le loro resoconti e le immagini di tali trattamenti crearono ancora
maggiore malcontento ed un’enorme indignazione [35].
proteste.
Nel 1907 la Ayrton passò alla più
radicale WSPU (Unione sociale e
Il 18 novembre del 1910, a 56
politica delle donne), fondata da
anni, Hertha Ayrton era in piazza
Emmeline Pankhurst (1858-1928)
con altre 300 attiviste a circondare
e dalle sue figlie Christabel (1880il parlamento che aveva rifiutato
1958), Sylvia (1882-1960) e Adela
di discutere l’ennesima proposta di
(1885-1961) Pankhurst, divenendare la possibilità del voto ad un
done una importante sostenitrice
certo numero di donne. Quel giorno passerà alla storia come “Black
economica e una militante attiva,
Friday”, il venerdì nero. I poliziotti,
assieme alle figlie Barbara e Edith
assieme ad una vera e propria teppa,
Zangwill. Nel 1909 si espresse,
si scatenarono in numerose violencome molte, in favore del passaggio
ze, anche sessuali, contro le dimoa metodi più radicali, vista l’inutilità
stranti. Molte donne furono picchiadelle proteste portate avanti fino ad
te e brutalizzate, due morirono nei
allora e le sempre maggiori violenze esercitate dalle autorità e dagli
giorni successivi e vi furono più di
cento arresti, e conseguenti scioperi
avversari politici sulle suffragette
[33,34].
della fame.
Le femministe cominciarono a
Allora il governo inglese adottò un’altra strategia. Con una leginterrompere i comizi politici, a gettare sassi contro le finestre del parlage, passata alla storia con il nome
mento, contro Downing Street e poi
di “Disposizione del Gatto e del
Topo” (Cat and Mouse Act), fu decontro le vetrine delle sedi dei quotiHertha Marks Ayrton (portrait by Dalal-N)
ciso che, non appena le condizioni
diani, di grandi magazzini e negozi.
delle scioperanti fossero state gravi,
Venne dato inizio ad una campagna
di disubbidienza civile; manifesti e graffiti cominciarono ad per evitare una morte in carcere e la relativa enorme risonanapparire sui muri delle città, si scrivevano slogan con il gesso za, esse venissero rilasciate, per dover poi rientrare in prisui marciapiedi, le multe non venivano pagate e ci furono gione non appena risanate. Da parte delle suffragette furono
danneggiamenti della corrispondenza, mediante versamento organizzati dei luoghi sicuri, uno di questi era l’appartamendi acidi nelle buche postali. Ne seguì un altissimo numero di to di Hertha Ayrton, dove le prigioniere appena rilasciate venivano curate, adeguatamente rifocillate e rimesse in piedi
arresti, condanne e imprigionamenti.
Il 22 giugno del 1909 Marion Wallace-Dunlop (1864- e fu creata una rete clandestina in patria e all’estero per far
1942), un’artista, attivista della WSPU, stampò con inchio- scappare chi voleva, o doveva, fuori dall’Inghilterra.
stro indelebile (scelse il viola come simbolo di dignità) un
Di fronte alla sordità e alla violenza del potere la lotta delle
manifesto di protesta su una parete della sala di St. Stephen suffragette divenne sempre più dura. Centinaia di militanti fia Westminster, allora l’entrata principale del Parlamento. nirono in carcere, a decine fecero ripetuti scioperi della fame,
Il manifesto riportava l’annuncio di una manifestazione di spesso rovinandosi la salute e pagando enormi prezzi [36].
Una di queste fu proprio Barbara Ayrton, la figlia di Hermassa in Parliament Square per il 29 giugno, durante la quale vennero arrestate 108 suffragette, e riproduceva un pas- tha, che aveva studiato chimica e fisiologia al London Colsaggio, sul diritto alla protesta, del Bill of Rigths del 1689, lege e che nel 1906 si era iscritta alla WSPU di cui era didichiarazione che rappresenta di fatto il fondamento della ventata una delle migliori organizzatrici. Fu fra le ispiratrici
costituzione inglese. Questa dichiarazione era stata ratificata della grande campagna del 1910, durante la quale ci furono
enormi manifestazioni in tutto il paese con decine e decine di
proprio in quella sala.
Imprigionata per quell’atto, Marion iniziò il 5 luglio uno migliaia di persone. Nel marzo 1912 Barbara venne arrestata,
sciopero della fame per chiedere che alle suffragette fosse insieme a varie altre militanti, per aver distrutto, a sassate,
riconosciuto il ruolo di prigioniere politiche. Dopo giorni di delle vetrine in Regent Street, durante un vero e proprio raid
astensione dal cibo, il 9 luglio, venne rilasciata dalle autori- organizzato nel West End londinese, che vide fra l’altro la
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devastazione dei magazzini Harrods. Barbara fu imprigionata ad Holloway, il duro carcere londinese, dove partecipò ad
uno sciopero della fame. Sempre sostenuta dalla madre Hertha, Barbara, nel 1913, fu costretta a fuggire in Francia. Lì
rimase per diversi mesi (chissà? Forse sarà stata ospite della
Curie), nel pieno di una campagna sempre più militante [37].
Le attiviste del movimento, infatti, non solo continuavano a rompere finestre e vetrine, a interrompere cerimonie e
comizi, a pedinare e disturbare gli uomini politici avversi al
suffragio e talvolta a distruggerne le automobili, ma, dopo la
morte di una di loro, Emily Davison (1872-1913), che per
protesta aveva tentato di interrompere il Derby ad Epsom ed
era stata travolta da un cavallo di proprietà del re Giorgio
V (1865-1936), in molte cominciarono una vera e propria
campagna di incendi dolosi. Diverse case, edifici pubblici,
chiese, stazioni, sedi di giornali, uffici postali, club e ritrovi
sportivi vennero dati alle fiamme [38].
Non tutte, fra cui Sylvia e Adela Pankhurst e le Ayrton, furono d’accordo con questo ulteriore inasprimento, e abbandonarono la WSPU. In particolare Hertha, Barbara e Edith
Ayrton, nel 1914, fondarono una nuova organizzazione, le
United Suffragists, movimento teso ad una collaborazione
con il mondo operaio, di cui Barbara Ayrton fu il primo segretario.
Sulle Ayrton, sulle Curie, sul movimento femminista, su
tutti si abbatté nell’agosto del 1914 la stupida e terribile prima guerra mondiale, in cui milioni di europei, intere generazioni, andarono al macello. Nulla più rimase uguale.
Emmeline e Christabel Pankhurst divennero rapidamente
delle scatenate nazionaliste. Christabel tornò in settembre
a Londra da un lungo esilio per impegnarsi a fondo in una
nuova campagna, questa volta in favore della guerra. Il movimento femminista scemò e il giornale The Suffragette vide
il suo nome mutato in Britannia. Sylvia e Adela Pankhurst si
schierarono, invece, con il fronte pacifista.
Hertha e Marie reagirono, da scienziate, a loro modo. La
prima, Hertha, inventando, a partire dalle sue ricerche di fluidodinamica, un sistema di ventilazione per liberare le trincee
dai gas [39]. La seconda, Marie, grazie alle sue grandi capacità organizzative, mettendo in piedi, con la figlia Irène, un
sistema di ambulanze dotate di macchine per i raggi x portatili, alimentate da una dinamo collegata al motore. Il primo
mezzo di questo tipo al mondo. Impararono a guidarle loro
stesse. Queste ambulanze saranno attive su molti fronti, anche su quello italiano, contribuendo così a salvare molte vite.
Oltre 150 donne verranno istruite dalle due Curie all’utilizzo
dei raggi x [12].
Barbara Ayrton-Gould lavorò per mantenere vivi gli ideali femministi e, dopo la guerra, entrò nel partito laburista,
dove fu per più di venti anni membro, poi vicepresidente e
presidente del comitato esecutivo. Più volte candidata al parlamento, sarà deputata dal 1945 al 1950.
Solo alla fine della guerra, nel 1918, un limitato numero di
donne, le nubili con un certo reddito al di sopra dei 30 anni,
poté accedere al voto in Gran Bretagna. Il suffragio univer32
sale per tutti i maggiori e le maggiori di 21 anni fu introdotto
nel 1928. In Francia e in Italia il suffragio per le donne arrivò
solo dopo la resistenza e la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945 e 1946. In Svizzera nel 1971. Per ritrovare un
movimento femminista dell’ampiezza e diffusione di quello
dei primi anni del Novecento occorrerà aspettare gli anni ‘60
e ‘70.
Se è pur vero che Marie Curie è sempre stata restia a prendere apertamente posizioni impegnate e che la gran parte dei
suoi interventi pubblici è sempre e solo stata a favore della
scienza e della ricerca, la figlia Irène ci ricorda che in lei
esisteva “un femminismo intransigente, una rivolta contro
lo stato sociale presente, un desiderio passionale di veder
realizzata la pace e la comprensione tra i popoli”. Non a
caso le uniche prese di posizione “politiche” di Marie Curie
sono state quella a favore delle femministe imprigionate in
Inghilterra, apponendo la sua firma ad un appello del 1912
su richiesta di Hertha Ayrton e un intervento, su insistenza di
Irène, in favore di Sacco e Vanzetti, contro la pena di morte
a loro inflitta negli anni ‘20.
Notevole è stata anche l’attività di Marie Curie nell’istituto da lei fondato. Qui, durante la sua direzione, furono attivi
ricercatori di 15 diverse nazionalità, di differenti credi politici e religioni. In particolare un numero non indifferente
di scienziate, oltre cinquanta, a partire dalla figlia Irène, ha
lavorato presso il laboratorio di Marie Curie, sempre disponibile ad assumere ricercatrici di talento. Nel 1931, ad esempio, su 37 ricercatori impegnati presso l’Istitut du Radium,
ben 12 erano donne, una percentuale rimarchevole, non solo
per quell’epoca.
Per molte di queste ricercatrici la permanenza presso l’Istituto Curie fu l’avvio e/o il trampolino di lancio della loro
carriera scientifica. Di seguito alcuni esempi, che mostrano
sia la grande personalità che la forza morale e l’impegno civile di molte delle ricercatrici passate dall’Istituto Curie, e
anche l’insieme dei risultati ottenuti e la rete di collaborazioni e amicizie nate nel lavoro comune [40-44].
Harriet Brooks-Pitcher (1876-1933) fu la prima fisica
nucleare canadese. Prima donna a ricevere un master alla
McGill University di Montreal sotto la supervisione di Ernest Rutherford. Dopo aver passato un periodo al Cavendish
Laboratory di Cambridge, lavorò all’inizio del secolo sotto
la guida di Marie Curie a Parigi. Qui si occupò del rinculo
radioattivo e del decadimento dell’attinio. Nel 1904 ottenne
un posto al Barnard College, affiliato alla Columbia University di New York. Nel 1907 si sposò e fu costretta a lasciare
l’università, condizione allora obbligatoria per le donne maritate.
Ellen Gleditsch (1879-1968), chimica norvegese, lavorò
fra il 1907 e il 1912 all’Istituto di Marie intorno all’ipotesi di William Ramsay sulla trasmutazione del rame in litio.
Riuscì a confutare brillantemente questa tesi in una pubblicazione congiunta con Marie. La Gleditsch, in quanto donna, non aveva potuto frequentare l’università in Norvegia,
riuscendo solo ad ottenere un titolo non accademico in chimica. Lavorando presso la Curie ottenne nel 1911 la laurea
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in scienze alla Sorbona. Superando altre difficoltà connesse
al suo genere, fu rifiutata per questa ragione da Theodor Lyman (1874-1954) ad Harvard, divenne una ricercatrice molto
nota. Annoverata fra i migliori radiochimici del mondo fu
autrice di diversi libri sulla radioattività, di un libro di testo
di chimica inorganica e di una biografia del fondatore della chimica Antoine Lavoisier (1743-1794). Nel 1917 fu la
seconda donna a essere eletta all’Accademia delle Scienze
di Oslo. Tornò più volte come visitatrice all’Istituto Curie
intessendo una fitta rete di amicizie e collaborazioni internazionali e portando con sé due giovani ricercatrici norvegesi Randi Holwech (1890-1967), nel 1919-1920, e Sonja
Dedichen (1902-1998), nel 1924-1925. Solo nel 1929 riuscì
a ottenere una posizione permanente all’Università di Oslo,
seconda donna professoressa in Norvegia, dove rimase fino
alla pensione. Dopo la presa del potere da parte di Hitler in
Germania e l’annessione dell’Austria agì in prima persona,
organizzando l’espatrio e nuove possibilità di impiego per
diversi ricercatori e ricercatrici ebrei e oppositori del regime.
Durante la seconda guerra mondiale, già oltre i sessanta anni,
fu particolarmente attiva nella resistenza norvegese all’occupazione nazista. Per lungo tempo fu anche leader della Federazione Internazionale delle Donne Universitarie e membro
del comitato di controllo internazionale delle armi nucleari
dell’UNESCO. Nel 1962, a 83 anni, divenne la prima donna
a ricevere un dottorato “ad honorem” dalla Sorbona di Parigi.
Lucie Blanquies (1883-?), francese, lavorò nel laboratorio
di Marie tra il 1908 e il 1910, scrivendo una serie di articoli
sui raggi α prodotti da differenti sostanze radioattive e sui
prodotti di decadimento della serie dell’attinio.
Eva Ramstedt (1879-1974), fisica svedese, studiò e pubblicò diversi lavori insieme alla Curie, fra il 1910 e il 1911,
sul radon, il gas emanazione del radio, e fu successivamente
ricercatrice per molti anni presso l’istituto Nobel di Stoccolma, guidato da Svante Arrhenius. Dopo il suo soggiorno a
Parigi collaborò a lungo con Ellen Gleditsch, assieme alla
quale scrisse diverse pubblicazioni e libri, fra cui il primo libro di testo scandinavo sulla radioattività. Ricoprì dagli anni
’20 fino al pensionamento, nel 1945, il ruolo di professoressa
all’Università e al Teacher Training College di Stoccolma.
Attiva, anche lei, a lungo nella Federazione Internazionale
delle Donne Universitarie, ne divenne vice presidente dal
1922 al 1930 e presidente del comitato internazionale dal
1920 al 1945.
May Sybil Leslie (1887-1937), chimica inglese, nel periodo 1909-1911 lavorò, con una borsa di studio, dalla Curie
allo studio del torio, studio che continuò poi nei laboratori
di Ernest Rutherford a Manchester. Durante la prima guerra
mondiale lavorò in fabbrica, quale responsabile della produzione industriale di acido nitrico. Alla fine della guerra venne
licenziata per far posto ai suoi colleghi maschi tornati dal
fronte. La Leslie scrisse molti articoli e diversi libri di testo e divenne infine, nel 1928, professoressa all’Università
di Leeds. La Leslie, la Gleditsch e la Ramstedt rimasero in
contatto per tutta la loro vita scientifica, pubblicando anche
dei libri assieme e tenendo in vita un’ampia rete di collabo-
razioni.
Margarethe von Wrangell (1877-1932), nata a Mosca,
studiò a Lipsia e ottenne un dottorato a Tübingen nel 1909
in chimica. Lavorò a Londra da William Ramsay e in seguito a Parigi da Marie Curie. Successivamente cambiò il
suo campo di studi dalla radiochimica alla chimica agraria,
interessandosi di fosfati e dirigendo dal 1912 una stazione di
ricerca a Tallin in Estonia. In seguito alla rivoluzione bolscevica emigrò in Germania dove lavorò per un periodo al Kaiser-Wilhem Institut di fisica-chimica a Berlino, collaborando
con Fritz Haber (1868-1934), premio Nobel per la chimica
del 1918 per la sintesi dell’ammoniaca. Nel 1923 la Wrangel
divenne professoressa presso l’Hochschule di Hohenheim,
vicino Stoccarda, dove diresse fino alla morte l’Istituto per
la nutrizione delle piante.
Jadwiga Szmidt (1889-1940), fisica polacca, studiò alla
Sorbona e lavorò nel laboratorio di Marie nel 1911. Collaborò con la Gleditsch e la Leslie, lavorando poi a lungo, anche
lei, presso il laboratorio di Ernest Rutherford a Manchester.
Dopo la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica divenne ricercatrice dell’Istituto Radiologico del nuovo
Politecnico di San Petersburg/Leningrado collaborando con
Abram Joffe (1880-1960), dove rimase fino alla morte.
Irèn Götz (1889-1941), ungherese, attiva a Parigi dal 1911
al 1913, dove si occupò di studi sul radon, ottenne un dottorato “ad honorem” dall’Università di Budapest nel 1912.
Nel 1919 fu nominata dal governo rivoluzionario ungherese
professoressa di chimica teorica all’Università di Budapest,
la prima donna ordinario in Ungheria. Costretta a fuggire,
pochi mesi dopo, dal nuovo governo controrivoluzionario di
destra, la Götz lavorò dal 1922 al 1928 all’Università di Cluj
in Romania, per poi trasferirsi in Germania a Berlino fino
al 1931. Infine emigrò definitivamente in Unione Sovietica
dove divenne Direttrice dell’Istituto per le Ricerche sull’Azoto di Mosca. Qui morì di tifo nel 1941, allo scoppio della
seconda guerra mondiale.
Suzanne Veil (1886-1956) , francese, entrò nel laboratorio
di Curie nel 1912 per ottenere il dottorato in chimica. Nel
1924 ottenne il premio Cahours dell’Accademia di scienze.
Nel 1930 divenne capo laboratorio alla Scuola pratica di alti
studi di Parigi. Nel 1940, dopo l’occupazione del nord della
Francia, si trasferì a Grenoble alla Facoltà di scienze, per poi
tornare a Parigi alla fine della guerra.
Madeline Monin-Molinier (1898-1976), fisica francese, ricercatrice all’Istitut du Radium dal 1917 al 1921. Titolare di
una borsa di studio della Carnegie Foundation.
Elizabeth Rona (1891-1981) nata a Budapest, qui ottenne
il dottorato in chimica e fisica nel 1912 , per poi lavorare
nel laboratorio di Kasimir Fajans (1887-1975) all’Università Tecnica di Karlsruhe. Tornata in Ungheria fu costretta
a fuggire dopo la controrivoluzione del 1919. Passò prima
un periodo a Berlino da Lise Meitner (1878-1968) e Otto
Hahn (1879-1968), premio Nobel per la chimica 1944, e poi
fu attiva nell’istituto di Marie Curie, collaborando con lei e
Irène. Lavorò poi a lungo all’Istituto del Radio di Vienna con
Stefan Mayer (1872-1949) fino al 1938, quando l’Austria fu
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annessa alla Germania. Meyer fu costretto a dimettersi ed
Elizabeth dovette emigrare e per un certo tempo fu ricercatrice all’Università di Oslo nel gruppo di Ellen Gleditsch, che
aveva conosciuto a Parigi. Rona emigrò poi, nel 1941, negli
Stati Uniti dove lavorò, fra l’altro, nei Laboratori nazionali
di Oak Ridge. Attiva in numerosissime collaborazioni internazionali, fu una grande esperta nella separazione delle
sostanze radioattive, in particolare del polonio, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Polonium Woman”. Dopo essersi
cominciata ad occupare di oceanografia, nel 1965 si trasferì
all’Istituto di Scienze Marine dell’Università di Miami dove
rimase fino al pensionamento nel 1972.
Marthe Klein (1885-1953) , francese, fu collaboratrice di
Marie Curie dal 1919 al 1921 negli studi relativi all’utilizzo
dei raggi x nella diagnostica clinica. Si occupò durante la
prima guerra mondiale della formazione delle infermiere al
fronte all’utilizzo dei raggi x. In seguito sposò Pierre-Ernest
Weiss (1865-1940) fisico, esperto di magnetismo, seguendolo a Strasburgo.
Renée Galabert (1884-1956), francese, cominciò a lavorare presso l’Istituto di Marie Curie nel 1919. Nel 1923 assunse
la direzione del Servizio di Misure dell’Istituto, dove rimase
fino al 1934.
Sonia Slobodkine-Cotelle (1897-1945), chimica di origine polacca, si laureò alla Sorbona e lavorò per parecchi
anni nell’Istituto Curie, a partire dal 1919. Di lei rimangono
molte pubblicazioni, la maggior parte dedicate alla determinazione delle vite medie delle sostanze radioattive. Fu per
diversi anni attiva nel Servizio misure dell’istituto. Nel 1927
si ammalò gravemente dopo aver inavvertitamente ingerito
del polonio. Il suo caso fu uno dei primi a sollevare un forte
interesse per le conseguenze sanitarie dell’uso delle sostanze
radioattive. La gran parte dei collaboratori di Marie Curie,
compresa Marie stessa, la figlia Irène e il genero Frédéric
Joliot (1900-1958), moriranno a causa dell’esposizione alle
radiazioni.
Alicjia Dorabialska (1897-1975), polacca, nata nella zona
allora occupata dal regime zarista, si laureò a Mosca in fisica-chimica e, nel 1918, ottenne una posizione al Dipartimento di Chimica Fisica dell’Università di Varsavia, dove
completò nel 1922 il dottorato. Alicjia incontrò Marie Curie
durante un soggiorno di quest’ultima in Polonia nella primavera del 1925. Marie la invitò a passare un periodo nel suo
Istituto. Qui lavorò nel 1925-1926, e poi nel 1929, interessandosi soprattutto del determinazione accurata delle variazioni di calore che avvengono nelle trasmutazioni radioattive, un problema che rimase al centro della sua attenzione
negli anni seguenti. Nel 1934 divenne professoressa di chimica fisica presso la Università di Leopoli. La sua nomina,
in quanto donna, sollevò un’accesa discussione. Qui scelse
come sua assistente Ruth Bakken, che aveva studiato con
Ellen Gleditsch a Oslo. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, entrò a far parte attiva della resistenza,
organizzando fra l’altro diverse università clandestine. Gli
studi superiori erano stati proibiti dall’autorità tedesca occupante. Nel 1945, terminata la guerra, divenne professoressa
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di chimica al Politecnico di Varsavia e infine Direttrice del
Dipartimento di Chimica Fisica del Politecnico di Lodz, fino
alla sua pensione nel 1968. Morì a Varsavia nel 1975.
Jeanne Samuel-Lattes (1888-1979), chimica francese, attiva all’Istituto Curie dal 1921 al 1928, si interessò particolarmente degli effetti biologici delle radiazioni inventando una
tecnica per individuare le sostanze radioattive iniettate. Nel
1927 ottenne il dottorato alla Sorbona per le sue ricerche per
lavorare poi presso l’Istituto Henri Poincaré di Parigi.
Stefania Maracineanu (1882-1944), fisica rumena; negli
anni ‘20 studiò, presso l’Istitut du Radium della Curie, la
vita media del polonio e sviluppò un metodo per la determinazione dell’intensità delle particelle alfa. Qui ottenne, nel
1924, il dottorato. Dal 1925 al 1930 fu ricercatrice presso
l’Osservatorio Astronomico di Parigi. Fu poi attiva in patria
con posizioni dirigenziali, occupandosi anche di tematiche
legate all’ambiente e al clima.
Eliane Montel (1898-1992), chimica francese, che lavorò
nell’Istituto di Marie nel biennio 1928-1929 pubblicando ricerche sulla penetrazione del polonio nel piombo. La Montel
riuscì nell’impresa di citare in una sua pubblicazione lavori
di sole donne. Divenne professoressa alla Scuola Normale
di Sevres.
Mathilde Wertenstein, polacca, attiva nel campo delle proprietà elettrochimiche degli elementi radioattivi; lavorò negli
anni ‘10 e poi ebbe una borsa di studio negli anni ‘20 presso l’Istituto della Curie. Divenne infine ricercatrice presso il
Laboratorio radiologico della società scientifica di Varsavia.
Catherine Chamiè (1888-1950) nata a Odessa in Russia,
per studiare all’Università fu costretta a emigrare a Ginevra
dove ottenne un dottorato in fisica nel 1913, occupandosi
delle proprietà magnetiche della materia. Tornata a lavorare ad Odessa, un pogrom contro la comunità francese della
città, nel 1919, la costrinse a fuggire con tutta la famiglia in
occidente. Dopo un breve periodo passato in Svizzera, arrivò
a Parigi dove lavorò come insegnante per sostenere la famiglia. Nel 1921 fece domanda per entrare nell’Istituto Curie,
Marie l’assunse il 15 aprile del 1921. Catherine finì per rimanerci fino al suo pensionamento nel 1949, diventandone
una figura particolarmente importante, anche dal punto di vista amministrativo. Scoprì, fra l’altro, l’effetto Chamiè, una
particolare tecnica di esposizione fotografica delle sostanze
radioattive che permetteva di discriminare fra quelle solubili
e quelle insolubili. Si occupò della classificazione di materiali radioattivi e scrisse diversi lavori in collaborazione con
Marie Curie, con Irène Curie e Ellen Gleditsch. La Chamiè
pubblicò anche due libri di psicologia nel 1937 e nel 1950.
Antonia Eliszabeth Korvezee (1899-1978), chimica olandese, ottenne il dottorato in chimica nel 1930 all’Università
di Delft, in Olanda, e lavorò per diversi anni, a partire dal
1929, nell’Institut du Radium dando importanti contributi
in chimica teorica e fisica nucleare. Dopo grandi difficoltà,
dovute al fatto di essere donna, riuscì infine a divenire, nel
1953, ordinario di chimica teorica presso l’Università Tecnica di Delft, la prima donna professoressa in questa Università. Per ricordarla dal 1989 è nato il premio “Antonia
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Korvezee Equal Opportunities”
Branca Edmée Marques (1899-1976), chimica portoghese,
partì per Parigi nel 1931 rimanendovi vari anni, lavorando
alla separazione dell’attinio dai minerali di terre rare e ottenendo il dottorato alla Sorbona sotto la direzione delle due
Curie. Tornata in Portogallo divenne direttrice del primo
Centro di Ricerche in Radiochimica della Università di Lisbona, dove ottenne una cattedra nel 1966.
Marietta Blau (1894-1970), fisica austriaca, ottenne il dottorato nel 1919 e lavorò per molti anni, non pagata, all’Istituto
per la Ricerca sul Radio di Vienna. Una borsa di studio della
Federazione delle Donne Universitarie le permise di lavorare
a Göttingen e nel 1932-1933 e poi nel 1938 presso l’istituto
di Marie Curie. La Blau inventò un metodo fotografico per
la determinazione della traiettoria delle particelle, in seguito
molto utilizzato, ottenendo il premio dell’Accademia delle
Scienze di Austria nel 1937, insieme alla sua collaboratrice
Hertha Wambacher. Costretta ad abbandonare l’Austria nel
1938, in quanto ebrea, dopo l’occupazione tedesca, Marietta
Blau prima fu accolta in Norvegia da Ellen Gleditsch e poi
fu aiutata da Einstein a trovare una posizione in Messico e
successivamente negli Stati Uniti prima a Brookhaven e poi
all’Università di Miami. Nel 1960 ritornò in Austria, lavorando di nuovo, ancora non pagata, all’Istituto per la Ricerca
sul Radio di Vienna collaborando agli esperimenti al CERN
di Ginevra. La Blau è stata proposta diverse volte per il premio Nobel per la fisica, in particolare da Erwin Schrödinger
(1887-1961), uno dei padri della moderna meccanica quantistica, premio Nobel per la fisica nel 1933.
Alice Prebil (1907-1987), nata a Karlovac in Jugoslavia,
fu attiva nel laboratorio di Marie Curie fra il 1932 e il 1934,
collaborando in particolare con Iréne Curie sulla radioattività
artificiale. Lavorò anche presso il Radium Institute di Berna in Svizzera e l’Istituto Superiore di Sanità di Roma dove
collaborò con il direttore Domenico Marotta (1886-1974).
Sposò negli anni trenta Philip Leigh-Smith (1892-1967),
diplomatico e scrittore, nipote di Benjamin Leigh-Smith
(1828-1913), famoso esploratore artico e fratello di Barbara
Bodichon, la mentore di Hertha Ayrton. Divenuta inglese,
Alice continuò la sua carriera scientifica in Gran Bretagna.
Hélène Emmanuel-Zavizziano, di origine greca. Arrivò
negli anni ‘30 all’istituto di Marie e pubblicò diversi e significativi lavori sul protoattinio.
E infine Marguerite Perey (1909-1975) che lavorò all’Institut du Radium per venti anni. Non avendo mezzi economici per frequentare l’università la Perey era diventata un
tecnico chimico. Marie Curie la prese nel 1929 come sua
assistente e ne curò la formazione. Nel 1939 la Perey scoprì
un nuovo elemento chimico, l’ultimo che mancava nella tabella periodica, a cui diede il nome di francio in onore della
Francia, così come la Curie aveva chiamato polonio, il primo
elemento da lei scoperto, in onore della Polonia. Ottenuto
un dottorato in scienze nel 1946, la Perey, nel 1949, divenne
professoressa di chimica nucleare all’Università di Strasburgo e infine, nel 1962, divenne la prima donna eletta all’Acca-
demia delle Scienze di Francia, quella posizione che era stata
negata sia a Marie nel 1911 che a Irène Curie negli anni ‘50.
A differenza della madre, Irène si era ostentatamente candidata per ben tre volte, facendone ogni volta un caso pubblico.
Non solo la vita di Marie Curie è stata particolare, anche
quella della sua famiglia ha avuto tratti fuori dalla normalità.
Ai premi Nobel di Marie e di suo marito Pierre del 1903 per
la fisica e di Marie nel 1911 per la chimica, vanno aggiunti
quelli della figlia Irène e di suo marito Frédéric Joliot per la
chimica nel 1935. Nel 1936, Irène fu anche sottosegretaria
alla ricerca scientifica per il governo popolare di Leon Blum.
In quella coalizione, per la prima volta in Francia, furono
presenti donne con responsabilità di governo. Lei e soprattutto il marito, assieme a Paul Langevin, furono poi fra le figure più significative della resistenza francese nei lunghi anni
della occupazione nazista, durante i quali l’Istituto Curie fu
posto sotto controllo.
Nel 1946 quando fu fondata la CEA (Commissione per
l’Energia Atomica) Frédéric ne sarà il direttore e Irène uno
dei commissari. Sotto la guida di Frédéric Joliot-Curie, nel
1948, fu costruito il primo reattore nucleare francese. Nei
primi anni 50 entrambi i Curie-Joliot furono fatti dimettere
dalle loro posizioni nella CEA per le loro simpatie di sinistra.
In una sorta di specchiamento della vicenda Marie-Pierre, fu
Frédéric, questa volta, a succedere, alla morte di Irène nel
1956, a sua moglie alla cattedra di fisica nucleare.
L’altra figlia di Marie, Eve Curie, ha attraversato tutto il
secolo, diventando un’apprezzata concertista e scrittrice.
Fuggita dalla Francia dopo l’occupazione tedesca del 1940 si
impegnò da Londra nella guerra al nazifascismo. Coeditrice
del quotidiano Paris Presse dal 1945 al 1949, fu nominata nel
1952 consigliere speciale del segretario generale dell’ONU.
Nel 1954 sposò Henry Richardson-Labouisse (1904-1987),
diplomatico degli Stati Uniti, che fu per 15 anni direttore
dell’UNICEF, ritirando, così, di persona il premio Nobel per
la pace conferito all’UNICEF nel 1965. Eve Curie fu anche
la prima biografa di Marie. Il suo libro, Madame Curie, pubblicato nel 1937, contribuì fortemente alla creazione del mito
di Marie, angelo del laboratorio, musa della ricerca e genio
ossessivo. Il libro, più volte trasposto in film e sceneggiati,
rappresentò la canonizzazione della figura pubblica di Marie.
Nulla in questa biografia veniva detto sulla storia d’amore fra
Marie e Paul Langevin e sullo scandalo conseguente.
Ma, ironia e, talvolta, tenerezza della Storia, una nipote
di Marie, Hélène Langevin-Joliot (1927-), figlia di Irène e
Frèdèric Joliot, anche lei fisica nucleare, fra le prime donne a
dirigere un laboratorio del CNRS francese e particolarmente
attiva nella battaglia per un sempre maggior riconoscimento del ruolo delle donne nell’attività scientifica, conobbe sui
banchi dell’università e poi sposò Michel Langevin (19261985), anche lui fisico e nipote di Paul Langevin, chiudendo
in qualche modo il cerchio dolce e maledetto, esploso nel
1911.
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Marie-Sophie Germain: matematica e
fisica romantica dell’800
VINCENZO VILLANI
Dipartimento di Scienze, Università della Basilicata
N
el 1809 Ernst Chladni (1756-1827, fisico
tedesco) pubblicò dei risultati sorprendenti, le cosiddette figure di Chladni: queste
si formano facendo vibrare una lastra
sottile ricoperta di sabbia fine. Gli esperimenti erano effettuati spargendo su di una lastra di vetro
della sabbia e facendola vibrare, ‘suonandola’ con un archetto; la sabbia salta via ‘danzando’ dalle zone in vibrazione e
si accumula lungo le ‘linee nodali’, cioè i luoghi dei punti
che restano immobili durante le vibrazioni. Rapidamente la
membrana si ricopre di figure fantastiche in cui i nodi formano schemi geometrici complessi e simmetrici. Il risultato
dipende dalla forma della superficie, dalla frequenza di vibrazione e dalla posizione dei sostegni.
Nel 1808 Chladni aveva presentato i suoi esperimenti a
Parigi all’Accademia delle Scienze: l’esito fu tanto affascinante che fu invitato a ripeterli al cospetto di Napoleone che
ammirato propose all’Accademia di conferire una medaglia
d’oro da un chilo a chi sarebbe riuscito ad elaborare una teoria capace di spiegare le figure. Il concorso fu bandito nel
1809 con il termine di due anni con l’obiettivo di elaborare la
teoria dei modi normali di vibrazione di una membrana elastica: è questo un tema che rimane di grande importanza teorica e tecnologica in special modo nella scienza dei materiali.
Mademoiselle Sophie Germain a quel tempo aveva trentatre anni e fino allora si era occupata di teoria dei numeri primi
e dell’ultimo teorema di Fermat in una fitta corrispondenza
col grande matematico tedesco Carl Friedrich Gauss (17771855) comunicando in incognito sotto il nome di AntoineAugust Le Blanc! Come è ben noto, anche nella Francia
post-rivoluzionaria la partecipazione delle donne alla vita
sociale era piena di barriere e pregiudizi e le università e
le accademie del tutto precluse. Sophie intraprese una lotta
impari e dolorosa contro questo stato di cose raggiungendo
risultati illustri ma restando sempre discriminata dal mondo
della scienza dell’800.
Marie-Sophie nacque a Parigi nel 1776 in una famiglia benestante della borghesia liberale e colta. Studiò da autodidatta quanti più libri di matematica poté nella ricca biblioteca
paterna. In questo suo ‘strano’ interesse fu osteggiata dai genitori, riducendosi a studiare, nelle notti d’inverno, avvolta
nelle coperte, al lume di una candela e con l’inchiostra che
gelava nel calamaio, per non farsi scoprire…Infine i suoi cedettero e la sostennero nella sua vocazione per tutta la vita,
troncata prematuramente nel 1831 per un cancro al seno. La
sua fu una vita romantica, fatta di slanci eroici verso i problemi fisico-matematici più ardui del tempo.
Sophie afferrò al volo l’opportunità offerta dal concorso
sulle figure di Chladni e per più di un decennio si occupò
di teoria dell’elasticità, competendo e collaborando con ma37
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
matematico, tanto geniale quanto
tematici e fisici illustri come La‘velenoso’. Poisson spiegò le vigrange, Poisson e Fourier, orgobrazioni della superficie elastica
gliosa di cimentarsi alla frontiera
applicando il modello newtoniadella scienza dell’800.
no: la membrana consiste di parPer affrontare la teoria delle
vibrazioni Marie-Sophie intraticelle interagenti mediante forze
prese lo studio della Mécanique
attrattive e repulsive proporzionali
Analytique di Lagrange ed i saggi
alla variazione delle distanze intermolecolari. Sotto ipotesi strindi Euler sulle barre elastiche: nel
genti, alle condizioni di equilibrio
1757 Euler aveva risolto il problema della deformazione di una tradel sistema ricavò l’equazione
ve e nel 1767 esplorato la teoria
di Lagrange-Germain. Nel 1814
della deformazione e vibrazione
Poisson pubblicò il suo lavoro sulle superfici elastiche: come accadi una lamina, usando i risultati per studiare le vibrazioni delle
demico non poteva concorrere al
campane. Egli aveva stabilito che
premio, ma molti fisici ritennero
la forza elastica di una barra è
che il meccanismo fisico alla base
proporzionale alla curvatura della
delle figure di Chladni fosse spieMarie-Sophie
Germain
gato.
barra stessa ed aveva modellato la
Nel 1815 Sophie pubblicò il termembrana con un reticolo ortogonale di linee flessibili derivando un’equazione differenziale zo saggio sull’elasticità: ‘Ho rimpianto fortemente di non esalle derivate parziali.
sere stata a conoscenza della memoria di Poisson. Ho perso
Sophie adottò la teoria di Euler: in ogni punto di una su- molto tempo per me prezioso in attesa della pubblicazione.’
perficie è possibile definire un insieme di curvature ottenute Ella attacca il metodo ab-initio di Poisson, fondato su entidall’intersezioni con piani perpendicolari. Quindi, la forza tà e forze ipotetiche, difendendo il suo approccio fenomeelastica è proporzionale alla somma delle curvature, somma nologico: la forza elastica in un punto è proporzionale alla
che viene ridotta a quella delle curvature minima e massima somma di tutte le curvature della superficie in quel punto.
dette principali. In questo modo l’energia elastica della su- Questa somma si riduce a quella delle curvature principali
perficie è proporzionale all’integrale della somma delle cur- e l’equazione è derivata dall’integrale delle curvature prinvature principali e da questo è possibile derivare l’equazione cipali. Restava indimostrato il postulato di base che la dedifferenziale in condizioni d’equilibrio.
formazione fosse necessariamente proporzionale alla forza
Nell’ottobre 1811, la data di chiusura della concorso, sola- applicata. Con questa riserva i giudici conferirono il premio
mente il lavoro di Mlle. Sophie Germain era stato presentato. alla Germain che, forse offesa, non partecipò alla cerimonia
Tuttavia, non ottenne il premio, la motivazione fu che le sue di premiazione. La comunità scientifica non gli aveva dimoipotesi non erano state ricavate da principi fisici fondamen- strato il rispetto dovuto: Poisson evitò di discutere i risultati
tali: oggi diremmo, la sua era una teoria fenomenologica che con lei ignorandola pubblicamente.
non partiva dalle entità prime interagenti. Lagrange, che faIl morale di Sophie fu risollevato dall’amicizia sincera con
ceva parte della giuria, scoprì nella sua analisi alcuni errori, li Jean-Baptiste-Joseph Fourier (1768-1830, che ricordiamo
corresse e derivò un’equazione soddisfacente per descrivere per la teoria della conduzione del calore, per la serie e la
le figure di Chladni:
trasformata omonima). Grazie a Fourier prese a frequentare
le sedute dell’Accademia: prima donna a parteciparvi a pieno titolo. A partire dal 1820 riprese a studiare la teoria dei
numeri col matematico Adrien-Marie Legendre (1752-1833)
tuttavia, nel 1830 Gauss non riuscì a convincere l’Università
dove N2 è una costante.
di Gottinga a conferirle la laurea honoris causa.
Sophie morì alla giovane età di cinquantacinque anni. NeNel 1811 l’Accademia prorogò i termini del concorso e di gli ultimi anni scrisse un saggio filosofico rimasto incompiunuovo la Germain fu l’unico concorrente: nel secondo lavoro to: ‘Considérations générales sur les Sciences et les Lettedimostrò che l’equazione di Lagrange-Germain spiegava le res’ (1833) in cui mostra la profondità e sensibilità del suo
figure di Chladni in alcuni casi semplici tuttavia, non riuscì pensiero: l’Universo ha un carattere profondamente unitario,
ad escogitare una derivazione dell’equazione da principi pri- pieno di analogie seguendo le quali lo spirito ci guida alla
mi: anche questa volta non ottenne il premio ma una men- scoperta dei fenomeni e delle leggi.
zione onorevole. Quanto pesò sul giudizio il fatto di essere
una donna?
A questo punto, la strada era aperta ed il problema fu ripreso da Siméon-Denis Poisson (1781-1840): il grande fisico38
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Il Gabbiano ha preso il volo. Valentina
V. Tereshkova - Samantha Cristoforetti.
Una conquista lunga cinquantuno anni
ANNA TOSCANO
The things we thought that we should do
We other things have done
But those peculiar industries
Have never been begun
The Lands we thought that we should seek
When large enough to run
By Speculation ceded
To Speculation’s Son
The Heaven, in which we hoped to pause
When Discipline was done
Untenable to Logic
But possibly the one
Emily Dickinson, J1293 (1874)
Q
uesto breve saggio di storia della scienza vuole
essere un contributo alla riflessione intorno al
dibattito, ancora purtroppo tutto da affrontare,
sull’eguaglianza di genere nella vita scientifica italiana e
non solo, sebbene il 2014 abbia registrato per la scienza al
femminile tre emblematici traguardi1, dei quali due italiani: Fabiola Gianotti, fisico, prima donna nominata Direttore
Generale del CERN di Ginevra, Maryam Mirzakhani, matematico, vincitrice della prima Fields Medal attribuita ad una
donna e Samantha Cristoforetti, ingegnere, che a cinquantuno anni di distanza da Valentina Tereshkova, prima donna
cosmonauta, è la prima donna italiana ad essere stata lanciata nello spazio il 23 novembre 2014 dal cosmodromo di
Baikonur, in Kazakhstan, ed a restare in orbita, a bordo della
Stazione Spaziale Internazionale con la missione “Futura”,
Expedition 42-43, fino a maggio 2015.
Oggetto di questo breve saggio è proprio il racconto
dell’intervallo di 51 anni che separa le due missioni spaziali
al femminile, quella di Valentina e l’impresa di Samantha,
ricostruito anche con l’ausilio dei documenti tratti da alcune
fonti giornalistiche italiane, intese come strumenti essenziali
1 E. Strickland, Essere donna e fare scienza in Italia: un’impresa difficile,
in “Scienze-e-Ricerche”, n. 5, Marzo 2015, pp. 5-6
per il contributo dato alla costruzione, nell’immaginario collettivo, dell’identità di genere.
«Si chiama Valentina! [...]
Dopo il primo uomo, Gagarin, da oggi anche la prima
donna si è staccata dalla Terra per volare nel cosmo: è una
donna sovietica, una semplice ragazza di 26 anni, figlia di
contadini divenuti operai e, in passato, operaia lei stessa.
Il suo nome, destinato ad entrare nella storia accanto a
quello di tutti i grandi pionieri ed esploratori, è Valentina
Tereshkova. La sua astronave, la «Vostok 6», si è alzata dal
cosmodromo di Baikonur, oggi alle 12,30 (ora di Mosca),
ed è entrata in una orbita molto vicina a quella su cui già
vola da due giorni Valeri Bykovski, il quinto astronauta
sovietico […]
È stata la televisione sovietica a dare per prima il
sensazionale annuncio. Erano a Mosca le 14,01.
Cominciava in quel momento uno dei collegamenti
televisivi col cosmo che si ripetono molto di frequente in
questi giorni. Ma all’improvviso, sullo schermo, invece
del volto ormai familiare ed un po’ ironico di Bykovski,
è apparso, chiuso nel casco, l’ovale più delicato di un
viso femminile. In quello stesso momento l’annunciatore
pronunciava trionfalmente il nuovo nome: Valentina
39
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Tereshkova. Il volto, leggermente contratto, della donna si è
aperto in un bel sorriso.
Valentina ha alzato una mano agitandola in segno di saluto.
Le trasmissioni si sono poi ripetute più volte, a breve
distanza, nel corso delle due ore seguenti.
Una scossa di autentica commozione ha elettrizzato da
quell’istante tutto il Paese.
A Mosca la folla domenicale del centro si è riversata
spontaneamente verso la Piazza Rossa. La giornata di oggi
potrà stare nella grande storia della ragione, del progresso e
dell’eroismo umano, alla pari con quell’altra giornata di due
anni fa che vide Gagarin avventurarsi per primo sulla via
delle stelle: lo stesso cammino per la prima volta è percorso
da una donna […]»2
«Una donna ha raggiunto il cosmonauta nello spazio
Da ieri sono in orbita due Vostok sovietici.
È Valentina Tereskova [sic], di 26 anni, sottotenente. Di
famiglia contadina, in tenera età rimase orfana del padre,
ucciso in guerra. Sino al 1960 lavorò come operaia tessile,
poi si diplomò e divenne paracadutista. Mezz’ora dopo
il lancio, la sua astronave si è notevolmente avvicinata
a quella di Bykovski con il quale è collegata attraverso
la radio […] L’Urss segna un nuovo spettacolare punto
a suo vantaggio nella gara spaziale: ieri alle 12,30 dal
cosmodromo di Baikonur nella steppa del Kasakstan [sic],
è stata lanciata la prima donna cosmonauta il cui vascello
spaziale, “Vostok VI”, s’è inserito in un’orbita parallela e
vicinissima a quella che già da 72 ore descrive la “Vostok
V” pilotata dal tenente colonnello Bykovski.
La prima donna del cosmo si chiama Valentina
Vladimirovna Tereskova [sic], ha 26 anni, è sottotenente.
La sua cifra di volo è “Gabbiano” (“Nibbio” è la cifra di
Bykovski) […]
L’annuncio è avvenuto con una procedura del tutto insolita.
Qualche minuto prima delle due è apparsa all’improvviso,
senza preannuncio, sul video delle televisioni sovietiche,
l’immagine di un cosmonauta in volo dentro la capsula.
Sulle prime, pareva trattarsi di una delle innumerevoli
immagini di Bykovski trasmesse in questi giorni in presa
diretta dal cosmo. D’un tratto però la voce dello speaker
ha annunciato: “Quella che vedete è una donna”. Quando
infatti l’immagine si è fatta più nitida, si è visto chiaramente
che il cosmonauta era una donna dal viso largo, tipicamente
russo; sorrideva […]
Quando la prima sconvolgente immagine si è di colpo
dissolta, la voce solenne dello speaker ha annunciato:
“Quella che avete visto è la prima donna, una donna
sovietica, lanciata nel cosmo. Alle ore 12,30 ora di Mosca
è stata messa in orbita la nave satellite [sic] “Vostok VI”
guidata, per la prima volta nel mondo, da una cosmonauta,
la compagna Tereskova [sic] Valentina Vladimirovna. Lo
scopo di questo lancio è la continuazione dello studio delle
2 Giuseppe Boffa dalla redazione di Mosca, 16 giugno 1963, in “L’Unità”
del 17 giugno 1963, p. 1
40
reazioni dell’organismo umano al volo spaziale; in modo
particolare saranno analizzati, con uno studio comparativo,
i comportamenti di un organismo maschile e di uno
femminile posti in condizione analoghe di volo cosmico
[..]»3
«Appuntamento nello spazio. Perché una donna
Molti dati stanno ad indicare una maggiore resistenza
dell’organismo femminile rispetto a quello maschile.
Dopo aver avuto, con Yuri Gagarin, il primo violatore dello
Valentina Tereskova
3 Enzo Bettiza corrispondente da Mosca, in “Stampa sera”, edizione del
Lunedì, del 17 – 18 giugno 1963, p. 1
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
spazio extra-terrestre, l’Unione Sovietica può vantare oggi
la prima donna cosmonauta del mondo. Il che, si badi bene,
non ha per nulla il significato di una esibizione spettacolare,
non deve essere inteso, cioè, come un fatto di curiosità, ma
come una tappa che si inserisce logicamente nella vicenda
affascinante della astronautica. In altre parole, come una
fase necessaria della ricerca scientifica in questo campo.»4
Era il 16 giugno 1963, a Roma tutto era pronto per il Conclave che avrebbe dovuto eleggere il successore di Giovanni
XXIII, e l’Unione Sovietica, dopo aver portato nel 1961 Jurij Gagarin, il primo essere umano, al di fuori dall’atmosfera
terrestre, stabiliva un altro significativo primato nelle scienze spaziali.
Cinquantuno anni fa la stampa italiana, con diversi accenti
sul genere del cosmonauta, così raccontava il volo di Чайка
(Čajka), ovvero del ‘Gabbiano’, nome in codice assegnato a
Valentina Tereshkova5 a bordo del modulo spaziale “Vostok
6”, col quale divenne la prima donna a conquistare lo spazio.
Valentina Tereshkova percorse 48 orbite in 2 giorni - 22
ore - 50 min, superando nei tempi di permanenza nello spazio gli astronauti americani. La missione di Čajka, non fu
però una passeggiata. Lo raccontò diversi decenni dopo la
stessa cosmonauta; ma nonostante le difficoltà ed i diversi
problemi tecnici, la sua missione fu salutata come un totale
successo. Al suo ritorno Valentina fu premiata e portata in
trionfo come un’eroina. In suo onore fu coniata una moneta,
stampati francobolli; ad una valle lunare fu assegnato il suo
nome.
4 Gaetano Lisi in “L’Unità” del 17 giugno 1963, p. 3
5 (6 marzo 1937)
Come scriveva la stampa italiana a due giorni dal lancio:
«Tutto il mondo ha visto nel volo di Valja una tappa
dell’emancipazione»6, benché alcune testate preferivano,
per alcuni versi, sottolineare con prudenza «quel che di più
o di diverso significhi la presenza d’una donna nello spazio
dopo una decina di predecessori maschi […] non è tema che
vogliamo per ora toccare»7.
Eppure l’eco suscitata in tutto il mondo dall’«arditissima
impresa spaziale sovietica» fu amplissima. E le reazioni le
più diverse, sia sui mezzi di informazione che da parte delle
personalità più in vista di ogni paese.
L’impresa della Tereshkova segnava due importanti tappe
nel raggiungimento di una parità di genere per le donne: da
un lato sanciva la consapevolezza che il diritto allo studio
fosse il presupposto necessario all’uguaglianza anche di genere e dall’altro che la ricerca scientifica costituisse uno dei
mezzi fondamentali per il suo conseguimento.
Valentina assurgeva a modello: figlia di contadini, orfana
di guerra, operaia, studentessa serale, quindi perito tessile,
paracadutista, fra gli astronauti e le astronaute, Tereshkova arrivò con quella che chiameremo la seconda leva. Non
faceva parte infatti del gruppo che per primo cominciò gli
addestramenti. Quando Gagarin compì il suo volo, Valentina
lavorava ancora nella fabbrica di Jaroslav. Fu proprio l’impresa del primo cosmonauta ad indurla a presentare a sua
volta domanda. E quando questa fu accolta, ella si distinse nelle durissime prove che fanno parte della preparazione
psicofisica al volo extra atmosferico, rivelandosi per alcuni
6 L’Unità” del 18 giugno 1963, p. 4
7 Didimo, Il volo del gabbiano, in “Stampa sera”, edizione del Lunedì,
del 17 – 18 giugno 1963, p. 1
41
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
«Per l’impresa di Valentina entusiasmo delle donne a
Roma
Valentina è diventata subito popolare tra le donne romane.
