è ispirazione per la tesina di maturità di Carlotta

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è ispirazione per la tesina di maturità di Carlotta
“L’attacco al cuore dello Stato”
Riflessioni sul caso Moro
MOTIVAZIONE
Il “Caso Moro” e, più in generale, i cosiddetti “anni di Piombo”, sono una fase storica di cruciale
importanza per la storia del nostro Paese.
Noi giovani non potremo mai capire ciò che gli “anni di piombo” e la “strategia del terrore” hanno
significato nella vita delle persone in quel periodo e le conseguenze nel loro modo di vivere. Il
rapimento di Aldo Moro e l’uccisione di 5 uomini della scorta credo possano rappresentare uno
dei colpi più duri che l’Italia dovette affrontare in quegli anni.
Ho avuto la fortuna di conoscere Francesco Curreri, neoscrittore di Calderino il quale, durante la
presentazione del suo nuovo libro “Un giorno un secondo”, accompagnato da Giovanni Ricci,
criminologo e figlio di una delle vittime della strage di via Fani, mi ha convinta a scavare più a
fondo sull’attentato del 16 marzo 1978 e sullo sfondo storico italiano di quegli anni.
La decisione finale è stata presa dopo l’incontro -I misteri del "Caso Moro"- al Maggio Filosofico
tenutosi alla biblioteca comunale di Rastignano, dove, Sergio Flamini, scrittore e politico di 91
anni, parlamentare del PCI dal 68 all’87, membro delle Commissioni Parlamentari d'inchiesta sul
caso Moro e autore de "La tela del ragno", per più di due ore ha illustrato luci ed ombre del caso
Moro collegando l’intera vicenda al contesto storico del tempo.
“UN GIORNO UN SECONDO” di Francesco Curreri
Questo romanzo racconta la storia di quattro personaggi principali:
Fabio: giornalista e presentatore Rai della trasmissione “Il punto
su…”; durante i suoi anni universitari aveva aderito alle Brigate Rosse,
diventando l’esecutore in un attentato al giudice Rastelli.
Adriana: giornalista, collega di Fabio e sua fidanzata.
Lorraine Blanchard: prostituta e proprietaria di svariati night; il suo
vero nome era Alessandra De Santis, figlia di Aurelio De Santis, autista
del giudice Rastelli.
Maximilian Verte: colonnello dei Servizi Segreti francesi, ha aiutato
Lorraine a nascondere il suo passato e a farsi una nuova vita a Parigi.
Fabio e Adriana visitano i night clubs di Madame Blanchard per seguire
un’inchiesta italiana utile per il loro programma Rai; Fabio e Lorraine,
però, si innamorano follemente, mentre Adriana si abbandona all’amore per Maximilian.
Fabio viene seguito dai Servizi Segreti Italiani, per la pericolosità pubblica delle sue indagini, ma un
agente segreto viene ucciso in uno dei night.
Monsieur Verte, preoccupato per la copertura di Lorraine, inizia subito ad indagare. Oltre a
scoprire il vero passato di Fabio, assassino del padre di Lorraine, scopre la presenza di un
“organizzazione” che agisce sopra i Servizi Segreti e che risponde direttamente al governo.
I due innamorati, Maximilian e Adriana, saranno eliminati dai capi dell’”organizzazione“ in un
attentato e Lorraine non scoprirà mail la verità.
Questo romanzo è intriso di riferimenti storici propri degli “anni di piombo”, tra cui l’attentato a
Papa Giovanni Paolo II, il 13 maggio dell’’81, il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della scorta, il
16 marzo 1978.
Significativo e interessante è inoltre il modus operandi dell’”organizzazione” e delle Brigate Rosse
che viene spiegato in modo chiaro ed efficace.
Ho scelto di analizzare questo libro perché mi sembrava il perfetto inizio per trattare gli anni di
piombo e le stragi. Riferimenti storici, politici e sociali creano uno sfondo realistico proprio di
quegli anni e rendono il lettore involontariamente partecipe del contesto storico.