Nelle fabbriche, negli uffici, nei mercatini delle borgate
e negli ambienti più diversi giovani e anziane hanno
parlato ieri della prima cosmonauta della storia come di
una vecchia conoscenza; nessuna nascondeva la propria
soddisfazione.
Le operaie della “Leo” all’uscita dalla fabbrica, aspettando
l’autobus, si sono passate di mano in mano alcune copie
dei giornali della sera con i titoli a caratteri cubitali
sull’impresa dei due cosmonauti sovietici. “In fabbrica
facciamo tutto quello che fanno gli uomini – ha detto una
delle più giovani - Non c’e nulla di strano quindi se anche
noi andiamo nello spazio”.
Tutte hanno voluto esprimere la loro opinione sul volo di
Valentina […] Angelica Desideri, operaia, Tiburtino III:
“In vita mia ho sempre lavorato e ho sempre saputo che le
donne possono fare tutto quello che fanno gli uomini; ma
ora Valentina lo farà sapere a tutto il mondo”»8.
«Elena Terzolo, operaia e dirigente della Commissione
interna della “Michelin” di Torino […] “Come donna
e come operaia della “Michelin” interpretando anche il
pensiero delle mie compagne di lavoro, penso che questa
impresa meravigliosa di cui è protagonista una donna,
non potrà che confermare una volta di più il coraggio e la
capacita delle donne […]. Valga questa impresa a scuotere
anche in una certa mentalità relativa a quei ceti conservatori
che solo a parole sostengono la parità dei diritti delle donne,
ma talvolta nel costume familiare o ancor peggio nei salari
in fabbrica fanno fin troppo nette distinzioni di sesso»9.
Tanto si leggeva sulla stampa italiana in quei giorni, che
riportava tra le reazioni internazionali a quell’impresa, le
unanimi proteste degli ambienti femminili per l’esclusione
delle donne statunitensi dai programmi spaziali NASA.
aspetti più idonea dei colleghi uomini. L’idea di addestrare
donne cosmonauta venne lanciata sin dal 1961, poco dopo lo
storico volo di Jurij Gagarin.
Poiché vi erano poche donne pilota, la ricerca fu estesa
selezionando anche paracadutiste, questo ultimo aspetto in
linea con le competenze richieste dalle modalità di rientro
dal volo.
Tra le 58 candidate, il 16 febbraio 1962 venne ufficializzata la scelta di cinque donne che formarono la seconda unità
di cosmonauti dell’Unione Sovietica, indicata come gruppo
donne cosmonauta:
Zhanna Yorkina
Tatyana Kuznetsova
Valentina Ponomaryova
Irina Solovyova
Valentina Vladimirovna Tereshkova
42
«“No Comment della Nasa”
Washington, Lunedì mattina. Un portavoce della “Nasa”,
O.B. Lloyd jr., ha dichiarato che la “Nasa” stessa non
commenterà il volo della prima cosmonauta sovietica fin
quando non siano conosciuti l’obiettivo e l’esito della
prova. Ha aggiunto che gli Stati Uniti non pensano, per ora
di includere donne nei programmi di esplorazione spaziale.
È noto che diverse aviatrici americane hanno protestato per
la loro esclusione dai programmi spaziali»10.
«[…] Il volo della cosmonauta sovietica ha suscitato anche
negli Stati Uniti molta emozione e molti commenti.
Gli scienziati e i tecnici della Nasa hanno disposizione di
non fare commenti in pubblico sugli esperimenti sovietici,
in via privata però molti di essi hanno avuto parole di
8 “L’Unità” del 18 giugno 1963, p. 4
9 “L’Unità” del 18 giugno 1963, p. 4
10 “La Stampa” del 17 giugno 1963, p. 3
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
ammirazione per l’impresa
sovietica e in particolare
per il volo simultaneo di
due navi spaziali in orbite
così vicine. Uno di questi
scienziati ha rilevato la
differenza dei criteri seguiti
negli Stati Uniti per la
selezione degli astronauti
dicendo: “Molti dirigenti
negli Stati Uniti hanno detto
che nessuna donna è stata
selezionata per i voli nel
cosmo poiché nessuna ha
la necessaria esperienza di
pilota collaudatore […]”
Il senatore democratico
Mike Mansfield […] ha
aggiunto che gli Stati
Samantha Cristoforetti
Uniti avrebbero dovuto
considerare la possibilità di
addestrare anche delle donne per i voli spaziali. In concreto
perche questo non è stato fatto? Lo spiega il generale
Leighton Davis, comandante del centro sperimentale
missilistico di Cape Canaveral. Il progetto spaziale
americano - egli ha detto - non prevede l’utilizzazione
di donne nei voli spaziali perché gli astronauti vengono
scelti esclusivamente fra militari che abbiano al loro attivo
almeno mille ore di volo su aerei a reazione. “Tale fatto - ha
aggiunto il generale – elimina di per sé le donne in possesso
degli altri requisiti»11.
Gli Stati Uniti dovranno aspettare vent’anni per vedere
nel 1983 Sally Ride12 la loro prima donna tra le stelle, terza
astronauta in assoluto dopo Svetlana Savitskaya13. Sebbene,
come è ben noto14 esistesse dal 1961 il programma di ricerca “Mercury 13”, svolto sotto copertura di segreto militare,
partendo dalle ricerche compiute da William Randolph Lovelace II, medico specialista responsabile dei protocolli di
selezione degli astronauti per conto della NASA, che prevedeva l’addestramento di equipaggio femminile.
Venticinque donne furono sottoposte alle stesse tre fasi di
test iniziale proposte agli aspiranti astronauti di sesso maschile (performance fisica, performance psicologica, simulazione di volo ad alta quota e di volo spaziale, standards
degli stati di coscienza sotto stress). Analizzando i dati, la
commissione medica registrò un primo repertorio di informazioni, alcune delle quali segnalavano una maggiore predisposizione dell’organismo femminile agli stress da volo
11 “L’Unità” del 18 giugno 1963, p. 4
12 (26 maggio 1951- 23 luglio 2012). Fisico – Challenger, 18 giugno
1983, 14gg 7h 46m
13 (8 agosto 1948). Ingegnere di volo – Salyut 7 -19 agosto1982, 19gg
17h 06m. Prima donna a compiere EVA (Attività ExtraVeicolare) 25
luglio 1984, 3h 35m
14 Martha Ackmann, Mercury 13. La vera storia di tredici donne e del
sogno di volare nello spazio, tr. it a cura di Cristina Ingiardi, Springer
Italia, 2011
spaziale. Tredici aspiranti superarono la selezione e costituirono l’equipaggio “Mercury 13”: Geraldyn ‘Jerrie’ Cobb,
Bernice ‘Bea’ Steadman, Janey Hart, Geraldine ‘Jerri’ Sloan
Truhill, Rhea Allison Woltman, Sarah Lee Goerlick Ratley,
Jan e Marion Dietrich, Myrtie Cagle, Irene Leverton, Jene
Nora Jessen, Jean Hixson, Wally Funk.
Benché altamente qualificate (Geraldyn ‘Jerrie’ Cobb possedeva al suo attivo diecimila ore di volo, il doppio di John
Glenn quando diventò il primo astronauta americano in orbita), il programma “Mercury 13” fu cancellato prima ancora
che potessero completarsi le fasi finali del test per le aspiranti, da svolgersi presso il centro di addestramento dei Top Gun
della Naval Air Station in Florida.
L’accesso delle donne alle accademie militari, e quindi
all’alta formazione ed agli addestramenti per il volo spaziale,
verrà concesso dal Governo Statunitense solo a partire dal
1980.
Dovranno trascorrere 51 anni perché un’italiana potesse
raggiungere l’importante obiettivo scientifico e di genere di
una missione spaziale, preceduta, nelle tappe più importanti, dalle colleghe Helen Sharman, di nazionalità britannica,
prima astronauta europea15 e Liu Yang16, primo cosmonauta
donna cinese.
La missione della prima donna cosmonauta italiana Samantha Cristoforetti17, in orbita attualmente a bordo dell’ISS,
15 (30 maggio 1963). Chimico, la prima astronauta britannica ed europea
ad andare in orbita con permanenza a bordo della stazione orbitante
sovietico/russa MIR, 18 maggio 1991, con 7gg 21h 13m
16 (6 ottobre 1978). Pilota, esperta in voli di squadriglia, Capitano
Maggiore dell’Aeronautica Militare Cinese, Shenzhou 9, 13 giugno 2012,
13 gg.
17 Nata a Milano il 26 aprile 1977, Samantha Cristoforetti è uno dei sei
astronauti ESA classe 2009, gli Shenanigans
Diploma di Liceo Scientifico a Trento
43
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
in virtù dei supporti offerti dai social network si configura
non solo come un repertorio di ricerche scientifiche, ma anche come un modello sperimentale, iniziato con la missione
di Paolo Nespoli MagISStra, di comunicazione e coinvolgimento diretto del mondo della ricerca estrema con i settori
della società civile, in particolare delle fasce giovanili e del
mondo della scuola18. La sua preparazione alla missione ha
visto il coinvolgimento dei mass media e documentari destinati alla fruizione di un vasto pubblico, che hanno registrato
le varie fasi dell’addestramento, sono visibili sulla piattaforma YouTube19. Così come è possibile interagire con i suoi
addestratori ESA20.
Samantha è costantemente connessa in rete tramite la
2001 - Laurea Università Tecnica di Monaco di Baviera in ingegneria meccanica, con una specializzazione in propulsione spaziale e strutture leggere
Ha frequentato l’École Nationale Supérieure de l’Aéronautique et de l’Espace di Toulouse (F) e la Mendeleev University of Chemical Technologies di Mosca, dove ha redatto la sua tesi di Master in propellenti solidi
per razzi
Diploma di scienze aeronautiche all’Università Federico II di Napoli
2005 – diploma Accademia di Pozzuoli dell’Aeronautica Italiana, dove
durante la sua permanenza presta servizio come “class leader”
Spada d’Onore per il miglior raggiungimento accademico
2005/2006 - Sheppard Air Force Base Texas, USA
2007 - 212^ Squadrone, 61^ Stormo Addestramento al Volo – Galatina
(corso base di combattimento aereo)
2008 - 101^ Squadrone, 32^ Stormo Bomber di base - Foggia (addestramento operazionale di conversione per il velivolo di attacco da guerra
AM-X)
Qualifica - pilota da guerra
addestramento scuola di volo Euro-NATO Joint Jet Pilot Training
132^ Squadrone - 51^ Stormo Bomber, di stanza a Istrana
Capitano dell’Aeronautica Italiana
Ha accumulato più di 500 ore di volo su sei tipi di aerei militari, compresi
gli SF-260, T-37, T-38, MB-339A, MB-339CD, AM-X.
Ha ricevuto il titolo di volo di ‘Best Wingman’ durante l’addestramento
con il T-38.
Competenze linguistiche
Russo
Inglese
Tedesco
settembre 2009 – selezione ESA
novembre 2010 - addestramento base – astronauti
2011 - Reserve Astronaut
Addestramento ISS
EVA
SOYUZ
“sedile di sinistra”, ovvero ruolo di primo ingegnere di
volo
Luglio 2012 - missione Futura dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) a
bordo della Stazione Spaziale Internazionale
Lancio 23 novembre 2014 dal cosmodromo di Baikonur, Kazakhstan,
insieme agli astronauti Terry Virts (NASA) e Anton Shkaplerov (Roscosmos). Si tratta della seconda missione di lunga durata dell’ASI sulla
Stazione Spaziale Internazionale, ottava missione di lunga durata per un
astronauta ESA.
18 http://avamposto42.esa.int/futura/
https://twitter.com/Avamposto42
https://www.facebook.com/Avamposto42
http://www.astronautinews.it/tag/logbook/
http://www.isaa.it/2014/06/isaa-per-avamposto42-il-sito-della-missionefutura/
19 https://www.youtube.com/playlist?list=PLbyvawxScNbshQN7ZDLE
aAW3WO-2sLzb_
20 https://www.youtube.com/user/ESA
44
piattaforma dell’ESA “Avamposto42“, per la quale redige
dal luglio 2013, quando mancavano 500 giorni al lancio, un
Diario di Bordo, attraverso il quale è possibile esplorare il
suo percorso formativo; i suoi profili Twitter, G+ e Flickr
completano l’offerta di informazioni garantendo un ulteriore
accesso social alla ricerca scientifica, in questo caso spaziale,
presente nel panorama contemporaneo21.
Questo ultimo aspetto marca ulteriormente gli orizzonti
dei saperi, sempre più puntati verso una modalità di condivisione e di diffusione orizzontale, in linea con le peculiarità
dei codici dei new personal devices che favoriscono l’eguaglianza non solo di genere.
E ciò in stridente contrasto con i diktat della Finanza internazionale che impongono agli Stati politiche economiche lesive del diritto all’accesso alla conoscenza per tutti i soggetti.
I cinquantuno anni trascorsi fra le due missioni spaziali
di Valentina e Samantha raccontano che ancora molta è la
strada da percorrere.
«Galileo: […] Non credo che la pratica della scienza possa andar
disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del
dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare
il dubbio in tutti. Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai
suoi prìncipi, dai suoi proprietari di terre, dai suoi preti, in una nebbia
madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, che occulta le
malefatte di costoro […]
Finché l’umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria
di superstizioni e millenarie sentenze, finché sarà troppo ignorante per
sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate […]
Non credo che la scienza possa porsi altro scopo che quello di alleviare le fatiche dell’esistenza umana.
Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti
egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può
rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che
fonte di nuovi triboli per l’uomo […]
Nella mia vita di scienziato ho avuto una fortuna senza pari: quella
di vedere l’astronomia dilagare nelle pubbliche piazze. In circostanze
così straordinarie, la fermezza di un uomo poteva produrre grandissimi rivolgimenti. Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto
sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento
di Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità.
Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie
di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo […]»
Bertold Brecht, Vita di Galileo, (1938), tr. it. di E. Castellani, Torino,
Einaudi, 1963
21 http://avamposto42.esa.int/diario-di-bordo/
https://twitter.com/astrosamantha
https://plus.google.com/+SamanthaCristoforetti/posts
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Pino e le sue astronome
GABRIELLA BERNARDI
Una ricerca fra gli archivi storici dell’Osservatorio Astronomico di Pino Torinese
per scoprire i primi nomi delle astronome
che vi lavorarono.
S
ulla collina di Torino, dall’inizio dello scorso secolo,
sorge l’Osservatorio Astronomico della città, che lasciò
la sede in pieno centro città
per evitare che le luci urbane interferissero
con le osservazioni notturne. Avendolo frequentato in diverse occasioni, dalla tesi di
laurea e come borsista, ed essendomi confrontata con diverse astronome, attraversando i corridoi delle palazzine liberty, mi sono sempre domandata da quando
la presenza femminile è entrata a farne parte ufficialmente.
L’antica biblioteca mi ha fornito materiale per approfondire
questa curiosità e da qui ne è scaturita un’ insolita ricerca che
porta in epoche passate. I registri ci dicono che Padre Boccardi fu direttore del Regio Osservatorio di Torino dal 1903
al 1923. Fu lui l’artefice dell’ammodernamento spostando
questo centro di ricerca dall’antica sede posta sui tetti di Palazzo Madama, al centro di Piazza Castello in pieno centro
città, nell’attuale sede sulla collina di Pino Torinese. Gli annuari riportano i suoi scritti ed un suo dubbio in particolare mi colpisce: “Il nuovo regolamento pel personale degli
Osservatori Astronomici” dal quale si legge che: “ sarebbe
prudente mettere come assistente di cattedra, per esempio
di Geometria descrittiva e corrispondente disegno, una giovinetta in mezzo a 180 studenti?” nel caso in cui un posto
fosse stato vinto da una donna. Sotto la sua direzione, forse si
presentò questo problema dato che risultano ben otto donne
che si avvicendarono inizialmente come “Assistenti Volontarie” e la maggior parte proveniva dalla facoltà di scienze
con tanto di laurea. L’elenco riportato fornisce questa lista:
la dottoressa Luisa Viriglio, collaboratrice dal 1904 al 1906,
la dottoressa Ernesta Fasciotti, collaboratrice dal 1905 al
1906, la dottoressa Giovanna Greggi, collaboratrice dal 1911
al 1912 e nel 1913 risulta come Secondo Assistente mentre
nel 1927 è Ordinario di Matematica e Fisica presso l’Istituto
Tecnico di Mondovì ed emerge pure un lavoro di argomento matematico pubblicato negli Atti del R. Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti nel 1911-12, la dottoressa Teresa
Castelli collaboratrice dal 1914 al 1918, poi la dottoressa Tiziana Comi, collaboratrice nel 1914 per quattro anni e socia
della Società Urania dove tenne applaudite conferenze divulgative di argomento astronomico, la dottoressa Jeannette
Mongini collaboratrice nel 1919-1920 e dimissionaria dalla
carica di assistente il venticinque novembre del 1920 e ancora Corinna Gualfredo collaboratrice nel 1916 fino al 1921 e
dall’Agosto del 1916 con il ruolo di Assistente di ruolo. E’
pure presente negli archivi un suo lavoro sulla determinazione delle costanti del piccolo cerchio meridiano, dove la
prefazione del direttore Boccardi è curiosa perché parlando
di lei utilizza la terza persona maschile. Entrò anche a far
parte del comitato di redazione della rivista Urania e di lei il
Boccardi scrive: “Sig. Gualfredo, che dal 1915 in poi aveva
concorso largamente alle osservazioni, specialmente in I°
verticale, si è ritirata dalle osservazioni alla fine di settem45
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
bre, In tal modo viene a mancare all’Osservatorio un aiuto
efficace, intelligente e non retribuito” . Chiarificatrice questa
ultima affermazione, ma l’elenco continua con Carla Greggi
aiuto tecnico nel 1912 fino al 1920 e in un lavoro di Corinna
Gualfredo viene definita calcolatrice, nome che a quel tempo
definiva le persone, di solito di sesso femminile che si occupavano dei noiosissimi calcoli astronomici a mano, sostituite
in seguito dalle effettive macchine calcolatrici.
Proseguendo nei registri noto la presenza di Lina Graneris
che scrisse un lavoro sulle Perturbazioni della cometa PonsWinnecke nelle opposizioni del 1921 e del 1927 , dopo di che
bisogna attendere tempi più recenti per ritrovare presenza
femminile, infatti, la dottoressa Demichelis del Laboratorio
di Fisica del Politecnico di Torino collaborò nel 1942 fino
al 1946 effettuando diagrammi microfotometrici adatti allo
studio delle tracce di una stella variabile, la dottoressa Ernesta Tedeschi, collaboratrice dal primo dicembre 1943 al
trenta novembre del 1946, si laureò nel 1942-43 con una tesi
sullo Studio delle variazioni luminose della stella AK Herculis e loro interpretazione nell’ipotesi della sua duplicità,
alla quale subentrò Enrichetta Lagutaine laureatasi nel 194546
46 con una tesi sull’Esame critico della teoria di Russel per
la determinazione delle orbite dei sistemi binari fotometrici,
assunta il primo dicembre del 1946 per un solo anno presso
l’Osservatorio di Torino in qualità di incaricata di studi e
ricerche ed infine compare il nome di Teresina Tamburini.
Dai registri il suo incarico ufficiale era il riordino della biblioteca dopo l’occupazione e venne assunta in osservatorio
nel 1966. Oggi la situazione è ben differente, il personale
presente annovera quasi il 50% di presenza femminile a tutti
i livelli, ed anni fa il ruolo di direttore è stato affidato ad una
donna. Chissà cosa scriverebbe Padre Boccardi sul regolamento!
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2014 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Donne. E le parole per parlarne
PATRIZIA TORRICELLI
Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Messina
L
e
parole
con cui si
parla delle
cose sono
importanti
per almeno due ragioni. La
prima, è che esse rivelano
la mentalità di chi ne parla.
Quindi, ci avvertono che bisogna tener conto di ciò che
dicono per conoscerla. La
seconda è che, per la stessa
ragione, ci ammoniscono
di non prender troppo sul
serio ciò che dicono, perché ogni mentalità è frutto
di una cultura e la cultura è
figlia solo degli uomini, del
loro pensiero e della storia.
Parliamo della prima ragione d’importanza.
Le parole sono segni
usati per comunicare. Esse
assolvono questo compito usando una dinamica semiotica
per la quale una serie di suoni – tecnicamente detta significante - provoca nella mente l’insorgenza di un’immagine
del mondo esperito, detta idea, e racchiusa linguisticamente
in quello che si chiama normalmente un significato. Perciò,
le parole – opportunamente lette, usando le tecniche della
linguistica - ci rivelano qual è l’idea delle cose riferite che
i parlanti hanno in mente quando le usano per parlare del
mondo in cui vivono.
La somma delle idee che si hanno in mente costituisce –
schematizzando un po’ l’esposizione - quella che si chiama
una mentalità: ossia, l’immagine del mondo che è nella testa di ognuno di noi, con le regole di comportamento indi-
viduale e collettivo che ne
derivano – e che costituiscono i cosiddetti valori in
cui crediamo e dai quali ci
facciamo quotidianamente
condizionare l’esistenza
trasformandoli in stereotipi
di pensiero.
Vediamo, allora, di capire quale mentalità traspare
dalla somma di parole con
le cui immagini si declina
oggi l’idea di un mondo
femminile e qual è la loro
storia, a ritroso nel tempo,
poiché le nostre parole,
prima di essere italiane
erano latine - e indoeuropee prima ancora - e da
queste ideologie storiche le
nostre, moderne, sono nate
e si sono sviluppate, cambiandole o conservandole.
Femminicidio, usata a emblema di una tragica situazione
dei nostri giorni – alla quale le cronache ci hanno tristemente
abituato nonostante i numerosi appelli di civiltà - è parola
dotta, coniata su l’it. femmina aggiunto al lat. caedo secondo
una prassi derivativa usuale in italiano, sul modello di omicidio, uxoricidio e significa “uccisione di donne”. A dire il
vero dovrebbe significare “uccisione di femmine”, ma l’accezione sarebbe inesatta per il genere d’immagine mentale
che femmina e donna, rispettivamente, richiamano oggi.
L’italiano femmina infatti è la continuazione del latino
femina. In latino la parola evoca una qualità imprescindibile
dell’essere femminile - che è il seno per l’allattamento - per47
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
ché essa appartiene formalmente alla stessa serie lessicale
di fecundus, detto di ciò che è ben nutrito, e di filius, il cui
significato etimologico è “colui che viene allattato”. La stessa forma, nel gr. antico, aveva il significato di “nutrice” oltre
a quello generico di essere femminile. Questo era l’aspetto
della donna che risaltava, fra le immagini mentali suscitate
dalla parola, sia per gli antichi Greci che per i Romani, quando parlavano della donna usando tale termine.
In italiano femmina e femminile hanno perso memoria lessicale dell’antica idea di nutrimento al seno, ma conservano un’accezione legata al genere specifico opposto a quello
maschile. La donna diventa femmina quando sono messi in
risalto i suoi attributi di sesso. È questo l’ascendente immaginifico che determina le implicazioni sessuali di ogni genere
– anche negative, come in certi ambiti religiosi medievali,
per i conflitti della tentazione - poi assunte dalla parola in
conformità alla rappresentazione ideale della sessualità, maschile e femminile, che si è sviluppata durante i secoli della
nostra storia.
Il francese, per esempio, ha fatto del latino femina la sua
parola per donna: femme, che non cela alcun pudore o reticenza espressiva nei confronti degli attributi femminili della
donna rispetto all’uomo. Indice di un trascorso linguistico che
ha seguito altri cammini culturali, oggi appena visibili nella
parola, diventata un termine generico del francese comune.
Diversa la dimensione di donna. La sua forma linguistica
ci mostra che essa è la versione italiana del lat. domina. La
parola, in latino, è stata coniata prendendo spunto da domus
che significa “casa”. L’immagine evocata è dunque quella
della padrona di casa che affianca in veste femminile il dominus maschile. La manzoniana Donna Prassede esemplifica
perfettamente la continuazione di questa immaginazione di
ruolo più che di persona. Nel tempo, naturalmente, la parola
si è prestata ad altre accezioni complementari. Ma la sua originaria dimensione ideale è dimostrata dal fatto che deve, in
questi casi, essere accompagnata da specifiche apposizioni:
donna di servizio, donna di malaffare, donna di strada, primadonna.
Anche madonna (mea domina) fa trasparire, la stessa idea
di rispetto, declinata nel senso di donna d’alta condizione,
sia in versione laica – come le madonne fiorentine del Duegento – che in versione religiosa, come Signora del cielo già
nella stessa epoca.
Il francese madame ne è la versione in questa lingua. Così
come rammenta una simile immagine di donna il greco antico damar che usa lo stesso etimo di “casa”, detta in gr.
domos, per indicare la padrona della casa, in questo caso la
sposa legittima rispetto alle concubine: ossia le donne che
dividevano il letto del padrone, dal lat. cum-cubare. Le altre
mogli, insomma, nell’accezione moderna di poligamia.
Moglie, è il termine per indicare la consorte di un uomo,
la sua sposa. Figura femminile per eccellenza, evidentemente, se già in latino il termine mulier era l’appellativo stesso
48
per donna, così chiamata, appunto, genericamente; mentre la
condizione sociale e legale della moglie era espressa da uxor
parola che non ha continuato a esistere in italiano se non nei
latinismi dotti: uxoricidio, o more uxorio.
Nel mondo ideale latino mulier è il contrario femminile di
vir - che significa “uomo” - ma che non si è replicato in italiano se non nell’aggettivo virile con le stesse connotazioni
d’immagine. Mentre uomo continua il latino homo il quale a
sua volta continua l’i.e. *hom- che ha la stessa etimologia
del lat. humus il cui significato è “terra”. Così, l’uomo è concepito, fin dalla cultura indoeuropea della preistoria, come “il
terrestre” o “colui che sta sulla terra”. Un’idea forse primigenia dell’uomo fra gli esseri viventi, se pensiamo al racconto
biblico della creazione del mondo e dell’argilla con cui questo rappresentante della nostra specie è stato fatto.
Ma torniamo alla moglie e al latino mulier che la parola
italiana ripete, implicandone le accezioni sessuali ma relegandole in un ambiente domestico e nella dimensione sociale
della legalità. Scegliendo per la “moglie” la parola latina che
indicava la donna in senso lato, l’italiano dimostra di aver inconsapevolmente obbedito a un dettato culturale storico che
ha fatto della moglie la figura femminile più rappresentativa,
la donna accreditata dalla nostra società, quindi la donna per
definizione rispetto a ogni altra.
Compagna, oggi simbolo di un femminismo gratificante,
era nel lat. tardo cum-panem, e si applicava a chi “condivideva il pane” con qualcuno, accontentandosi di un poco,
compensato forse dai sentimenti. Il pane non s’intravede più
e sono rimasti sottintesi solo i sentimenti, nella parola moderna.
Sposa, coniuge, consorte sono termini meno consueti.
Risentono della loro origine latina e della provenienza dal
diritto romano. Sposa è la voce italiana di lat. sponsa che è
sostantivo del verbo spondeo “impegnarsi, promettere”. Per i
Romani la nostra sposa era piuttosto la fidanzata, la promessa
sposa. Oggi, dalla parola traspare l’immagine di una donna
nel periodo delle nozze.
Coniuge è, come il lat. coniux, sostantivo derivato dal verbo coniungo “congiungo” che ha dato forma linguistica all’idea di congiunto/i per parentela e coniuge per matrimonio.
Consorte viene dal lat. cum-sortem, che significava “colei
che condivide lo stesso patrimonio” perché per i Romani fra
la sorte e le risorse non c’era molta differenza.
Una curiosità: Etaira, cioè un’etera, era Aspasia per Pericle nell’Atene del V secolo a.C. definita da una parola che
è la variante al femminile di etairos, il cui significato era
“compagno d’armi, amico”. Donna colta, influente, Aspasia
esercitava una professione che nel mondo classico era praticata sia da ragazzi che da fanciulle e perfettamente tollerata.
Perciò “compagna, amica” con termini perfettamente in linea
con la visione del mondo che tale cultura possedeva. Equiparando la battaglia e l’amore, evidentemente, una coincidenza
plausibile in una società, quella greca classica, che con la
guerra si cimentava frequentemente.
48
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2014 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Signora, è oggi un termine che esprime deferenza generica. La sua immagine mentale è quasi irriconoscibile nella moderna espressione di cortesia formale che la parola è
diventata. All’origine, infatti, l’idea che veniva in mente ai
parlanti era di una persona anziana cui si doveva rispetto per
l’età e l’esperienza: senior “anziano” è il termine latino da
cui deriva la forma al femminile seniora poi signora. Quali
viaggi nella storia la parola abbia fatto per arrivare fino a noi
carica di un’immagine così diversa – la Francia dei baroni
medievali o la Spagna del Cinquecento con la sua opulenza
verbale pre-barocca – poco conta qui. La signora di oggi è
una donna di alta condizione sociale, educata e raffinata e,
nello stesso tempo, è qualunque persona di genere femminile verso cui si voglia usare semplicemente un appellativo di
cortesia, segno di buona educazione. Ogni altra connotazione si è persa.
Curiosamente, il Senato della Repubblica, con i suoi limiti
di età impliciti nell’etimologia della parola, derivata dal lat.
Senior - così come il Senato Romano antico - oggi rispecchia
ancora nel suo nome l’antica immagine che la parola signora
sottintende per la sua origine. Ma presto l’idea resterà solo
nella storia linguistica del termine, celata dietro una semplice
etichetta.
Madre, è l’unica parola presente in tutte le lingue indoeuropee rimasta immutata o quasi nella forma linguistica fin
dalle più lontane origini. Testimonianza di una cultura che
si perde nella preistoria dell’umanità per via d’un ruolo genetico insostituibile in natura, qualunque sia il posto che la
società poi assegna alla figura della madre e qualunque sia
l’immagine materna che ogni figlio ha concepito dentro di sé.
Donne, mogli, madonne, signore o femmine, le raffigurazioni delle donne trasmesse dalle parole appartengono a un
variegato universo d’immagini che le culture hanno elaborato, nel corso della storia, sul loro essere - o meglio, sul loro
apparire - siccome donne, nella società. Immagini che sono
diventate le idee attraverso il cui filtro mentale ci accostiamo
alla loro conoscenza. Idee che rappresentano, insieme alle
parole da cui sono espresse, la nostra comune mentalità al
riguardo.
Torniamo allora, brevemente al discorso d’inizio, per riflettere sulla mentalità e sulla lingua che la esprime con i
significanti e i significati delle parole, aggiungendo, ora, solo
un piccolo particolare.
Fra il significante e l’idea – quindi fra il significante e il
significato che tale idea rappresenta - non c’è alcuna motivazione reciproca, nessun legame vero. Le parole che usiamo per parlare del mondo reale non sono affatto imposte dal
mondo reale di cui parlano.
La mela non si chiama così perché il suo colore è identico
alla m, il suo sapore alla e, i suoi semi alla l e la polpa alla
a o viceversa. Tant’è vero che gli inglesi chiamano lo stesso
frutto apple, i francesi la chiamano pomme e i tedeschi apfel.
La mela si chiama così solo perché così è stata denominata
quando la sua immagine ha dovuto trovar posto nel sistema
d’idee già posseduto dagli uomini che le hanno dato il nome.
I quali, per farlo coerentemente a tali idee – cioè per rispondere alla domanda: che cos’è - hanno dovuto pensare
a quali di esse assomigliasse di più e hanno dovuto cercare
il materiale linguistico per rappresentarla fra quello già impiegato, e riusarlo, così che fosse più semplice riconoscere
subito che cos’era la cosa nuova, dal loro punto di vista.
Ecco perché la cosiddetta etimologia – ricerca dell’origine
delle parole, che abbiamo sommariamente esemplificato con
i termini citati - ci racconta questo percorso di scoperta delle cose da parte degli uomini restituendoci le tracce lasciate
nella lingua.
Ma è solo una scoperta mentale, guidata e controllata dalle
idee che già si possiedono, cioè dalla cultura che abbiamo
appreso e della quale abbiamo imparato a condividere il punto di vista.
Dunque, tutti i significati, palesi o reconditi, sono idee che
la nostra cultura ci ha messo in mente, e la loro realtà è solo
apparente, perché è solo una realtà supposta essere tale da
una cultura che la immagina in questa maniera, adottando il
proprio punto di vista.
E arriviamo, così, alla seconda ragione d’importanza delle
parole: il loro ammonimento a non prenderle troppo sul serio.
La mentalità è – lo abbiamo già detto - una serie d’idee,
diventate reali per la mente umana e affidate alle parole: innocenti, queste ultime, rispetto alla realtà - di cui sono segni
assolutamente arbitrari e inconsapevoli - colpevoli rispetto
alla cultura.
Perché finché esistono e continuano a essere usate, rispettando esattamente le idee che le hanno autorizzate, continuano a esercitare sui parlanti il loro potere coercitivo che ne
condiziona i comportamenti mostrando loro immagini della
realtà che sembrano vere, mentre non lo sono, probabilmente, nell’ontologia del mondo. Ma l’immaginario che evocano richiama una gamma di altre immagini complementari
– con altre parole a loro sostegno – la cui pressione emotiva,
se le parole sono vissute come una verità senza rimedio, può
provocare derive individuali e sociali incontrollabili. Come,
appunto, il femminicidio: l’uccisione della femminilità sessualmente implicita nell’idea di donna dotata di un seno,
comunque tale idea sia vissuta nell’immaginario maschile e
nella storia.
Occorre, allora, sapere esattamente che cosa sono le parole, per renderle innocue. Esse sono parvenze foniche d’idee
che nascono solo dalla mente degli esseri umani e soltanto
qui, nella loro mente, esistono. Figlie della storia, del pensiero, della cultura. Perciò affidate all’intelligenza umana
che della storia, del pensiero e della cultura è la sola artefice.
E affidate al suo costante esercizio, in modo che ci possano
in futuro parlare di un mondo sempre umanamente e culturalmente migliore.
49
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Genesi e analisi della Convenzione
sulla prevenzione e la lotta alla violenza
contro le donne e la violenza domestica
AGOSTINA LATINO
Università degli Studi di Camerino
F
INTRODUZIONE
in dal 1999, l’Assemblea generale delle Nazioni unite (NU), con la
risoluzione n. 54/134, ha proclamato il 25 novembre “Giornata internazionale per l’eliminazione della
violenza contro le donne”. La data è stata scelta in
ricordo del brutale assassinio delle sorelle Mirabal
(Patria, Minerva e Maria Teresa) avvenuto nel 1960
nella Repubblica Dominicana, sotto la feroce dittatura di Trujillo. Le tre sorelle, soprannominate “las
mariposas”, le farfalle, per la loro bellezza e vivacità, il 25 novembre 1960, furono catturate, torturate,
uccise e gettate con la loro auto in un precipizio, al
fine di simulare una morte accidentale, da agenti segreti del servizio di informazione militare, mentre
si recavano a visitare i loro mariti in prigione per
motivi politici.
Il fenomeno della violenza nei confronti delle donne è una
vera e propria pandemia che non conosce confini poiché investe indistintamente tutto il mondo, sia pure con declinazioni e tassi di incidenza diversi.
La violenza nei confronti delle donne è un tema risalente
nel tempo1. In queste brevi note, dopo aver individuato le
forme più diffuse di violenza nei confronti delle donne, cercheremo di ricostruire le tappe degli strumenti adottati sotto
l’egida delle Nazioni unite e nei quadri regionali, per analizzare più specificamente la Convenzione di Istanbul, ossia la
1 In tema si veda B. RUDOLF, A. ERIKSSON, Women’s Rights under
International Human Rights Treaties. Issues on Rape, Domestic Slavery,
Abortion and Domestic Violence, in International Journal of Constitutional Law, 2007, p. 507 ss., e A. DEL VECCHIO, La tutela dei diritti delle
donne nelle convenzioni internazionali, in T. VASSALLI DI DACHENHAUSEN (a cura di), Atti del Convegno in memoria di Luigi Sico: il contributo di Luigi Sico agli studi di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea, Napoli, 2011, p. 315 ss.7
50
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la
lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica,
approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
il 7 aprile 2011, aperta alla firma l’11 maggio 2011, entrata
in vigore il 1° agosto 20142.
1. FORME DI VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE
DONNE
La violenza nei confronti delle donne assume diverse forme, alcune più frequenti di altre, nei diversi Paesi del mondo.
Peraltro, un comune denominatore che può essere rilevato
nella più gran parte dei casi è la povertà, posto che, secondo
i dati NU più del 70% degli individui che vive al di sotto
della soglia di povertà è di sesso femminile. Il dilagare della
2 Il testo della Convenzione si legge in: http://www.conventions.coe.int/
Treaty/ITA/Treaties/Html/210.htm
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
violenza nei confronti delle donne è favorito altresì da normative interne poiché alcuni ordinamenti adottano misure
discriminatorie che impediscono la piena parità di diritti fra
uomini e donne.
Le modalità più diffuse di violenza nei confronti delle donne sono riconducibili principalmente a cinque schemi: violenza domestica, pedofilia, tratta, mutilazioni genitali, stupro
di guerra.
Sotto il primo profilo, può innanzitutto ricordarsi come
secondo una ricerca condotta dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (World Health Organization - WHO)3, il 70%
delle donne vittime di omicidi sono state uccise dai loro partners maschili. L’ampiezza di questa forma di violenza è del
tutto trasversale: colpisce infatti anche i Paesi più evoluti in
termini di organizzazione sociale e di garanzia dei diritti individuali. La violenza domestica può assumere diverse forme: comprende violenza fisica, sessuale, psicologica, minacce, intimidazioni, persecuzioni, coercizioni, divieti, segregazione, umiliazioni, violenza economica (come negazione di
disponibilità finanziarie, dell’acquisto di vestiario o altro, del
cibo, di cure mediche e perfino appropriazione del reddito). I
dati, in crescita preoccupante in tutti i Paesi occidentali, non
fotografano la totalità dei casi, poiché esiste un sommerso
(che secondo alcuni analisti statistici rappresentano la maggior parte) di casi non denunciati dalla vittima, per paura di
ripercussioni o per vergogna4.
Sotto il secondo profilo, la pedofilia, ossia le molestie sessuali nei confronti di bambine e adolescenti, si registrano
dati agghiaccianti per dimensioni. Uno studio dell’United
Nations Children’s Fund (UNICEF)5, che ha analizzato tanto Paesi sviluppati che Paesi in via di sviluppo, indica che tra
l’1 e il 21% delle donne ha denunciato di essere stata abusata
sessualmente prima del 15° anno di età, nella maggior parte
dei casi da membri maschi della famiglia. In particolare, lo
studio rileva che una percentuale variante tra il 7 e il 36%
delle donne e il 3 e il 29% degli uomini afferma d’esser stata vittima di abusi sessuali durante l’infanzia, e, a seconda
del Paese analizzato, il tasso di abusi tra le bambine è da
una volta e mezzo a tre volte superiore a quello dei bambini, abusi che, nella maggior parte dei casi, avvengono in
ambito familiare. Secondo uno studio condotto negli USA,
l’83% delle alunne delle classi dall’8° all’11° livello (tra i 12
e i 15 anni) che frequentano le scuole pubbliche, subiscono
qualche forma di molestia sessuale6.
3 World Health Organization, Global and Regional Estimates of Violence against Women, http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/85239/1/9789241564625_eng.pdf
4 Per esempio, uno studio basato su interviste somministrate a 42mila
donne dei 28 Paesi membri dell’Unione europea ha rilevato che solo il
14% delle vittime ha denunciato alle forze dell’ordine le violenze subite
dal proprio partner: Violence against Women: an EU-Wide Survey, European Union, 2014, Foreword, p. 3.
5 Hidden in Plain Sight: A Statistical Analysis of Violence against
Children (UNICEF) http://www.unicef.org/publications/files/Hidden_in_
plain_sight_statistical_analysis_Summary_EN_2_Sept_2014.pdf
6 American Association of University Women, Hostile Hallways: Bullying, Teasing, and Sexual Harassment in School, Washington, DC, 2001,
p. 4. Questo studio è citato in In-depth Study on All Forms of Violence
Sotto il terzo profilo, la tratta, ci si riferisce al reclutamento
e al trasferimento di una persona a fini di sfruttamento (prevalentemente prostituzione). È una declinazione moderna
della schiavitù, che è ovviamente, in sé, una violazione dei
diritti umani, ma ne implica inevitabilmente altri, quali maltrattamenti, torture, segregazione, malnutrizione, mancanza
di cure mediche, fino a giungere, talvolta alla perdita della
vita. A livello mondiale, le vittime della tratta di esseri umani
sono stimate a due milioni e mezzo all’anno. L’ottanta per
cento di loro sono donne e ragazze. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (International Labour Organization
– ILO), sono circa 1,2 milioni i minori di 18 anni vittime di
tratta nel mondo7.
Sotto il terzo profilo, le mutilazioni genitali femminili
(MGF), parziali o totali, sono pratiche diffuse soprattutto in
buona parte dell’Africa (Somalia, Gibuti, Sudan, Etiopia, Somalia e alcune regioni e/o gruppi di popolazione del Kenya,
Nigeria, Mali, Mauritania), in alcuni Paesi del Medio Oriente
(Egitto, Oman, Emirati Arabi Uniti) e in qualche zona o comunità dell’Asia (India, Indonesia, Malesia e Sri Lanka). Il
fenomeno riguarda anche l’Europa relativamente ai migranti
provenienti da zone in cui questa pratica è perpetrata. Secondo l’UNICEF le MGF riguardano ogni anno circa tre milioni
di bambine o ragazze e sono oggi circa 140 milioni le donne
che l’hanno subita8.
Sotto il quarto profilo, lo stupro di guerra, ossia lo stupro
di massa di donne da parte delle truppe che hanno invaso un
Paese, o, in una guerra interna, da parte di una fazione in lotta
contro le donne dell’altra, assume talvolta i connotati della
pulizia etnica, poiché la nascita di figli “misti” è una forma di
umiliazione su un popolo, che non si vuole solamente vincere militarmente e depredare, ma anche violentare attraverso
le sue donne da cui nascono figli dei vincitori. Come esempi
di prassi basta ricordare che durante la guerra in Bosnia, dal
1992 al 1995, si stima che siano state violentate 50.000 donne; mentre durante la guerra civile in Ruanda nel 1994 fra
Hutu e Tutsi (nel corso della quale fu ucciso circa un milione
di Tutsi) furono violentate da 250.000 a 500.000 donne della
etnia soccombente, di cui più del 67% ha contratto l’AIDS9.
2. LA TUTELA DELLE DONNE NEGLI STRUMENTI
INTERNAZIONALI
L’Organizzazione delle NU, fin dalla sua nascita, pur riconoscendo l’unitarietà dei diritti umani, ha preso atto delle
peculiarità proprie della tutela delle donne, e, a tal fine, il
Consiglio di sicurezza (CdS), con la risoluzione 11(II) del 21
giugno 1946, ha istituito la Commissione sullo Status delle
against Women: Report of the Secretary-General, UN General Assembly,
2006A/61/122/Add.1, New York, 2006, p. 42.
7 International Labour Organization, ILO Global Estimate of Forced Labour: Results and Methodology, Geneva, 2012, p. 14.
8 UNICEF, Female Genital Mutilation/Cutting: What might the future
hold,
http://www.unicef.org/media/files/FGM-C_Report_7_15_Final_
LR.pdf
9 http://www.amnesty.org/en/library/asset/AFR47/007/2004/en/53d74ceb-d5f7-11dd-bb24-1fb85fe8fa05/afr470072004en.pdf, p. 2
51
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Donne (Commission on the Status of Women - CSW), con il
mandato di preparare raccomandazioni e rapporti indirizzati al Consiglio Economico e Sociale (Economic and Social
Council - ECOSOC) sul tema della promozione dei diritti
delle donne in ambito politico, economico, civile, sociale ed
educativo. Nei primi vent’anni di attività, la Commissione si
è dedicata principalmente alla negoziazione di trattati internazionali miranti a modificare le legislazioni discriminatorie
ancora in vigore nella maggior parte dei Paesi; ma fin dai
primi anni ‘50 ha prestato particolare attenzione ad alcune
specifiche fattispecie di violenza di genere, quali ad esempio
le mutilazioni genitali e altre pratiche tradizionali che minacciassero l’integrità fisica e psichica di donne e ragazze.
L’impulso propulsivo per la promozione della tutela delle
donne è dato dalla I Conferenza Mondiale sulla condizione
della donna di Città del Messico (1975), in concomitanza con
l’Anno Internazionale delle Donne, che lancia il Decennio
delle Nazioni Unite per le Donne (1976-1985). Il frutto più
rilevante di questo decennio è sicuramente la Convenzione
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le
donne (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women – CEDAW)10, adottata il 18
dicembre 1979 dall’Assemblea generale delle NU, che costituisce un vero e proprio bill of rights dei diritti delle donne.
In verità nella CEDAW non si fa mai esplicito riferimento
alla violenza di genere come fenomeno specifico, ma si disciplinano fattispecie particolari di violenza, quali, ad esempio,
i matrimoni forzati (art.16) e lo sfruttamento sessuale (art.
6). La CEDAW è entrata in vigore il 3 settembre 1981, dopo
poco più di due anni dalla sua firma, in tempi record quindi rispetto agli altri Trattati in tema di diritti della persona
umana. Questo successo è però mitigato dal gran numero di
riserve e dichiarazioni interpretative che ne attenuano la portata precettiva. La Convenzione, articolata in un preambolo e
30 articoli, è stata ratificata da 188 Stati, fra cui non figurano
Stati Uniti, Città del Vaticano, Iran, Nauru, Palau, Somalia,
Sudan, Tonga. I pilastri principali della Convenzione, di
stampo prettamente emancipatorio, sono quattro: in primo
luogo, sono definite le forme di discriminazioni nei confronti
delle donne; in secondo luogo, si impone agli Stati parte di
astenersi da azioni discriminanti in base al sesso; in terzo
luogo, si ingiunge agli Stati parte di adottare provvedimenti
per raggiungere l’uguaglianza uomo-donna in tutti i settori (peraltro è previsto che possano essere disposte misure
ineguali da applicare temporaneamente, miranti a realizzare
l’eguaglianza de facto uomo-donna); in quarto luogo, infine,
si garantisce alla donna parità di diritti nella vita pubblica e
politica, nell’acquisizione di cittadinanza diversa da quella di
nascita, nell’istruzione, nella vita professionale, nel sistema
sanitario, nel diritto matrimoniale e in quello di famiglia. La
Convenzione, all’art. 17 - Parte V, prevede l’istituzione di un
“Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna” che ha il compito di sorvegliare lo stato
10 Il testo della CEDAW si legge in: http://www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/CEDAW.aspx
52
di applicazione delle norme da parte degli Stati contraenti. Il
Comitato è composto da 23 membri eletti a scrutinio segreto
su una lista di candidati designati dagli Stati parte, che hanno l’obbligo di presentare, al Comitato, almeno ogni 4 anni,
un rapporto in cui sono illustrate le azioni compiute dallo
Stato in questione per dare applicazione alle norme in essa
contenute ma anche i fattori e le difficoltà che influiscono sul
grado di applicazione degli obblighi previsti dalla presente
Convenzione. La presentazione dei rapporti (motu proprio
da parte degli Stati contraenti o su invito del Comitato) è “a
porte aperte”; il Comitato, inoltre, riceve informazioni in via
informale dalle organizzazioni non governative (ONG) le
quali possono anche assistere alle sedute del Comitato. Successivamente, a quasi 20 anni dall’entrata in vigore della CEDAW, il 15 ottobre 1999, l’Assemblea generale (AG) delle
NU ha adottato un Protocollo facoltativo, entrato in vigore
fra gli Stati ratificanti il 22 dicembre 2000, che ha allineato
la Convenzione ai principali testi internazionali in materia di
diritti umani e ha fornito più chiare possibilità di ricorso in
caso di violazioni. Il Protocollo infatti definisce due diverse
procedure di intervento: da un lato, una procedura di denuncia, utilizzabile sia da singole donne che da gruppi di donne
per denunciare al Comitato i casi di violazione delle norme
stabilite dalla Convenzione; sia una procedura d’indagine,
che conferisce al Comitato il potere di condurre indagini sui
casi di violazioni gravi o sistematiche dei diritti umani delle
donne nei Paesi che hanno sottoscritto il Protocollo facoltativo. Va peraltro ricordato che il Comitato non ha un vero e
proprio potere sanzionatorio nei confronti degli Strati parte:
l’eventuale riscontro di comportamenti non collimanti con
quanto prescritto nella CEDAW comporta solamente un rapporto dal valore di soft law iscrivibile alla moral suasion.
Nel 1985, nel quadro della III Conferenza Mondiale delle
Donne (Nairobi) è stato approvato un Piano d’Azione nel
quale si prende atto che la violenza nei confronti delle donne
non è un problema da confinarsi un ambito eminentemente
privato ma, al contrario, è una questione pubblica che - come
tale - richiede un approccio proattivo tanto a livello statale
quanto a livello internazionale. Ciò ha portato, nel giugno
del 1993, alla votazione unanime dei rappresentanti dei 171
Stati presenti alla Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani a Vienna, di una Dichiarazione e di un
Programma d’Azione per la promozione e la tutela dei diritti
umani nel mondo, ponendo l’accento sulla “importanza di
lavorare per l’eliminazione della violenza contro le donne
nella vita pubblica e privata, per l’eliminazione di tutte le
forme di molestie sessuali, sfruttamento e tratta delle donne,
per l’eliminazione di pregiudizi di genere nell’amministrazione della giustizia e per lo sradicamento di ogni conflitto che possa insorgere tra i diritti delle donne e gli effetti
dannosi di certe pratiche tradizionali o abituali, di pregiudizi
culturali ed estremismi religiosi” (art. 38). Con la risoluzione
48/104 del 20 dicembre 1993, adottata per consensus (ossia
in modo unanime per mancanza di obiezioni senza la necessità di ricorrere al voto palese e nominale), l’Assemblea
Generale delle NU ha promulgato la Dichiarazione sull’eli-
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
minazione della violenza contro le donne. Il documento contempla la definizione più diffusa di violenza contro le donne:
ai sensi dell’art. 1, «l’espressione “violenza contro le donne”
significa ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia
come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica
per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o
la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita
pubblica o privata»; l’art. 2 prosegue affermando che «la violenza contro le donne dovrà comprendere, ma non limitarsi
alla violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine
nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro
da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre
pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non
maritale e la violenza legata allo sfruttamento; alla violenza
fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro,
negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la
prostituzione forzata; alla violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o condotta dallo Stato, ovunque essa accada».
La violenza sessuale assurge ai vertici dell’agenda mondiale quando, nel corso della guerra nella ex Iugoslavia11 e
nel Rwanda12, assume proporzioni di fenomeno di massa: lo
stupro viene adoperato come sistemica tattica di guerra, sicché tanto lo Statuto del Tribunale penale internazionale per
l’ex Jugoslavia (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia - ICTY), istituito con ris. 827/25.05.1993 del
CdS delle NU, quanto lo Statuto del Tribunale per il Rwanda (International Criminal Tribunal for Rwanda – ICTR),
istituito con ris. 955/8.11.1994 del CdS delle NU, includono
nella propria competenza ratione materiae (anche) crimini
quali stupro e violenze sessuali (rispettivamente, all’art.5 e
11 Come già ricordato, si stima che durante la guerra in Bosnia Erzegovina circa 50.000 donne sono state violentate. La maggioranza delle vittime
delle violenze erano donne musulmane stuprate dai soldati serbi, al fine
di obbligare il gruppo etnico oggetto delle violenze ad andarsene dalla regione. Addirittura, è stata documentata l’esistenza di “campi di stupro”
creati deliberatamente per ingravidare le donne musulmane e croate tenute
prigioniere. Viene documentato inoltre che spesso le donne erano tenute
in prigionia fino all’ultima fase della gravidanza, al fine di “creare” una
nuova generazione serba (posto che l’etnia si erediti in linea paterna). Del
pari, durante la guerra del Kosovo, migliaia di donne kosovare-albanesi
sono state vittima di violenze sessuali. Cfr. Human Rights News Bosnia:
Landmark Verdicts for Rape, Torture and Sexual Enslavement, 2.22.2001.
12 Nel rapporto del 1996 il Relatore Speciale delle Nazioni Unite in
Rwanda, Rene Degni-Segui, affermò che «lo stupro era la regola e la sua
assenza l’eccezione». Il rapporto afferma inoltre che «lo stupro era sistematico ed era usato come ”arma” dai perpetratori del massacro». Un rapporto del 2000 del Gruppo Internazionale di Personalità Eminenti dell’Organizzazione dell’Unità Africana concluse che «possiamo essere certi che
tutte le donne che sopravvissero al genocidio furono vittime dirette di stupro o altre violenze sessuali o furono profondamente sconvolte da essi». Il
Relatore Speciale in Rwanda stimò nel rapporto del 1996 che tra 2.000 e
5.000 gravidanze furono il risultato degli stupri di guerra, e che tra 250.000
e 500.000 donne e ragazze ruandesi furono violentate. Va ricordato che il
Rwanda è una società patrilineare e che quindi i bambini prendono l’etnia
del padre, il che sottolinea il carattere genocidario dello stupro di massa. Cfr. Anne-Marie de Brouwer, Supranational Criminal Prosecution of
Sexual Violence, Intersentia, 2005, p. 10 ss.
all’art. 3). Va ricordato che già la IV Convenzione di Ginevra del 1949, riguardante la protezione dei civili in tempo di
guerra, menziona esplicitamente, all’art.27, fra le fattispecie
criminali punibili, lo stupro e la prostituzione forzata, ma
queste erano considerate condotte criminali solo in quanto
azioni tese a ledere il pudore della donna: negli Statuti ICTY
e ICTR lo stupro è riconosciuto quale crimine contro l’umanità, alla stregua di fattispecie come assassinio, sterminio,
riduzione in schiavitù, deportazione, incarcerazione, tortura
e persecuzione per motivi politici, razziali o religiosi, quindi
come comportamento dotato di una rilevanza penale autonoma nella cornice del diritto internazionale umanitario.
L’esperienza dei Tribunali ad hoc e della Piattaforma d’Azione adottata dalla IV Conferenza mondiale sulle donne di
Pechino (1995), in cui, al punto 11, si sottolinea come «gravi
violazioni dei diritti fondamentali delle donne avvengono soprattutto nei periodi di conflitto armato, e producono omicidi, torture, stupri sistematici, gravidanze forzate e aborti forzati, in particolare nelle strategie di “pulizia etnica”», viene
fatta propria dalla Corte Penale Internazionale (International
Criminal Court - CPI). Nello Statuto della CPI, firmato il 17
luglio 1998, entrato in vigore nel 2002 in esito al deposito
del sessantesimo strumento di ratifica, si dispone, all’art. 7.g,
che sono crimine contro l’umanità «stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione
forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità»;
e, all’art.8.2.XXII, che è crimine di guerra «stuprare, ridurre in schiavitù sessuale, costringere alla prostituzione o alla
gravidanza, imporre la sterilizzazione e commettere qualsiasi
altra forma di violenza sessuale costituente violazione grave
delle Convenzioni di Ginevra».
L’approccio olistico caratterizza l’azione attuale di contrasto alla violenza nei confronti delle donne degli ultimi anni.
A questa nuova visione integrata si deve l’istituzione di UN
Women (Entità delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne - United Nations Entity
for Gender Equality and the Empowerment of Women - UN
Women) sotto l’egida delle NU. UN Women, creata in virtù
della ris. 64/289 del 2 luglio del 2010, adottata all’unanimità
dall’AG delle NU, nasce dalla fusione di quattro organismi
preesistenti: la Divisione per l’Avanzamento delle Donne
(Division for the Advancement of Women - DAW), l’Istituto
Internazionale di Ricerca e Formazione per l’Avanzamento
delle Donne (International Research and Training Institute
for the Advancement of Women - INSTRAW), l’Ufficio del
Consigliere Speciale sulle Questioni di Genere e l’Avanzamento delle Donne (Office of the Special Adviser on Gender
Issues and Advancement of Women - OSAGI) e il Fondo delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo delle Donne (United Nations
Development Fund for Women - UNIFEM). UN Women ha
il duplice scopo, da un lato, di supportare gli organismi intergovernativi, a cominciare dalla CSW, per l’elaborazione
di politiche, guidelines e norme internazionali; dall’altro,
aiutare Stati membri delle NU a implementare gli standards
formulati, anche attraverso supporti tecnici e finanziari.
La panoplia delle varie iniziative, lanciate e/o gestite da
53
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
UN Women per contrastare la violenza nei confronti delle
donne è variegata e complessa. Si possono ricordare quali
esempi UNiTE to End Violence Against Women, la campagna ideata dal Segretario Generale delle NU nel 2008, volta
a sollecitare gli Stati ad adottare e perfezionare le proprie
norme nazionali per contrastare il fenomeno della violenza
di genere; Say NO – UNiTE to End Violence Against Women,
la piattaforma di mobilitazione sociale per la lotta contro la
violenza di genere, lanciata nel novembre del 2009 da UN
Women e impegnata in azioni di advocacy e sensibilizzazione sul tema; COMMIT, lanciata nel novembre 2012 da
UN Women, con lo scopo precipuo di sensibilizzare i leaders
politici; l’UN Trust Fund to End Violence Against Women
(UN Trust Fund), meccanismo di finanziamento istituito
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 50/166 nel 1996 e gestito da UN Women, che coopera con organizzazioni non governative e i governi dei Paesi
delle Nazioni Unite in primo luogo per prevenire la violenza
contro donne e ragazze da parte di gruppi particolarmente a
rischio, come adolescenti e donne appartenenti a minoranze
indigene o etniche; in secondo luogo per espandere l’accesso
delle donne vittime di violenza a servizi, quali l’assistenza
legale, la consulenza psicosociale, l’assistenza sanitaria; infine per rafforzare l’attuazione delle leggi, delle politiche e dei
piani d’azione sulla violenza di genere, attraverso la raccolta
e l’analisi dei dati, al fine di consentire a fornitori di servizi e
istituzioni di diventare più efficaci, trasparenti e responsabili.
3. LA TUTELA DELLE DONNE NEL QUADRO
REGIONALE
Parallelamente all’azione condotta a livello globale da
parte delle Nazioni unite per contrastare il fenomeno della
violenza di genere, si registra la tendenza alla cd regionalizzazione dell’approccio al problema. Molteplici strumenti
e convenzioni internazionali, a partire dalla seconda metà
degli anni ‘90, sono state infatti adottate in un’ottica, per
così dire, glocale, in cui il globale ed il locale, visti come
i due lati della stessa medaglia, possono offrire risposte più
adeguate, più efficaci e più efficienti perché calibrate ad hoc
avuto riguardo alle peculiarità proprie di un contesto, geografico, culturale, sociale, etnico, etc.
È così che il 9 giugno 1994 l’Assemblea generale dell’Organizzazione degli Stati Americani a Belém do Pará, (Brasile) ha adottato la Convenzione inter-americana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le
donne13, entrata in vigore il 5 marzo 1995 di cui sono Stati
parti a 32 Paesi del continente americano14. In questo Trattato, ai sensi dell’art. 8, gli Stati parti concordano nell’intraprendere progressivamente misure specifiche, compresi programmi, allo scopo di modificare modelli culturali e sociali
13 Il testo della Convenzione si legge in http://www.oas.org/juridico/english/treaties/a-61.html
14 L. P. MEJÍA GUERRERO, La Comisión interamericana de mujeres y
la Convención de Belém do Parà, in Revista interamericana y europea de
derechos humanos, 2012, p. 189 ss.
54
di comportamento di uomini e donne, compreso lo sviluppo
di programmi educativi formali e non formali appropriati ad
ogni livello di istruzione, per contrastare i pregiudizi, le consuetudini e tutte le altre prassi basate sull’idea dell’inferiorità
o superiorità dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati
per uomini e donne che legittimano o esasperano la violenza
contro le donne. Si impegnano a promuovere l’educazione e
la formazione di tutte le persone coinvolte nell’amministrazione della giustizia, nella polizia e di tutti gli altri funzionari
che si occupano del rispetto della legge, nonché di tutto il
personale che attua politiche per la prevenzione, la punizione
e lo sradicamento della violenza contro le donne. Gli Stati
parte stabiliscono di fornire servizi specializzati adeguati per
le donne che hanno subito violenza, attraverso operatori pubblici e privati, compresi rifugi, servizi di consulenza per tutti
membri della famiglia se del caso, nonché di cura e custodia
per i bambini coinvolti; promuovere e sostenere programmi di educazione a livello governativo o privato finalizzati a
sensibilizzare il pubblico riguardo al problema della violenza
contro le donne e alle sue soluzioni; incoraggiare i media
a sviluppare linee-guida adeguate al fine di contribuire allo
sradicamento della violenza contro le donne in tutte le sue
forme e rafforzare il rispetto per la dignità delle donne; assicurare la ricerca e la raccolta di statistiche e di informazioni
pertinenti circa le cause, le conseguenze e la frequenza delle
violenze contro le donne, allo scopo di valutare l’effettività
delle misure di prevenzione, sanzione e sradicamento della
violenza contro le donne adottate e formulare e attuare gli
opportuni cambiamento. Va ricordato altresì che, ex art. 9,
rispetto all’adozione delle misure su indicate, gli Stati Parti si obbligano a prendere in particolare considerazione la
vulnerabilità alla violenza delle donne in ragione, tra l’altro,
della loro razza o origine etnica, della loro condizione di migranti, rifugiate o sfollate. Simile considerazione deve essere
prestata alle donne oggetto di violenza durante la gravidanza
o alle donne disabili, di minore età, anziane, svantaggiate sul
piano socio-economico, coinvolte in conflitti armati o private della libertà. Il tallone di Achille di questa Convenzione è
la mancata previsione di strumenti concreti di garanzia, che
possano fungere sia da deterrente verso atteggiamenti violenti e discriminatori nei confronti delle donne, sia da vera
e propria sanzione nei confronti dei Paesi parti che vengano
meno a quanto statuito, limitandosi a prevedere, all’articolo
12, la possibilità di presentare petizioni individuali15.
Dal canto suo, l’Unione africana ha adottato nel 2003
un Protocollo Addizionale alla Carta africana dei Diritti
dell’Uomo, a Maputo in Mozambico,16 che, pur non essendo
esclusivamente dedicato al tema della violenza di genere, è
da ricordare in queste brevi note in quanto, il Protocollo di
15 Salvo quanto si dirà nota 29 infra.
16 Il testo del Protocollo si legge in: http://www.au.int/en/content/protocol-african-charter-human-and-peoples-rights-rights-women-africa. In
dottrina si veda F. QUILLÈRE-MAJZOUB, Le protocole à la Charte africaine des droits de l’homme et des peuples relatif aux droits de la femme
en Afrique: un projet trop ambitieux?, in Revue trimestrielle des droits de
l’homme, 2008, p. 127 ss.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Maputo contempla una vasta gamma di diritti della donna:
l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione, il diritto
alla dignità, alla vita, all’integrità e alla sicurezza fisica della
sua persona, la protezione in occasione dei conflitti armati,
il diritto all’istruzione e alla formazione, i diritti economici
e alla dignità sociale, come pure i diritti alla salute e quelli
riproduttivi. Va ricordato l’art. 4, in virtù del quale qualsiasi
donna ha diritto al rispetto della sua vita, della sua integrità
fisica ed alla sicurezza della sua persona. Ogni tipo di sfruttamento, di punizione e di trattamento inumano o di degrado
deve essere vietato. A tal fine gli Stati Membri si impegnano
ad adottare misure idonee ed effettive per: adottare e rafforzare le leggi che proibiscono qualsiasi violenza nei confronti delle donne, compresi i rapporti sessuali non desiderati o
forzati, che abbiano luogo in privato o in pubblico; adottare
qualsiasi altra misura legislativa, amministrativa, sociale,
economica e altra per prevenire, reprimere e sradicare qualsiasi forma di violenza nei confronti delle donne; identificare
le cause e le conseguenze delle violenze contro le donne e
adottare misure idonee per prevenirle ed eliminarle; promuovere attivamente l’istruzione alla pace attraverso programmi
d’insegnamento e di comunicazione sociale con l’obiettivo
di sradicare gli elementi contenuti nelle credenze e gli atteggiamenti tradizionali e culturali, le pratiche e gli stereotipi
che legittimano e inaspriscono la persistenza e la tolleranza
della violenza nei confronti delle donne; reprimere gli autori della violenza nei confronti delle donne e realizzare programmi in previsione della loro riabilitazione; organizzare
meccanismi e servizi accessibili per garantire l’informazio-
ne, la riabilitazione e la compensazione effettiva delle donne
vittime delle violenze; prevenire e condannare il traffico di
donne, perseguire gli autori di questo traffico e proteggere le
donne più esposte questo rischio; proibire ogni esperimento
medico o scientifico sulle donne senza il loro consenso con
cognizione di causa; stanziare risorse di bilancio adeguate
per l’attuazione e lo svolgimento di azioni mirate a prevenire
e sradicare le violenze contro le donne; assicurarsi che, nei
Paesi in cui esiste ancora, la pena di morte non sia applicata nei confronti della donna incinta o che allatta; assicurarsi
che le donne e gli uomini usufruiscano di un accesso uguale
alle procedure di determinazione dello statuto di profughi e
che le donne rifugiate usufruiscano della tutela totale e delle
prestazioni garantite nei termini del diritto internazionale dei
profughi, ivi compreso il rilascio di documenti d’identità ed
altri documenti. Inoltre, l’articolo 5 del Protocollo di Maputo
prevede espressamente la condanna e il divieto di qualsiasi
tipo di mutilazione genitale femminili, statuendo che gli Stati
membri proibiscono e condannano tutte le forme di pratiche
nocive che ledono negativamente i diritti umani delle donne
e che sono contrarie alle norme internazionali, impegnandosi ad adottare tutte le misure legislative e non per sradicare
queste pratiche.
Per quel che concerne il vecchio continente, il tema di
violenza di genere è stato regolamentato (poco, in verità)
nel quadro tanto dell’Unione europea, quanto del Consiglio
d’Europa. L’Unione europea ha avuto un approccio al tema
alquanto a macchia di leopardo: si possono ricordare la Risoluzione 2005/2215 del Parlamento europeo sulla situazione
55
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
delle donne nelle aree di guerra e sul loro ruolo nei processi
di ricostruzione nei paesi in situazione di post-conflitto; il
programma STOP, attivo sin dal 1997, e il successivo e più
incisivo programma DAFNE, che hanno sostenuto l’azione
della cd società civile e delle organizzazioni non governative
impegnate nella lotta alla violenza nei confronti delle donne
in tutte le sue manifestazioni, e nell’assistenza alle vittime;
la Risoluzione (2012/2922(RSP) adottata il 6 febbraio 2013
che affronta il problema della violenza di genere in un’ottica
ampia, non solo limitata alle situazioni di conflitto, partendo
dalla constatazione che la violenza contro le donne persiste
in tutti i Paesi del mondo come la violazione più diffusa dei
diritti umani. Soprattutto va menzionata l’introduzione, con
la Direttiva 2011/99/EU approvata da Parlamento e Consiglio, dell’EPO, ovvero l’Ordine di Protezione Europeo, in
virtù del quale l’autorità giudiziaria di uno Stato membro,
che abbia predisposto per un suo cittadino un ordine di protezione nei confronti di un terzo che attenta alla sua vita o
alla sua integrità psicologica o fisica, quindi anche (soprattutto?) in ipotesi di violenza domestica, stalking, minacce,
può estendere la tutela prestata alla vittima in modo tale che
la protezione garantita dal Paese originario (issuing State)
valga anche in un altro Stato membro in cui il cittadino venga
a trovarsi (executing State). Il regolamento del luglio 2013
ha esteso l’applicazione dell’EPO dalle sole questioni criminali a quelle civili, assicurando così una sorta di tutela senza
frontiere posto che le vittime di violenza domestica possono
fare ora affidamento su ordini di restrizione validi a livello
dell’Unione nel suo intero territorio17.
Un approccio più sistematico è quello che contraddistingue l’azione del Consiglio d’Europa. In verità, la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle Libertà Fondamentali (CEDU) del 1950, contiene solo
poche clausole espressamente dirette alla tutela dei diritti
delle donne, in particolare sul diritto matrimoniale e su un
generale divieto di discriminazione18. Peraltro, in anni recenti, il Consiglio d’Europa si è contraddistinto per un’azione
strutturata in tema di violenza di genere che prende le mosse
17 L’Ordine di protezione europeo è stato introdotto nell’ordinamento
italiano col decreto legislativo 11.02.2015 n° 9, G.U. 23.02.2015, con un
po’ di ritardo quindi, rispetto alla dead line per il recepimento della direttiva fissata all’11 gennaio 2015. L’art. 4 del decreto introduce, all’interno dell’art. 282-quater c.p.p., un nuovo comma 1-bis mediante il quale si
prevede che la persona offesa sia informata della possibilità di richiedere
l’emissione di un ordine di protezione europeo, quest’ultimo decretato
dal giudice che dispone una delle misure cautelari di cui agli artt. 282-bis
c.p.p. (Allontanamento dalla casa familiare) e 282-ter c.p.p. (Divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa). In questi casi il
giudice provvede «su richiesta della persona protetta che dichiari di soggiornare o risiedere all’interno di uno Stato membro ovvero che manifesti
l’intenzione di risiedere o soggiornare in altro Stato membro».
18 In effetti, la tutela delle donne ha beneficiato di un’interpretazione evolutiva degli artt. 2, 3, 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti umani e delle libertà fondamentali che ha posto in essere la Corte
di Strasburgo: A. VIVIANI, La violenza contro le donne nell’interpretazione della Corte di Strasburgo, in Diritti umani e diritto internazionale,
2010, p. 412 ss., e B. ANCEL, Les violences conjugales saisies par le
droit européen: évolution ou révolution?, in Revue trimestrielle de droit
européen, 2013, p. 701 ss
56
dalla Raccomandazione Rec(2002)5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza adottata nel 2002. Ai sensi della Raccomandazione il
termine “violenza contro le donne” designa qualsiasi azione
di violenza fondata sull’appartenenza sessuale che comporta
o potrebbe comportare per le donne che ne sono bersaglio
danni o sofferenze di natura fisica, sessuale o psicologica, ivi
compresa la minaccia di mettere in atto simili azioni, la costrizione, la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita
pubblica che in quella privata. Questa definizione si applica,
ma non è circoscritta, alle seguenti azioni: violenza perpetrata all’interno della famiglia o delle mura domestiche e in
particolare le aggressioni di natura fisica o psichica, gli abusi
di tipo emotivo o psicologico, lo stupro e l’abuso sessuale,
l’incesto, lo stupro fra coniugi, partner abituali, partner occasionali o conviventi, i crimini commessi in nome dell’onore,
la mutilazione degli organi genitali o sessuali femminili, così
come le altre pratiche tradizionali dannose per le donne, quali i matrimoni forzati; violenza perpetrata nella comunità in
generale e in particolare lo stupro, gli abusi, le molestie sessuali e le intimidazioni sul luogo di lavoro, nelle istituzioni o
in altri luoghi, la tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale; violenza perpetrata o tollerata dallo Stato o dagli agenti della forza pubblica; la violazione dei diritti fondamentali
delle donne in situazione di conflitto armato, in particolare
la presa di ostaggi, la deportazione, lo stupro sistematico, la
schiavitù sessuale, la gravidanza forzata e la tratta ai fini di
sfruttamento sessuale ed economico.
Una definizione così sfaccettata offre poche vie di fuga,
maglie così strette sono in grado di imbrigliare azioni anche non sfacciatamente ascrivibili alla violenza di genere:
ma è uno strumento di soft law e, come tale, non comporta obblighi per gli Stati cui è rivolta, poiché il suo valore è
eminentemente esortativo. Vero è che la Raccomandazione
ha costituito sia la base per una campagna multilivello (intergovernativo, parlamentare e locale) fra i Paesi membri del
Consiglio d’Europa; sia il trampolino di lancio per la Convenzione di Istanbul.
Sotto il primo profilo, in base al Piano d’azione adottato a
conclusione del Terzo Vertice dei Capi di Stato e di governo
degli Stati membri del Consiglio d’Europa, a partire dal 2006
è stata condotta una campagna suddivisa in quattro grandi
filoni - misure politiche e legali, supporto e protezione per
le vittime, raccolta di dati e azioni di informazione - volta a
sensibilizzare l’opinione pubblica e indurre gli Stati a conformarsi a quanto disposto nella Raccomandazione, attraverso l’adozione di misure efficaci e efficienti.
Sotto il secondo profilo, in esito al Rapporto finale della
Task Force istituita per sostenere e gestire tale campagna,19
Rapporto che raccomandava l’adozione da parte del Consiglio d’Europa di uno strumento complessivo giuridicamente
vincolante in materia di diritti umani, al fine di prevenire e
19 Final Activity Report, Task Force to Combat Violence against Women,
September 2008, http://www.coe.int/t/dg2/equality/domesticviolencecampaign/Source/Final_Activity_Report.pdf
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
combattere ogni forma di violenza sulle donne, il Comitato dei Ministri ha istituito nel dicembre 2008 un gruppo di
esperti (Comitato Ad Hoc per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica - CAHVIO)
con lo scopo specifico di redigere un draft di trattato in tema
di contrasto alla violenza di genere. Il CAHVIO ha presentato nel giugno 2009 un Interim Report, in cui erano esposti
contenuti e metodologia della bozza proposta. Dopo la sua
approvazione, il documento ha costituito la base di una serie di incontri fra il CAHVIO, delegati degli Stati membri e
rappresentanti della cd società civile, che hanno avuto luogo
tra febbraio e dicembre 2010. Infine, il testo è stato approvato e trasmesso al Comitato dei Ministri per essere portato
all’attenzione dell’Assemblea Parlamentare, nel marzo 2011.
Il Comitato dei Ministri ha quindi adottato il testo il 7 aprile
2011 sicché la Convenzione è stata aperta alla firma in occasione della Conferenza ministeriale di Istanbul l’11 maggio
2011.
4. LA CONVENZIONE DI ISTANBUL
La Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica è
stata adottata quindi dal Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa il 7 aprile 2011 ed è stata aperta alla firma l’11
maggio 2011 in occasione della 121ma sessione del Comitato
dei Ministri a Istanbul. Il deposito degli strumenti di ratifica
di Andorra e Danimarca, avvenuto rispettivamente il 22 e 23
aprile 2014, ha consentito alla Convenzione di entrare in vigore lo scorso 1° agosto, ai sensi di quanto stabilito dall’art.
75, par. 3.20 La Convenzione è aperta alla firma degli Stati
membri del Consiglio d’Europa, degli Stati non membri che
hanno partecipato alla sua elaborazione (Canada, Giappone,
Messico, Santa Sede, Stati Uniti) e dell’Unione Europea21.
20 L’art. 75, par. 3, della Convenzione individua l’entrata in vigore di
quest’ultima nel primo giorno del mese successivo alla scadenza di un
periodo di tre mesi dopo la data in cui dieci firmatari, di cui almeno otto
Stati membri del Consiglio d’Europa, abbiano espresso il loro consenso
ad essere vincolati. Nell’ordine, hanno ratificato: Turchia (1.3.2012), Albania (4.2.2013), Portogallo (5.2.2013), Montenegro (22.4.2013), Italia
(10.9.2013), Bosnia Erzegovina (7.11.2013), Austria (14.11.2013), Serbia (21.11.2013), Spagna (10.4.2014), Andorra (22.4.2014), Danimarca
(23.4.2014), Svezia (1.7.2014), Francia (4.7.2014), Malta (29.7.2014),
Monaco (7.10.2014), Slovenia (5.2.2015). In particolare, l’Italia ha firmato la Convenzione di Istanbul il 27 settembre 2011; la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità la ratifica della Convenzione il 28 maggio
2013 e il Senato, sempre all’unanimità, il 19 giugno 2013, sicché con legge
n. 77 del 27 giugno 2013, il Parlamento ha poi autorizzato il Presidente
della Repubblica a ratificare tale Convenzione e ne ha contestualmente
emesso l’ordine di esecuzione. Secondo quanto prescritto dall’art. 75, par.
2, della Convenzione, lo strumento di ratifica italiano è stato quindi depositato presso il Segretariato generale del Consiglio d’Europa il 10 settembre
2013.
21 Sarebbe interessante, ma non è consentito dallo spazio a disposizione
di queste brevi note, l’indagine della ancora in fieri adesione dell’Unione
europea alla Convenzione di Istanbul, in quanto si tratterebbe del secondo
caso di prassi (finora l’Unione è parte solamente di un unico trattato sui diritti umani, ossia la Convenzione delle Nazioni Unite sulle persone disabili). L’opportunità di perfezionare la propria partecipazione alla Convenzione di Istanbul da parte dell’Unione è evidente laddove si pensi al fatto
che ciò consentirebbe di prevenire criticità che altrimenti deriverebbero
La Convenzione contiene 81 articoli divisi in 12 capitoli,
la cui struttura riposa su quattro pilastri, che potremmo definire delle “4P”: prevenzione, protezione, procedure, politiche integrate.
Sotto il primo profilo, la Convenzione sottolinea come, nel
contrasto alla violenza di genere, la prevenzione sia di primaria importanza. A tal fine, gli Stati e i governi che hanno
ratificato la Convenzione sono ora obbligati ad adottare le
seguenti misure: formare il personale che è a stretto contatto
con le vittime; adottare regolarmente campagne di sensibilizzazione; includere nel materiale pedagogico argomenti quali
la parità tra i sessi e la risoluzione non violenta dei conflitti
nelle relazioni interpersonali; predisporre programmi terapeutici per gli autori di violenza domestica e per i delinquenti sessuali; lavorare strettamente con le organizzazioni non
governative; coinvolgere i media e il settore privato affinché
siano eliminati gli stereotipi di genere e sia promosso il mutuo rispetto.
Sotto il secondo profilo, rileva la protezione che, in occasione di episodi di violenza, dev’essere garantita alle vittime
e ai testimoni. Ciò comporta l’intervento e la tutela da parte
delle forze di polizia e dei servizi d’aiuto specializzati. Le
azioni concrete che la Convenzione indica per rispondere
con efficacia a questa esigenza sono molteplici, fra cui ricordiamo: dare alle forze di polizia il potere di allontanare
l’autore di violenza domestica dal suo domicilio, poiché in
caso di pericolo immediato, la polizia deve poter garantire la
sicurezza della vittima; assicurare alle vittime l’accesso a informazioni utili, in modo che le stesse possano comprendere
facilmente i servizi e gli aiuti che sono a loro disposizione;
distribuire sul territorio dei luoghi protetti accessibili e in
numero sufficiente; fornire un’assistenza telefonica specializzata e gratuita a livello nazionale per 24 ore al giorno, 7
giorni la settimana; creare dei centri di crisi facilmente accessibili per le vittime di stupro e violenza sessuale; tali centri
dovranno fornire assistenza e consulenza medica immediata
e assicurare assistenza medico-legale; tener presente che non
è sufficiente porre in essere delle strutture di protezione e dei
servizi di aiuto e assistenza, ma è anche necessario garantire
che le vittime siano informate dei loro diritti e che le stesse
sappiano dove e come ottenere aiuto.
Sotto il terzo profilo, le procedure da seguire in caso di
violenza di genere, la Convenzione di Istanbul ne definisce e
qualifica penalmente diverse forme. Ciò implica che gli Stati
parte devono, se del caso, introdurre nel loro sistema nazionale nuove figure di reato, tra cui: la violenza psicologica e
dal c.d. double standard, spesso praticato in materia di diritti della persona umana. L’Unione, infatti, è solita chiedere agli Stati aspiranti membri o associati di garantire i diritti garantiti da trattati internazionali di cui
essa non è però parte contraente. In effetti, solitamente si tratta di accordi
sui diritti umani non aperti all’adesione dell’Unione. Nel caso di specie,
l’Unione è invece abilitata a partecipare alla Convenzione di Istanbul e,
pertanto, se essa per prima non agisse in questa direzione, potrebbe poi
trovarsi in difficoltà nel richiedere il rispetto dei diritti garantiti da quella
stessa Convenzione agli Stati. Si veda in dottrina S. PEERS, Should the
EU Ratify the Istanbul Convention on Violence against Women?, 23 aprile
2014, eulawanalysis.blogspot.it.
57
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
psichica, la violenza sessuale e lo stupro, la persecuzione, le
mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, l’interruzione di gravidanza e la sterilizzazione forzate22. Ancora,
gli Stati aderenti dovranno fare in modo che attenuanti o le
giustificazioni che collegano la violenza commessa a fattori culturali o a tradizioni legate all’onore, siano eliminate.
La tipizzazione di queste figurae criminis comporta che gli
Stati dovranno adottare una serie di misure affinché vi siano
indagini effettive per ogni denuncia di violenza. Le autorità
inquirenti e le forze di polizia dovranno rispondere alle richieste di aiuto, raccogliere le prove e valutare il rischio di
violenza per proteggere adeguatamente la vittima, garantendo altresì che i diritti delle vittime siano rispettati in tutti gli
stadi della procedura e che sia a loro evitata ogni forma di
vittimizzazione secondaria.
Sotto il quarto profilo, la Convenzione sottolinea l’importanza di politiche integrate alla luce della considerazione
che una sola autorità statale non sarebbe in grado di fronteggiare efficacemente la violenza nei confronti delle donne
e alla violenza domestica. Per dare una risposta efficace a
questo tipo di violenze, è indispensabile un’azione concertata da parte di numerosi soggetti coinvolti, sicché la Convenzione chiede agli Stati di porre in essere delle politiche
globali e coordinate che coinvolgano gli organismi pubblici,
22 Per esempio, per quel che concerne il nostro ordinamento, è ipotizzabile che debba essere emendato l’art. 18 della legge n. 194 del 22 maggio
1978 in cui si parla di aborto “cagionato” o “provocato”, senza mai usare
l’espressione “aborto forzato”, inserita invece nell’art. 39, lett. a), della
Convenzione di Istanbul. Ai sensi del rapporto esplicativo allegato alla
Convenzione, questa seconda locuzione sembra assumere un’accezione
diversa, e ben più grave, rispetto alle fattispecie disciplinata dalla legge
italiana.
58
le organizzazioni non governative, i parlamenti e le autorità
nazionali, regionali e locali. L’idea è quella di istituire un
sistema integrato top-down, attraverso la formulazione di un
piano di intervento nazionale che individui missione e ruolo
di ciascun stakeholder coinvolto nel contrasto alla violenza
di genere.
Il sistema delle 4P si completa con un meccanismo di
controllo, destinato a valutare in che misura le disposizioni
della Convenzione sono applicate a livello di ciascun Stato
parte. Tale meccanismo si basa su due organismi, il Gruppo
di esperti per la lotta contro la violenza nei confronti delle
donne e la violenza domestica (Group of Experts on Violence - GREVIO), costituito da esperti indipendenti, e il Comitato delle Parti, organo politico composto da rappresentanti
ufficiali degli Stati che hanno ratificato la Convenzione. Il
Comitato delle Parti elegge i membri del GREVIO e trasmette agli Stati aderenti raccomandazioni aventi a oggetto le
misure necessarie per eseguire le indicazioni del GREVIO.
Il GREVIO è deputato a ricevere ed esaminare le relazioni
periodiche degli Stati parte e di organizzazioni non governative, istituzioni nazionali per i diritti umani e rappresentanti
della società civile e, su queste basi, valuta le misure adottate
dagli Stati per dare attuazione alla Convenzione. Il GREVIO
può inoltre effettuare delle ispezioni in loco ad hoc per valutare e indagare su una specifica questione. In esito a tale
procedura di controllo, il GREVIO può adottare dei Rapporti
in cui indicare conclusioni in grado di aiutare il singolo Stato contraente a migliorare l’applicazione e il rispetto della
Convenzione. Alla pubblicazione del Rapporto del GREVIO
possono seguire Raccomandazioni formulate dal Comitato
delle Parti, ma tali Raccomandazioni non sono obbligatorie,
né nell’essere formulate, né nel loro contenuto.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
5. OSSERVAZIONI CRITICHE E CONCLUSIVE
La Convenzione di Istanbul rappresenta sicuramente un
punto di riferimento a livello internazionale per quanto riguarda la lotta alla violenza contro le donne, secondo le parole del Vice Direttore Esecutivo di UN Women, John Hendra,
nel corso di un evento nella giornata di apertura della 56ma
sessione della CSW nel 201223, come pure una pietra miliare del sistema di tutela dei diritti umani, come dichiarato
dal Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio
d’Europa Anne Brasseur24. Peraltro, non bisogna sottacere alcune criticità che si vogliono brevemente evidenziare in
queste osservazioni conclusive.
In primo luogo, sotto il profilo ratione materiae, la Convenzione patisce di una serie di riserve25, che hanno avuto come prodromi tentativi di ridurre la portata, attraverso
un’applicazione restrittiva, della violenza di genere. Per
esempio, Federazione Russa e Santa Sede hanno proposto di
escludere la violenza contro lesbiche, bisessuali e transgender dall’ambito di applicazione del trattato (sancita nell’art
4). Il Regno Unito si è opposto alla penalizzazione del matrimonio forzato, sancita dalla Convenzione nell’art. 37 e
ha altresì proposto l’esclusione dall’ambito di applicazione
delle violenze perpetrate nel corso di conflitti armati e il non
inserimento della violenza contro le donne tra le violazioni
dei diritti umani (sancita nell’art.3), nonostante si tratti, in
entrambi i casi, di estensioni ormai unanimemente recepite
nei più recenti strumenti internazionali adottati in materia,
alcuni dei quali abbiamo espressamente visto nei paragrafi
precedenti di queste brevi note26. Il nostro Paese ha avuto
un atteggiamento alquanto ambiguo, quanto all’estensione
delle garanzie. In effetti, in occasione del primo disegno di
legge di ratifica della Convenzione di Istanbul, presentato
dal Governo nel gennaio 2013, il Rappresentante italiano
permanente presso il Consiglio d’Europa ha depositato una
dichiarazione interpretativa in lingua inglese del seguente
tenore:«Italy declares that it will apply the Convention in
conformity with the principles and provisions of the Italian
Constitution» ossia l’Italia applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali. Questa
dichiarazione, posta in essere quale escamotage per aggirare il divieto di riserve sancito dalla Convenzione, salvo che
23 http://www.unwomen.org/en/news/stories/2012/2/un-women-supports-the-council-of-europe-s-convention-againstdomestic-violence
24 http://assembly.coe.int/nw/xml/News/News-View-EN.asp?newsid=5313&lang=2&cat=135
25 Il testo completo delle riserve e delle dichiarazioni interpretative si
legge in: http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/ListeDeclarations.
asp?NT=210&CM=1&DF=&CL=ITA&VL=1
26 In verità, anzi, dalla ricostruzione storica qui proposta, sembra che
dalla Convenzione CEDAW, starting point degli strumenti internazionali
vincolanti aventi a oggetto la tutela delle donne, dall’impianto concettuale
di stampo prevalentemente emancipatorio, sia proprio attraverso gli interventi emergenziali su “donne nei conflitti” attuati nel contesto di scenari
di guerra a partire dagli anni ‘90, che si sia approdati alla consapevolezza
che la questione della violenza di genere ha una valenza politica a livello
globale.
per clausole espressamente indicate27, sembra riconducibile
al carattere troppo ampio e incerto attribuito da talune norme convenzionali alla nozione di “genere”, ritenuta quindi
potenzialmente incompatibile con l’ordinamento italiano28.
Soprattutto alla luce della dizione dell’art. 3, lett. c), secondo
cui con tale nozione deve intendersi «the socially constructed
roles, behaviours, activities and attributes that a given society considers appropriate for women and men» («con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività
e attributi socialmente costruiti che una determinata società
considera appropriati per donne e uomini»), la dichiarazione è stata posta in essere al fine di restringere l’applicazione
dell’accordo, dai confini troppo ampi e fumosi, probabilmente a detrimento dei transessuali29.
Tuttavia, anche a seguito delle elezioni politiche del febbraio 2013, è stata presentata una nuova proposta di legge
di ratifica non contenente alcun cenno alla dichiarazione interpretativa in parola. Questa seconda proposta è stata poi
adottata, consentendo la promulgazione della legge di ratifica
e il ritiro, il 12 settembre 2013 (ovvero due giorni dopo il deposito dello strumento di ratifica), della dichiarazione interpretativa italiana ex art. 78, par. 4, della Convenzione, il che,
se alla luce delle considerazioni critiche appena esposte va
salutato con plauso, pur nondimeno dà contezza e visibilità
27 L’art. 78 sancisce che: «1. Non è ammessa alcuna riserva alle disposizioni della presente Convenzione, salvo quelle previste ai successivi
paragrafi 2 e 3; 2. Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della
firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di
approvazione o di adesione, mediante dichiarazione inviata al Segretario
Generale del Consiglio d’Europa, precisare che si riserva il diritto di non
applicare o di applicare solo in particolari casi o circostanze le disposizioni enunciate nei seguenti articoli: art. 30.2 (risarcimento); art. 44. 1, 3,4
(giurisdizione); art. 55,1 esaminato insieme all’art.35 per quanto riguarda
i reati minori (Procedimenti d’ufficio ed ex parte); art. 58 esaminato insieme agli art. 37, 38 e 39 (prescrizione); Art. 59 (status di residente). 3.
Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della firma o del deposito
dello strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione,
mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, precisare che si riserva il diritto di prevedere sanzioni non penali,
invece di imporre sanzioni penali, per i comportamenti di cui agli articoli
33 (violenza psicologica) e 34 (violenza fisica). 4. Ogni Parte può ritirare
in tutto o in parte una riserva mediante notifica indirizzata al Segretario
Generale del Consiglio d’Europa. Il ritiro avrà effetto a partire dalla data
del suo ricevimento da parte del Segretario Generale».
28 Il documento, Disegno di legge n. 3654 dell’8 gennaio 2013, Ratifica
ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, p. 7, presentato dall’allora Ministro degli Affari esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, e dal Ministro
del Lavoro e delle Politiche sociali con delega alle Pari opportunità, Elsa
Fornero, si legge online sul sito ufficiale del Senato della Repubblica:
www.senato.it
29 Ciò lascia perplessi alla luce di due considerazioni, una di matrice interna e una di stampo internazionalistico. Sotto il primo profilo, l’art. 3.1
della nostra Costituzione sancisce il principio di uguaglianza formale, in
virtù della quale si vieta espressamente che possano essere previsti trattamenti differenziati a causa di uno dei motivi da essa elencati, tra cui anche
il divieto di discriminazioni per motivi di sesso, che si riflette anche sulla
posizione dei transessuali e degli omosessuali. Sotto il secondo profilo,
benché la dizione letterale della denominazione ufficiale della Convenzione di Istanbul mira espressamente a salvaguardare (principalmente) le
donne, il suo scopo è quello di incoraggiare gli Stati parti ad agire a tutela
di ogni vittima di violenza domestica (art. 2, par. 2), evidentemente senza
alcuna contrapposizione di sesso.
59
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
di atteggiamenti poco lineari del nostro Governo.
Sempre nel quadro dei limiti riscontrabili nella Convenzione, va sottolineato come alcuni Stati firmatari abbiano presentato proposte miranti a cancellare il principio della “dovuta diligenza” da parte degli Stati nel prevenire, indagare,
punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza
(art 5), o a indebolire il previsto obbligo da parte degli Stati
di favorire e agire da mediatori nelle eventuali azioni individuali o collettive condotte nell’ambito dei meccanismi regionali e internazionali di denuncia delle violenze (art 21). In
tal senso si è espressa la Federazione Russa, mentre il Regno
Unito ha avanzato proposte volte a limitare le misure attive
finalizzate a favorire la formulazione di politiche e linee guida di concerto con i media, proponendo invece un generico
incoraggiamento ai media per indurli a modificare politiche
e strategie comunicative (art 17). Queste proposte, in parte
rifiutate, hanno come conseguenza un infausto rallentamento
nel processo di ratifica da parte di tutti gli Stati membri del
Consiglio d’Europa.
Ancora, può evidenziarsi un terzo nodo critico riguarda le
procedure di monitoraggio e garanzia stabilite dalla Convenzione, sia per proposte di emendamento - presentate in particolare dalla Federazione Russa - relative alla pubblicazione
di rapporti e missioni in loco da parte del GREVIO (art. 68)
e alle riserve (previste in merito ad alcuni articoli specifici
della Convenzione) che devono essere precisate dalle parti
contraenti al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica, esponendo i motivi (art. 79); sia perché il
meccanismo di controllo illustrato supra ha due evidenti limiti. Il primo è quello di non essere aperto a ricorsi di singoli. Infatti, la Convenzione non attribuisce né al GREVIO né
al Comitato delle Parti competenza a ricevere comunicazioni
individuali o interstatali riguardanti l’eventuale violazione
delle sue disposizioni30. Il secondo riguarda le Raccomandazioni del Comitato delle Parti sia perché, come detto, l’adozione delle raccomandazioni non è obbligatoria, sia perché
dipendono dalla volontà di un organismo composto da Stati
e non da personalità indipendenti.
Infine un quarto gruppo di criticità riguarda la tutela, nel
quadro della Convenzione, delle donne migranti o rifugiate:
in particolare, il previsto impegno da parte degli Stati membri a prendere misure legislative o di altro tipo allo scopo di
garantire che la violenza contro le donne basata sul genere
possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione
ai sensi dell’articolo 1 A (2) della Convenzione relativa allo
30 Sotto questo profilo quindi offre minori garanzie degli analoghi strumenti interamericano ed africano. La Convenzione di Belém do Parà, infatti, stabilisce che individui e organizzazioni non governative possono
inoltrare petizioni alla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo
(art. 12); inoltre, agli Stati e alla Commissione interamericana per le donne
è riconosciuta la possibilità di adire in via consultiva anche la Corte interamericana per questioni attinenti l’interpretazione della Convenzione (art.
11). Il Protocollo di Maputo predispone un sistema di rapporti periodici
da inviare alla Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli,
il che si affianca alla possibilità che di casi concernenti violazioni dei diritti da esso garantiti venga investita la Corte africana a fronte dell’ampia
competenza ratione materiae che ad essa è conferita dagli artt. 3 e 7 del
suo Statuto.
60
Status dei Rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare (art
60). La Federazione Russa ha contestato tale previsione e ha
proposto un emendamento contemplante una lista esaustiva
di particolari crimini che, se accolta, avrebbe avuto il probabile effetto di limitare ulteriormente le forme di violenza
che permettano alle donne di godere in maniera piena del
diritto di asilo. Rispetto al diritto di non refoulement, previsto dall’art. 61, è stato proposto dal Regno Unito, e non accolto, un emendamento mirante a limitare tale diritto ai soli
casi in cui fosse ravvisabile e verificabile un “reale pericolo”
per le richiedenti asilo. L’Italia ha proposto un’aggiunta al
paragrafo 4 dell’art. 59, allo scopo di subordinare il diritto
di residenza delle vittime di matrimonio coatto all’avvenuto
scioglimento o annullamento del matrimonio che ha determinato la decadenza di tale diritto: è evidente come ciò comporti il rischio di negare un intervento efficace e pronto nella
protezione delle donne soggette a matrimoni forzati dato lo
iato temporale fra l’avvio della procedura di annullamento e
divorzio e l’esito finale.
In linea generale, dall’analisi delle disposizioni della Convenzione emerge sì un approccio olistico al problema della
violenza nei confronti delle donne che però evidenzia una
sostanziale ottica emergenziale, posto che non ci sia il necessario spazio dedicato a considerazioni relative all’importanza che i fattori socioeconomici e culturali hanno nel
determinare il fenomeno, salvo poche norme specificamente
indirizzate alla lotta ai fattori culturali alla base della discriminazione e della violenza. In secondo luogo, la violenza
nei confronti delle donne è nella Convenzione, per così dire,
“normalizzata”: ossia viene resa un paradigma interpretativo
nell’ambito non solo delle relazioni tra i generi, ma di tutte
le relazioni di diversità nei confronti di soggetti vulnerabili
(anziani, bambini, migranti) particolarmente esposti alla violenza domestica, il che oltre a differenziarsi dal tradizionale approccio dei movimenti di emancipazione e liberazione
femminile, va in parte a detrimento della specificità e unicità
della discriminazione di genere. Da questa “normalizzazione” deriva l’ulteriore conseguenza di non condividere l’impianto emancipatorio proprio della CEDAW che nelle differenze di genere vede ostacoli da rimuovere e/o superare, ma,
al contrario, li acquisisce quali dati di fatto, ciò che potrebbe
determinare nella prassi una minore attenzione ai fattori di
prevenzione, dando prevalenza alla tutela delle vittime e al
perseguimento di coloro che commettono violenza.
Queste considerazioni critiche non devono essere intese
nel senso di sminuire la portata della Convenzione di Istanbul ma solo ribadire l’assunto espresso mirabilmente da
Friedrich Hacker «la violenza è semplice; le alternative alla
violenza sono complesse».
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Autostima e autoefficacia, identità
di genere e soddisfazione lavorativa.
Implicazioni per la scelta di carriera
PAOLA MAGNANO1, ANNA PAOLILLO2, GIUSEPPE SANTISI3
1. Facoltà di Scienze dell’Uomo e della Società, Università degli Studi di Enna Kore
2. Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Filosofia, Università degli Studi di Verona
3. Dipartimento di Scienze della Formazione, Università degli Studi di Catania
L’
PREMESSA
uguaglianza tra uomini e donne sembra un obiettivo già raggiunto nelle
società occidentali, in quanto sancito
a livello normativo e sostenuto dalle
politiche pubbliche per le pari oppor-
tunità.
Sul piano della riflessione teorica in ambito psicologicoorganizzativo, in tempi relativamente recenti il costrutto di
genere ha trovato una sua articolazione negli studi organizzativi, ponendosi in continuità con la riflessione dei cosiddetti
gender and women studies (Martini, Piccardo, 2009); l’ingresso massiccio delle donne nelle organizzazioni lavorative,
infatti, ha mutato l’equilibrio associato alla netta separazione tra mondo produttivo, professionale, in cui gravitavano
prevalentemente gli uomini e mondo riproduttivo, familiare,
appannaggio quasi esclusivo delle donne (Saraceno, 2006).
Tuttavia, basta guardare al mondo del lavoro per rendersi
conto che le donne continuano a non godere di effettive condizioni di parità: fenomeni quali la discriminazione fra sessi
(nel senso della penalizzazione nelle opportunità di crescita
professionale, nella retribuzione, nella selezione in ingresso) in ambito professionale, o la segregazione occupazionale
(che relega le donne in segmenti professionali che offrono
scarsa visibilità, scarso riconoscimento economico e sociale
e poche opportunità di carriera, quali, ad es. le professioni
di cura e servizio) sono ancora molto diffusi (Kmec, 2005;
Bagilhole, Cross, 2006).
I ruoli familiari non ancora paritari, la rottura dei confini
tra sfera professionale e familiare, pongono la questione della doppia presenza (Balbo, 1982; Margola, 2005), che indica
la contemporanea ed alterna presenza delle donne nella famiglia e nella professione, con il paradosso e la difficoltà di
“esserci”, allo stesso tempo, in contesti diversi, regolati da
logiche differenti. Il problema della conciliazione tra tempi
di vita e tempi di lavoro diventa, negli ultimi anni, un tema di
grande interesse per gli studi psicologici in relazione ai significativi cambiamenti della forza lavoro (Rothbard, Dumas,
2006), legati non soltanto alla maggiore partecipazione delle
donne al lavoro, ma anche all’aumento delle coppie in cui entrambi i partner hanno un’occupazione retribuita (Ghislieri,
Colombo, Piccardo, 2010). I contributi di ricerca presenti in
letteratura sul tema del conflitto tra lavoro e «resto della vita»
(MacDermid, 2005) ci mostrano un ampio range di campioni
coinvolti nelle ricerche (militari, neomadri, infermieri, forze
dell’ordine) provenienti da differenti aree geografiche (Australia, Canada, Cina, Finlandia, Hong Kong, Norvegia, solo
per citarne alcune). Colpisce, nella rassegna di MacDermid,
l’assenza di ricerche sistematiche condotte in Italia, ad eccezione, probabilmente, del recente studio promosso dalla
Rete Nazionale delle Consigliere di Parità e condotto dagli
Psicologi del Lavoro accademici italiani avente ad oggetto la
costruzione dell’identità e le vessazioni sui luoghi di lavoro
nelle lavoratrici atipiche italiane (Rete nazionale degli Psicologi del lavoro accademici, 2010).