GLI ANNI DI PIOMBO: STRAGISMO E TERRORISMO
“È stato il decennio della partecipazione civile e delle riforme, ma anche quello
delle vittime e dei carnefici. Oltre il silenzio e la nostalgia, l'esito di quegli anni è
alla radice di un male italiano: la nostra condizione di democrazia in condominio
tra partiti senza fiducia e cittadini senza rilevanza.”
(Giovanni Moro, anni settanta, Einaudi)
In Italia, a differenza delle altre liberaldemocrazie occidentali, la contestazione
del '68 è stata egemonizzata dall'ideologia comunista. Si trattava di gruppi per lo
più autonomi dai partiti, sorti dalle assemblee, dai collettivi, e dalle occupazioni, che dipingevano
gli americani come i nuovi "nazisti", che giunsero a scavalcare a sinistra lo stesso PCI, ritenendo il
filo-sovietismo quasi un tradimento dell'autentico marxismo, di cui consideravano invece degno
interprete il dittatore cinese Mao Tse-tung, e contestavano alle radici lo Stato e le istituzioni
borghesi.
Molti dei gruppi extraparlamentari degli anni settanta, sorti negli anni precedenti, si
estremizzarono ulteriormente e degenerarono nel terrorismo rosso dando vita in particolare alle
BR, accompagnato da quello nero costituito da gruppi elitari neofascisti come i NAR.
L’arco di tempo che abbraccia questi anni viene solitamente scandito da due avvenimenti che
sconvolsero la nazione: la strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969, e la strage
della stazione di Bologna, il 2 agosto 1980.
L’espressione “anni di piombo” è tratta dall'omonimo titolo del film
di Margarethe Von Trotta del 1981, che narra gli avvenimenti
analoghi della stessa epoca storica vissuti nella Germania Ovest.
Nell’immaginario collettivo questo periodo è associato alle imprese
delle Brigate Rosse italiane o della Rote Armee Fraktion (RAF) in
Germania, ma non va dimenticato che agiscono anche molti gruppi
di estrema destra, come i NAR.
Infatti in Italia si verificarono due fenomeni fortemente destabilizzanti: lo
stragismo e il terrorismo.
Il primo è stato definito anche terrorismo nero, poiché di matrice fascista,
e agiva solitamente per mezzo di ordigni esplosivi piazzati in luoghi
pubblici al fine di alimentare la strategia della tensione, spingendo così la
gente a richiedere un governo forte, severo, capace di riportare l'ordine
anche a scapito delle libertà democratiche.
Il secondo invece è definito terrorismo rosso, ad opera di gruppi di estrema sinistra, caratterizzato
da attentati mirati, contro individui considerati i rappresentanti del capitalismo.
Oltre le Br i gruppi terroristici rossi più importanti furono i Nuclei Armati Proletari (NAP), Prima
Linea (PL), i Comitati Comunisti Rivoluzionari (Co. Co. Ri), i Gruppi d'Azione Partigiana (GAP), i
Proletari Armati per il Comunismo (PAC) e tanti altri. Invece i nuclei terroristici neri più attivi
erano Avanguardia Nazionale, Terza Posizione, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nuovo,
Ordine Nero.
Le Brigate Rosse compaiono per la prima volta a Milano compiendo azioni di propaganda armata
negli stabilimenti della Sit Siemens e della Pirelli. Tra i fondatori delle BR, che ha come simbolo la
celebre stella a cinque punte racchiusa in un cerchio, ci sono esponenti del movimento
studentesco della Università di Trento (Renato Curcio e Margherita "Mara" Cagol) ex militanti
comunisti (Alberto Franceschini) ed attivisti di gruppi estremisti di fabbrica (Mario Moretti). Con
una organizzazione clandestina e un inquadramento militare, le Brigate Rosse compiono il
rapimento del giudice Mario Sossi e il ferimento dell’esponente democristiano Massimo De
Carolis. Dopo l’arresto di Curcio nel 1976, le nuove Brigate rosse compiono una escalation
impressionante di attentati, ferimenti e omicidi di esponenti simbolo dello Stato, fino alla strage di
via Mario Fani e al rapimento di Aldo Moro, all’epoca presidente della Democrazia Cristiana.