CENNI TEORICI SULLE QUESTIONI DI FONDO
LEGATE AL GENERE
Il genere è la dimensione che più di ogni altra caratterizza
l’individuo. È una variabile insieme psicologica e socioculturale che deriva dal meccanismo di interrelazione individuo-società e che riflette, da un lato, l’influenza del contesto
culturale nella strutturazione e nello sviluppo della personalità e, dall’altro, i profondi cambiamenti che a riguardo caratterizzano la società contemporanea. Il concetto di sex-gender
system (Rubin, 1975) può essere definito come “l’insieme
dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di
rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione
dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli gli uni
dalle altre: creando, appunto, «il genere»” (Piccone Stella,
Saraceno, 1999, p. 7).
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ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Nella spiegazione delle differenze e delle caratteristiche legate al genere, alcune prospettive centrano l’attenzione sulle
differenze biologiche focalizzandosi di volta in volta su fattori genetici, ormonali ed evolutivi. Le recenti teorizzazioni di
Baron-Cohen (2003) spiegano il differente orientamento alla
realtà di maschi e femmine attribuendo al cervello maschile
l’utilizzo prevalente di un approccio esplorativo e l’attenzione prevalente ai sistemi e al cervello femminile l’attenzione
ai fenomeni emotivi e sociali (Buss, 1995) e la prevalenza di
un orientamento empatico, tendente ad identificare stati mentali altrui e rispondere con appropriate emozioni (Di Nuovo,
2004).
“Le dimensioni e la forma del nostro corpo, i processi somatici e le abilità fisiche contribuiscono certamente a modellare e a produrre la nostra esperienza psichica in quanto
condizionano il nostro approccio alla realtà fisica e sociale”
(Burr, 2000, p. 48).
Nella prospettiva socioculturale, le caratteristiche di genere si riferiscono al significato sociale che le differenze sessuali assumono in un determinato contesto sociale e quindi
alle aspettative relative ai comportamenti associati a maschi
e femmine. Si tratta di elementi che variano a seconda delle
regole sociali e del processo di interiorizzazione, quindi da
individuo a individuo e, pertanto, comportano notevole variabilità, nell’adozione dei ruoli di genere, anche all’interno
di uno stesso gruppo sociale. I processi di socializzazione
definiscono e attribuiscono a donne e uomini i ruoli di genere nella famiglia, nella società, nelle organizzazioni del
lavoro. In questa prospettiva il genere è frutto di una costruzione sociale e culturale, non di una ineluttabilità biologica
(Gherardi, 1998; Monaci, 1997). Secondo la teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 1977), l’acquisizione di certi
comportamenti avviene per osservazione o per imitazione
di modelli, per cui la prestazione di un bambino o di una
bambina rispetto ad un compito assegnato è influenzata dalla
percezione del compito come appropriato al proprio genere
o all’altro (Di Nuovo, 2004). Da ciò i bambini sviluppano
l’idea che esistono comportamenti adatti al loro sesso e tendono a metterli in atto (Mischel, 1966; Burr, 2000).
“In chiave più strettamente sociologica, confrontarsi con
una prospettiva di genere implica mettere a fuoco i modi e
le forme in cui le relazioni di potere tra i due sessi si definiscono e si trasformano nel corso del tempo all’interno delle
istituzioni e nella vita quotidiana. Insieme richiede un’analisi
del rapporto tra tali trasformazioni e i «discorsi sociali» sulle
differenze di sesso” (Buzzi e al., 2002, p. 229).
L’adozione di un unico punto di vista, nella spiegazione
delle differenze legate al genere, tuttavia, accentua il rischio
di produrre spiegazioni deterministiche e riduzionistiche che
non aiutano a capire la complessità dei fenomeni in grado di
influenzare le caratteristiche psicosociali dell’uomo e della
donna e le differenze (cognitive, emotive e comportamentali) che l’evidenza empirica continua a confermare. Nessuno
studioso, oggi, può infatti pensare – come sostiene Di Nuovo
(2004) – che vi siano influenze unicamente biologiche o unicamente sociali sullo sviluppo dell’identità di una persona, e
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quindi anche della sua identità di genere sessuale. L’identità
di genere, gender identities nella letteratura anglosassone, è
pertanto un costrutto multidimensionale, che ha una componente biologica, cognitiva e sociale ma anche culturale ed
educativa. Una prospettiva interazionista che si sforza di
considerare la relazione tra aspetti biologici ed ambientali è
quella che meglio può cogliere la complessità dei fenomeni
collegati alle differenze di genere. Si tratta di superare impostazioni che storicamente hanno avuto la responsabilità di
sancire le differenze giustificando e avallando in molti casi
le discriminazioni e l’immodificabilità di alcuni fenomeni; al
contrario una più profonda comprensione delle problematiche di genere può consentire lo sviluppo di nuove sensibilità
rispetto ai condizionamenti culturali e sociali e l’individuazione di strategie di cambiamento.
GLI STUDI DI GENERE IN AMBITO ORGANIZZATIVO
Secondo la ricostruzione di Martini e Piccardo (2009), gli
studi di genere in ambito organizzativo sono stati caratterizzati da alcuni momenti distintivi:
1. disinteresse nei confronti della tematica, in ambiente
organizzativo;
2. presa di coscienza delle discriminazioni nei confronti
delle donne nei contesti lavorativi;
3. superamento della dicotomia uomo-donna sottesa alla
struttura organizzativa.
La prima non può certo definirsi una vera e propria fase;
fino agli anni ’60 del secolo scorso, di fatto il tema delle
differenze di genere nel lavoro e delle relazioni tra uomini e donne era una «non-issue» (Monaci, 1997, p. 45). Le
donne erano entrate nei contesti organizzativi solo da poco
tempo, ne rappresentavano un’eccezione, ricoprivano ruoli
secondari, non si poneva neanche il problema che potessero
assumere posizioni manageriali e si adeguavano ad ambienti
organizzativi pensati per gli uomini e costruiti secondo logiche maschili. L’interesse verso la presenza delle donne
nelle organizzazioni si attiva quando – negli anni ‘70/80 del
XX secolo – la presenza femminile negli ambienti di lavoro
aumenta considerevolmente. Tuttavia, all’aumento dell’impegno delle donne nelle organizzazioni non corrisponde, parallelamente, l’accesso a posizioni di responsabilità. È la fase
dell’acquisizione di consapevolezza rispetto a discriminazioni verticali (in cui viene ostacolato il raggiungimento dei più
alti livelli nella carriera) e orizzontali (in cui si relegano le
donne a certi tipi di professioni, soprattutto nell’ambito dei
servizi, che richiedono prevalentemente competenze relazionali e di cura) (Santisi, 2004; Santisi, Patanè, Ramaci, 2010).
Le prospettive teoriche di ambito psicologico si sono concentrate sui processi alla base delle aspirazioni e aspettative
occupazionali di donne e uomini e sulla natura e il contenuto
proprio degli stereotipi di genere che attraversano la società
e le organizzazioni; accanto alle aspirazioni occupazionali
che ciascuno si forma sulla base dei propri interessi, valori
e altre dimensioni legate all’orientamento (Di Nuovo, 2000,
2003; Soresi e Nota, 2000; Castelli, Venini, 1996), si creano
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delle aspettative maggiormente connotate per genere (Monaci, 1997), influenzate sia dalle esperienze di socializzazione
ai ruoli sessuali, sia dalla distribuzione attuale dei due sessi
nelle categorie occupazionali (Martini, Piccardo, 2009).
L’approccio post-moderno o prospettiva della frammentazione (Martin, Meyerson, 1997) postula la coesistenza di
logiche e approcci differenti nei contesti sociali e culturali,
che non necessariamente devono essere ricondotti ad un disegno univoco. Più specificamente, viene messa in discussione la dicotomia maschile-femminile che, in una logica
tipicamente maschile, permea il lavoro nelle organizzazioni; attraverso, cioè, una decostruzione dei significati e delle
norme impliciti e condivisi nelle strutture organizzative, si
arriva ad una ri-costruzione di una nuova cultura sociale e organizzativa caratterizzata dalle infinite sfumature del significato dell’identità di uomo o donna (Hatch, 1999; Monaci,
1997; Martini, Piccardo, 2009). Elemento essenziale diventa,
pertanto, la «riflessività» (Hatch, 2002; Martin, 2006), sulle azioni che si compiono, sulle ragioni che le muovono e
sulle intenzioni che le dirigono. Ridgeway e Correll (2004)
sottolineano come spesso la discriminazione nei contesti organizzativi è frutto della non-riflessività, del fatto che donne
e uomini agiscono in base a stereotipi di genere, di cui non
si ha consapevolezza. Da questo punto di vista, “il riconoscimento degli assunti impliciti che guidano la costruzione
della cultura sociale e organizzativa condivisa, mettendo in
discussione l’esistenza di una concezione unitaria, apre la
possibilità di accogliere le molteplici prospettive esistenti,
integrandole tra loro: si può, in questo modo, sviluppare una
cultura non escludente né discriminante nei confronti di chi
differisce dalla norma” (Martini, Piccardo, 2009, p. 117).
LA RICERCA: OBIETTIVI, STRUMENTI, CAMPIONE
L’indagine è finalizzata all’esplorazione della relazione
esistente tra autostima, General Self-Efficacy, senso di autoefficacia emotiva e condizione occupazionale, per capire
se e quanto l’incertezza che caratterizza l’odierno clima lavorativo incida su tali dimensioni identitarie. Si è indagato,
inoltre, sulla percezione circa il ruolo femminile all’interno
del mercato del lavoro e, in particolare, si è voluta analizzare
la presenza di eventuali differenze circa la rappresentazione
del rapporto uomo-lavoro e donna-lavoro. Ulteriori ambiti di
approfondimento sono stati: le percezioni circa il ruolo del
genere di appartenenza nelle scelte di carriera e la soddisfazione lavorativa.
Gli strumenti utilizzati per gli scopi della ricerca sono:
- Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 1965, nella
versione italiana di Prezza, Trombaccia e Armento, 1997),
la quale indaga l’autostima globale attraverso dieci item valutati su una scala Likert a quattro punti, da 1 (fortemente in
disaccordo) a 4 (fortemente d’accordo);
- Scala di Autoefficacia Percepita Emotiva nella Gestione
delle Emozioni Negative – APEN (Caprara, 2001) la quale
indaga le convinzioni relative alle proprie capacità di governare le emozioni negative attraverso otto item valutati su
scala Likert a cinque livelli, da 1 (per niente capace) a 5 (del
tutto capace);
- Scala di Autoefficacia Percepita Emotiva nell’Espressione delle Emozioni Positive – APEP (Caprara, 2001), la quale
valuta la capacità del soggetto di esprimere efficacemente le
emozioni positive attraverso sette item valutati su scala Likert a cinque livelli, da 1 (per niente capace) a 5 (del tutto
capace);
- General Self- Efficacy Scale di Schwarzer (Jerusalem
e Schwarzer, 1981, nella sua versione italiana di Sibilia,
Schwarzer e Jerusalem, 1995), la quale valuta attraverso
dieci item il senso generale di auto-efficacia e prevede per
l’indicazione della risposta il riferimento ad una scala Likert
a cinque punti, da 1 (massimo disaccordo) a 5 (massimo accordo);
- Questionario costruito ad hoc per rilevare le percezioni
dei ruoli lavorativi legati al genere, le influenze di genere
sulle scelte di carriera e la soddisfazione lavorativa, valutate
con scala Likert a 5 livelli.
Il campione è costituito da 300 soggetti, di età compresa
tra 30 e 45 anni, pareggiati per genere (34% maschi – N=102;
66% femmine – N=198), titolo di studio (37% licenza media
– N=112; 50% diploma – N=149; 13% laurea – N=39), stato
civile (43% celibi/nubili – N=129; 33% coniugati/conviventi – N=100; 24% separati/divorziati – N=71) e per condizione lavorativa (50% occupati – N=150; 50% disoccupati
– N=150).
DESCRIZIONE DEI RISULTATI
Differenze per genere
Un primo tipo di confronto è quello effettuato suddividendo il campione in base al genere. I risultati statisticamente
significativi (test t, p<.05) sono riportati come segue:
- Le femmine del campione possiedono livelli di autostima più elevati (M = 18.46) rispetto ai maschi (M = 17.05);
- Per quanto riguarda il questionario relativo alle influenze
di genere sul ruolo lavorativo le donne del campione esprimono un grado significativamente più elevato di accordo
con gli item “Per l’uomo è importante realizzarsi prevalentemente nella vita professionale” (M = 4.41), “Per la donna
è importante realizzarsi prevalentemente nella vita professionale” (M = 4.13), e “Per la donna è importante realizzarsi
prevalentemente nella vita familiare” (M = 4.44) rispetto ai
maschi del campione (M = 4.10, M = 3.74, M = 4.09).
- Infine per quanto riguarda il questionario relativo alle
influenze di genere nelle scelte di carriera sono sempre le
donne a ritenere che l’essere donna implichi maggiori responsabilità riguardo alla cura della casa e della famiglia.
Differenze per stato civile
Un secondo tipo di confronto è quello effettuato suddividendo il campione in base allo stato civile. I risultati statisticamente significativi (ANOVA, p<.05) sono riportati come
segue:
- I coniugati/conviventi ritengono maggiormente che l’es63
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Fig. 1 - Differenze tra punteggi medi per il genere (t test, p<.05)
Nota: “Per l’uomo è importante realizzarsi prevalentemente nella vita professionale” (UOMOPROF), “Per la donna è importante realizzarsi prevalentemente nella vita professionale”
(DONNA-PROF), “Essere donna implica maggiori responsabilità riguardo alla cura della casa e
della famiglia”. (CURA).
titoli di studio più elevati (laureati M
= 40.56, diplomati M = 37.04, licenza
media M = 36.93).
Differenze per condizione
occupazionale
Un’ulteriore analisi è stata effettuata applicando confrontando (test t,
p<.05) il campione in base alla variabile situazione occupazionale. L’unico risultato significativo emerge
in relazione alla percezione dei ruoli
lavorativi legati al genere: gli occupati infatti ritengono in misura maggiore che “per l’uomo sia importante
realizzarsi prevalentemente dal punto
di vista professionale” (M = 4.42) rispetto ai non occupati (M = 4.20).
Differenze per professione
Un successivo confronto è stato effettuato tra i punteggi medi riportati
dal campione suddiviso per categorie
professionali. I risultati statisticamente significativi (ANOVA, p<.05)
sono riportati di seguito:
- I liberi professionisti risultano
possedere un’autostima più elevata (M = 18.63), seguiti da impiegati
(M = 17.40), insegnanti (M = 16.92),
altre professioni – che comprendono
casalinga, disoccupato/a, studente,
operatrice call/center (M = 16.82) e
operai/tecnici (M = 16.13).
- La categoria degli operai/tecniNota: “Essere donna implica maggiori difficoltà nel trovare lavoro”. (DIFFICOLTA’ LAVORO).
ci ritiene maggiormente che i ruoli
“Essere donna implica maggiori responsabilità riguardo al sostentamento della famiglia”.
familiari debbano essere nettamen(RESPONSABILITA’).“Essere donna implica maggiori responsabilità riguardo alla cura della
casa e della famiglia”. (CURA).
te differenziati tra uomo e donna
(M = 3.33), seguiti da impiegati (M
= 3.11), liberi professionisti (M =
sere donna renda più difficile trovare lavoro (M = 3.15), se- 2.90), altre professioni (M = 2.89) e insegnanti (M = 2.10).
guiti dai separati/divorziati (M = 2.88) e infine dai celibi/
- La categoria altre professioni ritiene maggiormente che
nubili (M = 2.71).
l’essere donna implichi più responsabilità riguardo la cura
- I separati e divorziati reputano maggiormente che l’es- della casa e della famiglia (M = 4.53), seguiti da liberi prosere donna implichi più responsabilità riguardo al sostenta- fessionisti (M = 4.22), impiegati (M = 3.73), operai/tecnici
mento della famiglia (M = 3.90) e alla cura della casa e della (M = 3.70) e insegnanti (M = 3.59).
- Gli insegnanti ritengono maggiormente che la propria atfamiglia (M = 4.19), seguiti dai coniugati/conviventi (M =
tività lavorativa sia coerente con il percorso formativo svolto
3.65, M = 3.98) e dai celibi/nubili (M = 3.41, M = 3.69).
(M = 4.04), seguiti da liberi professionisti (M = 3.13), impieDifferenze per titolo di studio
gati (M = 2.97), altre professioni (M = 2.71) e operai/tecnici
Successivamente mediante l’analisi della varianza (ANO- (M = 2.53).
VA, p<.05) è stato possibile analizzare i punteggi medi attri- Sarebbero infine i liberi professionisti a ritenere maggiorbuiti a tutte le variabili indagate da parte del campione sud- mente che la propria attività lavorativa sia riconosciuta dal
diviso in base al titolo di studio. L’unico risultato statistica- punto di vista professionale (M = 4.13), seguiti da insegnanti
mente significativo (p<.05) riguarda il senso di autoefficacia (M = 3.08), altre professioni (M = 3.07), operai/tecnici (M =
generale, il quale tende ad aumentare in corrispondenza di 2.92) e impiegati (M = 2.80).
Fig. 2 - Differenze tra punteggi medi per stato civile (t test, p<.05
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Fig. 3 - Differenze tra punteggi per titolo di studio (ANOVA, p<.05)
Fig. 4 - Differenze tra punteggi medi per condizione occupazionale (t test, p<.05)
positivamente con le credenze di efficacia circa l’espressione delle emozioni positive (r = 0.12).
- L’item “Quanto l’essere donna
può condizionare le scelte formative” del questionario circa le influenze di genere sulle scelte di carriera,
correla negativamente con il senso di
autoefficacia generale (r = -0.13) e il
senso di autoefficacia relativo alla
gestione delle emozioni negative (r
= -0.15).
- L’item n. 7 del questionario circa
le influenze di genere sulle scelte di
carriera (“Ritiene che l’essere donna possa essere di ostacolo alla realizzazione delle proprie aspirazioni
professionali”), correla negativamente con l’autostima posseduta (r =
-0.15) e con le credenze di efficacia
nell’espressione delle emozioni positive (r = -0.13).
DISCUSSIONE
Relazioni tra variabili
Per verificare il collegamento tra autostima, autoefficacia
(generale ed emotiva), identità di genere e soddisfazione lavorativa è stata effettuata un’analisi delle correlazioni semplici esistenti tra i punteggi delle variabili sopra elencate,
ottenendo i seguenti risultati (r di Pearson, p<.05):
- Il riconoscimento dal punto di vista professionale dell’attività lavorativa svolta (item n. 5 del questionario sulla soddisfazione lavorativa), correla positivamente con il senso di
autoefficacia generale (r = 0.21).
- L’item “Per l’uomo è importante realizzarsi prevalentemente nella vita familiare” del questionario sulla percezione
dei ruoli lavorativi legati al genere correla positivamente con
il senso di autoefficacia generale (r = 0.12) e quello relativo
all’espressione delle emozioni positive (r = 0.11).
- L’item “Per la donna è importante realizzarsi prevalentemente nella vita familiare” del questionario sulla percezione
dei ruoli lavorativi legati al genere correla negativamente
con il senso di autoefficacia percepita nella gestione delle
emozioni negative (r = -0.14).
- L’item n. 7 del questionario sulla percezione dei ruoli
lavorativi legati al genere (“Per la donna è importante realizzarsi prevalentemente nella vita professionale”) correla
Considerando le dimensioni psicologiche esplorate dalla ricerca,
risultati interessanti si rilevano per
quanto concerne la variabile genere
del campione: i dati sopra esposti
mostrano una migliore valutazione
di sé per le donne, la quale si potrebbe spiegare facendo riferimento a un’idea ormai diffusa secondo cui queste ricercano la loro realizzazione non solo nel
contesto familiare ma anche professionalmente, mostrando
così una certa propensione a voler conciliare i due ambiti di
vita.
Tuttavia, in contrapposizione con quanto appena menzionato, i dati evidenziano anche il permanere di un atteggiamento meno visibile e manifestato proprio dalla parte
femminile del campione, che porta a sostenere una netta e
tradizionale differenziazione dei ruoli legati al genere, per
cui l’uomo sarebbe maggiormente interessato a realizzarsi
nel campo lavorativo, mentre alla donna spetterebbe un carico maggiore di responsabilità riguardo la cura della casa e
della famiglia, come se a livelli di autostima più elevati, e a
conseguenti ambizioni di più ampio raggio, facesse da contraltare la consapevolezza che le responsabilità domestiche
rimangono comunque più pressanti per le donne, ponendo
dei limiti alla loro realizzazione in altri settori.
Andando alle differenze per stato civile si nota come l’evento della separazione o del divorzio incida sulla percezione del ruolo familiare, favorendo l’attribuzione di una
maggiore responsabilità alla donna nella cura dei figli anche
dopo la separazione (troviamo un esempio socialmente riconosciuto di ciò nell’affidamento materno che ancora oggi
65
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viene giuridicamente privilegiato nel nostro Paese rispetto a
quello paterno).
Relativamente alle differenze riscontrate sulla base del livello di istruzione possiamo ipotizzare che l’aver affrontato
percorsi di studio sempre più elevati e complessi porti con
sé lo sviluppo di una certa consapevolezza circa le proprie
capacità di gestione e fronteggiamento degli eventi, che potrebbe spiegare il maggiore senso di autoefficacia in corrispondenza di titoli di studio più elevati.
Per quanto concerne le differenze per categorie professionali, si è riscontrato che gli operai/tecnici possiedono l’autostima più bassa e ritengono meno che la propria attività lavorativa sia coerente con il percorso formativo svolto rispetto
al resto del campione. Essi inoltre ritengono maggiormente
che i ruoli familiari debbano essere nettamente differenziati
tra uomo e donna.
Al contrario gli insegnanti reputano in misura maggiore
che la propria attività lavorativa sia coerente con il percorso
formativo svolto e in misura minore rispetto al resto del campione che l’essere donna implichi più responsabilità riguardo
la cura della casa e della famiglia. Potremmo ipotizzare che
il riuscire ad affermarsi nel proprio campo di studi e quindi
svolgere un lavoro coerente con il percorso formativo svolto
permetta lo sviluppo di una visione meno tradizionalistica
circa il ruolo della donna nel contesto familiare e domestico.
Andando infine al confronto tra variabili si noti come il
sentirsi riconosciuti dal punto di vista professionale per l’attività svolta costituisca un importante feedback sulla qualità
della propria prestazione che incrementa positivamente il
proprio senso di efficacia personale e risulta anche essere un
indicatore della soddisfazione sperimentata sul lavoro. Oltre
a ciò si è rilevato che quanto più si ritiene che l’essere donna sia di ostacolo alla realizzazione delle proprie aspirazioni
professionali o possa condizionare le scelte formative, tanto
minore risulta il punteggio relativo all’autostima globale e al
senso di autoefficacia generale ed emotiva. Ciò permette di
riflettere su quanto tale percezione del rapporto donna-lavoro possa determinare delle scelte professionali vincolate dal
genere di appartenenza e trovi terreno fertile soprattutto in
coloro i quali non possiedono una buona stima di sé e delle
proprie capacità.
CONCLUSIONI
Sulla base dei risultati emersi e sopra esposti potremmo
concludere che da un lato la scarsa coerenza tra lavoro attuale e percorso di studi svolto, dall’altro dimensioni identitarie deboli, quali insufficiente autostima, carente senso di
autoefficacia generale ed emotiva si legano a una visione del
rapporto uomo-lavoro e donna-lavoro estremamente rigida,
differenziata e stereotipicamente legata al genere che va ad
influenzare le scelte di carriera.
L’effettiva integrazione, le pari opportunità, la rimozione
delle disuguaglianze, evidentemente, non passano solo attraverso gli strumenti normativi, che pure sono fondamentali,
ma poggiano soprattutto su interventi educativi che mettano
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in risalto le problematiche di genere, sviluppando una nuova
sensibilità sui condizionamenti culturali e sociali, ma soprattutto su interventi di orientamento, inteso come promozione
di processi di cambiamento nell’ottica di genere e quindi nella progettualità dei soggetti.
Non si tratta di orientare le persone prospettando la possibilità di scelte “altre” rispetto agli stereotipi di genere bensì
di sviluppare processi di assunzione di consapevolezza, rielaborazione cognitiva (per rimuovere i condizionamenti e
gli stereotipi di genere ai quali si è esposti), attivazione del
soggetto e sviluppo dell’empowerment personale e delle capacità di coping.
Questi interventi possono incidere positivamente sul concetto di sé, consentendo una maggiore flessibilità e potenziando l’autostima. Si tratta di processi di crescita collegati
al potenziamento delle dimensioni emotive e affettive del
comportamento (come il senso di autoefficacia) e l’acquisizione di abilità trasversali, come le strategie di coping, le
competenze sociali e l’assertività. Si tratta di promuovere
maggiori opportunità di accesso, in particolar modo per la
popolazione femminile, alle quattro fonti dell’autoefficacia
(Bandura, 1995), aiutando il cliente nella costruzione di sistemi di supporto adeguati per il raggiungimento del proprio obiettivo formativo e professionale, e nello sviluppo di
strategie atte a fronteggiare le “barriere” (Lent, 1996; 2010)
che più probabilmente si incontreranno (discriminazioni,
pressioni sociali, etc.), al fine di poter compiere delle scelte
consapevoli ma soprattutto coerenti con i propri reali interessi. Probabilmente le donne e gli uomini del nostro tempo
dovranno sviluppare un’identità più complessa, rispetto al
passato, in quanto i ruoli sono meno definiti, gli spazi relazionali frutto di continua negoziazione, i modelli culturali a
cui si è esposti spesso anacronistici; un’identità basata su un
atteggiamento creativo volto a scoprire significati e ricercare
soluzioni originali in grado di sostenere la persona nella ricerca di una personale attribuzione di senso.
BIBLIOGRAFIA
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ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Cos’è la politica? Opinioni a confronto
tra le donne elette nei comuni italiani
DOMENICO CARBONE
DIGSPES - Dipartimento di Giurisprudenza Scienze Politiche Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale
I
INTRODUZIONE
l presente articolo si colloca nell’ampio dibattito sulla complessa relazione tra donne e politica
in Italia. Nonostante la presenza femminile negli
organi di rappresentanza istituzionale sia recentemente cresciuta, specie durante le ultime elezioni
parlamentari, permangono nel nostro paese numerose evidenze che testimoniano l’esistenza di forti vincoli alla piena
e completa partecipazione politica delle donne. La sfasatura
tra il formale godimento dei diritti politici e la bassa partecipazione alla politica attiva, pur accomunando le diverse democrazie occidentali, risulta particolarmente ampia in Italia.
La presenza delle donne sulla scena politica del nostro paese
tende ad essere ancora piuttosto bassa, specie se confrontata
con quella dei paesi del nord Europa, e a concentrarsi prevalentemente a livello locale lontano, quindi, dai centri nevralgici di gestione del potere.
Quello della politica al femminile rappresenta, quindi, un
importante ambito di indagine sociale, specie in una prospettiva di analisi che mira a indagare i processi di riproduzione
delle diseguaglianze di genere nella società contemporanea.
Numerose evidenze empiriche sottolineano, infatti, come la
politica rimanga “una delle più inaccessibili zone di resistenza al cambiamento che è sostenuta dalle stereotipie, dai pregiudizi e dai preconcetti” (Molfino 2006:24) rappresentando, più di ogni altro, l’ambito in cui si esprime, nella nostra
società, il dominio maschile su quello femminile (Bourdieu
1998).
Lo studio qui presentato si colloca, quindi, all’interno di
questo filone di indagine ponendo al centro della propria analisi le opinioni delle donne nei confronti di questo ambito
della vita sociale.
Cosa rappresenta la politica per le donne? È questo il quesito al centro del presente studio, le cui risposte sono derivate dalle opinioni di un gruppo di donne che, per propria
esperienza personale, ha sviluppato un rapporto diretto con
68
il mondo politico. Si tratta di un campione di consigliere comunali italiane intervistate nell’ambito di un’indagine nazionale che aveva l’obiettivo di indagare l’ampia e complessa
relazione tra il genere femminile e la politica attiva in Italia.
Il contributo qui proposto presenta, dunque, una parte
dei risultati di questa indagine e si compone cinque parti.
La prima, illustra la questione della relazione tra donne e
politica attiva alla luce del dibattito scientifico, nazionale e
internazionale, che si è sviluppato intorno a questo tema nel
corso degli ultimi anni. Nella seconda parte, sono presentati
gli obiettivi e l’ipotesi di partenza di questo contributo. La
terza, descrive il piano dell’indagine da cui sono tratti i dati
qui utilizzati. Nella quarta parte, sono illustrati e discussi i
risultati dello studio evidenziando, quindi, le opinioni delle consigliere comunali rispetto alla politica e le principali
differenze tra le intervistate. Nelle conclusioni, infine, sono
sintetizzate le principali evidenze emerse e le implicazioni
ad esse connesse.
1. LA RAPPRESENTANZA POLITICA FEMMINILE: NON
SOLO UNA QUESTIONE DI NUMERI
La scarsa presenza delle donne nell’arena politica istituzionale rappresenta un indicatore, forse il più emblematico,
di come la società contemporanea, anche presso i cosiddetti paesi avanzati, sia ancora lontana dal riuscire a realizzare
una parità sostanziale di genere (Celis et al. 2008). Se da un
punto di vista formale già da molti decenni, con il suffragio
elettorale universale, donne e uomini hanno ottenuto gli stessi diritti di cittadinanza politica, i dati sulla composizione per
sesso delle cariche elettorali smentiscono nei fatti l’esistenza
delle pari opportunità di genere nei diversi ambiti di esercizio del potere politico (Brunelli 2006).
Certamente, in una prospettiva diacronica, va evidenziato
che negli ultimi tre decenni, la presenza delle elette nelle istituzioni, soprattutto locali ma non solo, è andata progressiva-
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
mente aumentando.
Tuttavia, i cambiamenti avvenuti non
hanno contribuito a
ripianare del tutto
le disparità di genere ancora oggi evidenti all’interno dei
sistemi politici. Nel
più recente Gender
Gap Report (2014)
si osserva, ad esempio, come anche
tra i primi cinque
paesi della graduatoria, che registrano
quindi un gap di
genere più contenuto, l’indice che
esprime le maggiori
distanze tra uomini
e donne è sempre
quello relativo al
conferimento degli
incarichi politici1. Secondo altri dati della Banca Mondiale,
inoltre, a livello globale solo un quinto dei parlamentari è
costituito da donne. Lo scenario non è molto diverso se si
considerano soltanto i paesi occidentali, quelli in cui i processi di democraticizzazione sono più consolidati. Scorrendo
tali dati, si scopre infatti che la quota di donne nel parlamento degli Stati Uniti è pari al 17,9%, quella del parlamento
inglese è del 22,5%, quella francese 26,9%, quella italiana
del 31,1%2.
I dati istituzionali mostrano, quindi, come la presenza delle
donne in politica sia ancora lontana da quella critical mass
ritenuta, in alcuni casi, la condizione necessaria per il superamento definitivo delle diseguaglianze di genere nella nostra
società (Lovenduski 2001). Tuttavia, il problema non si pone
soltanto nei termini di una presenza quantitativamente adeguata, ma anche, se non soprattutto, nei termini di difficoltà
che, ancora oggi, le donne in politica mostrano nelle possibilità di essere soprattutto critical actors (Childs e Krook
2009) e di promuovere effettivamente iniziative politiche a
1 Il valore del gender gap index, e dei suoi sotto-indici tra cui quello
relativo al politcal empowerment , è misurato su una scala standardizzata
con range 0-1, dove 0 corrisponde al massimo grado di diseguaglianza e 1
alla perfetta uguaglianza. I primi cinque paesi della graduatoria del Gender Gap 2014 sono Islanda, Finlandia Norvegia, Svezia e Danimarca che
registrano un gender gap index complessivo pari, rispettivamente, a 0.86,
0.84, 0.83, 0.81, 0.80. Scorrendo, però, i valori del sotto-indice relativo al
politcal empowerment i rispettivi valori di questi paesi corrispondono a:
0.65, 0.61, 0.54, 0.50, e 0.43. L’Italia si colloca al 69° posto con un valore
dell’indice complessivo pari a 0.69 e di quello politico pari a 0.24.
2 I dati sono aggiornati all’anno 2013 e sono reperibili presso il sito della
Banca Mondiale: http://data.worldbank.org/indicator/SG.GEN.PARL.ZS.
Anche in questo caso, i paesi occidentali che si collocano al vertice di
questa graduatoria corrispondono all’area scandinava: in Svezia le donne
in parlamento sono il 44,7%, in Finlandia il 42,5%, in Danimarca il 39,1%.
sostegno delle donne, in un nesso non
necessariamente
causale con le percentuali di elette.
La letteratura che
in questi anni ha
analizzato il problema della relazione
tra donne e politica
attiva ha evidenziato come la scelta di
agire e competere
in quest’ambito della vita sociale, da
parte dell’universo
femminile, si scontri, ancora oggi, con
permanenti
meccanismi di sbarramento all’ingresso
(Sionneau
1995,
Enloe 2004, Fox e
Lawless 2011), con
forti rischi di fallimento precoce (Ryan et al. 2010), con limitate chance di carriera (Drew 2000, Verzichelli 2010), con
scarse possibilità di permanenza prolungata nel ceto politico
(Biroli e Luis Miguel 2010) e con la persistenza di forti stereotipi che stigmatizzano tale scelta (Pacilli et al. 2012).
Date tali evidenze, diventa particolarmente interessante
analizzare quali sono le opinioni che le donne hanno maturato rispetto a questo importante ambito sociale nel quale la
loro partecipazione attiva si caratterizza, ancora oggi, per un
elevato grado di difficoltà e diseguaglianza rispetto a genere
maschile.
2. OBIETTIVI E IPOTESI
Il principale obiettivo di questo studio è di analizzare le
opinioni rispetto alla politica di un gruppo di donne, le consigliere comunali italiane, che hanno deciso di costruire parte
della propria traiettoria biografica in quest’ambito della vita
sociale.
Come si è detto in precedenza, la letteratura che si è occupata di questo tema è piuttosto ampia, soprattutto in ambito
internazionale. Tuttavia, un aspetto poco presente in questi
studi è la mancanza di un confronto interno al genere femminile. Gran parte degli studi si è concentrata, infatti, sulla
comparazione fra maschi e femmine sottovalutando, quindi,
le importanti differenze che esistono all’interno dei due generi. I pochi studi che, al contrario, hanno assunto questa
prospettiva, hanno evidenziato come le donne in politica non
rappresentino un gruppo omogeneo e come, dunque, i loro
percorsi, ma anche le loro aspettative, ambizioni e il modo
di rapportarsi con la politica, non possano essere considerati
in maniera indistinta (Costantini e Craik 1972, Celis et al.
69
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
2008, Frederick 2013).
Tale posizione, che potrebbe sembrare scontata, pone in
realtà delle implicazioni di notevole portata se si pensa al
fatto che molto spesso, e soprattutto nella retorica sottostante il dibattito sulle cosiddette quote rosa, si dà per scontato
che le donne in politica siano interessate, o siano orientate a
prendersi carico soprattutto, dei problemi relativi al mondo
femminile. In altre parole, molto frequentemente, si presuppone che delle donne si occupino solo le donne e che quindi
sia sufficiente accrescere la loro rappresentanza numerica,
nelle istituzioni politiche, per promuovere azioni politiche di
riequilibrio delle diseguaglianze di genere.
Il presente studio si colloca, invece, in una prospettiva
diversa, quella di non dare per scontate le differenze tra le
donne che fanno politica, ma partire da esse per analizzare
il modo in cui si sviluppa il loro rapporto con questo ambito della vita sociale. Attraverso le opinioni delle consigliere
comunali italiane, rispetto a quello che secondo loro vuol
dire fare politica nel nostro paese, si vuole quindi cercare di
comprendere i diversi atteggiamenti che contraddistinguono
l’operato delle donne politicamente attive in Italia.
L’ipotesi di partenza è che le opinioni delle consigliere risentano, in generale, del contesto istituzionale, familiare e
relazionale all’interno del quale si sviluppa la loro esperienza
e che, quindi, pur essendo possibili delle immagini ampiamente condivise tra le donne elette, non sia ravvisabile un
unico modo di concepire la politica al femminile.
Per verificare tale ipotesi, le opinioni delle consigliere, saranno comparate con riferimento agli ambiti che la letteratura ha evidenziato come rilevanti nella relazione tra donne e
politica. Tali confronti riguarderanno, quindi, le varie aree
geografiche del paese, la dimensione del comune in cui sono
state elette le consigliere, le loro caratteristiche personali –
rispetto al titolo di studio, alla collocazione politica e all’età
– la loro condizione familiare, quella occupazionale e, infine,
le eventuali esperienze maturate in campo associazionistico.
3. IL PIANO DI INDAGINE
La scelta di condurre quest’analisi basandosi sulle opinioni
delle consigliere comunali, deriva dal fatto che, escludendo
l’eccezione delle ultime elezioni politiche del Maggio 2013,
quando la percentuale di elette ha raggiunto per la prima
volta il 31%, i comuni rappresentano le istituzioni in cui la
presenza femminile è stata, storicamente, più elevata. Nei
comuni italiani, infatti, le donne che ricoprono una carica
amministrativa sono 25.109 corrispondenti al 21,5% del totale degli amministratori. Inoltre, dopo l’approvazione della
legge 215/20123, si è registrato un aumento della presenza
femminile in tutte le cariche politiche locali, specie tra le
consigliere e le assessore (rispettivamente 725 e 289 unità
3 Si tratta della legge 23 Novembre 2012, n° 215 recante “Disposizioni
per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e
nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso
nelle pubbliche amministrazioni”.
70
in più) e in maniera più contenuta, ma tendenzialmente crescente, anche tra le sindache e vicesindache (rispettivamente
44 e 46 unità in più) (CITTALIA 2013).
I comuni sono, quindi, un luogo privilegiato di osservazione della partecipazione politica femminile, sia per la più
elevata incidenza di elette, sia per il più stretto rapporto con
la popolazione e il corpo elettorale. Da qui l’interesse per la
rappresentanza politica femminile a livello comunale da cui
prende le mosse quest’analisi.
La base empirica di questo studio è rappresentata dai
risultati di un’indagine realizzata su un campione nazionale
di consigliere comunali. L’indagine è stata svolta con il metodo dell’inchiesta campionaria tramite CAWI (Computer
Assisted Web Interviewing) tra febbraio e settembre 2013. Si
è optato per un campione rappresentativo di comuni italiani
seguendo un disegno di campionamento casuale stratificato
per area geografica e dimensione della popolazione del comune. Dalla lista di campionamento, costituita da circa 270
comuni, è stato costruito un database di circa 1200 indirizzi
email delle consigliere, elette in questi comuni, cui è stata
inviata, per posta elettronica, la richiesta di partecipazione
all’indagine .
Il tasso di risposta è stato piuttosto elevato, attestatosi intorno al 45% dei contatti. Sono 540 le consigliere comunali
che hanno risposto al questionario. Sebbene il processo di
auto-selezione delle rispondenti sia stato influenzato dalla
familiarità con l’uso di degli strumenti informatici, le consigliere contattate hanno risposto con interesse e significativa
partecipazione. Il totale dei questionari validi, infatti, corrisponde al 93,5% di tutti quelli pervenuti garantendo, quindi,
un’analisi complessiva su 505 casi.
4. RISULTATI
Per gli obiettivi di questo contributo l’analisi si concentrerà sulle risposte ad una sezione del questionario, utilizzato
nell’indagine, in cui si chiedeva alle consigliere comunali di
esprimere il loro grado di accordo in merito ad alcune affermazioni riguardanti l’attività politica. Le risposte sono state
registrate attraverso una scala di tipo-Likert a 5 punti (ancorata da 1 “Per niente” a 5 “Moltissimo”).
Il testo della domanda era il seguente: Quanto si ritiene
d’accordo con le seguenti definizioni della politica:
- la politica è una professione
- la politica è una missione
- la politica è un’occasione per ampliare conoscenze
- la politica è un servizio per la collettività
- la politica è un’opportunità per trovare lavoro
- la politica è un’aspirazione personale
- la politica è una passione
In tabella 1 sono sintetizzate le risposte delle consigliere
intervistate rispetto a tale quesito.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Tab.1: Grado di accordo delle consigliere comunali con le varie concezioni della politica (val. %)
per niente/poco
Abbastanza
molto/moltissimo
Totale
Professione
67.3
19.0
13.7
100.0
Missione
21.2
21.4
57.4
100.0
occasione per ampliare conoscenze
40.2
39.1
21.7
100.0
servizio per la collettività
1.6
6.3
92.1
100.0
opportunità per trovare lavoro
92.3
6.6
1.1
100.0
aspirazione personale
23.6
36.1
40.3
100.0
Passione
1.9
10.0
88.1
100.0
Tab.2: Saturazioni fattoriali degli item sottoposti ad analisi delle componenti principali (Matrice ruotata met. Varimax)
Fattori
1
2
3
la politica è una professione
.744
-.025
-.013
la politica è un'opportunità per trovare lavoro
.709
.083
-.066
la politica è una occasione per ampliare conoscenze
.608
.265
.283
la politica è un'aspirazione personale
.362
.794
-.121
la politica è una passione
-.127
.769
.363
la politica è un servizio per la collettività
-.178
.103
.773
la politica è una missione
.388
.050
.686
Da questi primi risultati emergono alcune indicazioni interessanti. Come si può osservare, infatti, la quasi totalità
delle consigliere risulta molto o moltissimo d’accordo con
l’affermazione che la politica sia, anzitutto, un servizio per
la collettività. Netta è anche la maggioranza di coloro che
esprimono un elevato accordo con la definizione della politica come passione. Circa sei intervistate su dieci, inoltre,
risultano in elevato accordo con la definizione della politica
come missione. Minore accordo, invece, viene espresso nei
confronti delle definizioni della politica come occasione per
allargare le proprie reti sociali, della politica come professione e soprattutto della politica come strumento per trovare
una collocazione nel mercato del lavoro. In sintesi, quindi,
questa analisi preliminare mostra un quadro generale in cui
l’impegno politico è visto dalle consigliere, prevalentemente, in chiave altruistica e auto-realizzativa. Tale risultato risulta coerente con quanto emerso in altre ricerche che hanno
evidenziato come, rispetto alla partecipazione politica maschile, le donne risultano politicamente più attive in azioni
e organizzazioni politiche, anche di tipo informale, orientati
alla salvaguardia degli interessi collettivi quali, ad esempio,
la raccolta firme per le petizioni, o il boicottaggio pianificato
di prodotti e attività (Dalton 2008, Coffé e Bolzendahl 2011).
Per identificare eventuali dimensioni latenti, alle risposte
fornite dalle consigliere, le variabili relative ai sette items
sono state sottoposte ad analisi delle componenti principali
che ha permesso l’identificazione di tre fattori in grado di
spiegare il 62,3% di varianza complessiva (KMO=.665, Sig.
test di Bartlett < .001).
La tabella 2 riporta la matrice ruotata dei 3 fattori estratti e
le relative saturazioni fattoriali per ciascun item.
Come si può osservare, il primo fattore sintetizza una visione strumentale della politica. Gli item sottostanti sono,
infatti, quelli relativi alla politica vista come professione,
alla politica come opportunità di lavoro e alla politica come
occasione per ampliare le conoscenze. Il secondo fattore sintetizza, invece, una visione della politica come realizzazione
personale. Gli item sottostanti sono, in questo caso, quelli
relativi alla politica come aspirazione personale e alla politica vista come passione. Il terzo fattore, infine, sintetizza
l’immagine della politica come impegno sociale. Gli item
sottostanti sono, infatti, la politica come servizio per la collettività e la politica intesa come missione.
A partire da questi tre fattori sono stati calcolati altrettanti
indici sintetici derivanti dalla media geometrica dei valori di
ciascun item. I punteggi di ciascun indice sono stati, quindi,
messi a confronto tramite t-test con una serie di indicatori
rilevati nell’indagine e relativi all’appartenenza territoriale
delle elette, alla loro condizione civile e familiare, alle credenziali educative, alla collocazione politica e alle precedenti esperienze associazionistiche. I risultati sono sintetizzati
in tabella 3.
I risultati mostrano, coerentemente con l’analisi preliminare dei singoli items, che la concezione che registra il maggior
grado di accordo tra le consigliere corrisponde alla politica
vista, soprattutto, come impegno sociale ( X =4.14), segue la
politica vista come dimensione auto-realizzativa ( X =3.84)
e infine la politica come dimensione strumentale ( X =2.11).
71
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Tab.3: Valori medi degli indici della politica strumentale, realizzativa e di impegno sociale rispetto agli indicatori contestuali dell’esperienza
politica delle consigliere comunali.
strumentale
auto
impegno sociale
realizzativa
Area geografica
Popolazione del comune
Collocazione politica
Titolo di studio
Età
Ha dei figli
Condizione civile
Condizione occupazionale
Nord
2.11
3.78*
4.11*
Centro
2.12
3.77*
4.09*
Sud e Isole
2.03
4.01*
4.30*
Meno di 5000
2.21
3.84
4.14
Da 5001 a 20000
1.99
3.81
4.13
Da 20001 a 50000
2.05
3.78
4.15
Da 50001 a 100000
2.07
3.88
4.13
Più di 100000
2.16
3.83
4.01
Centro sinistra
2.06*
3.84
4.31**
Centro destra
2.25*
3.83
4.08**
Fino al diploma
2.09
3.85
4.16
Laurea e post laureate
2.12
3.84
4.14
Fino a 35 anni
2.24**
4.01**
3.86**
36-45 anni
2.22**
3.87**
4.02**
46-55 anni
2.02**
3.73**
4.28**
Più di 56 anni
1.85**
3.79**
4.31**
Si
2.08
3.81
4.05**
No
2.14
3.89
4.30**
Coniugata
2.18
3.86
4.25*
Separata/divorziata
2.09
3.85
4.12*
Nubile
2.06
3.82
3.91*
Occupata
2.06*
3.87
4.07
Non occupata
2.32*
3.83
4.16
Si
2.08
3.82
4.33*
No
2.22
3.94
4.01*
Totale
2.11
3.84
4.14
D.S.
.69
.74
.74
N
499
501
502
Precedenti esperienze in campo
associazionistico
*p<0.05, **p<0.001
Analizzando nel dettaglio il modo in cui i diversi indicatori selezionati contribuiscono a spiegare le differenze nelle
opinioni delle intervistate, emerge anzitutto una rilevante incidenza delle differenze territoriali. Come si può osservare,
mentre per quanto riguarda la concezione strumentale della
politica non sono emerse differenze significative tra le consigliere appartenenti alle diverse aree geografiche, per quanto
riguarda le altre due concezioni, le distanze nelle risposte
sono più nette e statisticamente significative. Emerge, infatti,
che sono soprattutto le intervistate nelle regioni del Mezzogiorno a concepire, maggiormente, la politica come dimensione realizzativa e come impegno sociale.
Questo risultato può essere letto alla luce del fatto che è
proprio in queste regioni che, secondo quanto emerso in una
72
recente indagine (CITTALIA 2013), si registrano le maggiori difficoltà dell’impegno politico femminile. È ipotizzabile,
quindi, che coloro che hanno deciso di fare politica attiva
in tali contesti abbiano affrontato delle difficoltà in più nel
superamento delle barriere di ingresso in questo ambito della
vita sociale, rispetto alle proprie colleghe delle altre regioni, e che ciò le abbia portate ad accrescere la loro visione
della politica in termini auto-realizzativi. Dall’altra parte, il
risultato della maggiore concezione della politica come impegno sociale, da parte delle consigliere del Mezzogiorno,
potrebbe essere interpretato in relazione alla convinzione di
garantire, attraverso il proprio impegno, una rappresentanza
politica femminile in contesti in cui questa è maggiormente
deficitaria.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Per quanto riguarda la dimensione del comune, non sono
emerse differenze rilevanti e statisticamente significative nei
tre indici relativi al diverso modo di concepire la politica da
parte delle consigliere evidenziando, quindi, una trasversalità di questa dimensione rispetto alle opinioni delle elette.
Relativamente all’appartenenza partitica le opinioni delle
intervistate sono risultate, invece, differenziate rispetto alla
concezione della politica strumentale e della politica come
impegno sociale. La prima registra una maggior grado di
accordo nelle opinioni delle consigliere di centro-destra, la
seconda tra le consigliere di centro-sinistra. Tale risultato
è molto interessante perché sottolinea come, nonostante le
trasformazioni avvenute nel panorama politico italiano con
il passaggio dalla prima alla seconda repubblica e l’indebolimento dei contrasti ideologici, permangono tra gli opposti
schieramenti degli orientamenti valoriali differenziati che riguardano, anche, il modo di concepire la politica. Tali valori
possono certamente essere ricondotti, anche alle differenze che tutt’oggi caratterizzano comunque la composizione
sociale dei diversi schieramenti. Precedenti ricerche hanno
infatti mostrato come i partiti di centro-destra reclutano maggiormente tra le classi sociali composte da liberi professionisti e imprenditori, mentre quelli di centro-sinistra tra le classi
dei lavoratori dipendenti e tra coloro che hanno maturato
esperienze in campo sindacale e associazionistico (Tonarelli
1999, Verzichelli 2006, 2010).
Rispetto al titolo di studio delle intervistate, le differenti
credenziali educative non rappresentano un discrimine sostanziale, né statisticamente significativo, rispetto alle opinioni delle consigliere comunali. Una possibile interpretazione di questo risultato può essere ricondotta al fatto che
circa il 70% delle intervistate è costituito da donne in possesso di una laurea, o di un ulteriore titolo post-laurea (master
o dottorato), e che un altro 27% è costituito da diplomate.
Le elevate competenze formative che contraddistinguono il
campione, così come gran parte delle donne politicamente
attive in Italia, (Brunelli 2010, Verzichelli 2010), fa sì, quindi, che rispetto a tale indicatore non emergano differenze
nei punteggi dei tri indici sintetici. Alla luce di ciò, si può
sostenere che, coerentemente con quanto emerso altrove
(Galasso e Nannicini 2011), le elevate credenziali educative
rappresentino per le donne un pre-requisito indispensabile
per l’accesso alle carriere politiche più che elemento di differenziazione del loro modo di concepire e di rapportarsi alla
politica.
Per quanto riguarda le differenze legate alle classi di età,
i risultati mostrano una netta differenziazione delle opinioni
delle intervistate rispetto alle tre concezioni della politica.
Le giovani consigliere risultano maggiormente orientate con
una visione della politica come dimensione strumentale e
auto-realizzativa, mentre le più anziane vedono nella politica
un ambito, soprattutto, di impegno sociale. È evidente, quindi, come tale risultato mostri una differenziazione generazionale nel modo di intendere la politica che però può essere
interpretato, anche, alla luce delle importanti differenze che
contraddistinguono le opportunità occupazionali nel mercato
del nostro paese. È noto, infatti, che le giovani donne rappresentano il gruppo sociale che incontra maggiori difficoltà
di inserimento nel mercato del lavoro (Reyneri 2002) e che
quindi per loro la politica possa rappresentare, anche, una
speranza per riuscire a far fronte a tali difficoltà. A parziale
conferma di ciò, come si può notare in tabella 3, le consigliere senza un’occupazione al momento dell’intervista mostrano un maggiore orientamento strumentale verso la politica.
Di particolare rilievo sono, inoltre, i risultati che emergono
dalla relazione tra gli indicatori della biografia familiare delle
elette e gli indici relativi alle concezioni della politica. Come
si può notare, infatti, la concezione della politica come impegno sociale è più elevata, e con differenze statisticamente
significative, tra le consigliere che hanno meno vincoli familiari, e presumibilmente meno carichi di cura ed esigenze di
conciliazione, in quanto senza figli e legami coniugali. Tale
evidenza sottolinea, quindi, come i vincoli di doppia presenza che caratterizzano le biografie femminili rappresentano
un fattore importante di condizionamento della loro attività
politica. Come emerso in altri studi, infatti, l’essere sposate
e avere dei figli in giovane età, rappresentano degli importanti vincoli alla piena partecipazione femminile nell’arena
politica (Bernstein 1986, Carroll 1994, Fox e Lawless 2004).
Infine, anche l’ultimo indicatore relativo alla precedenti
esperienze in campo associazionistico, mostra una relazione
discriminante e statisticamente significativa sul terzo indice.
I risultati evidenziano che aver avuto in passato esperienze
in questo campo, accresca l’idea che la politica sia prevalentemente un’attività di impegno sociale.
CONCLUSIONI
Questo studio ha posto al centro della propria analisi le
opinioni delle consigliere comunali italiane in merito al loro
modo di concepire l’impegno politico. L’analisi è partita dal
presupposto che gli stimoli emotivi e la partecipazione politica femminile non possano essere ricondotti a un modello
omogeneo basato, quindi, soltanto sugli aspetti di differenziazione rispetto alla politica al maschile. L’obiettivo dello
studio era, infatti, quello di fare emergere, il più possibile, le
differenze che caratterizzano le donne che sono già protagoniste nella scena politica, al fine di evidenziare attraverso le
loro opinioni, i diversi atteggiamenti nei confronti di questo
importantissimo ambito della vita sociale.
I risultati emersi nello studio hanno evidenziato come la
partecipazione attiva delle donne in politica rappresenti un
«contesto di elementi dove esperienze, vincoli e opportunità
personali, stimoli politico-culturali e meccanismi istituzionali, costituiscono dei fattori cruciali» (Verzichelli 2010:19)
di differenziazione. Da questo punto di vista, la scelta di
comparare le opinioni delle consigliere comunali in corrispondenza di vari ambiti della vita sociale, ci ha permesso di
mettere in luce l’interazione e la sovrapposizione di numerosi fattori che interagiscono con il loro modo di concepire
l’impegno politico.
Lo studio ha mostrato che coerentemente con altre ricer73
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
che, anche le consigliere comunali italiane, vedono prevalentemente il loro impegno politico come un’azione orientata a
rendere un servizio per la collettività. Tuttavia, anche altre
atteggiamenti sono emersi e non necessariamente in contrapposizione con l’orientamento prevalente. Un’altra concezione ampiamente presente tra le elette nei comuni italiani è
quella della politica come ambito di realizzazione personale.
Infine meno diffusa, seppure presente, è risultata la concezione strumentale della politica.
Lo studio ha però evidenziato, soprattutto, come tali concezioni trovino un diverso grado di consenso in corrispondenza di differenti fattori contestuali. È così emerso che la
concezione strumentale della politica risulti maggiormente
diffusa tra le consigliere giovani, senza occupazione e appartenenti ai partiti di centro-destra. Mentre la concezione
della politica auto-realizzativa trova i maggiori consensi tra
le giovani consigliere e tra le elette nelle regioni meridionali.
Infine l’immagine della politica come impegno sociale è più
diffusa, anche questa, tra le consigliere del Mezzogiorno, tra
le elette nelle fila dei partiti di centro-sinistra, tra coloro che
hanno minori vincoli familiari e tra coloro che hanno sviluppato precedenti esperienze in ambito associazionistico.
In sintesi, quindi, l’analisi qui condotta ha posto ulteriori
evidenze a sostegno dell’idea che il modo di concepire la
politica da parte delle donne non possa essere, semplicisticamente, ridotto alla differenze rispetto al genere maschile.
Le donne, ma evidentemente anche gli uomini, sviluppano
i propri atteggiamenti nei confronti della politica, e quindi
agiscono in essa, perseguendo ideali, aspettative e interessi che non dipendono, esclusivamente, dall’appartenenza di
genere. Ciò implica che la soluzione dei problemi relativi
alle diseguaglianze di genere, molto spesso ricercata attraverso il semplice incremento della quota di donne presenti
nelle istituzioni, non offra di per sé garanzie sufficienti di
74
efficacia. Essa può essere perseguita, quindi, solo attraverso
una reale e fattuale strategia di gender mainstreaming (Donà
2007) che passa attraverso un re-investimento culturale sulle
questioni paritarie e di genere in grado di promuovere la presenza, nello scenario politico di critical actors e non semplicemente una critical mass (Childs e Krook 2009).
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75
Rosa vs Blu. I Gender Studies
e la cultura del design
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
76
LUCIA PIETRONI
Scuola di Architettura e Design dell’Università di Camerino
L
INTRODUZIONE
a quasi totale mancanza di nomi femminili
nei seminal books della storia del design è
stata a lungo interpretata come un’assenza naturale, causata
da circostanze storiche e culturali.
Progettare e produrre utensili e oggetti d’uso, apparecchi tecnici, architetture, sono sempre state convenzionalmente considerate attività maschili,
poco congeniali alle caratteristiche di
genere con le quali la cultura moderna
ha identificato il “gentil sesso”.
Sulla differenza di genere sessuale,
giustificata per lo più biologicamente,
la società occidentale ha costruito e codificato le regole di comportamento, i
ruoli sociali, la divisione del lavoro tra
uomini e donne, assegnando ai primi il
dominio nella sfera della “produzione”
e del “pubblico” e alle seconde quello
nella sfera della “riproduzione” e del
“privato”.
Tale codificazione sociale dei ruoli
ha reso difficile l’accesso delle donne nella sfera della “produzione” in
termini professionali e ha occultato il
riconoscimento pubblico del loro lavoro come contributo allo sviluppo delle
scienze e delle arti.
Pertanto, consultando gli indici dei
testi di storia del design, così come
quelli di storia dell’arte, dell’architettura, della scienza e della tecnica, ci si
accorge di come sia esiguo il numero
delle presenze femminili e di come le
donne siano “il più grande, il più generalizzato degli esclusi, quasi l’escluso
standard”, per citare la definizione radicale utilizzata da Luciano Rubino nel
suo saggio Le spose del vento, pubblicato alla fine degli anni ’70.
Dalla metà degli anni ’80, però, una
serie di studi e ricerche, ascrivibili
all’area interdisciplinare dei cosiddetti Gender Studies, hanno non solo
rivelato e documentato l’”invisibile
presenza” delle donne nella storia del
design, ma, partendo dal rapporto tra
identità/differenza di genere e design,
hanno aperto una molteplicità di nuove
prospettive di analisi e lettura storica
della cultura materiale del mondo oc-
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
cidentale.
Non si tratta di ricerche che semplicemente rivendicano e fanno giustizia
delle tante e gravi dimenticanze, omissioni e sottovalutazioni della produzione artistica femminile, ma fanno inoltre
emergere nuove dimensioni, nuove definizioni e nuovi significati del design,
finora sottostimati dalla critica e dalla
storiografia moderne, fondate su un’interpretazione lineare ed “esclusiva”
della storia che ha stabilito una tradizione di pionieri del design moderno
e un’avanguardia estetica tutta al maschile (“Da William Morris a Walter
Gropius”).
Il testo che segue intende mettere a
fuoco il contributo apportato dai Gender Studies alla storia, alla critica e
alla prassi del design, tracciando l’evoluzione da posizioni che rivendicano
l’uguaglianza tra i sessi portando alla
luce, mappando e valorizzando tutte
le presenze femminili della storia del
design (women-designer approach) a
posizioni che indagano il design come
una delle attività umane che contribuiscono, attraverso la progettazione degli
oggetti d’uso intesi come costrutti socio-tecnici, a veicolare nella vita quotidiana anche le differenze di genere e a
condizionare quindi le relazioni sociali
tra uomini e donne e la costruzione individuale dell’identità e della personalità (feminist approach). Questa evoluzione teorica - che trova riferimenti in
due differenti, e forse necessarie, tappe
della storia del femminismo (la prima
caratterizzata dalla ricerca “a tutti i costi” dell’uguaglianza con gli uomini e
la seconda dal riconoscimento del valore della differenza di genere come fattore socialmente e non biologicamente
determinato) - descrive e sottolinea un
significativo cambiamento del ruolo
femminile nella sfera della “produzione”, da “secondo sesso” ad ”altra metà
dell’avanguardia”, contribuendo così
allo sviluppo di un’interpretazione più
“inclusiva” e multilineare della storia
del design.
LA NASCITA DEI GENDER STUDIES
Il termine gender, in italiano traducibile con “genere sessuale”, è stato
introdotto negli anni ’70 dalle femministe anglosassoni per indicare che la
differenza di genere tra uomini e donne
è costruita socialmente e culturalmente, e quindi variabile nel tempo e nello
spazio, e per distinguerlo da sex, cioè
il genere sessuale ritenuto immutabile
in quanto strettamente legato alla biologia.
Prima che venisse introdotto questo
termine, il concetto di “genere” come
costrutto sociale e culturale è stato anticipato nel ‘49 da Simone de Beauvoir
in Il secondo sesso - un libro che ha fatto molto discutere - nel quale l’autrice
enuncia la sua teoria sui generi sessuali
secondo la quale, appunto, “donne non
si nasce, si diventa”.
Le teorie sui generi sessuali sono
state formulate fin dall’antica Grecia.
Come sostiene Eva Cantarella, “i greci discutevano su quali fossero le virtù
delle donne - intendendo per virtù capacità, attitudini, forma di ragionamento - con l’idea sempre che ci fosse una
differenza fra le virtù femminili e le
virtù maschili e la differenza fosse legata alle differenze biologiche”. Nonostante le diverse posizioni circa l’origine biologica della differenza di genere,
da Aristotele in poi, tutte le volte che si
è teorizzata una differenza di genere, la
differenza è stata formulata in termini
di subalternità e di inferiorità del femminile rispetto al maschile.
Il confinamento del femminile in una
posizione subordinata di “secondo ses77
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Barbie e Ken, commercializzati dalla Mattel
so”, per dirla con Simone de Beauvoir, di “alterità” rispetto
alla “norma” del maschile, poggia, secondo Rosi Braidotti,
su un sistema classico di opposizioni dualistiche, come per
esempio: natura/cultura, attivo/passivo, razionale/irrazionale, maschile/femminile. Infatti, nella prospettiva femminista,
la differenza di genere, concepita convenzionalmente e storicamente come rapporto duale e gerarchico tra “mascolinità”
e “femminilità”, diviene un pericoloso elemento discriminatorio per le donne, in quanto la nozione di gender opera come
una delle principali categorie ordinatrici ed organizzatrici
delle relazioni sociali, al pari di altri fondamentali elementi
di differenziazione/discriminazione culturale e sociale, come
la razza, l’età, la classe sociale.
Secondo Martha Zarza, “le nozioni di ‘mascolinità’ e
‘femminilità’ si sono formate sulla base di convenzioni sociali sulle differenti caratteristiche di uomini e donne. Queste
nozioni hanno determinato stereotipi che servono per veicolare messaggi sociali sui ruoli e i comportamenti più adeguati
agli uomini e alle donne. Ma tali ruoli sono stati solitamente
considerati opposti ed inoltre storicamente sono stati relazionati ai termini antagonistici di natura e cultura, associando il
primo termine alle donne e il secondo agli uomini”.
Questi stereotipi di genere, che hanno identificato la “mascolinità” con un comportamento razionale, finalizzato, attivo, di dominio e, al contrario, la “femminilità” come comportamento emotivo, superficiale, passivo e di cura, hanno
78
condizionato per più di un secolo i ruoli sociali degli uomini
e delle donne assegnando al “maschio” il dominio nella sfera
pubblica della “produzione” e alla “femmina” quello nella
sfera privata e domestica della “riproduzione”.
Proprio contro questi stereotipi si è indirizzata la prima
fase del movimento femminista degli anni ‘60 e ’70, definita
“fase radicale” o “emancipatoria” del femminismo, fondata sulla “strategia del rifiuto” della differenza sessuale tra
uomini e donne e sulla necessità di affermare e rivendicare,
sopra ogni cosa, l’uguaglianza tra i sessi al fine di liberare
ed emancipare le donne da una condizione di inferiorità e
oppressione imposta da regole sociali stabilite dagli uomini
e pertanto “maschiliste”.
Le teorie del “femminismo radicale”, come sostiene
Bronwyn Hanna, fanno riferimento alle teorie marxiste della Scuola di Francoforte. Mentre il marxismo focalizzava la
sua analisi sulla classe sociale come principale struttura di
oppressione all’interno di un sistema socio-economico chiamato ‘capitalismo’, la teoria radicale del femminismo incentra l’analisi sul genere sessuale come principale struttura di
oppressione all’interno di un sistema chiamato ‘patriarcato’.
Inoltre il marxismo, come il femminismo radicale, sono teorie del potere nella società e delle sue sperequazioni e forniscono entrambe un’analisi delle diseguaglianze sociali.
Per il femminismo radicale, quindi, il gender è l’indice di
un sistema di potere basato sulla sessualità e il “sessismo”,
che produce, è un fatto del tutto indipendente dalla biologia,
è un fatto unicamente sociale. Anche il corpo, come sede delle differenze sessuali, viene inteso, dalle femministe, come
un marchio di inferiorità che condanna le donne, in un “sistema patriarcale”, ad un processo di socializzazione differente
e subalterno rispetto a quello degli uomini. Pertanto le teorie
femministe negano la differenza di genere e l’identità sessuale femminile imposta dalla società patriarcale, in quanto
ritengono assolutamente ingiusto che le donne siano penalizzate dalla loro natura biologica - relegate nella sfera della
riproduzione e della cura dei figli - ed inoltre socializzate ad
essere docili, passive e confinate nell’ambiente domestico,
mentre gli uomini vengono socializzati ad essere aggressivi,
attivi e capaci di dominare la sfera pubblica del lavoro e della
politica.
Questa prima fase del femminismo viene superata, alla
metà degli anni ’80, da una seconda fase, definita prima
come “culturale” e poi come “postmoderna” o “post-strutturalista”, che si fonda, al contrario della prima, sul riconoscimento della differenza di genere, in quanto la sua negazione
ha innescato solamente un processo di omologazione agli
uomini, ai loro valori e alle loro regole.
Secondo il “femminismo culturale”, la differenza di genere tra uomini e donne non può essere negata, anzi deve
essere ricercata ed esaltata perché rappresenta un valore.
Valorizzare la diversità della donna significa affermare la
sua radicale estraneità ai modelli socio-simbolici della società patriarcale. Carol Gilligan riconosce l’importanza della
differenza sessuale nel suo libro In a different voice, dove
sostiene che “esistono mondi diversi maschili e femminili
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
“The Pink & Blue Project”, fotografie di JeogMee Yoon, 2005-2009, ©JEONGMEE YOON
e che le donne parlano e ragionano con un’altra voce, che
non è tanto la voce della giustizia astratta, la voce della ragione, ma la voce della cura e quindi esprimono un’etica e
una razionalità diverse”. Si ritiene quindi che le donne debbano essere riconosciute ed apprezzate nelle loro differenze
e specificità culturali di genere, sia come gruppo che come
individui. Sulla scia di Carol Gilligan, ma con maggior estremismo, una serie di femministe statunitensi affermano che
il modo di ragionare femminile è diverso, che per le donne
il ragionamento formale astratto è qualcosa di alieno e che
quindi le regole della retorica tradizionale appartengono al
mondo maschile, sono maschili, frutto del “patriarcato” che
vuole opprimere le donne di cui non si riconosce la diversità. L’affermazione di un’identità femminile forte, attraverso
l’esaltazione delle qualità e le caratteristiche distintive delle
donne (quali l’attitudine alla solidarietà, all’altruismo, alla
cura dell’altro) e la valorizzazione dei loro dati esperenziali, ripropone, seppur ribaltato in favore delle donne, il classico rapporto duale tra maschile e femminile che rischia di
rinchiudere di nuovo le donne in un’identità sessuale determinata sulla base di un’opposizione binaria. Più di recente,
queste teorie della differenza sono state messe in discussione
dalle teorie femministe “postmoderne” o “post-strutturaliste”
- così definite perché si ispirano al pensiero di Lacan, Derrida
e Foucault - che tentano di superare i dualismi culturali su cui
si è fondata la nozione di gender sostenuta sia dal “femminismo radicale” che dal “femminismo culturale”, al fine di
costruire una teoria e una prassi dell’uguaglianza dei generi
che tenga conto delle differenze.
Secondo queste teorie, l’identità di genere non è né innata né immutabile, ma in continua modificazione rispetto alle
intersezioni con i codici simbolici, culturali e sociali, e collocata nello spazio e nel tempo. Ognuno di noi possiede alcune
qualità che la nostra cultura etichetta come femminili ed altre
che definisce maschili. Ogni individuo costruisce la propria
identità di genere in relazione al suo senso di appartenenza
ad un genere sessuale. Infatti la differenza sessuale non è la
base sulla quale si costruisce il genere sessuale, perché la differenza sessuale è a sua volta un prodotto sociale. Pertanto il
gender rappresenta la vasta gamma dei possibili ruoli sessuali, che un essere umano, donna o uomo che sia, può scegliere
o definire nel corso della propria vita. Come differenza socialmente e psicologicamente costruita, il gender diviene un
significativo elemento di indagine culturale che non assegna
più ad un’appartenenza biologica comportamenti e ruoli, ma
li individua quali caratteri culturali di un genere.
In riferimento agli sviluppi del pensiero femminista e intorno al concetto di gender nascono, alla metà degli anni
’80, i Gender Studies, un’area interdisciplinare di ricerca che
identifica nella differenza di genere, come costrutto socioculturale, una nuova categoria di analisi storica e che ha tra i
suoi principali obiettivi la valorizzazione dello specifico contributo delle donne nella storia delle scienze e delle arti, della
politica, dell’economia.
I Gender Studies emergono, nei paesi di lingua anglosassone, come specifica area di studio all’interno dei Cultural
Studies, campo di ricerche non tradizionali, nel quale convergono gli apporti disomogenei di numerose discipline - l’antropologia culturale, le scienze sociali, la semiotica, le teorie
estetiche, la storia della scienza e le tecniche della comunicazione – e che ha come principale obiettivo quello di stabilire
il diritto alla differenza sessuale, etnico-razziale, religiosa,
geografica, dando voce e rivalutando quelle che le tradizionali discipline accademiche definiscono come subculture,
culture subalterne, controculture, e focalizzandosi su temi
considerati marginali, quali la sessualità, il genere, i mass
media, i movimenti sociali e culturali, i rapporti interetnici,
la cultura popolare.
Se i Cultural Studies propongono una prospettiva critica di “decentramento” rispetto alle discipline scientifiche tradizionali, i Gender Studies maturano all’interno
di questo approccio critico, decentrando la propria pro
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Penne BIC for her
spettiva d’analisi culturale sull’identità e la differenza di
genere, mettendo in luce e riconoscendo l’importanza delle
differenze di genere nei diversi ambiti della conoscenza e
intendendo con gender l’insieme dei comportamenti, attitudini, aspettative, forme espressive e modi di relazione sociale, attraverso i quali si definiscono e costruiscono le identità
individuali e sociali di genere.
Dalla metà degli anni ’80, quindi, si diffondono, soprattutto nelle università inglesi e americane, corsi e dipartimenti di
Gender Studies, che promuovono un approccio interpretativo della storia delle scienze e delle arti “al femminile” con
l’obiettivo di superare la convenzionale codificazione culturale e sociale delle differenze tra i sessi e di fare emergere
l’identità sessuale e, in particolare, l’identità e la soggettività femminile come il risultato, continuamente mutevole, di
un processo socio-culturale e non come soggetto o oggetto
dell’analisi.
In Italia i Gender Studies non hanno ancora trovato ampia
istituzionalizzazione all’interno dei contesti accademici, ma
le teorie e gli studi prodotti all’interno di questa area di ricerca hanno avuto notevole diffusione e hanno stimolato un
acceso dibattito.
Nonostante la maggiore diffusione ed influenza dei Gender
Studies nei paesi anglosassoni e la loro differente declinazione nei diversi paesi, quello che, in questa sede, ci interessa
puntualizzare è il contributo di questa nuova prospettiva critica nell’ambito della storia e della teoria del design.
DAL “WOMEN-DESIGNER APPROACH” AL “FEMINIST
APPROACH”: GENDER STUDIES E GENDERED DESIGN
“I vari Argan-Banham-Dorfles-Hitchcock-Pevsner-ecc.
non hanno voluto ricordare che anche gli esseri umani di
sesso femminile producono artisticamente e fanno parte del
genere umano…”. In questo modo Luciano Rubino alla fine
degli anni ’70 denuncia, in Le spose del vento, la scarsità di
presenze femminili nei “testi sacri” della storia del design,
considerando questa dimenticanza come “un’operazione, a
80
Kleenex for men
dir poco, incivile” e dedicando questo libro a 23 donne-artiste che hanno colpito la sua curiosità per qualche aspetto o
della loro storia personale o del loro contributo artistico, ma
“che con finta noncuranza la storiografia contemporanea ha
saputo cancellare”. Le donne sono le “grandi escluse” dalla
storia, dai “testi sacri”, ma anche un po’ dalla vita di tutti i
giorni. Anzi le donne, secondo Rubino, sono “il più grande,
il più generalizzato degli esclusi, quasi l’escluso standard”
e la loro emarginazione da parte degli storici del design e
dell’architettura non è, a sua parere, una semplice ed ingenua
dimenticanza.
Questo testo di Rubino è solo uno dei molti esempi di rivendicazione di un ruolo subalterno assegnato alle donne rispetto agli uomini anche nella storia del design. Dagli anni
’70 in poi, infatti, sono numerosi gli scritti che denunciano
l’emarginazione femminile dalla storia e dalla professione
del design e si iniziano ad esplorare e mappare le biografie
e i contributi artistici di molte rappresentanti del “secondo
sesso” che la storiografia moderna ha omesso e dimenticato.
Dalla metà degli anni ’80, ma soprattutto negli anni ’90, si
sviluppano, invece, una serie di studi e ricerche che indagano
la storia del design al “femminile” con l’intento di riscoprire e valorizzare le specificità della creatività e progettualità
femminile, riconoscendo alle donne sensibilità e capacità
diverse da quelle degli uomini, ma non per questo meno significative per lo sviluppo della disciplina del disegno industriale. Più di recente, soprattutto nel contesto culturale
anglosassone, sono emersi lavori teorici che indagano, dalla
prospettiva femminista, i rapporti tra gender e design: attraverso un’attenta analisi investigativa del mondo dei segni,
delle immagini e delle rappresentazioni utilizzati nell’arte,
nel design dei prodotti di largo consumo, nella pubblicità, si
mettono in discussione il ruolo subordinato della donna e gli
stereotipi di genere imposti dalla società dei consumi, evidenziando l’importanza del design nella costruzione dell’identità di genere.
Questo percorso teorico descrive l’evoluzione dell’approccio al tema del rapporto tra donne e design, a lungo sot-
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Ovetti Kinder per bambino e per bambina
tostimato dalla critica e dalla storiografia. Tale evoluzione
può essere definita, secondo Judy Attfield, come “il passaggio da un women-designer approach a un feminist approach”, cioè da un approccio finalizzato alla ricerca e all’affermazione dell’uguaglianza di genere tra uomini e donne,
attraverso il riconoscimento dell’importanza del contributo
artistico delle donne nel design, ad un approccio finalizzato
alla valorizzazione della differenza di genere, attraverso la
riscoperta dell’identità femminile e l’esaltazione delle specificità della produzione artistica e della creatività delle donne.
Questo cambiamento di prospettiva sulla differenza di genere implica una radicale messa in discussione dei paradigmi
culturali e degli stereotipi di genere, attraverso i quali la cultura moderna ha escluso le donne dalla sfera pubblica della
“produzione” - e quindi, anche, dal design - relegandole nella
sfera privata della “riproduzione”, e la società dei consumi
le ha destinate al ruolo passivo di consumatori dei prodotti
disegnati dagli uomini, come designer professionisti.
Proprio in questo cambiamento di prospettiva critica - al
quale corrisponde un’“emancipazione” del ruolo femminile
all’interno della disciplina del disegno industriale, da “secondo sesso” ad “altra metà dell’avanguardia” - si colloca
il contributo dei Gender Studies alla teoria e alla storia del
design.
Secondo Judy Attfield, che con Cheryl Buckley e Pat
Kirkham sono tra le principali teoriche inglesi del design
nell’area dei Gender Studies, “la storia del design soffre
ancora della sua provenienza dal Movimento Moderno, che
considera la forma (femmina) come effetto della funzione
(maschio) e il design come il prodotto di designer professionisti, della produzione industriale e della divisione del lavoro
che assegna alle donne il proprio posto nella casa”.
La prospettiva femminista o feminist approach offre un
range di metodi storico-critici che sfidano il modo canonico
con cui si definiscono il design come pratica, i parametri con
i quali indagare gli oggetti di design, i valori con i quali valutarli, e anche la stessa definizione di designer. L’obiettivo
è di spiazzare le definizioni dominanti per trovare spazio per
Rasoi monouso BIC for women
quelle dimensioni del design solitamente nascoste, taciute o
omesse nella letteratura e negli studi convenzionali.
Analogamente, Cheryl Buckley dichiara che “il design,
come attività socio-culturale, è stata formata dalle ideologie
del ventesimo secolo – capitalismo, patriarcato e colonialismo – che sono state filtrate attraverso il modernismo e la
storia del design ha operato al fine di rafforzarle e legittimarle”. Solo negli ultimi venti anni si sta cercando di dare un
contributo per una storia del design che sia inclusiva invece
che esclusiva, e che si confronti con temi e aspetti considerati
finora marginali o poco rappresentati, come le relazioni tra
donne e design.
Nell’obiettivo di “trovare spazio per nuove dimensioni
del design finora inesplorate” e nel concetto di “inclusività”
della storia del design stanno le principali differenze tra lo
women-designer approach e il feminist approach. Per raggiungere quell’obiettivo e contribuire a sviluppare una storia
del design “inclusiva”, infatti, non è sufficiente rivendicare
l’assenza di nomi femminili negli indici dei “testi sacri” o
dedicare libri e mostre al design delle donne, come ha fatto
Rubino e come avviene sempre più spesso, ma è necessario, secondo la Attfield, “demolire le gerarchie della storia
convenzionale che posiziona le donne nell’area domestica e
delle arti decorative vista normalmente come subordinata” o,
come sostiene la Buckley, “ridefinire ed estendere i confini
del design, ridisegnando il rapporto e le distinzioni tra arti,
artigianato e design”.
Infatti, la storia del design ha stabilito queste gerarchie assegnando da sempre all’uomo l’area dominante, cioè quella
funzionale (scienza, tecnologia, produzione industriale) e
alle donne il regno domestico, privato, cioè l’area soft del
design: le cosiddette arti decorative o applicate (tessile, ceramica, ecc.). All’interno dello stesso Bauhaus, “culla” del
design moderno, le donne venivano escluse da campi del
design considerati prettamente maschili, come il laboratorio dei metalli, e venivano indirizzate nei settori del tessile
e della ceramica senza alcun riguardo per le loro attitudini e
preferenze. Marianne Brandt, che è l’unica progettista donna
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ad aver avuto accesso al laboratorio dei metalli costituito da
solo dieci addetti, ricorda così il suoi primi giorni di lavoro:
“All’inizio non fui accolta con molto entusiasmo: una donna
non avrebbe dovuto lavorare all’Officina dei Metalli; questa era l’opinione generale. Più tardi mi confessarono che
per questa ragione nei primi tempi fui incaricata dei lavori
più noiosi e difficoltosi. Quante piccole semisfere martellai
sull’argento con pazienza pensando che era giusto e che tutti
gli inizi sono duri! Poi ci fu intesa e collaborazione tra di
noi”. E se la Brandt non ha avuto un appropriato rilievo nei
seminal books, nonostante il suo fondamentale contributo
alla storia del design moderno nell’area considerata maschile
e dominante del product design, delle tante donne che hanno lavorato nel laboratorio tessile del Bauhaus si sarebbero
dimenticati persino i nomi, se Sigrid Wortmann Weltge non
avesse dedicato loro uno studio condotto agli inizi degli anni
’90 da una prospettiva femminista, che poi è stato pubblicato con il titolo I tessuti del Bauhaus. L’arte e l’artigianato
di un laboratorio femminile. Secondo Wortmann Weltge, il
motivo dell’esclusione di queste progettiste dai seminal books è da ricercarsi, appunto, nella scala gerarchica dell’arte
e del design, nella quale i tessuti e la presenza femminile
hanno sempre condiviso posizioni di secondo piano. Inoltre,
“come per le donne, ai tessuti è stato tradizionalmente assegnato un ruolo collaterale: si è studiata la sedia ma non il
suo rivestimento”. Questo lavoro di ricerca è un esempio del
feminist approach, infatti non è una mappatura delle opere
e delle biografie di donne designer, ma piuttosto una lettura
critica del ruolo e dell’identità femminile nel contesto socioculturale del Bauhaus, che colma un buco storico e inizia
a far emergere l’”altra metà dell’avanguardia”, offrendo un
tributo alla creatività e alle specifiche qualità progettuale di
un gruppo di donne che, emarginate dall’area professionale
del design, hanno apportato un originale e significativo contributo nell’area soft del design.
Invece, Isabelle Anscombe, con il suo A Woman’s Touch,
offre un esempio di women-designer approach. Pone attenzione alle donne designer che hanno partecipato alla storia
dei principali movimenti di design dal 1860 in poi, dando
però più rilievo a quelle progettiste che sono riuscite ad accedere nell’area maschile del design, pur adombrate spesso dai
designer uomini con cui erano associate, come Eileen Gray e
Charlotte Perriand. Questo libro riscopre e approfondisce numerose esperienze professionali femminili all’interno della
storia del design, ma senza contraddire la canonica linea interpretativa, che vede in Nikolaus Pevsner il suo più accreditato sostenitore, caratterizzata da “pionieri” uomini e fondata
sul tradizionale rapporto gerarchico e duale tra artigianato e
industria, forma e funzione, arti decorative e design e pertanto tra donne e uomini. C’è però un bisogno urgente, come
afferma la Attfield, di portare alla luce il lavoro di “pionieri”
donne per fornire modelli di ruolo alle giovani progettiste
che nell’abbracciare la carriera del design si trovano oggi di
fronte ad una situazione dominata dagli uomini e in cui non
sono le benvenute. Per far emergere l’”altra metà dell’avanguardia” si è sviluppata una profonda riflessione sull’identità
82
di genere delle donne come designer, che ha consentito di
mettere a fuoco, da una prospettiva femminista, le caratteristiche di quell’“alterità” ormai riconosciuta come un valore
e una ricchezza.
Nella sintesi di una sua ricerca sulla specificità del contributo delle donne nell’architettura e nelle arti applicate,
Laura Castagno sostiene che “il lavoro delle donne - nel
campo della soluzione dei problemi della quotidianità – la
casa, gli strumenti d’uso, la decorazione – è sempre una visione dall’interno del problema, una conoscenza strutturale
e mai sovrastrutturale, ricevuta da altri, come è molte volte
per l’uomo. È la conseguenza del doppio ruolo che svolge
la donna intellettuale, che sempre pensa a se stessa e moltissime volte deve pensare anche agli altri”. Inoltre l’esclusione che la donna ha subito nel tempo in molti aspetti della
vita lavorativa e sociale non le ha impedito di sviluppare una
propria sensibilità nei confronti dello spazio e degli oggetti,
sensibilità dovuta a secolari abitudini domestiche, che però
si differenzia da quella maschile. Infatti, secondo Daniela
Grassi, “la donna tende ad una spazialità più minuta, legata al quotidiano, molto più interiore, il suo rapporto con la
natura non è di dominio ma di fusione. L’uomo invece predilige una spazialità monumentale, meno legata alla dimensione umana, espressione della forza dominatrice e carica di
tensione verso l’immortalità; la donna inoltre sembra essere
più attenta ai bisogni sociali e meno desiderosa di imporre la
propria personalità”. Ed in un numero di Ottagono, dedicato
a “Donne e Design”, Claudia Donà esalta le peculiari capacità delle donne come designer, sottolineando che la differenza di gender non è determinata biologicamente ma costruita
culturalmente: “una donna è sempre una grandissima designer non perché ha la facoltà di progettare e portare dentro di
sé la vita, ma perché possiede infinite e straordinarie capacità
per sopportare e trasformare il mondo”.
La rivalutazione della differenza di genere, questa volta
in favore delle donne, è un’operazione critica molto delicata
in quanto rischia di riproporre, ribaltati gerarchicamente, gli
stereotipi sociali di gender prodotti dalla cultura occidentale,
che associavano la “femminilità” al concetto di “natura” e
la “mascolinità a quello di “cultura”, innescando quindi un
processo di “auto-discriminazione” dovuto alla convenzionale logica duale attraverso la quale si costruisce l’identità
femminile in contrapposizione a quella maschile.
Nei primi anni del 2000 si sono organizzate due mostre
su donne e design, una negli Stati Uniti (novembre 2000) e
una in Italia (marzo 2002), che sono significativi esempi di
come si può riflettere sull’identità femminile nel design senza cadere nel suddetto processo di “auto-discriminazione”,
lavorando sulla differenza di genere come la principale ma
non esclusiva categoria di analisi.
La mostra Women Designers in the USA, 1900-2000: Diversity and Difference, tenutasi al Bard Graduate Center
for Studies in the Decorative Arts di New York e curata
dall’inglese Pat Kirkham, è il risultato di un’ampia ricerca
che aveva l’obiettivo di analizzare il lavoro delle donne designer che hanno operato negli USA nel XX secolo, definito da
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alcuni come “Il secolo delle donne”. La mostra e i saggi del
relativo catalogo, scritti da teoriche, critiche d’arte, designer,
hanno messo a fuoco una definizione di design ampia ed “inclusiva”, non solo perché hanno preso in esame tutti i campi
della produzione artistica e di oggetti d’uso - dal ricamo, alle
carte da parati, alla ceramica, al cinema, al product design ma soprattutto perché alla differenza di genere, come prima
categoria di analisi, hanno intersecato le diversità culturali
ed etniche, includendo progettiste americane, afro-americane
ed europee, proponendo quindi una riflessione complessa sul
confronto tra le diverse aree del design e sulle relazioni tra
razza e gender. L’obiettivo ultimo era quello di mettere a
nudo i meccanismi insiti nei processi di emarginazione culturale e sociale, rivalutando l’importanza e la ricchezza della
diversità culturale e di pensiero e superando gli stereotipi,
le gerarchie, i dualismi, legati alla differenza di genere e di
razza.
In modo analogo, la mostra Dal merletto alla motocicletta.
Artigiane/artiste e designer nell’Italia del Novecento, tenutasi alla X Biennale Donna di Ferrara e curata Anty Pansera,
analizzava e faceva il punto sul contributo della progettualità
e creatività italiana “al femminile” nel XX secolo ed è il risultato di una non semplice ricerca condotta per riportare alla
luce e mappare le opere delle donne artigiane, artiste e designer e valutare i loro differenti ruoli nel processo di crescita
della disciplina del disegno industriale dalle cosiddette “arti
decorative e applicate” al design e nell’enorme ampliamento
del campo d’intervento di questa disciplina “dal merletto alla
motocicletta”. Questa mostra ha contribuito, quindi, a delineare una concezione della professione e della disciplina del
disegno industriale, che non si limita all’area maschile del
product design e che invece “include” e valorizza tutti quegli
ambiti, considerati finora marginali, in cui le donne hanno
più a lungo potuto sperimentare la loro creatività e le loro
capacità progettuali.
Queste due mostre sono state il tentativo di trovare spazio
per nuove dimensioni del design ancora poco esplorate, di
abbattere le classiche gerarchie tra arte, artigianato e design
e di contribuire allo sviluppo di una storia del design più
“inclusiva” rispetto a quella prodotta dalla cultura moderna,
fondata sul paradigma dei “pionieri” e che considera come
oggetto privilegiato di studio il prodotto industriale di massa.
Ed infine, per completare questa rassegna sul contributo
dei Gender Studies, è necessario accennare ad una serie di
studi sull’impatto degli oggetti materiali nella costruzione
dell’identità di genere e sulle relazioni tra gender e design
degli oggetti d’uso quotidiano. Tali ricerche sono molto interessanti perché forniscono una nuova chiave di lettura degli
oggetti di design, visti come uno dei più potenti amplificatori
delle convenzioni sociali sulle differenze sessuali e quindi un
fattore determinante nella costruzione dell’identità sessuale.
Come afferma Ellen Lupton, negli ultimi due secoli la gente ha sempre più definito il proprio sé attraverso i prodotti
che acquista e utilizza. Una persona costruisce la sua identità
come femmina in parte anche mediante gli oggetti materiali
e le immagini che circondano le sue attività quotidiane. “Ma-
scolinità” e “femminilità” sono costruzioni culturali prodotte
dall’adattamento agli stereotipi sociali di sessualità, nel quale gioca un ruolo determinante proprio l’impatto e la consistenza dei segni, delle immagini e delle rappresentazioni
utilizzati nell’arte, nei prodotti di consumo, nella pubblicità.
Il design quindi contribuisce in modo significativo a definire
l’identità di genere.
Martha Zarza, ricercatrice presso la School of Design alla
Mexico State University, studia le relazioni tra gender e oggetti d’uso quotidiano, i modi in cui le aspettative culturali di
genere vengono comunicate attraverso gli oggetti della vita
quotidiana, le loro caratteristiche fisiche, il loro design. Zarza sostiene che gli oggetti sono tra i più potenti supporti di
significato nella nostra società. Sono veicoli per la trasmissione di segnali; ogni aspetto della loro forma e del loro colore veicola messaggi sugli stili di vita ideali, sulle legittime
aspirazioni dei consumatori, sull’identità di genere. L’interrelazione tra gender e oggetti è una delle componenti fondamentali del quadro di riferimento culturale, che costituisce il
nostro senso di identità sociale. La maggior parte degli spazi
e degli oggetti della vita quotidiana sono connotati sessualmente. Attraverso il design e la pubblicità degli oggetti si
veicolano precise nozioni di “femminilità” e “mascolinità”,
anche se molto spesso non ce ne rendiamo neanche conto
poiché le riteniamo naturali in quanto conformi alle nostre
convenzioni sociali sulla differenza di genere tra uomini e
donne.
Pat Kirkham e Judy Attfield, in una importante raccolta
di saggi dedicati ai gendered objects, sostengono che le relazioni tra oggetti e gender sono definite in modo da essere
accettate come “normali” e quindi da diventare addirittura
“invisibili”. Per studiare i gendered objects è necessario
collocarli sia nel contesto storico che nella sfera del consumo,
evidenziando inoltre le relazioni tra gli oggetti e chi li usa, li
indossa, ecc. Solo così può essere rilevato il reale significato
delle relazioni di genere veicolato dagli oggetti d’uso.
Secondo Zarza, è impossibile separare la funzione di
un prodotto dalla sua immagine. Quando acquistiamo un
oggetto noi consumiamo un mix del prodotto e del suo
significato. Una delle più importanti implicazioni dei
prodotti “sessualmente differenziati” è che sottendono e
alimentano differenti capacità cognitive e sociali. I prodotti
sono potenti comunicatori di ciò che gli uomini e le donne
dovrebbero essere e fare. Pertanto noi dobbiamo essere
disposti a riconoscere i valori e le identità che l’immagine di
quei prodotti promuove.
Il design degli oggetti d’uso quotidiano, quindi, trova spiegazione anche attraverso le nozioni di “femminile” e “maschile” in quanto spesso le qualità formali e gli attributi fisici di un prodotto dipendono dalle convenzioni sociali sulla
differenza sessuale. Colori e linee sono i principali elementi
della differenza di genere in un prodotto: ad esempio, colori
tenui, pastello, linee curve, morbide e forme organiche ed
ergonomiche per i prodotti femminili; colori scuri o metallici, linee rette e spigolose, forme geometriche per quelli maschili. Se questi elementi fossero insufficienti, il packaging
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rinforza ulteriormente la differenza di genere.
La differenziazione sessuale degli oggetti è sempre
esistita. Il design ha sempre contribuito ad imprimere
caratteri sessuali agli oggetti, così come ad “addomesticare” e “umanizzare” gli strumenti, le macchine, le
apparecchiature e gli oggetti che entravano a far parte della vita domestica. Ma come sostengono gli studi
sui gendered objects, oggi, più che mai, nei prodotti di
consumo si stanno rafforzando le tradizionali nozioni di
gender. In molti casi, inoltre, la differenziazione di genere dei prodotti non è giustificata e rappresenta, come
sostiene la Attfield, solo una strategia per migliorare il
mercato attraverso l’introduzione di novità e la diversificazione del prodotto. Sono numerosissimi i prodotti
in cui è evidente la differenziazione tra i sessi e che
sottendono identità di genere e comportamenti sociali
stereotipati. Basta guardare i prodotti sugli scaffali del
supermercato (ad es., rasoi for men e rasoi for women,
prodotti di consumo per lui e per lei), per non parlare di
quando si entra in un negozio di giocattoli dove addirittura i prodotti sono differenziati in reparti per maschi
e reparti per femmine. Si tratta di strategie di marketing e di differenziazione dei prodotti per incentivare
i consumi, vissute spesso inconsapevolmente dai consumatori (anche dalle mamme e dai papà). Nonostante
il dibattito sull’identità di genere e sull’importanza del
ruolo del design di prodotto rispetto agli stereotipi di
genere, l’industria continua ancora oggi a puntare moltissimo sulle differenze di genere (maschile vs femminile, blu vs rosa, spigoloso vs arrotondato, automobili
vs bambole) e a rafforzare ruoli sessuali stereotipati in
uno scenario contemporaneo che invece necessita fortemente di inclusività e di pari opportunità.
È necessario quindi acquisire un punto di vista critico
verso gli oggetti connotati sessualmente che ci consenta
di renderci consapevoli delle tradizionali nozioni di genere che il design spesso sostiene e riproduce, e avere
così la possibilità e la libertà di scegliere se riprodurre i
modelli culturali sulla differenza di genere che abbiamo ereditato, acquistando prodotti con superficiali attributi di genere o domandare oggetti in cui siano evidenti i reali benefici
apportati dal design.
Pertanto, acquisire questa nuova prospettiva critica sugli
oggetti e sul design, come contributo dei Gender Studies,
significa, in primo luogo, diventare consumatori, uomini e
donne, senza dubbio più consapevoli nelle proprie scelte di
acquisto e, in secondo luogo, per i designer essere più responsabili del loro ruolo nello sviluppo di nuovi prodotti
riguardo la costruzione dell’identità sociale di genere e la
riproduzione di stereotipi comportamentali non più adeguati
alla società contemporanea.
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Simulare non basta. Donne, arte e
“realtà aumentata”
GIULIANA GUAZZARONI
Adam, Accademia delle Arti Macerata
ACCRESCERE LA REALTÀ: UN SIMULACRO
M
POSTCONTEMPORANEO
olti studi indicano come una nuova
generazione di dispositivi tecnologici incontra maggiore favore e accettazione da parte di utilizzatori di genere maschile (Wajcman,
2000). Tuttavia, si evidenziano elementi che ne
identificano usi diversi e d’interesse per la ricerca
nel settore.
Le tecnologie digitali possono permettere forme d’ibridazione tra la carne e gli oggetti tecnologici all’interno di spazi virtuali o reali; si tratta
di processi interattivi che possono contribuire alla
“ridefinizione della relazione tra identità e tecnologia, tra tecnologia e corpo” (Mainardi, 2013).
È difficile vivere “coltivando la credenza in una
stabilità del reale e in una governabilità dei flussi
informativi”. Ambienti reali mescolati a elementi
virtuali possono sovvertire schemi cognitivi e paradigmi acquisiti e possono impedire di mettere a
frutto pratiche interattive ed esplorarne potenzialità (Caronia, 1996). Parliamo di ambienti reali
accresciuti, attraverso sistemi informativi, che
permettono uno slittamento tra la sperimentazione della realtà reale, percepita attraverso gli organi di senso, e la realtà manipolata elettronicamente al fine di creare esperienze virtuali specifiche.
Vito di Bari in 2015 weekend nel futuro
(2004), definisce la realtà aumentata come: l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante
informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che normalmente non sarebbero percepibili con
i cinque sensi. Come a dire quindi che senza la tecnologia
non avremmo modo di dare libero sfogo alle nostre emozioni. Ed è principalmente attraverso la tecnologia della realtà
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aumentata che è possibile accrescere un ambiente fisico di
elementi iperreali che siano in grado di presentare l’oggetto
e il suo segno invisibile. Parliamo di una sorta di simulacro
postcontemporaneo necessario al fine di definire un qualsiasi
oggetto comunicativo, sia esso un prodotto in uno scaffale
di un ipermercato sia esso un oggetto artistico. Jean Baudrillard riferendosi alla società contemporanea tecnologica e
multimediale introduce l’iperreale costituito da “simulazione” e “simulacri”, quali sono la realtà virtuale e gli oggetti
sintetici.
Il Web oggi è il mondo, un territorio dematerializzato in
cui ognuno riflette un set di dati che sono catturati e processati al fine di restituire notevoli potenzialità. Le trasforma-
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
zioni del Web rappresentano un processo inarrestabile in cui
è possibile leggere un futuro caratterizzato da elementi che
si accorpano, realtà moltiplicate e dati aggiuntivi. Gli oggetti
concreti proiettano un’ombra composta da un bagaglio di informazioni che si riproducono nel cyberspazio. Ogni persona
possiede un determinato numero d’informazioni elettroniche
che la seguono, esattamente come la propria ombra e che si
riverberano nelle caselle di posta elettronica, nei profili di
Facebook o di Twitter. Un prodotto è etichettato con una serie d’informazioni specifiche che lo identificano in maniera
univoca. È l’Internet degli oggetti, che si avvale di quanto gli
oggetti recano, per innescare connessioni attraverso strumenti mobili e informazioni contenute nelle cose (O’Reilly &
Battelle, 2009). Smartphone e tablet permettono la comunicazione con l’ombra che aderisce a ogni soggetto e oggetto.
Con un cellulare in mano è anche possibile offrire esperienze
educative o di fruizione dell’arte adatte a molteplici esigenze
o accedere a servizi di varia natura, adeguati a differenti tipologie di fruitori in ambienti reali come la scuola, il quartiere,
il museo, la galleria d’arte. L’interazione con gli oggetti e i
luoghi reali alimenta la partecipazione attiva, l’interscambio
di informazioni; stimola racconti, impressioni, emozioni che
l’utilizzatore vive durante la giornata (Guazzaroni & Leo,
2011; Guazzaroni, 2012a; Guazzaroni, 2012b).
Nelle esperienze analizzate in questo articolo si evidenziano alcune differenze di genere nella fruizione di opere artistiche manipolate elettronicamente attraverso la tecnica della
realtà aumentata.
Queste esperienze sono state inserite e monitorate in tre
eventi artistici:
1. La collettiva “Muri e divisioni” tenutasi nel 2013 presso
la Galleria Galeotti di Macerata;
2. La collettiva “Mon appétit” del 2014 presso l’Espace
Beaurepaire di Parigi;
3. La mostra personale “Détrône, defrag, detox”, inserita
nel circuito Plus del Set Up Art Fair bolognese del 2015.
In ognuno di questi eventi, alcune delle opere in mostra ha
subito un processo di manipolazione informatica per diventare un oggetto mutante, un simulacro, nelle mani dei visitatori. Fili conduttori invisibili offrono una lettura che va oltre
l’immediata percezione dell’opera d’arte, attraverso i cinque
sensi, per arrivare all’essenza degli oggetti in mostra. Si
sfrutta, inoltre, il concetto di BYOD (“bring your own device”, in altre parole un invito a portare con sé il proprio tablet
o smartphone) sempre più diffuso nelle pratiche quotidiane
del pubblico attivo delle mostre.
MURI E DIVISIONI UNA PERFORMANCE DEDICATA A
GIUSEPPE VERDI
La collettiva “Muri e divisioni”, a cura di Adam Accademia delle Arti Macerata, si è tenuta dal 18 luglio al 29 settembre 2013 nei locali della Galleria Galeotti. La collettiva
d’arte rientra nel programma della quarantanovesima stagione lirica dell’Opera Festival. La realtà aumentata rappresenta un itinerario musicale verdiano all’interno della collettiva
(Dio di Giuda, S’appressan gl’istanti e Va pensiero dal Nabucco, Di quella pira, Tacea la notte placida, Terzetto Anima
mia! e Stride la vampa dal Trovatore) che ha accresciuto di
elementi comunicativi sette delle opere in mostra, ovvero i
quadri degli artisti: Simona Breccia, Hernàn Chavar, Dorian
X, Gabriella Gattari, Luna Simoncini, Marco Temperini e
Tomas.
Amplificare la realtà attraverso contenuti aggiuntivi è
un’esperienza sempre più diffusa in tutti i settori. Arte e edutainment non ne sono esclusi, anzi rappresentano un campo
piuttosto rilevante di applicazione della realtà aumentata.
Esperienze digitali applicate alla promozione e allo sviluppo di eventi e luoghi legati all’arte e alla cultura, emergono
ogni giorno. Reinvenzioni metodologiche della realtà, volte
al rilancio culturale locale possono rappresentare esperienze
in grado di offrire un richiamo più vasto con luoghi ed eventi,
finalizzati ad agire nel promuovere lo sviluppo di movimenti
artistici. Ne è un esempio la performance di “Muri e divisioni” che ha celebrato il bicentenario della nascita di Giuseppe
Verdi con un’esperienza coinvolgente per il pubblico.