UNO SGUARDO NELLA POLITICA DEL TEMPO
Nei primi anni sessanta in Italia si realizza un tentativo di governo nel quale forze centriste e di
sinistra convivevano. Aldo Moro fu un convinto assertore della necessità di un'alleanza tra il suo
partito, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, per creare un governo di centrosinistra. Egli era un mediatore tenace e particolarmente abile nella gestione e nel coordinamento
politico delle numerose "correnti" che agivano e si suddividevano il potere all'interno della
Democrazia Cristiana.
Dal 5 dicembre 1963 al 26 giugno 1964, guida il primo governo con ministri socialisti (il primo in un
paese capitalista!): Presidente del Consiglio Aldo Moro, vicepresidente Pietro Nenni, Giuseppe
Saragat agli Esteri, Giulio Andreotti alla Difesa e Paolo Emilio Taviani agli Interni.
In accordo con i Socialisti realizza un programma di riforme importanti, come la riforma
urbanistica e la nazionalizzazione dell'energia elettrica, riforme che spaventavano però i settori più
moderati dell'opinione pubblica. Le continue pressioni sul presidente della Repubblica, Antonio
Segni, lo costrinsero a consegnare l'incarico di capo del governo a un altro DC più «affidabile».
“Dovevo uccidere Moro”, Il Mondo Nuovo d’oggi, 19 novembre 1967
Mino Pecorelli, redattore de Il mondo nuovo d’oggi, pubblica il 19-11-67 la testimonianza del
tenente colonnello Enrico Podestà, riferita al 1964 e intitolata “Dovevo uccidere Aldo Moro”.
“Egli [Podestà, ndr] sarebbe stato prescelto in base alla sua particolare personalità militare, dopo
un colloquio con un ex ministro della Difesa, che agiva d'accordo con altre personalità politiche.
Quale parte avrebbe dovuto avere l'ufficiale nel complotto del '64? Eliminare il presidente del
Consiglio Aldo Moro”.
Scrive ancora Pecorelli, “Il piano, secondo Podestà, prevedeva di eliminare l'onorevole Moro, già
d'allora presidente del Consiglio, e di fare in modo che la colpa ricadesse su elementi di sinistra.
Purtroppo, per gli ideatori del colpo, tutto andò a monte, perché intanto si erano venuti a
modificare alcuni presupposti per un cambiamento di regime. I motivi del presupposto disagio
erano venuti a cadere e inoltre era stato eletto il nuovo presidente della Repubblica nella persona
dell'onorevole Saragat” (...) “Chi risentì maggiormente della fine di tutti i sogni di potere, orditi alle
spalle dei nostri democratici governanti, sarebbe stato appunto il povero colonnello Podestà, il
quale cominciò a dar fastidio. Egli fu allora trasferito in una zona di confine “.
“Podestà - si legge ancora nell'articolo del Nuovo Mondo d'Oggi - aveva una serie di cartine nelle
quali erano riportati i tragitti abituali del presidente del Consiglio Moro, con tutti gli orari, il nome
delle persone a seguito, il numero preciso degli agenti della Presidenziale che sorvegliavano la
sicurezza del presidente. Inoltre l'ufficiale dei paracadutisti, che a suo dire avrebbe dovuto portare
a termine l'incredibile missione, era in possesso di una serie di fotografie della casa dell'onorevole
Moro e di una lista completa di tutte le guardie speciali che si alternavano alla vigilanza del
presidente del Consiglio” (…) “Una volta impadronitisi del presidente del Consiglio, Podestà e i suoi
uomini lo avrebbero condotto, come s'è detto, in una località segreta”.
Gli anni settanta hanno rappresentato un momento cruciale per le società occidentali, e per l’Italia
in particolare. Dal punto di vista politico e sociale sono anni segnati da turbolenze, dalla
contestazione studentesca alla lotta armata, dalle maggiori rivendicazioni sindacali, dalla
ridefinizione ideologica dei partiti classici (soprattutto della sinistra) alla nascita di nuovi soggetti
politici.