La realtà aumentata ha rappresentato una fruizione dell’arte giocosa e dinamica, portando il visitatore a uscire dal suo
guscio e spingendolo all’interazione multimediale. Con la
Realtà Aumentata le opere d’arte, non soltanto vengono amplificate attraverso il suono, ma prendono vita, si muovono,
si animano, attraverso la musica e il movimento creando una
performance che sovrappone elementi reali a sintetici contaminando e trasformando l’opera d’arte originale.
L’esperienza è stata preparata con cura al fine di creare
uno spettacolo gioioso, dove la tecnologia è concepita come
piacevole e leggera. Per raggiungere quest’obiettivo, poiché
la realtà aumentata non è una pratica quotidiana per la maggior parte degli ospiti, un primo esecutore (performer) è stato
introdotto per animare la galleria e per mostrare come giocare con la musica di Giuseppe Verdi e gli AR-moulded-object
(oggetti modellabili creati attraverso la tecnologia della realtà aumentata).
Come già emerso dal monitoraggio di esperienze precedenti, le performance di realtà aumentata che prevedono un
pubblico attivo dovrebbero essere suddivise in 7 fasi, secondo un modello pedagogico, per alleggerire l’impatto tecnologico (Guazzaroni, 2013a; Guazzaroni, 2013b).
Nello specifico, le prime fasi sono importanti, qui il primo performer agisce da attivatore dei neuroni specchio del
pubblico attraverso la sua azione concreta. I neuroni-specchio si attivano sia quando l’individuo compie un’azione,
sia quando egli vede compiere quell’azione. Sono neuroni
che si attivano sia per cause sensoriali (vedere l’azione) che
per finalità motorie (compiere l’azione). Sono cellule nervose del cervello che si attivano quando vedono qualcun altro
compiere un gesto (primo performer) (Rizzolatti & Sinigaglia, 2014). Questi neuroni, quindi, “riflettono”, come uno
specchio quello che vedono nel cervello altrui. Si tratta di
una facoltà del nostro sistema nervoso fondamentale per la
comprensione e l’apprendimento (Guazzaroni & Compagno,
2013).
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ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
Le esperienze di realtà aumentata create per l’evento espositivo hanno modificato le opere d’arte. Di conseguenza la
realtà aumentata ha cambiato il tocco della mano dell’artista.
Nella prima fase del progetto, è stata realizzata un’analisi
delle opere selezionate e della filosofia degli artisti.
Questo studio è stato diviso in due fasi:
1. Analisi del testo che ciascun artista ha proposto al comitato organizzatore, per evidenziare il significato delle opere
selezionate;
2. Incontro con gli artisti selezionati per esplorare gli oggetti e le scelte dei loro dipinti.
Di seguito è iniziato: l’ “Interaction Design Process”.
La maggior parte dei partecipanti ha dichiarato di aver
veramente apprezzato la realtà aumentata (60%), il 20% ha
detto di averla apprezzata e il 20% ha dichiarato di essere riuscito ad apprezzarla poco. Per il 48% del pubblico l’attività
svolta ha fortemente promosso un legame emotivo con l’arte
contemporanea. Per il 36% dei visitatori l’attività svolta ha
promosso un legame emotivo e per il 16% l’ha appena promosso. La maggior parte dei visitatori ha dichiarato di voler
raccomandare davvero esperienze realtà aumentata ad altre
persone (68%), il 16% raccomanda tali esperienze e difficilmente le consigliano il 16%. Per quanto riguarda la difficoltà
tecnologiche, la maggior parte del pubblico non ha avuto difficoltà (80%), mentre il 20% ha dichiarato di aver incontrato
qualche problematica nei loro smartphone o tablet.
La valutazione ha rivelato che la maggior parte dei visitatori ha vivamente apprezzato la realtà aumentata. Questa
contribuisce a creare un’esperienza attiva e fa abbandonare
l’apatia del ruolo dell’utente in una galleria d’arte tradizionale. I migliori risultati riguardano la giocosità delle performance. Una sorta di circo contemporaneo allo stesso tempo
ludico e didattico, basato sulle proprietà mutevoli e imprevedibili dei nuovi oggetti comunicativi, così come sul coinvolgimento del visitatore – invitato da un primo esecutore a
entrare in un mondo surreale.
La performance di realtà aumentata ha promosso un legame emotivo con l’arte contemporanea. Inoltre, la maggior
parte degli spettatori avrebbe consigliato tali esperienze ad
altre persone. L’intera esperienza ha originato un format per
gallerie d’arte contemporanea. Qui i moulded-objects sono
gli elementi di base per creare un nuovo linguaggio della
comunicazione artistica sulla base della tecnica della realtà
aumentata (Guazzaroni & Compagno, 2013).
“Muri e divisioni”, pur non essendo stata designata come
una performance di genere, dall’osservazione diretta del
pubblico attivo e performante sono state rilevate alcune
differenze a riguardo. Alcuni commenti lasciati da visitatrici che si sono appassionate alla realtà aumentata riportano
come questa sia un elemento necessario e giocoso per arrivare a una comprensione dell’opera d’arte più profonda e
reale della realtà materica stessa. Inoltre, l’elemento surreale
di rappresentazione circense postcontemporanea si addice al
gusto femminile, al lasciarsi andare, all’abbandonare la riluttanza alla passività della visita in una galleria. Mettersi
in gioco, accendere lo smartphone e performare la visita. In
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questo l’osservazione diretta riporta una maggiore componente femminile. In contrapposizione con la tendenza più
maschile a chiedere informazioni sul come funziona tecnicamente e ad ascoltare il performer, ponendo domande piuttosto che performando le azioni.
NUTRIRE GLI APPETITI CARNALI, LA PERFORMANCE
PARIGINA DI “MON APPÉTIT”
Il nutrimento è alla base dell’esperienza della collettiva parigina “Mon Appétit” e, sempre il nutrimento, lega l’interno
delle cittadine di provincia, racchiuse dalle strette mura urbiche all’esterno dell’esposizione internazionale, restituendo
il piacere per il glocalismo promosso a ragione dal sociologo
Zygmunt Bauman.
La fertilità della terra marchigiana nutre gli artisti ne stimola idee e appetiti, voglia insaziabile di creare e ricercare
l’altrove oltre la cinta muraria. L’occasione è stata l’esposizione agroalimentare SIAL di Parigi e l’idea di legare a
quest’evento una collettiva di artisti marchigiani selezionati
da un comitato di garanzia dell’Adam Accademia delle Arti.
Artisti selezionati sono stati invitati a esporre opere aventi
come tema il cibo, l’appetito, la fame, il desiderio presso l’Espace Beaurepaire, a Parigi, dal 19 al 25 ottobre 2014.
All’interno dell’esposizione è stato creato un sotto percorso attraverso la tecnologia della realtà aumentata come strumento portante.
L’idea di base è stata di sviscerare, ma anche deframmentare, il lavoro che ha portato l’artista a restituire al pubblico
l’opera in esposizione. Il risultato è stato piuttosto interessante.
In base all’esperienza precedente di “Muri e divisioni”
sono stati reclutati partecipanti disposti a mettersi in gioco,
a stare al gioco, a farsi osservare dentro il loro laboratorio o
anche disposti a donare qualcosa di quel lavoro che sta dietro
le quinte e che normalmente non viene riportato.
Alcune opere tuttavia non sono state ritenute adatte a questo lavoro sia per contenuti sia per forma espressiva.
Di seguito i nomi degli artisti selezionati per il percorso di
realtà aumentata:
Ilaria Beretta, Sandro Bisonni, Hernan Chavar, Irene Dipré, Maurizio Meldolesi, Michele Mobili, Federica Papa,
Sara Perugini e Tomas.
Osservando e chiacchierando con i singoli artisti, il lavoro della realtà aumentata ha proposto nello specifico quanto
segue:
L’opera di Ilaria Beretta offre in realtà aumentata una suggestione riguardante l’idea portante che ha ispirato il suo
lavoro: non dimenticare i bravi maestri e come da questi abbiano preso forma i primi schizzi tessili in fibra di carbonio.
La Venere di Sandro Bisonni, si sdoppia, grazie alla tecnologia, per arrivare a svelare l’ispirazione classica dell’opera.
I quadri di Hernan Chavar, grazie alla realtà aumentata,
rivelano colori omessi, teschi, casse toraciche, inflorescenze
e ispirazioni personali che permettono al visitatore di vedere
uno spaccato più vero della sua produzione artistica.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
La dea madre di Irene Dipré, rivela alla realtà aumentata,
l’alter ego dell’artista. Il suo volto sincero emerge dall’autoritratto per strizzare l’occhio al visitatore e indurlo a portare
offerte propiziatrici a New Era/Giunone del trash, nutrice e
distruttrice allo stesso tempo.
Le opere di Maurizio Meldolesi mutano al passare dello
smartphone, rivelando immagini di scena costruite ad hoc
dall’artista stesso. “La realtà ti sembra questa, ma potrebbe
essere anche quest’altra” – sembrano affermare i cibi e le
bevande nell’atto stesso di essere consumate, trasformate in
simulacri.
I nudi di Michele Mobili, anch’essi mutano al passare
dell’obiettivo giocando sul chiaro scuro e sui punti di vista
dell’osservatore.
Le fotografie di Federica Papa sono poste l’una accanto
all’altra, cercando bene c’è un uomo più anziano ed è lui
che si modifica attraverso la realtà aumentata. Gioventù e
movimento emergono dalle cicatrici, armoniche forme non
rivelate all’occhio nudo.
Il lavoro di Sara Perugini è arricchito dalla realtà aumentata, l’artista ha deciso di mettersi in gioco scrivendo e descrivendo i passaggi e le motivazioni che l’hanno condotta alla
realizzazione dei pesci presenti nell’istallazione.
La complessa opera di Tomas rivela, al passaggio della realtà aumentata, l’intimo legame che la lega al suo creatore.
Aprire il proprio laboratorio non è facile, significa affidarsi.
Lui decide di farlo e restituisce così al visitatore della galleria
una vera e propria superficie specchiante che rivela gesti e
forme non scontati. Gesti e forme racchiusi in “Ma boucherie” rappresentano una suggestione pronta per essere rilevata
da uno smartphone e che testimonia alcuni passaggi della
creazione del quadro stesso.
L’arte, espressione irrefrenabile dello spirito umano, in
ognuna delle molteplici forme riflette il simbolo della realtà
ultima delle cose in una fusione dinamica fra il sé del microcosmo e il macrocosmo dell’universo. Una spinta inarrestabile, un appetito di ricerca che ci innalza permettendo al
finito di diventare infinito, assumendo un significato universale. Ed è proprio qui che l’esperienza dei percorsi in realtà
aumentata si innesca per aprire nuovi orizzonti al senso di
“compiutezza” dell’opera artistica esposta in galleria.
Un “volo continuo” verso una nuova “compiutezza” che
apre i confini del microcosmo per aprirsi all’”incompiutezza”
del tendere verso il macrocosmo infinito (Ikeda, 2013).
La componente femminile partecipante ha rilevato uno
spiccato interesse verso quest’ultimo aspetto. Il volo continuo verso nuovi orizzonti, la spinta verso un’apertura artistica ibridata dalla tecnologia per accrescere la realtà. D’altro
canto la componente maschile ha richiesto di portare in realtà
aumentata non solo elementi artistici, ma anche informativi.
Il visitatore che utilizza la realtà aumentata, secondo alcuni
uomini, potrebbe gradire vedere scorrere del testo in trasparenza con:
1. La biografia dell’artista e la “filosofia dell’arte” dell’opera raffigurata;
2. Il curriculum con le principali mostre fatte;
Détrône, defrag, detox al Set Up Plus di Bologna
3. L’eventuale possibilità di visualizzare altre opere significative.
Mettersi in gioco e performare, anche in questo evento
sembra essere stata più una caratteristica del genere femminile. Alle donne il contributo di accogliere l’arte con leggerezza, verso un continuo volo infinito.
DÉTRÔNE, DEFRAG, DETOX AL SET UP PLUS DI
BOLOGNA
La personale Détrône, defrag, detox – inserita nel circuito Plus del Set Up Art Fair bolognese ha avuto luogo dal 22
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ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
al 25 gennaio 2015 – proponendo l’opera pittorica dell’artista marchigiano Tomas attraverso tre percorsi, personalizzabili da parte del pubblico, al fine di arrivare a cogliere gli elementi essenziali e di frontiera inerenti la ricerca dell’artista.
Tre fili conduttori, tracciati già nel titolo stesso del progetto
espositivo – détrône, defrag, detox – offrono una lettura che
va oltre l’immediata percezione dell’opera d’arte, attraverso
i cinque sensi, per arrivare all’essenza delle linee primarie
che uniscono e dividono le figure.
I tre fili conduttori, scalabili e personalizzabili attraverso la
tecnologia e la metodologia delle realtà aumentata, si presentano al pubblico come tre diversi canali multimediali:
Détrône: Canale dedicato ai più piccoli (“Kids”) che letteralmente mette in prospettiva, deponendoli dal loro trono,
i personaggi mitologici e archetipici presenti nei quadri (a
questo si abbina un laboratorio con la tecnica del collage e i
materiali di riuso per le scuole primarie);
Defrag: Canale dedicato ai più grandi (“Visitors”) che deframmenta le linee essenziali presenti nella sovrapposizione
di elementi pittorici e/o materici;
Detox: Canale dedicato ai più giovani (“Young”) che toglie tossine e rappresenta l’epifania spirituale del percorso
artistico dell’autore. È dedicato alla cultura pop e post-contemporanea.
Tre differenti piani narrativi s’intrecciano e attraversano
uno stesso spazio espositivo, amplificandone le percezioni
sensoriali. Fili invisibili a occhio nudo che rappresentano una
mappa geografica emozionale della ricerca artistica di Tomas
(per essere fruiti richiedono dispositivi portili e un’applicazione scaricabile gratuitamente per Android e iOS).
Percorsi di frontiera, dal multilinguismo del titolo del progetto espositivo, arrivano dapprima a togliere timore reverenziale ai personaggi mitologici, restituendone gli aspetti
giocosi (détrône); si toglie dal trono la loro autorevolezza,
per arrivare poi a deframmentare le informazioni, fino a ottimizzarle e ricollocarle attraverso il collage. Giochi percettivi
neuronali che specchiano e intersecano superfici altre (defrag); infine, si arriva a uno stato percettivo depurato da elementi tossici. Linee essenziali ispirate a visioni quotidiane,
contemporanee (detox).
L’esposizione ha occupato due luoghi uno reale e l’altro
virtuale:
Le Fucine Vulcaniche – Bologna Canale di Realtà aumentata attraverso Daqri, un app
gratuita per Android e iOS.
Questi luoghi/non-luoghi contenevano al loro interno
mappe invisibili che il visitatore più tecnologico ha percorso
al fine di arrivare a osservare le frontiere intime delle opere
di Tomas. Linee essenziali che uniscono e dividono e che
costituiscono l’essenza eterea dei lavori pittorici.
Il primo percorso espositivo è stato integrato attraverso il
canale “détrône” dedicato ai più piccoli. Qui sono stati inseriti i lavori d’ispirazione mitologica, onirica o biblica. A
volte, alcune di queste figure potrebbero essere percepite
come inquietanti, necessitano di essere deposte da questi ri90
ferimenti per essere riportate in un piano percettivo più leggero e ludico attraverso un gioco performativo che s’ispira
alle favole e filastrocche della tradizione. Detronizzare, si
riferisce anche a personaggi come Re Lear di Shakespeare
che abdica in favore delle due figlie malvagie, accecato dalla
propria percezione deforme della realtà. La figura del matto,
in questo caso, riporta continuamente il Re pazzo alla realtà
dei fatti attraverso filastrocche e simulazioni performative.
Un matto diviene più autorevole e saggio di un Re.
Il secondo percorso è inerente la filosofia dell’artista, si
abbina al canale “defrag” e si sviluppa attraverso la deframmentazione informativa degli elementi presenti nei quadri
per arrivare all’essenza stessa dell’opera. Mappature emozionali sono alla base dei percorsi non lineari di frontiera. I
frammenti dei collage riflettono il modo di percepire l’ambiente interiore ed esteriore del cervello umano. Superfici
specchianti, riflessi, immagini non scontate riportano alla
recente scoperta dell’azione dei neuroni specchio (Rizzolatti
& Sinigaglia, 2014). Cellule del cervello che si attivano compiendo azioni e vedendo altri compierle. I neuroni specchio
permettono al cervello umano di capire chi ci sta di fronte,
senza che sia necessario un ragionamento complesso. Inoltre, preparano il sistema nervoso a imitare le azioni degli altri
e a entrare in empatia con gli interlocutori. I diversi piani
informativi dei collage di Tomas riflettono una percezione
umana deframmentata e restituita da più punti di vista che si
specchiano reciprocamente l’uno nell’altro. La deframmentazione delle informazioni è ricollocata dall’artista secondo
nuove superfici percettive che mutano attraverso le interrelazioni umane quotidiane.
Nel terzo percorso dalla deframmentazione di tutti gli elementi informativi percepibili si passa al loro alleggerimento attraverso il setaccio del filone “detox”. Dedicato ai più
giovani, questo percorso presenta temi legati all’esperienza
percettiva di tutti i giorni. Questi soggetti rivelano, attraverso il canale dedicato, tratti leggeri e aeriformi. Questi restituiscono gli effetti di una percezione distorta per arrivare
all’essenza della filosofia dell’autore e alla ricerca ultima di
leggerezza e consapevolezza giovane.
Partendo dunque da figure archetipiche vicine a personaggi quali Re Lear, si passa per una deframmentazione percettiva delle informazioni e dei personaggi (Minotauro, Ruggero
e Angelica, San Giorgio e il drago, San Giovanni Battista
ecc.), per arrivare infine a una sorta di epifania spirituale
post-contemporanea. Questa si esplica in opere che presentano soggetti distinti da tocchi leggeri. Questi ultimi sembrano
aver rielaborato la tossicità dei falsi miti per rinascere finalmente consapevolmente giovani.
Dall’osservazione diretta del pubblico, è emerso, anche
qui, come il genere femminile abbia performato i tre fili conduttori con leggerezza, mettendo in gioco lo stupore di percorrere a ritroso i passi dell’artista. La componente maschile,
viceversa ha indagato sui contenuti e le applicazioni utili a
sviluppare i percorsi. Studenti e studentesse delle Scuole superiori hanno partecipato all’esperienza rivelando interesse
per i fili invisibili che mutano l’opera d’arte e curiosità per
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
gli elementi digitali che legano il movimento alla materia dei
collage in mostra.
OSSERVAZIONI FINALI
La valutazione ha rivelato come la maggior parte dei visitatori ha vivamente apprezzato la realtà aumentata. Questa
contribuisce a creare un’esperienza attiva e fa abbandonare l’apatia del ruolo dell’utente in una galleria d’arte tradizionale. Qui l’utente rompe il guscio, esce allo scoperto. Il
monitoraggio rivela come sia proprio il genere femminile a
performare con maggiore naturalezza questo ruolo. I migliori
risultati delle esperienze riportate sono relativi alla giocosità delle performance. Una sorta di circo contemporaneo allo
stesso tempo ludico e didattico, basato sulle proprietà mutevoli e imprevedibili dei nuovi oggetti comunicativi e sul
coinvolgimento dei visitatori e delle visitatrici. Questi sono
invitati da un primo esecutore a entrare in un mondo surreale,
possono decidere di vivere con leggerezza e giocosità un’esperienza d’ibridazione tra carne e tecnologia, decostruendo
tassello dopo tassello il concetto d’identità, tornando a essere
bambini e bambine, entrando a far parte di un evento circense, simulacro dell’arte e delle sue infinite forme dialogiche.
La performance di realtà aumentata ha promosso pertanto
un legame emotivo, sentito, forte e consapevole con l’arte
contemporanea. Inoltre, la maggior parte degli spettatori e
delle spettatrici vorrebbe consigliare queste visite ad altre
persone.
L’intera esperienza ha originato un format per gallerie
d’arte contemporanea. Qui i moulded-objects sono elementi
di base per creare un nuovo linguaggio della comunicazione artistica sulla base della realtà aumentata (Guazzaroni &
Compagno, 2013). I quadri e le opere artistiche rimandano
a movimenti e oggetti malleabili, osservabili nei loro moti.
Infiniti rimandi fatti di similitudini e oggetti inafferrabili. Un
invito ad andare oltre i consueti punti di vista, per restituire
una realtà complessa e visioni che si avvicinano al salto creativo quantico, sono alla base delle performance di genere che
risultano dalle esperienze analizzate.
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91
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
La donna cinese nel Nuovo Millennio
CHIARA D’AURIA
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Salerno
L
a condizione femminile nella Cina
contemporanea si colloca all’interno del
più ampio dibattito in corso tra gli studiosi
e nell’opinione pubblica internazionale
sulla modernità della società cinese.
Come evidenziato da Jean Louis Rocca, gli interrogativi
sull’evoluzione del “Paese di mezzo” dalla fine dell’era
di Mao ai nostri giorni talvolta si concentrano
su aspetti precisi e tra questi un ruolo di primo
piano è rivestito dalla situazione della donna e
dalla sua emancipazione1.
Se è vero che la società cinese è diventata
una società di soggetti2 grazie agli effetti delle
politiche di riforme e di apertura promosse da
Deng Xiaoping in poi, all’interno del contesto
storico intercorrente tra la fine degli anni Settanta
e gli anni Duemila emerge con forza l’obiettivo
di realizzazione e di completamento della società
armoniosa (héxié shèhui, 和谐 社会) messo
in atto dalle ultime quattro generazioni della
classe dirigente cinese a partire dalla fine del
periodo maoista. Secondo questo progetto il concetto di
progresso è attivamente costruito dai singoli individui per
il raggiungimento di uno sviluppo economico condiviso da
tutta la società, che è sempre “inclusiva” e mai “esclusiva”,
cioè è diretta alla onnicomprensività di tutti i suoi soggetti3.
Questa duplice spinta verso la modernità presenta
aspetti certamente evidenti anche nel caso dell’analisi
della condizione femminile, poiché se da una parte dal
1. J.-L. Rocca, La società cinese, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 77 e ss.
2. Idem; cfr. anche D. Davis ( a cura di), Urban Spaces in Contemporary
China. The Potential for Autonomy and Community in post-Mao China,
Cambridge, Woodrow Wilson Centre Press, 1995; The Consumer
Revolution in Urban China, Berkeley, University of California Press,
2000.
3. M. Scarpari (a cura di), La Cina, Torino, Einaudi, vol. I, 2011, XVIIXLVII.
92
1949 ad oggi la Cina ha tentato di rafforzare l’uguaglianza
della donna e dell’uomo attraverso politiche sociali
nazionali, dall’altra la liberalizzazione economica si è
accompagnata ad una progressiva liberalizzazione sociale,
negli usi e nei costumi, nella diffusione delle mode, con la
comparsa anche in Cina di una classe di donne emancipate,
economicamente e culturalmente, abituate a viaggiare e
quindi “cittadine del mondo”, esponenti influenti di una
potente gerarchia economica. Si stima, infatti, che in
Cina siano circa 20 milioni le “donne-capo” all’interno
del mondo imprenditoriale e finanziario4. La tecnologia
e l’uso di internet, infine, ha provocato un cambiamento
importante nelle relazioni personali tra uomini e donne,
con una nuova libertà femminile che sembra essere
generalmente condivisa e goduta.
Si tratta di aspetti tuttavia che meritano un
inquadramento più preciso in quanto profondamente
diversa è la percezione della condizione femminile nella
società cinese di oggi e quindi la realtà di vita della donna
nella Repubblica Popolare Cinese dei nostri giorni.
4. M. D’Ascenzo, Fatti più in là. Donne al vertice delle aziende: le
quote rosa nei CDA, Milano, Gruppo 24Ore, 2011, p. 16.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Nonostante tre decenni di socialismo ed altrettanti di
modernizzazione e liberalizzazione economica, la società
cinese si presenta al mondo contemporaneo ancora
fortemente radicata alle sue tradizioni culturali e familiari,
anche se ha mostrato una certa propensione all’adattamento
verso alcuni aspetti della globalizzazione, i cui risultati
sono ancora di difficile interpretazione. Se da una parte,
infatti, si assiste alla continuità di alcune pratiche sociali
che ancora caratterizzano la società cinese odierna,
dall’altra parte è evidente la notevole reattività della società
civile alle nuove opportunità sorte con la trasformazione
economica e a quelle giunte con la penetrazione in Cina del
processo di globalizzazione5.
Questo dualismo, definito da alcuni paradossale6,
in cui vive la società cinese di oggi è particolarmente
evidente in relazione alla condizione della donna, per
cui la comprensione di quest’ultima è possibile solo se
questo “paradosso” è tenuto presente. Per questo motivo
l’analisi del grado di istruzione, del ruolo nel mondo del
lavoro, dell’evoluzione demografica delle donne in Cina
offre l’opportunità non solo di stabilire la reale percezione
della situazione femminile nel Paese ma anche di definire
uno strumento affidabile per descrivere le trasformazioni
sostanziali che la società cinese sta vivendo oggi.
Come sottolineato da Isabelle Attané, a distanza di
trent’anni dall’avvio della modernizzazione in Cina le
donne sono protagoniste di una parziale regressione del
proprio status, costrette a relazionarsi con un ambiente
maschilista che le forza a vivere in una condizione
di precarietà7. In altri Paesi asiatici, come l’India, il
Pakistan, il Bangladesh e l’Indonesia, si è verificato
lo stesso fenomeno, causato, secondo gli studiosi, da
una molteplicità di fattori che, nel caso della Cina,
rischierebbero di sconvolgere seriamente l’equilibrio
sociale e demografico nazionale interessando anche quello
globale8.
Per comprendere la portata reale di questo fenomeno
una chiave di interpretazione è costituita dall’analisi sia
dell’evoluzione storica della condizione femminile in Cina
sia degli effetti generati dalla transizione demografica,
economica e sociale nel mondo femminile cinese. In
tal modo, oltre a emergere la reale condizione sociale
delle donne cinesi, si evidenziano anche le possibili
evoluzioni nelle relazioni di genere in Cina9. L’uso dello
strumento statistico si rivela fondamentale per impostare
uno studio sistematico su questo tema, nonostante alcuni
limiti rappresentati dalle modalità di indagine (scelta dei
campioni, definizione dei questionari, etc.)10. Tuttavia la
descrizione della situazione femminile nella Cina di oggi
è resa possibile grazie all’analisi incrociata della storia di
genere con la socio-demografia di genere.
I risultati di questa indagine, frutto della confluenza
dell’evoluzione storica della condizione femminile con
l’interpretazione di dati statistici ufficiali sull’attuale qualità
della vita delle donne in Cina, evidenziano che, rispetto
ad altri Paesi sviluppati o emergenti, nella Repubblica
Popolare Cinese, nuova potenza mondiale, avviata da
oltre un trentennio verso la modernizzazione economica
e sociale, si assiste attualmente ad un regresso della
condizione della donna che può condurre, nella maggior
parte dei casi, ad una condizione di precarietà sociale.
L’analisi dell’evoluzione storica della condizione
femminile in Cina fornisce gli elementi principali per
verificare questa tesi interpretativa poiché da quest’ultima
emerge il carattere fortemente maschilista che per millenni
ha caratterizzato la tradizione sociale cinese la quale,
nonostante i progressi intercorsi dalla fine dell’Impero
cinese fino alla modernizzazione, attualmente ancora in
atto, mantiene intatti alcuni aspetti di marginalizzazione e
subordinazione della donna.
È opportuno ricordare che le prime informazioni sulla
vita delle donne nell’Impero cinese di cui disponiamo
giunsero in Occidente grazie alla testimonianza del
missionario gesuita Daniello Bartoli nel 1663: prima di
questo momento il mondo occidentale poco conosceva
degli usi, dei costumi e delle tradizioni del popolo cinese11.
Ciò che colpisce maggiormente nella descrizione del
Padre Bartoli è l’assoluta attinenza e uguaglianza a quanto
riportato in opere descrittive e divulgative sulla società
cinese, redatte in epoche successive12; quindi è possibile
affermare che nella testimonianza storica occidentale
tra il XVII secolo e la fine dell’Ottocento la condizione
femminile in Cina non subì alcuna significativa mutazione,
intervenuta solamente quando l’Impero guidato dalla
dinastia Qing, di origine mancese, si avviava al suo
collasso definitivo.
Un ulteriore inquadramento storico sulla vita della donna
5. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du
genre”, in Perspectives chinoises, n. 4, 2012 p. 1; M. K. White, “Continuity
and Change in Urban Chinese Family”, in The China Journal, n. 53,
genn. 2005, p. 9-33; J.-L. Rocca, Une sociologie de la Chine, Parigi, La
Découverte, 2010.
6. G. Olivier-T. Fang, “Changing Chinese Values: Keeping up with
Paradoxes”, in International Business Review, vol. 17, n. 2, 2008, pp.
194-207.
7. I. Attané, En espérant un fils….La masculinisation de la population
chinoise, Parigi, Institut National d’études démografiques, Parigi, INED,
2010.
8. L. Ballouhey, Entre femme en Chine..., in «Le Monde diplomatique»,
dic. 2010.
9. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du
genre”, cit., p. 1.
10. I. Attané, cit., p. 1.
11. D. Bartolli, Istoria della Compagnia di Gesù. La Cina, Milano,
Bompiani, 1997, pp. 76 e ss.
12. Le testimonianze di maggior rilievo sono citate in P. Buckley Ebrey,
The Inner Quarters: Marriage and the Lives of Chinese Women in the
Sung Dinasty, Berkeley, University of California Press, 1993; E. Croll,
Changing Identities of Chinese Women, Londra-New Jersey, Hong Kong
University Press, 1994; D. Ko, Cindarella’s Sisters. A Revisionist History
of Footbanding; Berkley, University of California Press, 2005. Molto
interessante è il romanzo di J. Chung, Cigni selvatici: tre figlie della Cina,
Milano, CDE, 1995.
93
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
nella Cina imperiale è fornito dalla lettura dei numerosi
precetti educativi destinati alle giovani di alta estrazione
sociale e alla vasta letteratura composta tra il tardo Seicento
e la fine del XIX secolo in cui leggende, racconti e favole
epiche consentivano la diffusione dei principi educativi
e comportamentali della donna anche tra le classi meno
agiate e più povere13.
L’elemento portante che emerge dalla lettura di questi
testi è l’obbedienza assoluta della donna, indirizzata
principalmente verso tre figure, tutte maschili: il padre,
i fratelli e i figli maschi, nel caso di vedovanza. A questo
principio si univa l’osservanza minuziosa di altri precetti,
definiti “virtuosi”: il mantenimento di un contegno discreto
e mai invasivo sia in famiglia sia in pubblico; la cura del
proprio aspetto fisico per il compiacimento del coniuge;
la limitazione ad interventi spontanei nelle conversazioni
conviviali, a cui la donna doveva partecipare prestando
la massima attenzione ad ogni parola ed espressione;
lo svolgimento costante e completo delle faccende
domestiche.
Queste condizioni di sottomissione erano dovute in
parte alla concezione confuciana della società, per cui
era fondamentale il mantenimento di un equilibrio tra
due elementi: lo yáng (阳) il principio attivo e creatore
dell’Universo, e lo yīn (阴), il principio passivo ed oscuro.
Nel confucianesimo la loro opposizione binaria dava vita
all’evoluzione dell’umanità e di tutto il mondo e costituiva
l’elemento caratterizzante anche della società umana.
L’uomo era quindi identificato con lo yáng e la donna con
lo yīn14. Un esempio concreto e particolarmente rivelatore
della condizione femminile è fornito dalle prescrizioni
rivolte alla donna elaborate durante la dinastia Song,
regnante in Cina tra il 960 e il 127915. In esse è ancora più
evidente la sottomissione all’uomo e la limitazione di ogni
libertà, anche di movimento oltre che di espressione, della
donna. Questa era infatti tenuta ad abitare le stanze più
interne della casa, generalmente anche le più oscure perché
lontane dai giardini o dall’ingresso, poiché, se da una
parte ne garantivano maggiore sicurezza, dall’altra erano i
luoghi meno visibili anche per i membri della stessa casa o
13. Tra i testi di maggior rilievo, Nǚ Jiē ((女誡, Precetti per le donne),
attribuiti alla poetessa Ban Zhao, vissuta nel I secolo d.C.; Nǚ ér jīng
(女儿经, Classico per le fanciulle), elaborato sui precetti confuciani di
sottomissione delle donne, e il Lǐjì (礼记, Libro dei riti), risalente alla
dinastia Zhou, regnanti in Cina tra il XII e III secolo a. C.
14. S. Mann-Y. Cheng, Under Confucian eyes: writings on gender
in Chinese history, Berkeley, University of California Press, 2001; R.
Wang, “Dong Zhongshu’s Transformation of “Yin-Yang” Theory and
Contesting of Gender Identity”, in Philosophy East and West, vol. 55, n.
2, pp. 209-231.
15. Si tratta delle regole elaborate dei filosofi neoconfuciani, cfr. Siu-chi
Huang, Essentials of Neo-Confucianism: Eight Major Philosophers of
the Song and Ming Periods, Westport, Greenwood Press, 1999; P. Ching
Chung, Palace Women in the Northen Sung: 960-1126, Leiden, Brill,
1981; P. Buckley Ebrey, The Inner Quarters. Marriage and the Lives of
Chinese women in the Sung Period, Berkeley, University of California
Press, 1993.
94
famiglia. Talvolta le donne non vedevano mai fisicamente
i propri parenti di sesso maschile fino ad una certa età, e
fin da bambine erano segregate in spazi ad hoc (mentre
era concesso ai bambini di giocare con altri maschietti).
Inoltre era necessario che le piccole fanciulle della casa
adottassero un tono della voce mai troppo alto e che non
corressero o si muovessero al di fuori dei luoghi per loro
prescelti. Per questo motivo, la pratica della fasciatura
dei piedi era effettuata fin dai quattro anni e, nonostante il
piede piccolo fosse generalmente considerato un requisito
fondamentale per definire il grado di bellezza femminile,
in realtà si trattava del risultato di una necessità sociale,
quella, cioè, di immobilizzare fisicamente il più possibile le
donne16.
Al di là del confucianesimo, la realtà quotidiana della
condizione femminile era lo specchio della generale
considerazione sociale della donna: infatti già all’interno
della famiglia la nascita di una figlia femmina determinava
nell’immediato una cornice di emarginazione per lei.
Le bambine non erano considerate membri permanenti
del nucleo familiare poiché erano destinate alla famiglia
del futuro marito, che era spesso scelto dalla famiglia di
provenienza quando queste erano ancora piccolissime. Per
questo motivo il loro nome proprio non era completato
se non al momento delle nozze. Spesso nemmeno la
condizione di moglie migliorava la qualità della vita e
della considerazione sociale delle donne poiché solamente
se avevano partorito figli maschi ed avevano condotto una
vita “virtuosa” (cioè minuziosamente rispettosa delle regole
sociali e familiari) potevano essere a tutti gli effetti presenti
nel registro della famiglia del marito. Il matrimonio
costituiva, quindi, l’unico obiettivo da perseguire per le
figlie femmine che, una volta sposate, erano tenute al
rispetto e alla totale obbedienza verso le suocere, oltre
che verso il marito e gli altri membri maschili della nuova
famiglia, all’interno della quale, a seconda dell’estrazione
sociale, potevano convivere con più mogli o concubine.
Il carico del lavoro domestico era interamente sulle spalle
delle donne degli strati sociali meno abbienti, tanto che,
qualora i genitori della giovane promessa sposa non
disponessero dei mezzi economici necessari per le nozze,
queste erano inviate a vivere nella futura famiglia dello
sposo già da piccole e lavoravano alacremente, quasi in
condizioni di servitù. Infine, sul piano successorio, poiché
solamente i figli maschi potevano ereditare i beni del padre,
le donne erano completamente escluse dall’asse ereditario:
ciò aggravava la loro situazione di marginalizzazione e
sfruttamento a causa della completa dipendenza economica
dalla famiglia (prima quella di origine e in seguito quella
16. Cfr. L. De Giorgi, “Costume o tortura? La fasciatura dei piedi in
Cina”, in DEP, Rivista di studi sulla memoria femminile, n. 16, 2011.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
del coniuge)17.
Altri esempi di estromissione e abuso, tra cui la
prostituzione forzata, la vendita della persona, l’abbandono
e i maltrattamenti e le violenze fisiche e psicologiche, erano
fattori quotidiani nella vita delle donne delle classi sociali
più povere. Queste, a differenza delle giovani degli strati
sociali più ricchi ed abbienti, vivevano nell’ignoranza
e nella mancanza di istruzione, mentre alle donne delle
famiglie più facoltose erano insegnate solamente alcune
discipline, considerate funzionali alla loro gradevolezza
nella famiglia e per il coniuge, come la musica, il canto, il
disegno e talvolta la poesia18.
Questa situazione di degrado personale e di isolamento
sociale iniziò a cambiare con il collasso definitivo
dell’“Impero celeste”: con la Rivolta dei Taiping e quella
dei Boxers le sollevazioni popolari che scossero l’Impero
cinese condussero ad un importante trasformazione della
società cinese, includendo anche la condizione femminile.
Scatenatasi nel 1851, la Rivolta dei Taiping, infatti,
rappresentò una delle più estese e radicali rivolte contadine
nella storia della Cina imperiale, tanto da sconvolgere
profondamente l’assetto della dinastia Qing19, che riuscì
a sopprimerla duramente solo nel 1864, con il sostegno
militare della Gran Bretagna. Questo movimento, di portata
17. P. Buckley Ebrey, cit. Nel volume di K. Bernhardt, Women and
Property in China, 960-1949, Stanford, Stanford University Press, 1999
è esaminato il diritto di proprietà delle donne durante il periodo Song:
l’indagine storica della studiosa ha causato una profonda revisione della
storia della condizione femminile in Cina.
18. S. Stafutti-E. Sabattini (a curai di), La Cina al femminile. Il ruolo della
donna nella cultura cinese, Roma, Aracne, 2013; E. Masi, La condizione
delle donne nella Cina imperiale, Roma, Problemi della pedagogia, 1965;
P. Ching Chung, cit; D. Eliseeff, La donna nella Cina imperiale, Milano,
SugarCo, 1991; P. Buckley Ebrey, “Donne, matrimonio e famiglia nella
storia cinese”, in P. S. Roop (a cura di), L’eredità della Cina, Torino,
Fondazione Giovanni Agnelli, 1994.
19. Le tensioni sociali accumulate nel Paese a causa dello sfruttamento
dei contadini e per l’umiliante sconfitta nella prima guerra dell’oppio
(1839-1842) e la corruzione generale in cui l’Impero versava fecero
scoppiare questa ribellione, capeggiata da Hong Xiuquan che, convertito
al cristianesimo, creò la società degli adoratori di Dio, fomentando
i disordini sociali della provincia meridionale del Guangxi. Qui le
rivendicazioni degli hakka (antichi immigrati del nord della Cina), dei
contadini e dei piccoli artigiani, colpiti dalle conseguenze del trattato di
Nanchino del 1842, scoppiò la rivolta e Hong si affermò come leader
politico e militare tra il 1849 e il 1850. Nel gennaio del 1851 proclamò
la nascita del “Regno celeste della pace universale” (Taiping Tianguo,
太平 天国 da cui il termine taiping) in cui confluivano alcuni fattori
ideologici e filosofici provenienti dal cristianesimo e dalla tradizione
cinese. Lo scopo della rivolta era l’abbattimento dei Qing, l’eliminazione
del confucianesimo e buddhismo e della posizione di potere incontrastato
dei funzionari e dei proprietari terrieri, distribuendo la terra a tutti i
contadini per la creazione di in una società egalitaria. Nel 1853 i Taiping
attuarono una riforma agraria secondo cui era effettuata la ripartizione
delle terre per nucleo familiare, incluse le donne, costituendo così un vero
e proprio Stato indipendente, con un proprio esercito. Nel 1855, fallito
il tentativo di conquistare Pechin, la guerra civile si protrasse altri dieci
anni. La progressiva perdita di consenso, causato dalle rivalità all’interno
del movimento Taiping, favorirono le truppe imperiali che vinsero nel
1864 grazie all’aiuto di britannici e francesi. Cfr. H. Schmidt-Glintzer,
La Cina contemporanea. Dalle guerre dell’oppio a oggi, Roma, Carocci,
2005; J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Milano, Il Mulino, 2007.
storica nella Cina della seconda metà dell’Ottocento,
si fece promotore di una notevole emancipazione della
donna, quasi totale: dalla scelta libera del proprio
sposo, all’accesso all’istruzione ed alle tipologie
lavorative maschili (addirittura alla cariche politiche ed
amministrative) con lo stesso livello di retribuzione; fu
inoltre eliminata la pratica del bendaggio dei piedi e del
concubinato e le donne potevano muoversi liberamente in
tutto il Paese, anche da sole20.
La fine della Rivolta non provocò l’immediato ritorno
delle tradizioni, nonostante la società cinese rimanesse nel
suo complesso fortemente influenzata ai secoli di pratiche
discriminatorie e di marginalizzazione verso la donna. La
rivolta dei Boxers nel 1900, infatti, radicalizzò le conquiste
ottenute precedentemente21. Se questo movimento tra i suoi
obiettivi intendeva salvaguardare le tradizioni nazionali
cinesi dalla crescente influenza occidentale, dall’altra
le donne al loro interno si emanciparono a tal punto da
partecipare alle milizie, organizzandosi in reparti divisi per
età e livello sociale (rossi per le nubili e le giovani; bianchi
per le sposate; verdi per le vedove ed infine neri per le
anziane) e distinguendosi per coraggio e determinazione
nelle operazioni di combattimento22. Questa condizione si
rafforzò con la forzata apertura della tradizione imperiale
verso l’Occidente. Un ampio strato di personalità della
cultura e della politica tardo imperiale, infatti, si resero
conto dell’ineluttabile trasformazione, necessaria alla
20. C. Carpinelli, “La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista
dei loro diritti”, in Il calendario del popolo, nov. 2008, n. 735; K. Ono,
Chinese Women in a Century of Revolution, 1850-1950, Stanford,
Stanford University Press, 1989.
21. La ribellione scoppiata in Cina nel 1900, nota come Rivolta dei
Boxers, trova le sue radici in diversi avvenimenti del secolo precedente.
Tra questi, il trattato di Nanchino e il Trattato di Tiensin che aprivano i
porti cinesi agli stranieri. Inoltre, tra il 1894 e il 1895, la Cina fu sconfitta
dal Giappone per il dominio sulla Corea: nell’aprile del 1895 fu costretta
a firmare la pace di Shimonoseky che la obbligava a pagare un’ingente
indennità di guerra e a cedere diversi territori al Giappone. Alla fine
dell’Ottocento, in Cina si era formata un’associazione segreta, la Società
dei Pugni e dell’Armonia, i cui membri vennero definiti dagli Occidentali
Boxers poiché si dedicavano alle arti marziali. La penultima imperatrice
cinese, Cixi, fomentò l’odio dei Boxers nei confronti degli occidentali,
con conseguenti massacri di europei e cristiani, senza risparmiare i
bambini. Fu la stessa imperatrice, il 20 giugno 1900, a spingere i Boxers
ad attaccare il quartiere delle ambascerie di Pechino: in quest’occasione
fu ucciso il barone e ministro tedesco Von Kettler. La reazione straniera
non tardò a giungere e Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna,
Russia, Stati Uniti e Giappone risposero inviando un corpo di spedizione
di circa 20.000 uomini, che occupò Tianjin (Tiensin) e, raggiunta Pechino,
riuscì senza incontrare particolari difficoltà a liberare gli assediati.
Tuttavia massacri, saccheggi e violenze furono incessanti fino a che le
navi straniere iniziarono a presidiare le coste settentrionali della Cina
nell’aprile del 1900. Numerosi contingenti internazionali furono spedite
a Pechino e la ribellione fu definitivamente sedata dall’Alleanza delle
otto Paesi: Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Giappone,
Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America. Cfr. D. Preston, The
Boxer Rebellion, New York, Berkley Books, 2000; V. Purcell, La rivolta
dei boxer, Milano, Rizzoli, 1972; P. Loti, Gli ultimi giorni di Pechino:
reportage della rivolta dei boxer, Padova, Muzzio, 1997.
22. C. Carpinelli, “Primi passi verso i diritti”, in Noi Donne, 4 dicembre
2007.
95
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
modernità del Paese, e tra queste si ricorda l’Imperatrice
Cixi, le cui riforme provocarono effetti straordinari
nella vita delle donne in Cina. Nel 1898 Cixi si rivolse a
Liang Qichao, noto filosofo riformista, per la riordino
del sistema educativo, in modo da creare una nuova
generazione di giovani colti, preparati e istruiti secondo i
modelli occidentali. Liang sostenne con forza l’assoluta
necessità di rottura con il passato e di integrazione della
donna nell’istruzione moderna23. Le conseguenze di questa
trasformazione si manifestarono nelle generazioni delle
giovani più abbienti che, insoddisfatte del proprio ruolo
limitato e richiuso in vincoli tradizionali ormai obsoleti,
chiesero maggiore indipendenza partendo dall’accesso
all’istruzione e alle Università (che furono gradualmente
aperte anche a loro). L’emancipazione dall’ambiente
familiare, il contatto con il sapere scientifico ed umanistico
e l’apprendimento delle lingue e delle culture straniere
segnò il definitivo ingresso della donna cinese nella
modernità del XIX secolo. La fine dell’Impero e la rivolta
di Wuchang nel 191124, che portò alla costituzione della
Repubblica nazionalista, segnarono la nascita del primo
movimento femminile cinese, capeggiato da Qiu Jin, una
delle principali leve del movimento studentesco cinese,
che si dedicò alla diffusione degli ideali nazionalisti e
all’emancipazione della donna, realizzabile, secondo il
suo pensiero, partendo dal nucleo principale della società
cinese, la famiglia, in cui la donna doveva rivendicare la
propria istruzione e il diritto al lavoro e all’indipendenza
economica25. Tramite il suo Giornale delle donne
(Zhongguonü bao中國女 報) Qiu Jin sottolineava che il
contributo delle donne nella società cinese fosse prezioso
ed indispensabile, attraverso il lavoro e lo studio.
La percezione della “nuova donna” nella società tardo
imperiale e repubblicana fu discordante: se da una parte
alcuni ne incoraggiavano la lotta per l’emancipazione,
consapevoli dei cambiamenti ormai in atto, dall’altra spesso
il peso della tradizione familiare non abbandonava le
giovani cinesi, le cui famiglie sottolineavano l’importanza
di un comportamento che tenesse ancora conto degli antichi
precetti tradizionali. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi
del Novecento, dunque, la donna cinese poteva contare su
esempi di totale emancipazione e libertà, come le giovani
che militavano all’interno del movimento nazionalista
di Sun Yan Set e che svolgevano professioni tipicamente
maschili (come, ad esempio, il medico o il soldato), ma
era tuttavia resa “ibrida” dalla cultura tradizionale in cui
quotidianamente viveva. Questa condizione, tuttavia,
non generò confusione negli obiettivi e soprattutto nella
23. J. Levenson, Liang Ch’i-C’ao and the Mind of Modern China, Los
Angeles, University of California Press, 1970; voce “Liang Qichao” in
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto Enciclopedico Italiano G. Treccani,
2009.
24. Cfr. G. Samarani, La Cina del Novecento, Torino, Einaudi, 2008, pp.
9 e ss.; J. A. G. Roberts, cit., pp. 263 e ss.
25. K. Ono, cit., pp. 60 e ss.
96
portata dei cambiamenti sociali che le donne intendevano
rivendicare: una chiara dimostrazione di questo fenomeno
è rappresentata dalla nascita di numerose riviste femminili
rivolte a tutte le donne, di ogni estrazione sociale, per
il loro sostegno, il dibattito contro l’emarginazione e il
confronto tra esperienze, esigenze e desideri26.
L’avvento del successore di Sun Yan Set, Chiang Kai
Shek, provocò una battuta d’arresto nel movimento di
emancipazione femminile dato che il governo negò la
possibilità di estensione di voto alle donne. La lotta
delle donne per l’uguaglianza dei diritti politici e civili,
tuttavia, proseguì nel partito nazionalista anche dopo la
e una circostanza storica ne consentì il rafforzamento.
La presenza giapponese in Manciuria, infatti, generò la
nascita del Movimento del 4 maggio27 nel 1919, al quale
aderì anche il movimento femminile, tra le cui principali
esponenti spiccava Deng Yingchao28, (che nel 1925 sposò
Zhou Enlai), che fece della lotta all’indipendenza e alla
parità della donna il suo principale obiettivo politico. La
maggior parte delle donne cinesi dell’epoca rivendicò
il proprio diritto al’uguaglianza grazie al lavoro, nelle
fabbriche e nelle campagne, attraverso le associazioni
sindacali e le numerose leghe di solidarietà che si
costituirono tra il 1919 e il 1949. Ma il principale elemento
attraverso cui si sviluppò il movimento di emancipazione
femminile divenne nel 1922 il Partito Comunista Cinese,
fondato a Shanghai nel 1922, all’interno del quale migliaia
di donne si adoperarono con coraggio assumendo ruoli
tradizionalmente maschili, soprattutto nella propaganda
nelle campagne e nelle fabbriche.
All’interno della Lunga Marcia (長征, Chángzhēng)29
delle armate comuniste, intrapresa tra l’ottobre del
1934 e l’ottobre del 1935, prese parte attiva un numero
crescente di donne, che si dedicò soprattutto all’istruzione
e all’educazione delle contadine nei territori “liberati” dai
comunisti30.
L’avvento dell’era comunista in Cina determinò un
cambiamento fondamentale sia nel movimento femminile
e nei suoi sviluppi sia nella condizione delle donne
26. Lu Meiyi - Zheng Yongfu, Il Movimento delle Donne
Cinesi,1840-1921, Casa editrice del Popolo di Henan, 1990, pp.128 e
ss.; cfr. anche Chen Dongyuan, La Storia della Vita delle Donne Cinesi,
hangwu Yinshuguan 1998, pp. 356 e ss.
27. Cfr. G. Samarani, cit.
28. Ya Chen-Chen, The Many Dimensions of Chinese Feminism,
Londra, Palgrave MacMillan, 2011, p. 227; Zheng Wang, Women in the
Chinese Enlightment: Oral and Textual Histories, Berkeley, University
of California Press, 1999, pp. 160 e ss.; T. E. Barlow, The Question of
Women in Chinese Feminism, Durham, Duke University Press, 2004.
29. La Lunga Marcia fu intrapresa dall’Armata Rossa cinese per ritirarsi
dal Jiangxi allo Shaanxi e per percorrere circa 12.000 km, combattendo,
dalle truppe del Guomindang di Chiang Kai Shek. Cfr. G. Samarani, cit.,
pp. 65 e ss.
30. C. Carpinelli, “Il movimento di liberazione della donna nella Cina di
Mao”, in Noidonne, 21 gennaio 2008; L. Landy, Women in the Chinese
Revolution, New York, International Socialist, 1974; E. Honig, “Socialist
Revolution and Women’s Liberation in China”, in Journal of Asian
Studies, vol. XLIV, n. 2, pp. 329-336.
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cinesi poiché stabilì una cesura netta con il passato e con
la tradizione millenaria della società cinese di stampo
confuciano. Nonostante le numerose conquiste riconosciute
e consolidate durante il maoismo, tuttavia, la tradizionale
base comportamentale e psicologica nei confronti della
figura della donna non fu del tutto eliminata poiché il
maoismo non intendeva garantire una parità assoluta tra
uomo e donna ma un riconoscimento della possibilità
per la donna assumere le posizioni sociali, politiche,
economiche e familiari un tempo riservate unicamente
agli uomini. Il comunismo cinese, quindi, costruì una
società in cui la donna giungeva a diventare come
l’uomo, non una in cui la donna, mantenendo la propria
specificità di genere, fosse considerata pari all’uomo31. Se
da una parte le differenze di genere erano state usate dalla
società tradizionale per sottomettere e marginalizzare il
mondo femminile, e per questo motivo erano osteggiate
dal maoismo, dall’altra la loro eliminazione e negazione
provocò una mascolinizzazione della donna nel periodo tra
il 1949 e il 1976, con notevoli conseguenze sia sul piano
dei comportamenti sociali sia su quello delle relazioni tra
i due sessi. Il comunismo cinese, infatti, chiamò la donna
ad occupare tutti gli spazi sociali tipicamente maschili, in
un processo in cui l’uguaglianza tra i due sessi era garantita
dall’eliminazione di tutte le differenze di genere. La
lingua cinese, ad esempio fu modificata nelle espressioni
considerate “discriminanti” nei confronti delle donne, che
furono cancellate dal linguaggio quotidiano; nella scelta
dell’abbigliamento, l’uniforme da lavoro e l’assenza di ogni
componente ornamentale cambiò profondamente la figura
femminile cinese, da sempre caratterizzatasi per l’eleganza
e la dolcezza del portamento e dell’aspetto esteriore;
infine, sul piano dei rapporti sociali, poiché il lavoro fu
considerato il principale strumento per l’ottenimento
e il consolidamento della propria indipendenza e
dell’“uguaglianza” con l’uomo, il matrimonio e la famiglia
divennero obiettivi trascurabili, se non talvolta “erronei”,
nella mentalità femminile dell’epoca.
Se da una parte l’avvento del maoismo cambiò la
percezione sociale del ruolo della donna, totalmente
scollegato con la tradizione millenaria cinese (una serie
di leggi per garantirono dal 1949 i poi questa condizione,
come quella per il diritto di voto e quella sul matrimonio)32,
dall’altra non è possibile affermare che nella Cina maoista
la condizione femminile fosse realmente egalitaria e
31. E. Honig, cit.; Croll, Chinese Women since Mao, Londra, M. E.
Sharpe, 1983.
32. La legge sul matrimonio fu promulgata il 13 aprile 1950 e dichiarò
aboliti i matrimoni decisi dai genitori, la poligamia e il concubinato;
inoltre proclamò l’uguaglianza dei sessi e legalizzò il divorzio per
mutuo consenso. Tra gli altri provvedimenti, fu severamente proibita la
prostituzione. E. Honig, cit.; Cfr. J.-L. Domenach-H.Chang-Ming, Le
marriage en Chine, Parigi, Presses de l Fondation nationale des sciences
politiques, 1987; D. C. Buxbaum, Chinese Family Law and Social
Change in Historical and Comparative Perspective, Londra, University
of London Press, 1978.
paritaria a quella maschile. Infatti sul piano economico
e professionale le donne, nonostante l’invito costante
svolto dalla retorica di partito a penetrare negli spazi un
tempo unicamente maschili, erano ancora discriminate,
percependo retribuzioni minori e occupando ruoli e
funzioni di livello inferiore nella gerarchia professionale,
burocratica e politica. Le donne cinesi, quindi, vivano
in una dimensione sociale nella quale, pur godendo di
indipendenza e autonomia rispetto a quella di pochi
decenni prima, non avevano a disposizione uno spazio
sociale veramente accogliente delle proprie esigenze di
genere e, pur godendo di pari opportunità, non ricevevano
lo stesso trattamento economico degli uomini né gli
stessi incarichi professionali33. Ad esempio, la gioia della
famiglia, della cura della casa e del proprio partner erano
vissute come una rinuncia che la donna moderna doveva
assolutamente accettare per dare la priorità alla sua
affermazione sociale attraverso il lavoro, potenzialmente
uguale a quello maschile ma mai lo stesso nei ruoli,
nelle funzioni e nel trattamento economico. In tal modo,
quindi, la retorica comunista sradicava le donne dalla loro
specificità di genere privandole della possibilità di gustare
la realtà della propria dimensione femminile, in nome
dell’uguaglianza con l’uomo. Il continuo slancio verso
l’uguaglianza di genere che il comunismo prometteva
non lasciava spazio alle donne cinesi della possibilità di
accorgersi di queste incongruenze e privazioni34. In tal
senso un ruolo determinante fu svolto dalla Federazione
nazionale delle donne cinesi (中华全国妇女联合会,
Zhōnghuá Quánguó Funǚ Liánhéhuì), fondata nel marzo
del 1949 con l’obiettivo di garantire parità dei diritti civili,
politici e sociali delle donne ma che non fornì una reale
voce all’universo femminile di quegli anni, fomentando
l’uguaglianza ma non la parità tra i due sessi.
Con
l’avvento
della
Rivoluzione
Culturale35,
l’eliminazione di ogni forma di borghesismo colpì le donne
(come gli uomini) considerati nemici della Rivoluzione, per
cui soprattutto le personalità più colte e i quadri di partito
furono oggetto di violenze, torture e internamenti nei campi
di lavoro36.
Questa esperienza storica, seppur drammatica e dolorosa,
consente di evidenziare quanto profondamente dualistica
fosse la condizione femminile nella Repubblica Popolare
Cinese di quell’epoca, poiché nelle campagne e nelle zone
più isolate del Paese, dove erano posizionati la maggior
parte dei laogai (勞改), cioè i campi di rieducazione, la
maggior parte delle donne sceglieva la vita in famiglia
e in casa, rinunciando alle prospettive offerte dal partito
per dedicarsi al matrimonio, ai figli, alla loro dimora e
33. E. Honig, cit.; E. Croll, cit.
34. E. Croll, Changing Identities, cit.
35. E. Croll, Chinese Women since Mao, cit.
36. Idem.
97
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contribuendo al lavoro nei campi37. Questa dicotomia
era il segno della mancanza di percezione obiettiva della
propria reale condizione; di tale carenza soffrivano, nel loro
presente, la maggior parte delle donne cinesi, soprattutto
quelle che dimoravano lontane dai centri urbani e dalle
zone costiere (tradizionalmente le aree più sviluppate
del Paese). Se da una parte, quindi, la retorica maoista
propagandava l’uguaglianza tra i sessi, dall’altra non aveva
protetto le donne dall’emarginazione sociale e dagli abusi
che proseguivano soprattutto nelle aree più isolate della
Cina e nelle campagne.
La morte di Mao Zedong, oltre che ad una profonda
revisione della dottrina maoista, provocò un altrettanto
profondo rinnovamento nel sistema economico e sociale
del Paese poiché, come è noto, dal 1976 in poi la Cina si
avviò verso la modernizzazione (soprattutto grazie alla
dottrina delle quattro modernizzazioni (sì gè xiàndaihuà
四 个 现代化) per affermarsi come grande potenza
economica ed internazionale38. La completa revisione della
politica comunista ebbe i suoi effetti anche sulla situazione
delle donne poiché l’introduzione graduale del capitalismo
e successivamente del consumismo determinarono il
riapparire di alcuni fenomeni discriminatori, soppressi
durante il maoismo, nei confronti delle donne. Se le
tendenze della moda e l’accesso a beni di consumo globali
caratterizzano la contemporaneità del mondo cinese
femminile e si è assistito ad un incremento notevole del
numero delle donne laureate e con attività professionali
nel mondo dell’imprenditoria e della finanza, negli ultimi
quattro decenni è divenuto sempre più evidente che il
processo di modernizzazione e di crescita dell’economia
ha travolto il mondo femminile.
Questo, infatti,
durante gli anni del maoismo non era stato socialmente
difeso né rafforzato nelle sue differenze di genere, ma
“appiattito” su quello maschile secondo il principio
dell’uguaglianza. Gli effetti della modernità cinese sono
stati drammatici per molte donne poiché hanno provocato
nuovamente l’emersione della discriminazione femminile,
precedentemente ostacolata dal regime maoista, e tornata
ad essere un fenomeno costante della società. La prima, più
evidente forma di disparità femminile si è manifestata in
ambito lavorativo, poiché le donne sono diventate i soggetti
professionali più deboli ed indifesi. Le donne in Cina sono
meno retribuite rispetto agli uomini, a parità di incarico;
alle donne sono affidate responsabilità professionali meno
prestigiose ed infine sono licenziate più dei loro colleghi
37. Idem; H. H. Wu, Laogai: i gulag cinesi, Napoli, L’ancora del
Mediterraneo, 2006; C. H. Smith, Forced Labor in China: Hearing Before
the Committee on International Relations, U.S. House of Representative,
Washington D.C., US Government Printing Office, 1998.
38. Le quattro modernizzazioni sono il contenuto principale della
riforma promossa nel 1978 da Deng Xiaoping in quattro settori
principali: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale.
Cfr. M.-C. Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Bologna, Il
Mulino, 2000, pp. 255 e ss.; J.-L. Domenach, Dove va la Cina?, Roma,
Carocci, 2005; L. Tomba, Storia della Repubblica popolare cinese,
Milano, Mondadori, 2002, pp. 141 e ss.; G. Samarani, cit., pp. 301 e ss..
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maschi poiché i datori di lavoro considerano elevato il
costo della maternità (i tre mesi successivi al parto sono
interamente retribuiti e a carico del datore di lavoro, che
si assume anche l’onere di altre forme di assistenza)39.
Nelle campagne il lavoro femminile è ancora svolto in
condizioni precarie (a causa della scomparsa dei servizi
sociali e dei presidi sanitari, un tempo esistenti grazie ai
fondi messi a disposizione dalle unità collettive di lavoro)
e a questo si aggiunge il carico della cura della casa e
della prole40; l’aumento degli uxoricidi e degli infanticidi
femminili (soprattutto a causa dell’introduzione nel 1979
della “politica del figlio unico”, jìhuà shēngyù zhèngcè计
划 生育 政策, letteralmente “politica di pianificazione
familiare”41) ha determinato una vera e propria emergenza
sociale, con conseguenze gravissime per l’intera società
cinese che nei primi anni Duemila conta un numero
superiore di uomini rispetto alle donne. Nonostante
le politiche del governo abbiano fomentato una vasta
compagna contro l’infanticidio e l’uxoricidio, soprattutto
nelle zone rurali, la partecipazione delle giovani donne
alla vita economica, politica e sociale del Paese è ancora
impari rispetto a quella maschile42. Un chiaro esempio
delle discriminazioni femminili contro cui il governo volle
battersi è dato dal testo relativo alla legge sul matrimonio,
varato nel 1980, all’interno del quale furono inserite
dettagliate disposizioni che proibivano il maltrattamento e
l’uccisione delle bambine e delle mogli.
Fenomeni di emarginazione come la prostituzione, la
vendita e la tratta di esseri umani e il fenomeno della
“vendita delle mogli” (拐卖, guǎi mài, che letteralmente
significa “rapimento e vendita”, causato dalla minore
presenza di donne rispetto agli uomini e dalla necessità
della figura femminile per il lavoro in casa e, nelle
province più lontane, anche nei campi)43, sovente nascosti
e segretamente sostenuti dalle autorità di pubblica
sicurezza locali, ha generato l’esigenza di un intervento
più massiccio del governo che, oltre ad eliminare nel 2013
39. E. Croll, cit.; From Heaven to Earth: Images and Experiences of
Development in China, Londra, Routledge, 1994; J. Banister, China’s
Changing Population, Stanford, Stanford university Press, 1991; D.
K. Tatlow, “For China’s Women More Opportunities, More Pitfalls, in
NYTimes, 25 novembre 2010.
40. M. Miranda, “La Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite
sulle Donne e la condizione della donna in Cina”, in Mondo Cinese, n.
90, sett.-dic. 1995.
41. Si tratta di una delle politiche principali di controllo delle nascite
attuata dal governo cinese per contrastare il notevole incremento
demografico del paese, più volte sottoposta a revisione. Cfr. E. Croll,
China’s one-child Family Policy, Londra, MacMillan Press, 1985; H.
H. Wu, Strage di innocenti: la politica del figlio unico in Cina, Milano,
Guerini e Associati, 2009.
42. C. Viglione, “L’altra metà del cielo. Chiacchierata sulla condizione
della donna nella Cina di fine millennio”, in Frammenti d’Oriente,
febbraio 1998; E. J. Perry-M. Selden, Chinese Society: change, conflict
and resistance, Londra, Routledge, 2010, pp. 162 e ss.; “Gender Equality
and Women’s Development in China”, in China.org.cn/english/2005/
Aug/139404.htm.
43. R. Foot, China across the Divide: The Domestic and Global politics
and the Society, Oxford, Oxford University Press, 2013, p. 145.
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la politica del figlio unico, ha provveduto a rafforzare
l’attività di lavoro ed indagine della Federazione nazionale
delle donne cinesi44. Nel corso della Quarta conferenza
mondiale sulle donne organizzata dall’ONU a Pechino
nel 1995, le dichiarazioni del governo cinese sono state
decise nello stabilire che lo sviluppo della condizione
femminile è un requisito fondamentale per la costruzione
della società armoniosa; che la conoscenza e la soluzione
dei problemi delle donne rappresenta il sistema migliore
per salvaguardare questa armonia nel lungo periodo; che
la promozione dello sviluppo della condizione della donna
attraverso politiche armoniose di controllo è il canale
principale per prevenire gli squilibri sociali45.
Un aspetto positivo registratosi negli ultimi due decenni è
rappresentato dall’aumento di consapevolezza della propria
condizione da parte delle donne cinesi: la Federazione
nazionale è diventata più influente sul governo e soprattutto
più incisiva come “voce” nazionale delle donne, ed oltre
a questa associazione operano nuovi gruppi femminili
autonomi, sorti spontaneamente soprattutto nei principali
centri urbani. Le donne cinesi, quindi, sono diventate
coscienti della duplicità della visione a loro riservata dalla
società della Cina modernizzata, che da una parte le lascia
libere e ne consente la realizzazione come esseri umani
indipendenti ed autonomi ma che, dall’altra parte, continua
a discriminarle e a sfruttarle. Parallelamente esse iniziano a
percepire la propria coscienza individuale e a proteggerla,
riscoprendo la propria femminilità e il proprio ruolo di
44. J. Howell, “The struggle for survival: Prospects for the Women’s
Federation in Post-Mao China” in World Development, n. 1, 1996, pp.
129-143; L. Bohong, The All-China Women’s Federation and Women’s
NGOs. Chinese Women Organizing: Cadres, Feminist, Muslims, Queers,
Oxford, Berg, 2001.
45. M. Miranda, cit.; I. Attané, cit., p. 6.
madri, mogli o nubili nella società e nella famiglia, grazie
al maggiore benessere economico e al consumismo.
Nonostante l’azione del governo debba essere più
estesa ed efficiente a favore della parità di genere,l’ex
presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu
Jingtao ha riconosciuto pubblicamente la persistenza di
notevoli disparità tra i due sessi46: questa dichiarazione
deve essere inquadrata nel processo, ancora in atto, di
legittimazione della Cina al rango di grande potenza
mondiale, raggiungibile, secondo la classe dirigete cinese,
solo se il Paese avesse aderito al rispetto e alla tutela dei
principali diritti umani e civili riconosciuti dalla comunità
internazionale, tra cui si annoverano quelli relativi al
miglioramento della condizione femminile.
Tuttavia misure efficienti del governo cinese sono ancora
largamente assenti, soprattutto contro la discriminazione
sul lavoro, sulle pratiche di tratta umana delle donne, sul
lavoro femminile sommerso nelle aree rurali47.
Nella Cina attuale emerge che le disuguaglianze di
genere si estendono anche all’assistenza sanitaria, alla
rappresentanza politica e al lavoro imprenditoriale (le
cosiddette “quote rosa”) e alla sfera privata sulla base di
decisioni e consuetudini che, ancora oggi, traggono origine
dalle famiglie48.
Il sistema sociale cinese, quindi, presenta un accesso alle
opportunità economiche e sociali per donne che è ancora
sostanzialmente differente rispetto a quello per gli uomini.
Inoltre molto importante è la forte disuguaglianza della
condizione tra donne stesse, a seconda che esse risiedano e
46. I. Attané, cit., p. 7.
47. M. Miranda, cit.
48. I. Attané-C. Guilmoto, Watering the Neighbor’s Garden: the Growing
Demographic Female Deficit in Asia, Parigi, Cicred, 2007, pp. 207-228.
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vivano in differenti aree del Paese49.
Un indice di particolare rilievo è rappresentato dal
livello di istruzione primaria, che risulta essere inferiore
per le bambine, soprattutto quelle nate nelle aree rurali50.
L’istruzione secondaria e quella secondaria superiore,
nonostante un incremento registratosi tra il 1990 e il 2010,
resta ancora appannaggio di un numero limitato di giovani
cinesi, per cui la durata media degli anni di istruzione
obbligatoria nel 2010 per le donne è di circa l’8,8%, per gli
uomini arriva al 9,1%51.
Un’indagine più accurata, svolta in riferimento all’anno
2000 dalla Federazione nazionale delle donne cinesi, ha
evidenziato che il tasso medio di abbandono degli studi è
più alto per le giovani (36,8%) che non per i loro coetanei
di sesso maschile (27,9%), rilevando che generalmente le
famiglie, nel caso in cui incorrano in difficoltà economiche,
considerano l’istruzione inutile per le fanciulle e non per i
figli maschi52.
Altro elemento rivelatore della condizione di
disuguaglianza femminile in Cina è rappresentato dal tasso
di occupazione: nel 2010 ammonta al 73,6% per le donne
contro l’88,7% per gli uomini di fascia d’età compresa
tra i 20 e i 59 anni, con una diminuzione del primo nelle
aree urbane (il 60,8% delle donne è impiegato rispetto
all’81,1% degli uomini). Nelle campagne, invece, il tasso
di impiego femminile sale all’84,4% per le donne (contro
il 94,3% di quello maschile)53. Perciò, nonostante una
complessiva disparità nel mondo del lavoro, le donne
sono più facilmente impiegate nelle campagne che non
nelle grandi città, dove esistono opportunità professionali
di maggiore responsabilità e più remunerative. Un’élite di
donne-manager, con altissime remunerazioni e patrimoni
miliardari, è presente in Cina ma rappresenta più il
simbolo irraggiungibile ed inimitabile degli effetti della
crescita economica cinese che un esempio concreto per
i milioni di donne che vivono in condizioni economiche
e professionali più limitate se non addirittura precarie.
Queste disuguaglianze sopravvivono in Cina nonostante le
garanzie costituzionali e legali che il governo riconosce al
lavoro femminile54.
Risultati più evidenti si ottengono attraverso un’analisi
statistica relativa alla percezione della qualità del
lavoro, secondo cui sul piano lavorativo le competenze
professionali delle donne sono meno valorizzate rispetto
49. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit., p. 7.
50. All Chinese Women Federation (ACWF), Executive Report of the
third Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, vol. 6, n. 108,
2011, pp. 5 e ss.
51. Idem.
52. ACWF, Executive Report of the second Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, 2001.
53. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, cit.
54. J. Burnett, “Women Employment Rights in China: Creating Harmony
for Women in the Workplace”, in Indiana Journal of Legal Studies, vol.
17, n. 2, 2010, pp. 289 e ss.; I. Attané, cit., pp. 8-9.
100
a quelle degli uomini. Da questa indagine, infatti, risulta
che secondo la maggior parte degli intervistati le capacità
lavorative maschili sono naturalmente superiori rispetto a
quelle femminili55. Le cause di questa “naturale” differenza
risiederebbero anzitutto nelle competenze femminili,
generalmente giudicate limitate; segue la resistenza fisica,
valutata insufficiente rispetto a quella maschile; solo una
piccola percentuale del campione di intervistati ritiene
che le prospettive di carriera per le donne cinesi siano
effettivamente più modeste rispetto a quelle di accesso
maschile56. Un dato positivo è offerto dal fatto per cui,
all’interno del campione, le donne intervistate mostrano
una forte consapevolezza della propria condizione,
ammettendo che le loro opportunità di lavoro non sono
affatto equivalenti a quelle maschili, né nelle competenze,
né nelle retribuzioni ed infine nemmeno nelle prospettive di
carriera57.
Sulla base di questi risultati statistici, è evidente che la
società cinese sia rimasta ancorata alla tradizionale visione
di inferiorità della donna rispetto all’uomo, ulteriormente
rafforzata dalla considerazione generale per cui gli uomini
sono predisposti alla vita sociale e professionale e le donne
alla cura della famiglia58.
Gli effetti reali di questa valutazione, generalmente
condivisa nella società cinese, sono rappresentati da
una forte interiorizzazione, nel mondo femminile, della
dominazione maschile; questo peso è tuttavia foriero di
un crescente senso di insicurezza delle donne sul lavoro e
nella vita sociale, aggravata dall’eco della crisi economica
internazionale degli anni Duemila59.
La sfera privata rappresenta una dimensione in cui la
donna cinese assume un ruolo ambivalente: se da una
parte la donna cinese moderna essa partecipa attivamente
alle decisioni familiari e vive liberamente la propria
femminilità, senza la necessaria ed obbligatoria osservanza
di “virtù” o “obbedienze”, dall’altra parte rimane
inesorabilmente influenzata dalle considerazioni generali
che su di lei la società proietta60. Anche in questo caso, i
risultati presentati dalle indagini statistiche condotte
dalla Federazione nazionale delle donne cinesi sono
particolarmente rivelatori. Sebbene tre donne su quattro
partecipino attivamente a decisioni di natura economica e
55. W. Guoying, “Gender Comparision of Employment and Career
Development in China”, in Asian Women, vol. 27, n. 1, 2011, p. 95 e ss.;
ACWF, Report of the second Sample Survey on Chinese Women’s Social
Status, cit.
56. I. Attané, cit., p. 9.
57. Population Census Office and National Bureau of Statistics of China,
Tabulation on the 1990 Population Census of the People’s Republic of
China, Pechino, 1993; National Statistics Office, Data of the 2005 1%
Sample Survey, Pechino, 2005.
58. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, cit.
59. Zuo Jiping-Bian Yanjie, “Gender Resources, Division of Housework
and Percieved Fairness-Case in Urban China, in Journal of Marriage and
Family, vol. 63, n. 4, 2001, pp. 1122 e ss.N. 42 p. 9.
60. I. Attané, cit., p. 10.
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finanziaria relative al ménage familiare, dall’altra parte il
loro accesso alle risorse finanziarie familiari è decisamente
più limitato rispetto a quello maschile, sopravvivendo
la tradizione sociale per cui è privilegiato il lignaggio
maschile61.
La percentuale di tempo dedicata al lavoro domestico
risulta essere maggiore per le donne, nonostante siano
impiegate stabilmente, che non per gli uomini (anche
in questo caso nelle aree rurali le donne si dedicano
maggiormente al lavoro domestico che non le loro
concittadine residenti nelle aree urbane). Il lavoro
domestico femminile è aumentato tra il 2000 e il 2010,
soprattutto a causa della crisi economica internazionale,
passando dal 70,2% al 70,3% per le donne che vivono nelle
aree urbane e dal 73,9% al 74,1% per coloro che vivono nei
centri urbani62.
Dal quadro finora tracciato, la discriminazione
nell’accesso alle risorse educative, finanziarie, patrimoniali
e professionali per le donne cinesi, fenomeno generato
dalla persistenza nella società cinese di una tradizionale
marginalizzazione della donna, sta provocando un
incremento della disparità di genere, nonostante gli
indubbi progressi, consolidati dagli anni Cinquanta in poi,
verso una maggiore autonomia femminile. La realtà delle
donne cinesi di oggi, quindi, è ancora caratterizzata dalla
dipendenza dal mondo maschile e dalla disuguaglianza
rispetto ad esso. Questa condizione è certamente
paradossale rispetto alla corsa verso la modernità che la
Cina contemporanea effettua da quasi quattro decenni
ma rischia di provocare effetti molto seri sull’equilibrio
generale della società stessa63.
Una delle principali conseguenze dell’emarginazione
femminile, come è già stato osservato, è la minore
presenza di donne rispetto agli uomini in Cina: nel 2010,
il numero di uomini di età compresa tra i 15 e i 59 anni
ogni 100 donne era di 107,2 e, se non si assisterà ad un
incremento delle nascite femminili, nel 2050 questo dato
arriverà al 116,364. Tenendo presente che il fenomeno
del celibato in Cina è abbastanza diffuso, ma ancora
contenuto, un suo rafforzamento non solo diminuirebbe
il numero di matrimoni e quindi di nuove nascite (poiché
nella Cina contemporanea il legame coniugale rappresenta
il principale contesto sociale finalizzato alla procreazione,
essendo le convivenze e la condizione di genitore single
fenomeni ancora poco diffusi su una popolazione di
oltre 2 miliardi e mezzo di persone)65 ma indurrebbe una
61. ACWF, cit.; J. L. Osburg, Engendering Wealth in China: New’s Rich
of the Rise of an Elite Masculinity, Chicago, The University of Chicago
Press, 2008; I. Attané-C. Guilmoto, cit.
62. ACWF, cit.
63. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit. p. 14.
64. UN-WPP, World Population Prospect. The 2010 Revision, New York,
United Nations, 2011.
65. H. Evans, Women and Sexuality in China, New York, Continuum,
1997; Yuen Sun-Pong – Law Pui-Lam – Ho Yuying, Marriage, Gender
and Sex in a Contemporary Village, New York, E. Sharpe, 2004.
massiccia emigrazione dei celibi cinesi verso Paesi vicini.
La riduzione della natalità e quindi il rallentamento della
crescita della popolazione dovuta a questo fenomeno
apre uno scenario sociale certamente inesplorato nella
Repubblica Popolare Cinese. Tuttavia una marcata
o definitiva prevalenza numerica degli uomini sulle
donne (provocata dalla debolezza dello status femminile
rispetto a quello maschile), renderebbe la condizione
femminile ancora più fragile e precaria, con una possibile
contrazione delle conquiste di libertà ed indipendenza
finora ottenute non solo in seno alla famiglia ma anche
nella società intera66. Ulteriori effetti sono possibili anche
nelle relazioni di genere e nei rapporti tra i rispettivi
status poiché la società cinese è ancora legata al vincolo
matrimoniale come principale condizione non solo per la
creazione di una futura famiglia ma anche per l’esercizio
della sessualità67. La dicotomia tra uomini sposati e celibi,
quindi, tenderebbe a rafforzarsi nel caso di un tasso della
popolazione femminile in contrazione, poiché quest’ultimo
fattore potrebbe indurre alla radicalizzazione della
competizione tra i diversi gruppi maschili. In particolare,
gli uomini celibi delle classi meno abbienti sarebbero,
in condizioni di ipergamia femminile, più svantaggiati
rispetto a quelli degli strati sociali più elevati nel riuscire a
sposarsi. I più benestanti, a causa della migliore condizione
economica, godrebbero di un livello di accesso maggiore
al matrimonio68. La diminuzione della popolazione
femminile in età matrimoniale, quindi, oltre a determinare
un rafforzamento dello status degli uomini delle classi
sociali più agiate rispetto ai meno abbienti, con un evidente
disparità sociale tra gruppi, provocherebbe un ulteriore
effetto: quello di trasformare la possibilità di vivere in
coppia e di avere accesso ad una partner in un indicatore di
status economico69.
Si tratta di scenari potenziali e certamente in conflitto
con il progetto di héxié shèhui cinese ma che, essendo
riconducibili alla discriminazione delle donne, possono
contaminare seriamente l’equilibrio complessivo della
società cinese. Il semplice fatto che, al di là delle possibili
prospettive future, la marginalizzazione femminile sia
praticata nella Cina di oggi nei confronti di un gruppo
di genere molto debole e fragile come quello delle
donne rende l’obiettivo della società armoniosa ancora
da consolidare. Nonostante questo progetto, infatti, la
condizione di disparità femminile, come la persistenza di
altre forme di discriminazione e di squilibrio sociale nella
Cina di oggi, è causata, come ha evidenziato da JeanLuc Domenach, dal fatto che la società cinese attuale è
caratterizzata da una dimensione di “fiducia contrattata”
tra i cinesi e la classe dirigente. La dimensione sociale
66. R. Collins, “A Conflict Theory of Sexual Stratification”, in Social
Problems, vol. 19, n. 1, 1974, pp. 3 e ss.
67. J. McMillan, Sex, Science and Morality in China, Londra-New York,
Routledge, 2006.
68. I. Attané, cit. p. 15.
69. Idem.
101
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cinese è “inviluppata”, cioè dominata da un meccanismo
di controllo dall’alto verso il basso, determinato da una
dilatazione del potere del partito attraverso lo Stato70.
In questo modo l’élite dirigente riesce a distribuire
adeguatamente (e senza compromettere l’unità dello
Stato stesso né del proprio potere) lo spazio dei fenomeni
sociali. In Cina, quindi, coesistono disuguaglianze intrasettoriali e trasversali agli strati sociali la cui presenza si
rende indispensabile per consolidare il ruolo di arbitro
e di guida dello Stato (e quindi della classe dirigente).
La persistenza di tali diversità rappresenta, quindi, un
“male necessario” della società cinese attuale perché
rende fondamentale il ruolo e la funzione di constante
controllo e monitoraggio dell’élite di governo71. Le autorità
politiche riescono ad evitare che la società civile non si
frammenti a causa delle disuguaglianze esistenti (né si
organizzi in modo autonomo) sviluppando e rafforzando
politiche sociali a livello nazionale. Come affermato
anche da Yves Chevrier, nonostante il disegno di società
armoniosa, la disgregazione sociale nella Cina di oggi
rappresenta la condizione necessaria per il mantenimento
del potere del partito e per la costruzione di quello dello
Stato72. Questo stesso riempie tutti gli spazi sociali e non
lascia libero corso ad autonomie “non ufficiali” (cioè
70. J.-L. Domenach, cit., p. 259 e ss.
71. Idem.
72. Y. Chevrier, “L’Empire distendu: esquisse du politique en Chine des
Qing à Deng Xiaoping”, in J.-F. Bayart, La greffe de l’Etat, Karthala,
Parigi, 1996, pp. 265-395.
102
movimenti spontaneamente sorti che non siano però
registrati e quindi riconosciuti dalle autorità politiche
stesse). Per questi motivi la condizione di precarietà e
disagio femminile resta ancora irrisolta nel paese che
risulta essere la più grande potenza economica asiatica e
che da quattro decenni è lanciato verso la modernizzazione:
come in altri casi di disuguaglianze e frammentazioni
sociali attualmente in essere in Cina, anche la controversa
situazione di marginalizzazione femminile è riconducibile
alla confusione di interessi diversi, nata dall’incontro
tra individui e gruppi sociali73. Come osservato, questo
incontro non si sviluppa mai in un campo anarchico
bensì in uno spazio sociale controllato, generando il
bisogno di un arbitro (il partito attraverso lo Stato), che
prometta fiducia e stabilità in una dimensione sociale
presente ed una futura. A differenza del passato maoista,
il moderno progetto di armonizzazione e di controllo
delle frammentazioni sociali non si configura più come
“pubblico” ma esclusivamente “privato” perché rivolto alla
nuova e popolosa società di soggetti cinese.
73. Idem.
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Saperi e sapori d’altrove:
le scrittrici (si) raccontano
SILVIA CAMILOTTI
IULM - Libera Università di Lingue e Comunicazione
N
ella produzione letteraria, oramai ventennale, di autori immigrati in Italia da
differenti paesi del mondo, le donne
sono risultate sin da subito attive protagoniste, contribuendo a sfatare molti
degli stereotipi gender- e race- oriented che solitamente
emergono quando la sfera del femminile si intreccia con
quella dell’immigrazione. Il tema culinario si presterebbe,
a un primo sguardo, a rafforzare alcuni luoghi comuni che
vedrebbero le donne, soprattutto straniere, schiacciate entro
la sfera del domestico; tuttavia, nonostante questo piccolo
contributo si soffermi sulla questione del cibo nelle opere
di “autrici d’altrove,” l’obiettivo è sottolineare i tanti altri
significati che si celano dietro alla scelta di raccontare sulla
pagina scritta le proprie tradizioni alimentari: la presenza di
questo tema consente infatti di sviluppare alcune riflessioni
sul significato del cibo nella migrazione, esperienza che lo
può trasformare in occasione di incontro e convivialità, in
strumento per mantenere viva la memoria della propria terra, ma anche possibilità di sperimentazione e mescolamento
di tradizioni culinarie differenti. Il successo del ricettario artusiano nel mondo, ad esempio, dimostra come gli emigranti
italiani abbiano cercato di mantenere le proprie tradizioni
culinarie altrove e processi affini si verificano anche con i
migranti odierni in Italia. Come talvolta accade, un fenomeno di natura sociale (in tal caso le migrazioni e le abitudini
che porta con sé) si riverbera anche in letteratura e proprio
di questo daremo qualche esempio.
Laila Wadia, scrittrice di origini indiane che vive a Trieste
da molti anni, ha riunito, sotto il segno della forchetta, racconti di autrici e autori immigrati in Italia da diverse parti
del mondo in un’antologia dal titolo Mondopentola. L’idea
che anche il cibo e la sua preparazione possano trasformarsi in momento di condivisione, in occasione di ricordo, in
tentativo di sconfiggere il vuoto di sensazioni, odori e atmosfere appartenenti al passato di ciascuno attraversa l’intero
testo. Nell’antologia leggiamo come il cibo possa diventare
un modo per «abbattere muri di incomprensione» (11), per
riscoprire la propria infanzia, per contrastare stereotipi, per
sperimentare mescolanze. Ma non solo. Infatti il cibo diventa anche il motivo per riflettere su una vasta molteplicità di
tematiche: dalla guerra in Jugoslavia nel racconto di Božidar
Stanišić (“La coccinella di Omero”), al tema della morte nel
testo di Clementina Sandra Ammendola (“Il Mao è morto”),
alle difficoltà di una donna nell’abbandonare il proprio paese per andare in Italia a fare lavoro di cura nel testo di Mihai
Mircea Butcovan (“Di sarmale, involtini, amiche e brassica”), alla distanza che si crea con la propria famiglia dopo
un distacco ventennale (“Il caffè” di Tahar Lamri). In questi
racconti il cibo diventa anche una strategia per raccontare
vicende legate alla storia di persone di differenti parti del
mondo, che sono poi quelle di provenienza degli immigrati.
Ciò permette ai lettori italiani di aprire delle finestre su storie a rischio di oblio, la cui ricostruzione aiuta a comprendere le ragioni che hanno spinto milioni di persone a lasciare le
loro terre e a stabilire di conseguenza una maggiore empatia
nei loro confronti. In Mondopentola, tematiche “serie”, per
così dire, sono controbilanciate, in un vero e proprio equilibrio di sapori, da note vivaci ed allegre, dai profumi dei
cibi che vengono preparati e gustati nei racconti, dal senso
di comunità e appartenenza che la cucina ha la potenzialità
di creare e che non si mostra nel suo lato più opprimente
nei confronti delle donne, anzi. Il cibo diventa, al contrario,
occasione per invitare ad una paritaria mescolanza, come
l’apertura dell’antologia peraltro precisa:
«Amo le contaminazioni. Senza mescolanze non esisterebbe alcuna forma di vita perché non ci sarebbero né acqua
da bere, né aria da respirare, né fuoco per scaldarci e cucinare. Tutti questi elementi sono nient’altro che abbracci
tra atomi, una fratellanza tra sostanze diverse, la contaminazione di elementi puri che da soli non riescono a dare forma all’essenziale, perché il miracolo della vita è dovuto al
meticciato. Senza contaminazioni l’Italia non avrebbe il suo
amatissimo piatto nazionale, gli spaghetti al pomodoro» (9)
103
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che, come ci spiega lo storico dell’alimentazione Massimo
Montanari, è un piatto che rappresenta appieno gli intrecci
della storia: la pasta lunga ha origini nel Medio Oriente arabo ed è arrivata in Europa nel Medioevo, mentre il pomodoro arriva dall’America, connubio che si è trasformato nel
piatto italiano più tipico.
Quello del cibo è un concetto fortemente legato anche al
tema dell’identità: studiare la storia dell’alimentazione, così
come la letteratura che ne parla, rappresenta una straordinaria occasione per comprendere gli intrecci che sostanziano le
società attuali e per mostrare come tradizione e identità non
siano nozioni chiuse e immodificabili, ma nascano dall’incontro e dal mescolamento. Il già citato storico Massimo
Montanari mostra come il cibo sia spesso associato all’identità, ma con connotazioni di chiusura, di conservazione,
di difesa da presunte minacce esterne. Invece, è proprio la
storia dell’alimentazione a insegnarci che «le tradizioni alimentari non restano mai uguali a se stesse, ma cambiano nel
tempo, modificandosi al contatto con tradizioni diverse. Le
identità, le tradizioni, si inventano, nel senso letterale della
parola: si trovano, si costruiscono» (195). Un esempio già
citato sono gli spaghetti al pomodoro, ma potremmo aggiungere anche le patate fritte, la cui genesi smantella una
visione chiusa e ferma di tradizione e identità: «Le patate
fritte sono una perfetta metafora di ciò che accade nella storia dell’alimentazione quando culture diverse si incontrano,
si confrontano, si mescolano. Il prodotto è nuovo, viene da
fuori e da lontano. Il modo di trattarlo è antico, ha radici
profonde nella cultura “ospitante”» (58).
104
L’atteggiamento che mostriamo verso i cibi è indicatore
del modo in cui pensiamo all’identità e alle differenze. Certi
cibi si possono ergere a simboli di un’appartenenza e contrapporli ad altri. Montanari, per citare un ulteriore esempio,
fa riferimento allo “scontro” tra polenta e cous cous: ci si
può arroccare dietro a questi cibi-simbolo, usandoli come
armi, oppure “offrire e condividere”, intenderli come occasioni di reciproca conoscenza e integrazione.
Sul cibo come fattore costitutivo dell’identità, soprattutto
in un contesto di migrazione, si sofferma anche una scrittrice
italiana, Marinette Pendola, che vorrei citare perché autrice
di opere legate all’esperienza degli italiani emigrati in Tunisia e alla cui cucina dedica ampio spazio, intesa come laboratorio di sperimentazione e di mescolamento di differenti
tradizioni culinarie: «Interrogarsi sull’alimentazione degli
italiani di Tunisia significa calarsi in una rete sottile di scambi e contaminazioni, ma anche cogliere il nucleo profondo
che ne esprime l’identità assieme a tutti gli adattamenti che
sono stati necessari per mantenerne la specificità. Ripensare
agli italotunisini e alla loro collocazione nella società coloniale permette di cogliere immediatamente il rapporto strettissimo con l’alimentazione come tratto caratterizzante. Di
fatto, l’alimentazione connota gli italotunisini, in particolare
i siciliani, più di qualsiasi altro tratto specifico, come potrebbe essere, ad esempio, la religione […] Considerare la presenza degli italiani in Tunisia da una prospettiva alimentare
significa non soltanto fissare l’attenzione sugli adattamenti,
sui cambiamenti e le specificità di una comunità, ma anche
cogliere il rapporto fra cibo e contaminazioni, fra ciò che
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
è stato accolto, e ciò che è rimasto
nella cucina locale a testimonianza
di un’influenza molto più profonda
di quanto potrebbe apparire di primo acchito» (98).
Anche la protagonista indiana del
racconto “La calandraca” di Laila
Wadia, nella già citata antologia
Mondopentola, attribuisce al cibo un
profondo valore affettivo e identitario, quando afferma di essersi sentita meno sola proprio grazie al negozio triestino che vendeva i sapori di
tante parti del mondo, compresa la
sua: «Oggi è uno dei giorni più tristi
da quando mi trovo a Trieste. No,
non è morto nessuno. È successo di
peggio: il negozio Gerbini ha chiuso i battenti. Come posso spiegarvi
cos’era per me questo negozio? Non
una semplice bottega stretta e lunga straripante di alimenti esotici, in
fondo a Via Battisti, non un salumificio dove non ti sentivi mai rispondere “volentieri” (sinonimo triestino per “no, mi dispiace ma non ce
l’abbiamo”), ma un luogo magico
dove si poteva trovare di tutto, dal
ricercatissimo jamon, prosciutto
crudo iberico tagliato a mano, al rinomato formaggio di Pago, e anche
un indirizzo sicuro per fare scorte di
hatwa turco o sciroppo d’acero canadese in cui affogare gustose pancakes. Era il mio rifugio. Il rifugio
della mia anima quando essa veniva
sopraffatta dal mal di patria, quando il mio corpo reclamava i sapori
della mia India natia, quando le mie
papille gustative imploravano una
tregua dai carboidrati raffinati e dagli oli extra vergini spremuti a freddo» (131).
La protagonista del racconto sottolinea anche la bellezza
che i tanti cibi affiancati sugli scaffali del negozio trasmettono, invitando alla convivenza e alla mescolanza prive di gerarchie: «Solo in questo luogo ho visto pane azimut abbracciare ceci palestinesi, sughi indiani non scostarsi dal vicino
sugo pachistano, tapioca e manioca del terzo mondo stare
in prima fila, sopra confezioni di cibi frankenstein made in
Usa» (133).
Si tratta di una bella metafora che indica come l’alimentazione, con la sua storia passata di intrecci e scambi (non
sempre pacifici) ci racconta, per voce di donna, il nostro presente e anticipa un futuro che non potrà cancellare e ignorare
le sempre più strette interconnessioni tra individui e società.
Il cibo è anche occasione per contrastare luoghi comuni
e abbattere la diffidenza verso il “diverso”, come il racconto “Spaghetti allo scoglio,” ancora di Laila Wadia, presente
nella raccolta Il burattinaio e altre storie extra-italiane, mostra. Una coppia, lui italiano e lei tibetana, invitano a cena la
sorella di lui con il marito, con i quali non vi è un rapporto
molto sereno. Visto il tradizionalismo dei due ospiti, il protagonista maschile vieta alla moglie di cucinare i “suoi” piatti,
che non incontrerebbero il gusto dei due. Opta per un piatto
unico di spaghetti allo scoglio che però, per errore, esce terribilmente salato, praticamente immangiabile. La moglie tibetana, allora, esasperata per la pessima riuscita della cena in
cui avrebbe voluto cucinare le sue pietanze, si rifugia in cucina per mangiare i “suoi” ravioli, i momo: «“Cosa mangi?”
Niente, una schifezza tibetana, risponde Ayjis con la bocca
ancora piena. Ramona ammira la sottile sfoglia di pasta, ri105
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esce ad intravedere il ripieno di carne e verdure. “Ne posso
assaggiare una?” Avviso mia sorella che non le piaceranno.
Sono gusti diversi, forti. L’autorizzo a sputare fuori il momo
se non è di suo gradimento. Ramona imita Ayjis, mettendo
in bocca un raviolo dopo l’altro in rapida successione senza
fermarsi a deglutire. Poi si lecca le dita e esclama: “Ma che
buoni! Mi devi dare la ricetta. Aldo! Vieni ad assaggiare una
specialità tibetana”» (110).
Infine, sul filo dell’ironia scorre “Il matrimonio di Ravi”,
racconto antologizzato ne Il burattinaio e altre storie extraitaliane, in cui la famiglia indiana, che si appresta a ricevere
il figlio che arriva dall’Italia con la giovane moglie, pensa
bene di eliminare tutti gli ingredienti indiani dalla cucina, per
italianizzarla. La nuora però non risponderà alle aspettative
della italiana tipo, ma esibirà la sua patente di indianità, anche dal punto di vista culinario. Il racconto si sofferma sugli
immaginari sia degli indiani nei confronti dell’Italia che viceversa, svelando una serie di equivoci che hanno il pregio
di far sorridere e soprattutto riflettere, ricorrendo anche al
cibo come elemento rappresentativo delle rispettive culture
e identità.
In conclusione, restiamo ancora nel segno della scrittrice
indiana curatrice del volume Mondopentola, da cui traiamo
il seguente passaggio chiarificatore del senso del suo testo
e, più in generale, del cibo: «A me piace pensare che questo piatto ibrido non funga solo da balsamo anti-nostalgia,
ma che contenga i germogli della voglia di creare un nuovo
mondo in cui si possono mediare lo ieri e l’oggi per dare vita
al domani. Ed è proprio questo l’intento di Mondopentola,
106
di questa cena a cui siete calorosamente invitati da tredici
scrittori dai quattro angoli della terra. Ognuno ha portato
una pietanza per condividere sapori e saperi delle terre d’origine, arricchendoli con gli ingredienti della nuova patria,
condendo il tutto con la fantasia per provare che alla fine siamo tutti ingredienti indispensabili del grande piatto dell’umanità» (11).
BIBLIOGRAFIA
Massimo Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie
intorno al cibo, Laterza, 2010
Marinette Pendola, Gli italiani di Tunisia. Storia di una
comunità (XIX-XX secolo), Editoriale Umbra, 2007
Laila Wadia, Il burattinaio e altre storie extra-italiane,
Cosmo Iannone editore, 2004
Laila Wadia, (a cura di) Mondopentola, Cosmo Iannone
editore, 2007
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
Con occhi di donna: Margaret Fuller
e la Repubblica Romana (1847-49).
Un’analisi di genere nel giornalismo
del XIX secolo
LAURA MOSCHINI
Università degli Studi Roma Tre
Testo ripreso e tradotto in italiano della relazione With
Woman’s Eyes: Fuller’s Chronicles on the Roman Republic (1847-1849) presentata alla Conferenza internazionale
Transatlantic Women II: Nineteenth-Century American Women Writers Abroad, OPA Centro Arte e Cultura, Firenze,
6-8 giugno 2013
I
l mio compito oggi non sarà molto facile perché
non è facile riassumere in pochi minuti l’attenzione
o meglio l’attenzione partecipata o meglio ancora
la cura con cui Margaret Fuller osservò e poi descrisse gli accadimenti del Risorgimento italiano
dei quali fu testimone e, come vedremo, anche attrice.
Per questo motivo sottoporrò alla vostra attenzione i tratti
delle sue scritture che esprimono il punto di vista femminile
di una grande giornalista ed inviata di guerra del XIX secolo
focalizzando il mio intervento sugli aspetti delle sue osservazioni e delle sue analisi maggiormente caratterizzate dallo
sguardo - che oggi definiremmo di genere - che emerge nelle
sue cronache. Mi limiterò quindi ad una breve presentazione e lascerò parlare molto Margaret attraverso le lettere che
regolarmente inviava oltreoceano al New York Tribune, il
giornale per cui lavorava. Per motivi di tempo considererò
solo quelle tradotte e raccolte nel volume Un’americana a
Roma. 1847-1849 riguardanti i fatti che portarono alla fuga
di Pio IX, alla fondazione della Repubblica Romana e alla
sua tragica fine1.
Margaret Fuller, giornalista professionista, giunse a Roma
nella primavera del 1847 come tanti artisti e letterati definiti
1 Margaret Fuller (1810-1850) Un’americana a Roma. 1847-1849, Edizione Studio Tesi, 1986, a cura di Rosella Mamoli Zorzi, lettere selezionate e tradotte in italiano sulla Repubblica romana, tratte dal testo originale
At Home et Abroad; or Things and Thoughts in America and Europe by
Margaret Fuller Ossoli, Edited by her Brother Arthur B.Fuller, Crosby,
Nichols and Co, Boston 1856. I riferimenti sono tratti dalla versione ebook pubblicata grazie al progetto Gutenberg, 18-06-2005.
pasionate pilgrims2. La definizione di pellegrini appassionati
derivava dal loro reverenziale amore per l’arte, i paesaggi, la
cultura italiana, passione che li differenziava da coloro che
arrivavano numerosi in Italia per il Grand Tour3, il turismo
2 Sui pasionate pilgrims si veda di Rossella Mamoli Zorzi, Un’americana a Roma, cit. p. VII
3 Con Grand Tour (traduzione letterale dal francese “grande giro”) si
indicò dal XVII secolo il viaggio di istruzione, intrapreso dai giovani delle
case aristocratiche di tutta Europa, che aveva come fine la formazione dei
giovani gentiluomi e anche in alcuni casi della giovani gentildonne -precorritrici delle grandi viaggiatrici di epoca romantica- attraverso l’esercizio della conoscenza diretta e del confronto tra realtà, luoghi, produzioni
artistiche diverse. Il termine Tour indicava un viaggio con un luogo di
inizio e di ritorno senza limiti di tempo che aveva come meta obbligata
l’Italia.
107
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
rituale che aveva l’Italia tra le mete preferite.
Margaret però, fa notare Mamoli Zorzi, fu una pasionate
pilgrim assai particolare: era infatti una donna venuta in Italia sicuramente per passione, ma sola e non in compagnia di
amiche o al seguito di un padre, marito, fidanzato, e non per
turismo, ma per lavoro. Un lavoro che, ancora oggi, richiede coraggio, oltre che curiosità, sensibilità politica oltre che
professionalità, passione appunto.
Certamente era una donna che amava viaggiare, ma quando giunse in Europa e poi in Italia e a Roma attratta da ciò che
stava accadendo, attraversò l’oceano non solo per il fascino
che questo paese suscitava in lei, ma anche per il desiderio
profondo di conoscere in prima persona la realtà sociale e
politica che il paese stava vivendo con i moti risorgimentali.
Che non fosse una normale turista è lei stessa a dirlo: «Come
altri sono passata attraverso la fase penosa delle visite turistiche, tanto innaturale ovunque, tanto contraria al sano procedere e alla vera vita dell’intelletto (…)»4. Quando giunse
in Italia, oltre a profonde conoscenze sul patrimonio artistico
e paesaggistico, conosceva anche le condizioni politiche e
gli interessi internazionali a favore o contro l’unità italiana
e verso la situazione romana in particolare. Era infatti un’inviata “di guerra”, ma un’inviata di guerra molto diversa dagli
altri corrispondenti perché accompagnava i suoi resoconti
con commenti personali riguardanti la realtà delle condizioni
sociali delle persone che incontrava, anche delle più umili,
soffermandosi in particolare sulle donne, spesso apparentemente assenti dalle cronache, come dalla storia in generale.
La sua attenzione alle condizioni delle persone, chiunque
fossero, rese - e rende ancora oggi a chi legge - le notizie
meno astratte, la guerra meno asettica, meno lontana e le “ragioni di stato” o gli intrighi nazionali ed internazionali che
tanta sofferenza provocarono - e tutt’oggi provocano - più
intollerabili. Attraverso la continua attenzione all’arte, alla
natura, al carattere complesso di una città tanto composita
come Roma, le sue cronache provocano ancora oggi forti emozioni, desiderio di conoscere come era, di ammirare,
quasi di intervenire a difenderla e a difendere la sua gente ed
in particolare le donne da quelle che erano le loro miserevoli
condizioni di vita. Le riflessioni politiche che emergono dai
suoi resoconti sono sempre interrotte da impressioni soggettive, digressioni, descrizioni di vario tipo e ricordano in parte
i più pregevoli racconti di viaggio delle scrittrici-viaggiatrici
del XVIII e XIX secolo5.
Quando Margaret arrivò in Italia sapeva quindi di incontrare situazioni pericolose causate dai moti risorgimentali,
ma non poteva certo prevedere che sarebbe stata testimone
di eventi così eccezionali: prima delle esaltanti speranze nel
Papa Pio IX come riformatore6 ed unificatore dell’Italia,
4 Ivi, p.40
5 Tra le scrittrici-viaggiatrici ricordiamo oltre a Cristina di Belgioioso
autrice di molti racconti sui suoi viaggi in Oriente ed in particolare in Turchia, Virginia Oldoini, Dora D’Istria. Per un approfondimento cf. Spazi
segni parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Franco Angeli, 2012
6 In realtà Pio IX Giovanni Mastai Ferretti (1792-1878) aveva solo concesso una moderata libertà di stampa (Editto del perdono, 1846), l’isti108
poi della delusione causata dal suo tradimento e infine delle
drammatiche vicende che portarono alla fine della Repubblica Romana
Roma, 18 ottobre 1847
Quando giunsi a Roma in primavera, il popolo era fuori di sé dalla
felicità per i primi provvedimenti seri di riforma presi dal Papa. Osservai con gioia l’esultanza infantile e la fiducia della gente. (…) Il cuore
aveva parlato al cuore nel dialogo tra principe e popolo; fu splendido
assistere all’improvviso influsso benefico esercitato dai sentimenti
umani e dai progetti generosi di un governante. Aveva voluto fare da
padre e gli italiani, con quella prontezza di genialità che li caratterizza,
avevano immediatamente accettato questo rapporto; il popolo romano, bollato per pregiudizio di astuzia e ferocia, si dimostrò fanciullo
desideroso d’apprendere, pronto ad obbedire, contento di poter avere
fiducia7.
Ma come analista politica continua
Tuttavia rimaneva pur sempre il dubbio che tutta questa gioia fosse
prematura. (…) non è mai facile mettere vino nuovo in bottiglie vecchie e la nostra è un’epoca in cui tutto tende ad una grande crisi: non
semplicemente alla rivoluzione, ma piuttosto a riforme radicali.
Dal popolo stesso deve venire l’aiuto, non dai principi; nel nuovo stato di cose non ci saranno altro che principi naturali, grandi uomini8.
e inoltre si schiera contro coloro che consideravano “doni”
le concessioni del Papa
Benché simpatizzassi cordialmente con il caldo affetto della gente,
trovavo ripugnante l’adulazione degli scrittori autorevoli, così propensi a considerare tutto ciò che viene offerto dal principe e dalla
chiesa come regali e doni invece di sottolineare fermamente che tutto
questo è diritto del popolo9.
Fa poi un paragone tra le condizioni culturali a Roma e
quelle riscontrate in Toscana
Recandomi in Toscana vi trovai la libertà di stampa appena istituita ed
un ottimo livello di preparazione per farne uso. Sono stati fondamentali L’Alba e La Patria10 (…) lo scopo di chi li fa è educare la gioventù, gli strati più umili della popolazione; questo va fatto incoraggiando
la gente a pensare senza paura (…) Lo scopo è quello di abbattere le
barriere tra i diversi stati d’Italia, vestigia di una situazione politica barbara, tenute artificiosamente in piedi dagli sforzi dei nemici.
Pur preoccupati di non rovinare quanto c’è di veramente originario
nell’indole degli italiani - quelle difese e quelle differenze che offrono
allo spirito di ciascuno la possibilità di crescere ed ai frutti di ogni
regione di maturare in modo naturale - essi vogliono raggiungere (...)
un’armonia di spirito senza la quale l’Italia, come nazione, non sarà
mai in grado di mostrare un fronte forte (…)11.
Per comprendere appieno il senso delle sue affermazioni
è importante ricordare che Margaret era un’esponente del
Trascendentalismo12 e perciò estremamente sensibile alle
tuzione di una Consulta di Stato, della Guardia Nazionale civica e del
Consiglio dei Ministri.
7 Mamoli Zorzi, op. cit. pp. 5-6
8 Mamoli Zorzi, op.cit., p.5
9 Ivi, p.6
10 giornali nei quali scrive una giornalista: Isabella Rossi Gabardi, patriota che partecipò ai moti del’48 a Firenze
11 Ivi, pp.6-7
12 Trascendentalismo: movimento letterario e filosofico nordamericano
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
vicende umane.
Inoltre nei suoi scritti è sempre presente un forte richiamo
ai principi della Dichiarazione americana dei diritti del 1776,
principi da lei ritenuti fonte di ogni teoria sul rispetto dell’eguaglianza tra gli esseri umani, donne comprese. Diritti che,
a partire dallo spirito della Dichiarazione, debbono essere riconosciuti e non concessi da qualcuno. Per quanto riguarda
le donne, di conseguenza, esse debbono agire in prima persona per il miglioramento della loro condizione, e del progresso sociale in generale, e non invece aspettare che qualcuno
si occupi della loro libertà. La frase: «dal popolo stesso deve
venire l’aiuto e non dai principi (…)» va proprio in questa
direzione sia per gli uomini che per le donne.
Nelle frasi citate è interessante notare che è chiaro il riferimento al Papa Pio IX da lei equiparato ad un principe e
del quale, come abbiamo visto, non si fidava, a ragione, poi
tanto.
A questo proposito vediamo che un altro tema ricorrente
nei suoi scritti è il richiamo ai valori della religione protestante e una profonda critica di quelli cattolici ritenuti all’origine di atteggiamenti assolutistici contrari all’eguaglianza,
alla democrazia e al rispetto degli individui, soprattutto di
sesso femminile. Atteggiamenti opposti, come abbiamo visto, anche agli ideali espressi dalla Costituzione americana
che non hanno limiti riguardanti il colore della pelle, la nazionalità, il sesso. Purtroppo, nonostante la sua fede in tali
ideali, sappiamo come nella realtà tali limiti siano esistiti e
stentino ancora oggi ad essere eliminati.
Nell’analisi degli scritti di Margaret Fuller non va dimenticato che, quando giunse a Roma, godeva già di un’ottima
fama e aveva già scritto molto. Aveva, inoltre, diretto dal
’40 al ’42 «The Dial» il periodico del Trascendentalismo,
occupandosi nei suoi scritti soprattutto delle condizioni sociali difficili. Dal ’45 al ’47 in particolare aveva pubblicato
articoli sulle condizioni delle prigioni, dei manicomi, delle
istituzioni pubbliche di New York. Sul «The Dial», inoltre,
si era occupata della questione femminile e del rapporto tra i
che ebbe il suo centro nella Nuova Inghilterra nella prima metà del XIX
secolo. Le sue origini risalgono al 1815, quando la Chiesa unitaria si staccò dal calvinismo ortodosso, con un’affermazione di liberalismo religioso; ma solo nel 1836 R.W. Emerson fornì, in Nature, la formulazione più
precisa delle istanze trascendentalistiche che, innestando sulla matrice del
romanticismo americano elementi desunti dall’idealismo tedesco e dalla
filosofia platonica e neoplatonica, ebbe il merito di affrancare la cultura
americana da quella inglese e in genere europea. Affidandosi alla dottrina della corrispondenza tra anima individuale e anima universale (OverSoul), i trascendentalisti elaborarono il concetto di Self-Reliance (fiducia
in se stessi) che, applicato a livello nazionale, veniva facilmente a significare Self-Culture (autonomia culturale), come risulta chiaramente dal The
American Scholar di R. W. Emerson. Tali premesse portarono i trascendentalisti ad assumere spesso posizioni mistiche e contemporaneamente
anarchiche: la prova è, per esempio, nei saggi più noti dell’altro grande
esponente del trascendentalismo, H. D. Thoreau. Il nucleo del trascendentalismo, costituito inizialmente dal Transcendental Club fondato nel 1836
da Emerson e comprendente tra gli altri A. B. Alcott, S. M. Fuller, W. E.
Channing e il già ricordato Thoreau ed ebbe nella rivista The Dial (184044) il suo organo ufficiale. Nell’orbita del trascendentalismo si mossero
molti dei maggiori esponenti della cultura del tempo: da W. Whitman a N.
Hawthorne, da E. Dickinson ai poeti del circolo bostoniano.
generi pubblicando tra gli altri “Il grande processo: l’uomo
contro gli uomini, le donne contro le donne” che, ampliato,
divenne nel 1845 il suo libro più celebre La donna nel XIX
secolo (Woman in the Nineteenth Century), poi diventato un
testo fondamentale nella storia del femminismo. Nel volume
Fuller applica i principi del Trascendentalismo alla condizione umana e delle donne in particolare, ma essendosi resa
conto che il termine generale uomo, contrariamente a quanto
si affermava (e ancora oggi si afferma) non comprende e non
considera anche le donne quando si parla di diritti, mentre le
comprende quando si tratta di doveri, fa presente di usare il
termine uomo nel senso di umanità. Per Uomo infatti intendeva dire anche donna, secondo le abitudini linguistiche ma,
sottolinea in apertura affinché non ci siano fraintendimenti
sul suo pensiero, il progresso di un sesso non può esserci
senza il progresso dell’altro aggiungendo che il suo desiderio più grande era che questa verità fosse compresa in modo
chiaro e razionale e che fossero riconosciute le stesse condizioni di vita e di libertà ad uomini e donne13. Per uscire dalla
situazione di subordinazione, per Margaret, le donne devono
acquisire consapevolezza della loro condizione e potenziarsi,
riconquistare la loro autostima, come diremmo oggi, nutrendo il loro intelletto per imparare ad esprimersi in pubblico e
rappresentare loro stesse i propri interessi.
Temi che, già trattati da molte donne tra le quali Olimphe
de Gouges nella sua Dichiarazione dei Diritti della Donna e
della Cittadina14 che per questo fu ghigliottinata nel 1793 e
Mary Wollstonecraft che nel 1792 pubblicò Rivendicazione
dei diritti delle donne (Vindication of the Rights of Women)15,
e oggetto di rivendicazioni femministe negli Stati Uniti che
nel 1848 portarono le donne del Wyoming al voto amministrativo16, saranno poi ripresi nel 1869 da John Stuart Mill
13 Margaret Fuller, Woman in the Niniteenth Century, “By Man I mean
both man and woman: these are the two halves of one thought. I lay no
especial stress on the welfare of either. I believe that the development of
the one cannot be effected without that of the other. My highest wish is
that this truth should be distinctly and rationally apprehended, and the
condition of life and freedom recognized as the same for the daughters
and the sons of time; twin exponents of a divine thought”. Preface, p.1
14 Olympe de Gouges, pseudonimo di Marie Gouze, (1748 –1793), è
stata una drammaturga francese che visse durante la rivoluzione francese.
I suoi scritti femministi e abolizionisti ebbero grande risonanza. Nel 1788
pubblicò le “Réflexions sur les hommes nègres” in cui prendeva posizione
contro la schiavitù, e nel 1791 la Dichiarazione dei diritti della donna e
della cittadina in cui dichiarava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo
e donna. Nel 1793 fu ghigliottinata.
15 Mary Wollstonecraft (1759 –1797) è stata una filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del femminismo liberale. Ebbe una vita
relativamente breve e avventurosa: dopo un’adolescenza passata in una
famiglia condizionata dalla povertà e dall’alcolismo del padre, si rese indipendente con il proprio lavoro e un’istruzione formata attraverso i suoi
studi personali. Visse amicizie di grandi dedizioni ed ebbe relazioni tempestose fino al matrimonio con il filosofo William Godwin col quale ebbe
la figlia Mary, nota scrittrice e moglie del poeta Percy Bysshe Shelley.
Mary Wollstonecraft è nota soprattutto per il suo libro A Vindication of
the Rights of Woman, nel quale sostenne, contro la prevalente opinione del
tempo e in polemica con Rousseau, che le donne non sono inferiori per
natura agli uomini, anche se la diversa educazione a loro riservata nella
società le pone in una condizione di inferiorità e di subordinazione.
16 Negli USA, il dibattito sulla condizione femminile ebbe un primo importante risultato nel 1848 nella Seneca Falls Convention e nella conqui109
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nel suo famoso saggio Sulla soggezione delle
donne (scritto grazie anche al contributo della
sua compagna Harriett Taylor)17e poi sviluppati con particolare efficacia alla fine del XIX
secolo da Charlotte Perkins Gilman e in Italia
da Anna Maria Mozzoni, solo per citare alcune
scrittrici18.
Quando giunse a Roma Margaret era quindi preparata ad affrontare le situazioni sociali
e politiche che avrebbe incontrato e le affrontò
non con uno spirito romantico, di cui tuttavia i
suoi scritti spesso risentono, ma con uno spirito
partecipativo e coinvolto. Non si limitò quindi ad osservare rimanendo distante le vicende
romane, come facevano gli altri corrispondenti
dimostrando a volte atteggiamenti di superiorità e disprezzo, ma volle conoscere ed incontrare sia i maggiori protagonisti del Risorgimento
italiano tra i quali Mazzini e Garibaldi, che le
donne protagoniste del Risorgimento. Con una
di loro la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, Margaret lavorò a stretto contatto anche durante gli attacchi e i bombardamenti dei
francesi chiamati da Pio IX, per l’organizzazione degli ospedali e la gestione delle ambulanze.
Cristina di Belgioioso fu una donna coraggiosa, indipendente che trattava alla pari con re,
imperatori, lo stesso Papa Pio IX e i grandi rivoluzionari come Mazzini (con il quale molto
spesso discuteva).
1849. Repubblica Romana. 29 marzo – 1° luglio. Olio su tela realizzato da Flait Martini.
Alcune pagine delle sue lettere sono dedicate
proprio a Cristina di Belgioioso19
sta del diritto di voto amministrativo alle donne nello Stato del Wyoming
(1848)
17 John Stuart Mill (1806 –1873) filosofo ed economista britannico, uno
dei massimi esponenti del liberalismo e dell’utilitarismo. Harriett Taylor
(1807 –1858) filosofa inglese ed sponente del femminismo liberale, sposò
in seconde nozze John Stuart Mill. Il saggio The Subjection of Women
(1869)venne scritto da Mill in collaborazione con Harriet Taylor. In esso
Mill rivendica la parità dei sessi nel diritto di famiglia e il suffragio universale, sostenendo che ciò migliorerà anche gli uomini, i quali smetteranno di sentirsi superiori solo per il fatto di essere maschi e metterà fine
all’ultimo residuo di schiavitù legale esistente dopo l’abolizionismo dello
schiavismo dei neri negli Stati Uniti. Per un approfondimento si veda di
G.Conti Odorisio Ragione e tradizione. La questione femminile nel pensiero politico, Aracne 2005.
18 Charlotte Perkins Gilman, (1860-1935) sociologa, economista e scrittrice americana autrice di molti libri, saggi, racconti tra i quali Women and
Economics. A study of the Relation between Men and Women as a Factor
in Social Evolution (1898), The Yellow Wallpaper (1891) sulla relatà della
depressione post partum. Per un approfondimento si veda di L. Moschini, La donna nuova e il progresso sociale. Dal Women and Economics
alle politiche di genere, Roma aracne 2007 e Charlotte Perkins Gilman.
La straordinaria vita di una femminista vittoriana, Roma, Aracne, 2006.
Anna Maria Mozzoni (1837 –1920) è stata una famosa giornalista italiana,
attivista dei diritti civili e pioniera del femminismo in Italia. Tra le sue
opere più importanti: La donna e i suoi rapporti sociali, Milano, Tipografia Sociale, 1864, La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile
italiano, Milano, Tipografia Sociale, 1865. Tradusse inoltre in Italiano
The Subjection of Women, di John Stuat Mill, La servitù delle donne, Milano, Legroy, Tipografia Sanvito, 1870. Per un approfondimento si veda
La liberazione della donna, a cura di F. Pieroni Bortolotti, Milano, Mazzotta, 1975.
110
Roma, 27 maggio 1849
(…) Ma per tornare agli ospedali: sono stati messi in ordine e mantenuti tali dalla principessa Belgioioso. La principessa è nata da una
delle più nobili famiglie milanesi, discendente del grande Trivulzio
ed erede di un’immensa fortuna. Fortuna che ha compromesso ben
presto impegnandosi nei moti liberali, falliti i quali, è stata obbligata
a fuggire a Parigi dove, per un periodo, si è mantenuta scrivendo e
credo anche dipingendo. Era naturale che una principessa in una simile posizione dovesse suscitare grande interesse, ed infatti essa ha
attratto intorno a sé una piccola corte di uomini illustri. Dopo aver
recuperato le sue fortune è rimasta a vivere a Parigi distinguendosi per
impegno e munificenza sia nei confronti dei letterati sia nei confronti
dei compatrioti in esilio. Più tardi, nella sua proprietà di Locate, tra
Pavia e Milano, ha condotto con assennatezza e successo esperimenti
di tipo socialista. Per diversi anni è stata portata avanti un’associazione per l’educazione, per il lavoro e la condotta degli affari domestici;
a questo fine non s’è risparmiata alcun sacrificio di tempo e denaro, ha
amato ed è stata riamata da chi era oggetto delle sue cure, affermando
di voler morire in quei luoghi. Ora tutto è stato saccheggiato e distrutto, anche se è possibile sperare che sia stato gettato qualche seme di
19 Cristina di Belgioioso Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808 –1871)
è stata una patriota, giornalista e scrittrice italiana che partecipò attivamente al Risorgimento. Fu editrice di giornali rivoluzionari, e molte
sue opere sono incentrate sugli anni della prima guerra d’indipendenza.
Per un approfondimento si veda: Gianna Proia, Dal salotto alla politica,
Roma, Aracne editrice, 2010. Mirella Scriboni, Se vi avessi avuto per
compagna... Incontri tra donne nelle lettere e negli scritti dall’Oriente
di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in Italian Culture, Volume XII, 1994.
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
pacifica riforma, seme che germoglierà quando meno lo si aspetta.
La principessa è ritornata in Italia nel 1847-48 colma di speranza in
Pio IX e Carlo Alberto. Ha dato prova dell’abituale generosità, davvero principesca, finanziando una compagnia di soldati ed un giornale,
fino all’ultimo triste tradimento di Milano, il 6 agosto. Queste giornate
hanno tolto le bende dagli occhi di tutto il popolo, ma di ben pochi
nobili; la Belgioioso è stata una dei pochi con una mente abbastanza
forte da imparare la lezione e adesso si interessa con entusiasmo al
movimento repubblicano. Da Milano s’è recata in Francia, ma, accorgendosi che di là le sarebbe stato impossibile fare qualcosa di serio
per l’Italia, è ritornata e da due mesi risiede a Roma. Da quando ha
lasciato Milano non percepisce alcuna entrata, dal momento che i suoi
beni sono in mano a Radetzky, né è possibile sapere quando potrà
riaverli, se questo mai avverrà (…). Ha diffuso un invito alle donne
romane perché preparino bende e garze e offrano i loro servigi ai feriti; ha riordinato gli ospedali ed in quello centrale, la Trinità dei Pellegrini, un tempo il luogo dove venivano ricevuti i pellegrini durante
la Settimana Santa (…) essa è rimasta giorno e notte dal 30 aprile
quando sono giunti i primi feriti. Da principio si è procurata un po’
di denaro girando per Roma a chiedere l’elemosina, accompagnata
da due gentildonne velate, in seguito le offerte spontanee sono state
generose (…)20.
All’appello di Cristina di Belgioioso rispondono molte
donne sia aristocratiche che del popolo per prestare soccorso
ai feriti ricoverati negli ospedali. Cristina non fece differenza
tra le donne da arruolare e fu per questo accusata dal Pio IX
di aver addirittura consentito alle prostitute di curare i malati:
«(…) più d’una volta gli stessi miseri infermi già presso a
morire, sprovveduti di ogni conforto della Religione, furono
costretti ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice». Alle sue accuse, contenute nella Enciclica “Noscitis
et nobiscum” 21 dell’8 dicembre 1848, Cristina rispose che
non poteva certo disporre della polizia sacerdotale per controllare i loro costumi e che comunque quelle donne non si
erano risparmiate, né sottratte anche davanti ai compiti più
gravosi e ripugnanti nella cura dei feriti, né al pericolo dato
che gli ospedali erano bersaglio dei cannoneggiamenti e delle bombe francesi. A Cristina di Belgioioso si deve inoltre
“l’invenzione” delle infermiere e la richiesta della neutralità
dei feriti.
Al seguito di Cristina, Margaret, oltre a scrivere, si occupa anche dei feriti accorgendosi di non essersi mai resa
veramente conto di cosa fosse la sofferenza provocata dalla
guerra
Per la prima volta poi, poi, mi sono resa conto di come soffrano i
feriti. Ho trascorso la notte del 30 aprile in ospedale e ho assistito alla
terribile agonia di coloro che morivano o che avevano bisogno di amputazioni, ho percepito le loro sofferenze mentali e il loro angoscioso
desiderio di avere vivine le persone care che si trovavano lontane;
molti di loro infatti erano lombardi, giunti dai campi di Novara per
combattere con una sorte più fausta; parecchi erano studenti universitari che si erano arruolati precipitandosi in prima linea: le impudenti
falsità dei dispacci del generale francese sono incredibili. I francesi
20 Mamoli Zorzi, op.cit. pp.290-291 , si veda anche: Aa.Vv., Margaret Fuller Ossoli, le donne e l’impegno civile nella Roma risorgimentale,
Atti del convegno, Roma 23 maggio, 2010, http://www.cpseditrice.it/pdf/
il_Bicentanario_di_Margaret_Fuller_Ossoli.pdf
21 Enciclica Papale “Noscitis et nobiscum”, Napoli, Portici, li 8 Dicembre dell’anno 1849 http://www.totustuus.biz/users/magistero/p9noscit.
htm
non sono mai stati invitati in alcun modo e sono stati accolti con ogni
segno possibile di ostilità22.
Continua poi la sua cronaca parlando delle gravi responsabilità del Papa in tali distruzioni e sofferenze
Per tornare al suo punto di vista di Margaret notiamo che
si tratta di un punto di vista profondamente americano che
parte da presupposti americani – almeno di quelli presenti
nei proclami - che lei, per sua stessa ammissione, non abbandonerebbe mai. Gli scritti di Margaret contengono, infatti,
una continua sollecitazione verso il popolo americano a rispettare gli ideali di libertà e di democrazia facendo propria
la causa italiana, aiutando la lotta degli italiani per la libertà
Spero ardentemente in qualche manifestazione di simpatia verso l’Italia da parte del mio paese. Cogliete quest’occasione e fate qualcosa.
(...) Questa causa è NOSTRA più di ogni altra e dovremmo dimostrare
che la comprendiamo (...). Con l’Italia abbiamo in certo modo rapporti
di parentela; è il paese di Colombo, di Amerigo, di Caboto (...). Per
favore pensateci, oh voi amici che date ancora importanza all’Aquila
(simbolo degli Stati Uniti), al 4 luglio ed alle antiche grida di speranza
e onore (...). Oh America, con tutti i tuoi ricchi doni, è alto il conto che
devi rendere per il talento che ti è stato dato: fa’ di tutto perché non ti
trovi in difetto! 23
Gli ideali americani, come abbiamo visto, per lei non avevano limiti né di sesso, né tantomeno di nazionalità, anche se
riconosceva le difficoltà ancora presenti sia in politica sia per
quanto riguardava la questione femminile
E il mio paese che cosa sta facendo? (…) Di grazia inviateci un buon
ambasciatore, uno che abbia esperienza di vita all’estero e che possa
quindi agire assennatamente, un uomo –se possibile- che abbia cognizioni e mire che trascendono la mera causa della politica di partito
negli Stati Uniti (…) capace, all’occasione, di cogliere i diversi aspetti
della vita. Mandate una persona che sia in grado di apprezzare il privilegio di vivere a Roma e di conoscerla.(…). Un altro secolo e potrei
chiedere d’essere nominata ambasciatrice io stessa (…) ma il giorno
della donna non è ancora arrivato. Esse hanno i loro circoli a Parigi,
ma perfino George Sand non vorrebbe cooperare con le altre donne,
vista la condizione in cui si trovano al momento. (…). Tuttavia non
dovrebbe abbandonarle a causa di quella che non è un’inclinazione
naturale, bensì una disgrazia. Quante cose dovrò ancora raccontare
su questo argomento, se vivrò ancora, cosa che non desidero affatto
poiché sono molto stanca di battermi contro ingiustizie enormi; desidererei invece che qualche altra donna più giovane e forte di me, si
facesse avanti per dire ciò che andrebbe detto, o meglio ancora per
fare ciò che andrebbe fatto24.
Accanto alle riflessioni politiche, Margaret come abbiamo
detto, sensibile com’era alla condizione femminile, non può
fare a meno di annotare aspetti che sarebbero stati considerati solo folkloristici o addirittura irrilevanti da un uomo: tra
questi, riflettendo sulla religione cattolica, annota la natura
contraddittoria del sistema sociale romano attraverso la sistemazione delle donne che assistono ad una interessante cerimonia in chiesa il giorno dell’Epifania:
22 Mamoli Zorzi, op.cit. pp.288-289
23 Mamoli Zorzi, op.cit. pp.15-16
24 Mamoli Zorzi, op.cit., pp.204-205
111
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Com’è consuetudine a Roma, -una consuetudine bizzarramente contraddittoria in un paese in cui la Madonna viene venerata assai più di
frequente e devotamente di Dio o di Cristo, in una città dove almeno
c’è parità tra il numero delle sante e delle martiri venerate e quello
dei santi e dei martiri – non c’era nessun posto comodo per far sedere
le donne. Tutti i posti buoni, nell’area inferiore, erano riservati agli
uomini, mentre ad un numero limitato di donne era concesso sbirciare quanto stava accadendo dalle finestre della galleria e dalla tribuna
dell’organo. Io ero uno di questi personaggi d’eccezione.25
Avverte poi compassione e orrore di fronte alla cerimonia di una monacazione con tutta probabilità indotta, se non
forzata, sottolineando quanto la realtà fosse differente dalle
descrizioni presenti nei racconti
Domenica mi recai a vedere la cerimonia di vestizione di una monaca.
Era persona di alto rango; la condusse all’altare una principessa e la
cerimonia fu ufficiata dal Cardinal Ferretti, Segretario di Stato. Fu
una cerimonia molto meno commovente di quanto m’aspettassi dalla
descrizione fattane dai viaggiatori e dagli scrittori dei romanzi. (…)
La monaca, una donna di venticinque o ventisei anni elegantemente
vestita, abbastanza bella (…) si fece avanti, s’inginocchiò e pregò;
con quel salmodiare falso e innaturale troppo comune tra i predicatori
di tutte le chiese e di tutti i paesi, il suo confessore elogiò se stesso
per averla indotta a scegliere la via che l’avrebbe portata «di palma in
palma, di trionfo in trionfo». Povera creatura! Dal suo aspetto sembrava che quel che le sarebbe bastato sarebbero stati gli ulivi casalinghi
e i papaveri; e in mancanza di questi, invece, amare pozioni e cicuta
dovevano essere le sue bevande. Fu poi condotta dietro una grata dove
le furono tagliati i capelli e gli abiti le furono sostituiti con le vesti da
monaca, mentre si affaccendavano intorno a lei suore in abiti neri che
sembravano cornacchie o corvi intenti ai loro tetri banchetti. Per tutto
il tempo suonava la musica, prima con note dolci e meditabonde, poi
con note trionfali. L’impressione che ne ebbi fu ripugnante e dolorosa
al massimo.26
Le riflessioni che seguono sullo stato monacale ed in particolare sulla monacazione forzata, riportano alla memoria
la vicenda di Eleonora Caracciolo, principessa napoletana
monacata a forza dalla madre rimasta vedova. Eleonora, nel
suo racconto I misteri del Chiostro Napoletano27, racconta
in modo dettagliato la sua infanzia felice e spensierata e poi
le sue sfortunate vicende, gli inganni, i tentativi di fuga, la
tenace azione antiborbonica in favore dell’unità d’Italia che
svolgeva dal convento, le sue depressioni e i tentativi di suicidio, gli intrighi e le rivalità con esiti a volte crudeli per le
povere donne, rinchiuse per motivi che con la loro vera volontà spesso non avevano niente a che vedere. O che, come
nota Margaret pensavano di avere la fede, ma poi si erano
accorte che questo non era più vero ed era ormai impossibile
per loro tornare libere. Perché, si domanda Margaret, non è
previsto per loro di poter tornare indietro? Perché «chi persuade una novizia che le insidie del mondo sono meno pericolose dei demoni della solitudine» non si rende conto della
sua terribile responsabilità?
Una risposta si può forse dare tornando al racconto che
Eleonora pubblicò nel 1864 dopo essere riuscita a liberarsi
25 Ivi, pp. 115-116
26 Ivi, pp.66-67
27 Eleonora Caracciolo (1821-1901), I Misteri del Chiostro Napoletano,
1864, Progetto Manuzio www.liberliber.it
112
con l’arrivo di Garibaldi a Napoli nel 1861. Il racconto ebbe
un grandissimo successo, tanto grande da procurarle l’attenzione di Francesco De Sanctis, ministro della Pubblica Istruzione nel nuovo Stato, che le promise un ruolo da ispettrice
nel suo Ministero, promessa che non mantenne.
Il testo presenta un punto di vista diverso perché inedito
sulla realtà della monacazione, che si oppone alle tante narrazioni romantiche di cui parla Margaret. E’ infatti un punto
di vista diretto, non mediato da una visione esterna, maschile, che non riesce o forse non vuole riuscire a comprendere
la realtà dei sentimenti e dei condizionamenti che influiscono
sulle scelte delle donne, scelte che spesso, oltretutto, appaiono distorte o perverse28 dimostrando, per un’assurda logica,
l’inaffidabilità delle donne. E che il punto di vista di una donna sulla propria monacazione indotta, come nel caso di Eleonora, o forzata sia diverso da quello di uno spettatore che non
corre il rischio di un tale destino, è testimoniato anche da un
altro scritto che ebbe grande fama. Si tratta di La semplicità
ingannata (titolo diverso da quello indicato dall’autrice: La
tirannia paterna) di Arcangela Tarabotti29 uno straordinario
documento del XVII secolo sulla condizione femminile e
sul destino imposto a tante donne, contrariamente alla loro
volontà, per il mantenimento di un ordine sociale basato su
criteri e priorità maschili, o meglio come sottolinea Tarabotti, sull’autorità paterna assoluta, da cui lo Stato ha origine.
Il tema della monacazione forzata, in realtà, è stato trattato anche dal Manzoni e poi dal Verga30, ma la forza della
testimonianza diretta unita ad indubbie capacità letterarie e
di argomentazione delle due scrittrici, riesce a portarci veramente all’interno di sentimenti, emozioni, vicende come
sempre avviene quando un punto di vista non è mediato o
interpretato se non addirittura distorto.
Lo sforzo di comprensione di Margaret è continuo e in
alcuni casi la porta addirittura ad una sorta di immedesimazione con le donne di Roma quando, per esempio, utilizza
le stesse loro invocazioni come “Ave Maria Santissima!” o
“Madonna Addolorata!” e, anche se da alcune sue affermazioni lascia intendere di provare scarsa stima per le loro doti
intellettuali e la loro ignoranza, è però attratta dalla loro bontà, semplicità e naturalezza
Quante donne belle e di cuore c’erano in mezzo alla folla! Le donne italiane sono intellettualmente ad un livello basso, tuttavia sono
prive d’affettazione si può ben vedere che cosa il cielo voleva che
fossero ed io sono convinta che saranno madri di una stirpe grande
e generosa31.
28 Sulle scelte o preferenze distorte o adattative delle donne si veda di
Martha Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il
Mulino, 2001 e Amartya Sen, The Standard of Living, Cambridge University Press, 1987
29 Arcangela Tarabotti (1604-1652), si veda di G.Conti Odorisio, Storia
del femminismo in Italia, ERI, 1981 e di Laura Moschini, Canoni e dissonanze, Roma Aracne, 2012
30 Alessandro Manzoni, ne I promessi sposi (1827, 1840, 1842) e Giovanni Verga, in Storia di una Capinera (1869) descrissero le drammatiche vicende di due donne monacate
31 Zorzi op.cit., p.46
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Mentre aspettava di vedere il Papa, incontra una bambina
con la sua mamma e stabilisce con loro una relazione che per
qualche istante la fa sentire meno sola, quasi in una famiglia:
C’era accanto a me una bimba italiana, una bambina di quattro o
cinque anni che la madre aveva portato a vedere il Papa. Siccome
la piccola mi sorrideva e mi faceva dei segni, allorché ad intervalli
interrompeva la contemplazione, io di rimando le ho fatto un cenno
col capo e le ho chiesto il nome. «Virginia –mi ha detto lei – e come si
chiama la signora?» »Margherita», », «il mio nome - ha proseguito –è
Virginia Gentili». Ho riso, ma non ho colto l’arguto e gentile invito,
pur chiacchierando e giocando con lei di tanto in tanto. Alla fine ha
detto a sua madre: « La signora è molto cara, mostrale le mie due
sorelle». Così la madre, anche lei una bella donna, mi ha presentato
due graziose giovanette e immediatamente, per quel breve spazio di
tempo, sono entrata in una piacevole intimità con la famiglia.
Subito dopo incontra tre donne inglesi e fa un paragone
tra il loro modo di partecipare all’evento e il calore gentile
delle italiane
Davanti a me sedevano tre signorine inglesi, le tre graziose figlie di un
nobile conte; i loro modi erano stranamente in contrasto con codesta
bontà italiana, un contrasto che meglio può essere espresso dal loro
uso costante del pronome quello. « Avete visto quell’uomo» (qualche
prelato importante), «Guardate quel vestito!» usciva continuamente
dalle loro labbra.
Margaret, diversamente dagli altri stranieri, osserva la
gente di Roma senza arroganza, ma anzi partecipa a diverse
eventi sia organizzati dall’aristocrazia che dal popolo.
Ecco come descrive la sua giornata trascorsa nei festeggiamenti per la concessione da parte di Pio IX della Consulta
e della Guardia Civica, quindi prima che tradisse la causa
romana e fuggisse a Gaeta
Dopo che il corteo era passato, ho cercato d’andare a piedi dal Caffè
Novo, sul Corso, a SanPietro, per vedere le decorazioni delle strade,
ma mi è stato impossibile. Procedere in mezzo a quella folla fitta ma
oltremodo vivace, varia e di buon umore (…) è stato impossibile.
La sera è stato dato un ballo all’Argentina. C’erano lord Minto, Il
Principe Corsini, ora senatore, i Torlonia nell’uniforme della Guardia
Civile – la principessa Torlonia agitava di frequente in risposta ai saluti una sciarpa con i colori della Guardia Civica, donatale da questa
-. Ma lo spettacolo più bello della serata sono stati i trasteverini che
danzavano il saltarello indossando i loro costumi più vivaci. Così ho
avuto l’occasione di vederli molto meglio che non in precedenza. Parecchi di loro erano di una bellezza magnifica e danzavano in maniera
ammirevole; era veramente come uno schizzo di Pinelli.
Il saltarello mi affascina: ci sono veramente dentro il vino e il sole italiani. La prima volta l’ho visto danzare vicino al Colosseo, una notte,
alquanto inaspettatamente; mi ha trascinato a tal punto che ho insistito
in modo estremamente sgarbato per rimanere, mentre gli amici in mia
compagnia, non riscaldati com’ero io dall’entusiasmo, rabbrividivano
e forse prendevano freddo a causa dell’aria umida della notte (…) Ma
da allora mi piace molto osservare e studiare il saltarello.32.
Margaret, come abbiamo visto, è sempre tra la gente anche quando si tratta di osservare e descrivere la guerra e la
partecipazione piena e attiva di molte donne: dalla donna che
afferra una bomba e la disinnesca dando l’esempio che sarà
32 Ivi, p.55
poi seguito dagli altri, a Colomba Antonietti l’unica donna
alla quale è stato eretto un busto tra gli eroi della Repubblica
Romana sul Gianicolo, oltre ad Anita raffigurata a cavallo
con Garibaldi. La descrive come una donna che non si è tirata indietro di fronte alla fatica e al pericolo e che non è stata
da meno di un uomo nel difendere la causa italiana
Colomba Antonietti di Foligno ha seguito per due anni il marito Luigi
Ponzio, luogotenente del 2° reggimento (…), con lui ha condiviso le
marce e il fuoco nemico. Aveva solo ventun anni, il cuore generoso
del più alto sentimento italiano. Ha combattuto da uomo, meglio dire
da eroe (…) degna del marito, del cugino, il colonnello Masi33.
Ma registra anche ciò che accade in altre parti d’Italia
come ad esempio in Sicilia dove le donne partecipano attivamente con le armi di cui dispongono alle rivolte contro il
re di Napoli
Quando al re (di Napoli) è stato dato per certo dal fratello, che la Sicilia si trovava in una condizione di rivolta incontrollabile e che anche
le donne sopraffacevano le truppe - facendo piovere su di loro pietre,
mobili e olio bollente, le armi che la casa può offrire alla madre di
famiglia sollecita - …. essendo divenuta la sua mente più lucida, egli
ha offerto ai suoi sudditi un’amnistia e condizioni di riforma (…)34.
O, riguardo agli avvenimenti e alle manovre internazionali, peraltro assai complesse, non le sfugge il sacrificio imposto all’infanta di Spagna costretta per accordi “politici” a
sposare un uomo anziano e, si diceva, sterile, o in altre fonti
impotente.
Giunge inoltre notizia che l’infame sacrificio della povera reginetta
di Spagna assume note più tragiche; che si sostiene sia epilettica e
stia per essere indotta a rinunciare a quel trono che in verità è stato
per lei una terribile maledizione. Cielo e terra sono stati a guardare
imperturbabili mentre il re di Francia ha manovrato ogni cosa con la
più snaturata delle madri35.
Le vicende dei matrimoni combinati a fini politici, come
pure quelle sulle monacazioni indotte o forzate, passano nella storiografia tradizionale come fatti scontati, quasi fosse
“naturale” sacrificare persone, in questi caso donne, ai fini
politici. A tal proposito spesso si ribatte che anche agli uomini vennero imposti matrimoni non voluti o monacazioni,
ma, come sappiamo, in condizioni ben diverse rispetto a libertà di movimento, sessuale e riproduttiva. La storia è piena
di principi, re e anche papi che hanno avuto amanti, a volte
divenute molto famose e “riconosciute” e figli e figlie al di
fuori del matrimonio36.
33 Ivi, p.XX
34 Ivi, p.119
35 Ibidem. La storia citata riguarda la complessa questione del matrimonio di Isabella II di Spagna, dichiarata maggiorenne a solo 13 anni. La
questione emerge dalle cronache di Margaret Fuller perché inserita tra gli
accordi e i tradimenti che di volta in volta favorivano interessi nazionali o
privati delle singole famiglie o gruppi di potere e indirettamente la causa
italiana, oppure la ostacolavano. Si veda p. 9 e la nota 3, p.17, Mamoli
Zorzi, op. cit.
36 Tra le più note del periodo Risorgimentale la Contessa Virginia di
Castiglione che tanto influenzò l’Imperatore Napoleone III sostenuta, o
113
ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO
La proclamazione della Repubblica Romana in Piazza del Popolo
Ma la sua coscienza sulla questione femminile sembra veramente risvegliarsi, tanto da farle provare rimorso per non
aver agito prima, quando era in patria, di fronte alle violenze
quotidiane subite dalle donne a Roma. Consapevolezza che
la spinge a sollecitare un interesse più diretto e concreto verso un miglioramento della condizione femminile.
Basta! Se solo mi fossi interessata a questo quando ero ancora nella
privilegiata America! Se avessi ascoltato le urla delle madri e delle
mogli picchiate di notte dai figli e dai mariti ubriachi, per puro divertimento! Urla che ho udito più e più volte in questi ultimi mesi; o la
solita scusa per mentire: «Non oso dirlo a mio marito, sarebbe pronto
ad uccidermi!». Sono esperienze che mi hanno resa più sensibile alla
condizione della donna e alle misure che si dovrebbero prendere. Se
solo avessi il talento e la forza necessaria per dire bene quanto andrebbe detto! Che Dio li conceda a me o a qualche altra donna meritevole!
37
Nei resoconti di Margaret c’è un lungo periodo di silenzio:
una prolungata assenza di quasi otto mesi dal 19 aprile al 2
dicembre 1848. L’assenza di resoconti è dovuta alla sua maternità tenuta segreta. In realtà Margaret giustifica in modo
sibillino ai suoi lettori che la sua assenza era giustificata38.
La sua maternità, come avviene quasi sempre quando una
donna non considera il ruolo materno come l’unico ruolo
possibile e desidera dedicare la propria vita ad una professione, provocò una vera rivoluzione nella vita di Margaret
e nel suo modo di sentire e vedere le cose. Quando conobbe
Angelo Ossoli, un giovane nobile decaduto, di nove anni più
giovane di lei, certo non poteva immaginare che tale rapporto
meglio utilizzata in questo da Cavour.
37 Ivi, p.206
38 IVI, p.XXIV
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le avrebbe cambiato la vita. Iniziò una relazione che le provocò grandi turbamenti e dubbi, ma che poi, su consiglio di
un caro amico, l’unico col quale si era confidata, decise di
vivere pienamente gustandone i momenti di felicità.
Ben presto però un senso di angoscia traspare nelle lettere:
il 20 dicembre scrivendo a Ralph Waldo Emerson39 parla del
proprio futuro come di un incubo da cui nessuno può liberarla, salvo forse la morte. Inoltre nelle sue lettere appaiono
continuamente cenni ad odori nauseabondi che, se letti tra
le righe, rivelano una gravidanza. L’incubo è infatti il figlio
che aspetta da Ossoli, che vorrebbe sposarla, ma che lei, pur
amandolo, forse non vuole come marito. E l’dea di avere un
figlio, nella situazione di pericolo e instabilità in cui si trovava, al di fuori della sua patria e senza un legame consolidato
e riconosciuto, le provocava un profondo stato di disagio e di
angoscia rispetto a tutto ciò che avrebbe comportato.
Per la gravidanza decise quindi di lasciare Roma per trasferirsi a Rieti, oltre che per tenerla nascosta anche perché
a Roma in estate esisteva un forte rischio di ammalarsi di
malaria. Dopo la nascita di Angelino, il 6 novembre 1848,
Margaret e Angelo Ossoli forse sono sposati o forse no. Nessun documento in proposito è mai stato trovato. Ossoli comunque redisse un atto in cui dichiarava il figlio erede del
titolo di marchese.
Poco dopo Margaret tornò a Roma e riprese a scrivere anche se una parte di lei rimase a Rieti, come risulta dalle sue
lettere a Ossoli, con suo grande dolore. Ai lettori comunica
sibillinamente, il 2 dicembre di aver abbandonato quel che
aveva di più prezioso che tuttavia non poteva portare con sé.
A Roma però Margaret visse l’assedio dei francesi sof39 Ralph Waldo Emerson
SCIENZE E RICERCHE • N. 5 • MARZO 2015 • SUPPLEMENTO | ESSERE DONNA E FARE RICERCA IN ITALIA
frendo molto sia per la città che tanto amava, per i suoi feriti
ed i suoi morti, sia per il figlioletto lontano. Quando dovrà
fuggire da Roma, ormai caduta in mano francese, e potrà finalmente raggiungerlo lo trova sofferente e denutrito: tutto
quello che avevo sofferto, scrive, non è nulla di fronte al fatto
di vederlo troppo debole per sorridere o per alzare la manina.
Il suo modo di scrivere professionale, attento e acuto si
caratterizza in Margaret come femminile perché, come abbiamo visto, accompagna le notizie con commenti personali
rendendole meno astratte, più vere. Come la sua gente, la
città di Roma viene descritta nei suoi aspetti più diversi.
Chiese gremite, ricche di affreschi, quadri con storie di santi,
cerimonie fastose, musica raffinata. La Roma dei grandi palazzi Barberini, Doria, il Quirinale e delle grandi ville, delle
splendide carrozze dei cardinali e dei principi. E poi la Roma
superstiziosa, delle visite ai cimiteri, dei dolci fritti in strada
il giorno di San Giuseppe, dei balli in strada, della commozione per la liberazione di altri Stati, la Roma che acclama il
Papa Pio IX per le grandi speranze suscitate e che poi, dopo
la fuga e il tradimento, brucia i confessionali. Margaret descrive sia la Roma bella e affascinante delle prime speranze
che la Roma devastata e depredata, la Roma delle ville bombardate, la Roma dei feriti e dei cadaveri dalla quale sarà
costretta a fuggire. Bellissima e romantica è la sua descrizione della serena bellezza di Roma al tramonto, che niente
lascerebbe presagire della distruzione causata dai bombardamenti che la stanno distruggendo. La lettera termina con un
ultimo accorato appello ad un mondo che sta a guardare e ad
aspettare sollecitando un seppure «tardivo: “Vergogna”!» e
un richiamo al partire da sé: e se succedesse a voi?
Roma, 27 maggio 1849
Sera
Sono sola nello spettrale silenzio di una grande casa che, non molto
tempo fa, era piena di volti allegri e riecheggiava di voci felici, mentre
ora è abbandonata da tutti tranne che da me, poiché adesso quasi tutti
gli stranieri se ne sono andati, cacciati dalla forza della calura estiva
o da quella del nemico (...) Sono rimasta fuori sul terrazzo, a contemplare la città. Tutto dorme con quell’aria di serena maestosità che solo
Roma possiede; (...) Cupole rotonde, tetti appena dipinti di muschio
giallo! Quale profondo significato e quale pace si cela nei vostri contorni vagamente ravvisati!
La luna nuova sale tra le nuvole, le nuvole di un temporale che s’allontana. Luna tenera e sorridente! E’ possibile che il tuo globo guardi
in basso verso una Roma fumante che brucia lentamente e veda il suo
sangue migliore scorrere sulle pietre senza che una sola nazione in
tutto il mondo la difenda o gridi un tardivo: “Vergogna”? Aspetteremo, sussurrano le nazioni, e vedremo se i romani sapranno sopportare.
torturateli bene per verificare se saranno coraggiosi. Se sapranno fare
senza di noi, li aiuteremo. E’ così che se toccasse a voi vorreste essere
trattati? State in guardia!40
A Firenze, dove la famigliola si rifugia dopo la fuga causata dalla caduta di Roma, Margaret riprese in mano i suoi appunti e cominciò a lavorare alla sua Storia della Repubblica
Romana. Dopo un breve periodo però anche a causa di una
precaria situazione finanziaria Margaret ed il marito decisero
40 Ivi, pp.297-298
di tornare in America dove lei aveva un lavoro e un reddito.
La storia è nota: in un naufragio in vista della costa di New
York, Margaret, il figlioletto e Ossoli, muoiono.
Invano furono cercati i suoi appunti sulla Storia della Repubblica Romana.
Ma la personalità di Margaret e il suo lavoro non potevano
scomparire: Ralph Waldo Emerson, William Henry Channing e James Freeman Clarke decisero di onorarne la memoria pubblicando i Memoirs.
Tuttavia il fantasma Margaret, spirito indipendente e rigoroso di una donna libera, sembrò spaventare anche i suoi
estimatori e colleghi: i curatori cercarono quindi di costruire
un’immagine “rispettabile” di Margaret tagliando dai suoi
scritti interi passi, modificando parole troppo forti, smussando giudizi. I tagli vennero fatti anche con le forbici affinché
non restasse nulla di compromettente. Essi sono visibili nella
documentazione conservata alla Houghton Library di Harvard o alla Boston Public Library.
Bell Gale Chevigny con un attento lavoro filologico ha riportato alla luce qualche passo, solo cancellato, che dimostra
la forza straordinaria e l’efficacia descrittiva che ancora oggi
emerge dalla sua scrittura. Un’efficacia che, come abbiamo
visto, deriva proprio da quel punto di vista diverso, non usuale perché non conforme ai canoni delle scritture maschili, che
Margaret consapevolmente utilizzava, ma che, appunto, viene, per quanto possibile censurato.
Un destino analogo agli scritti di molte grandi donne come
ad esempio Caterina da Siena i cui scritti vennero “rivisitati”
e ridotti per migliorarne lo “stile”41 o Sibilla Aleramo che descrisse come le sue riflessioni più intime, e più vere, furono
strappate via dalle prime versioni del suo libro Una donna
perché giudicate troppo “femminili” sia da Ersilia Majno che
dal suo compagno Giovanni Cena 42.
In conclusione, spero di aver riportato all’attenzione aspetti forse sottovalutati delle scritture che si caratterizzano come
femminili sottolineandone il valore a partire dalle cronache
di una grande giornalista. In questo modo credo che si possa
consentire non solo un’utile revisione dei canoni letterari affinché diventino più aperti ai contributi “diversi”, ma anche
un sicuro arricchimento per la nostra coscienza critica alla
base della nostra cultura e della nostra idea di cittadinanza43.
41 Per un approfondimento sulla “rivisitazione” delle opere di Caterina
da Siena si veda di Marina Zancan, Il doppio itinerario della scrittura,
Einaudi, 1998, pp.113-142
42 Una donna , di Sibilla Aleramo, venne pubblicato nel 1906, dopo
essere stato rifiutato da diversi editori. Ivi, pag. 183-196
43 Per un approfondimento si veda di L.Moschini, Canoni e dissonanze.
Appunti su letteratura, cittadinanza, pensiero differente, Roma, Aracne,
2012.
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