Il periodo dei cambiamenti trova il culmine nella definitiva liberazione della donna, nel fallimento
del referendum abrogativo sull’aborto, dal referendum sul riconoscimento del divorzio ed in un
’68 che in Italia si protrae fino a questi anni, a differenza di altri paesi, trovando una stretta
connessione con il movimento operaio e creando i presupposti per la nascita di strutturati
movimenti extraparlamentari prodromi degli “anni di piombo”.
Per il mondo giovanile indubbiamente il ’68 aveva rappresentato una svolta e, dalle ricerche di
quegli anni, si comprende quanto fosse elevato il silenzioso potenziale contestativo dei giovani,
quanto fosse viva l'ansia di rinnovare la società attraverso una critica radicale alle sue istituzioni, e
quanto fosse allettante la speranza di poter influire sulle strutture politiche. “Dapprima si mise
sotto accusa l’autoritarismo nella scuola, poi si lottò per avere parte alla gestione del potere della
scuola, infine si tese ad analizzare le interdipendenze tra scuola e società” (Tomasi, 1986, 105).
In realtà, ciò che la contestazione esprimeva, al di là delle formule e degli stessi proclami giovanili,
era la percezione di un bisogno di rinnovamento di una società, ormai inadeguata ai processi che
essa stessa aveva ingenerato
Gli anni sessanta avevano lasciato in eredità un boom economico con una crescita del potere di
acquisto delle famiglie, ma con uno sviluppo industriale che non assicurava a molti una equità
retributiva accettabile.
Il sistema politico in Italia negli anni ’70, frastornato dalla rivolta studentesca del ’68, dalle
manifestazioni sindacali, dalla nascita di nuovi movimenti politici ad ispirazione rivoluzionaria, dal
terrorismo e dalle stragi, si rivelò incapace di gestire la trasformazione.
Non riuscì a cogliere o gestire le novità che si stavano profilando. La stessa opposizione di sinistra
si trovò spiazzata rispetto alle contestazioni che l’attaccavano proprio da sinistra: divisa tra
tentativi di ricompattazione e tentazioni di “cavalcare la tigre”, cioè di approfittare del momento
di turbolenza politica e sociale per sferrare un attacco decisivo al sistema politico dominante. Le
opposizioni di destra risposero agitando lo spauracchio della rivoluzione per catturare maggiori
consensi e, nello stesso tempo, favorendo i movimenti eversivi al proprio interno.
Ma molto di tale clima di tensione venne alimentato intenzionalmente da delitti che costellarono
di un’incredibile scia negativa la storia italiana di quel decennio. E’ la famosa “strategia della
tensione”: piazza Fontana, l’Italicus, la questura di Milano, Brescia, la morte di procuratori della
Repubblica, incidenti e provocazioni varie, sequestri, fino a quello più clamoroso di via Fani del
Presidente della DC, Aldo Moro...
Alcune ipotesi fanno pensare che la “strategia della tensione” fosse stata messa in atto da apparati
“deviati” dello stato con lo scopo di mantenere alto il livello di paura e far serrare sempre più le
persone attorno alle istituzioni permettendo anche l’emanazione di leggi speciali.
IL COMPROMESSO STORICO
Nei primi anni ‘70, la fine dell’esperienza dei
governi di centrosinistra fondati sull’alleanza
tra DC e PSI e, infine, le tensioni create dal
terrorismo convinsero alcuni leader comunisti
e democristiani che era necessario trovare
un’intesa politica.
Sul piano politico cominciò allora a prendere
corpo l'idea di un compromesso storico fra le
principali forze politiche del paese, che dalla
DC si estendesse al PCI, cresciuto
enormemente alle Regionali del 1975 e ancor
più alle politiche del 1976.
Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, lanciò allora la proposta di un compromesso
storico con la Democrazia cristiana: superare le barriere ideologiche imposte dalla guerra fredda
per formare un governo stabile che varasse le riforme indispensabili per il paese. La proposta di
Berlinguer trovò tra i suoi sostenitori proprio Aldo Moro.
I due leader politici divennero i protagonisti di un dialogo che portò nel 1976 alla formazione di un
governo definito di solidarietà nazionale, presieduto dal democristiano Giulio Andreotti: il PCI
concordò una linea politica comune con la DC, la quale manteneva la guida del governo con
l’appoggio esterno dei comunisti.
Il compromesso storico porterà tuttavia il PCI a lasciare scoperti diversi settori alla propria sinistra
che non si sentivano più rappresentati da quel partito, contrari all'idea di compromessi con le
forze "borghesi". In particolare il 1977 vide un ritorno delle agitazioni e dei movimenti di piazza,
con scontri molto più feroci di quelli del Sessantotto e violenze che sfociarono in azioni armate con
lanci di molotov, uccisioni sia di poliziotti che di manifestanti, assalti a sedi di partito. Le forze di
governo risposero impulsivamente all’inizio con la repressione, per poi tentare un dialogo con le
forze moderate di sinistra ed avviando appunto il primo governo di unità nazionale, in cui il PCI,
per la prima volta dopo il 1948 diede un appoggio esterno al governo di centro-sinistra.
Nel 1978, il PCI chiese di entrare nel governo: per la prima volta, un partito comunista avrebbe
avuto alcuni suoi esponenti ai vertici di uno stato occidentale che faceva parte della NATO, il
sistema difensivo atlantico ideato in funzione antisovietica.
La vistosa crescita elettorale del Partito Comunista italiano preoccupava gli statunitensi; in un
assetto internazionale imperniato sulla divisione bipolare fra USA e URSS e sulla guerra fredda, il
destino politico dei singoli stati non poteva non dipendere dall’intero sistema di relazioni mondiali.
Il 16 gennaio 1978, Andreotti si dimise aprendo la crisi di governo. Tuttavia, non era possibile
affrontare elezioni anticipate: l’inflazione al 18 per cento, il terrorismo, il movimento del 77 e la
sua contestazione al PCI inducevano i partiti a trovare un accordo, nonostante il quadro
internazionale e gli scetticismi politici. Aldo Moro divenne il regista di un compromesso storico
basato sulla necessità di creare «un’area di concordia» fra i due partiti, «un’area d’intesa tale da
consentire di gestire il paese, finché durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci
ha portato» (Aldo Moro, I rapporti tra DC e PCI).
Il risultato del dialogo fra Moro e Berlinguer e delle lunghe trattative fra le forze politiche fu la
creazione di un nuovo governo Andreotti, che il 16 marzo si presentò alla Camera.
ALDO MORO BIOGRAFIA
”Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico
destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio
originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro,
tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità,
tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e
di dialogo.”
Aldo Moro
Aldo Moro era un cattolico osservante e praticante e la sua fede in Dio si
rispecchiava nella sua vita politica; nasce il 23 settembre 1916 a Maglie, in
provincia di Lecce. Dopo aver conseguito la maturità classica sia laurea in
Giurisprudenza presso l'Università di Bari.
Nel 1941 ottiene la cattedra di Filosofia del Diritto sempre presso l’Università
degli studi di Bari
Parallelamente alla carriera accademica si dedica a quella giornalistica e, fonda
con alcuni amici intellettuali nel 1943, a Bari, il periodico "La Rassegna".
Nel 1945 sposa Eleonora Chiavarelli, donna che avrà sempre accanto, e che ha
avuto una grande importanza nella sua vita.
Nei primi anni ‘70 iniziò anche ad interessarsi alla politica, militando nel Partito Socialista Italiano;
per il forte credo cattolico decise però di lasciare le fila del Partito Socialista ed entrò a far parte
della Democrazia Cristiana, abbracciando la politica dossettiana di stampo democratico-sociale.
In quello stesso periodo, diventa Presidente del Movimento Laureati dell'Azione Cattolica, ed è
direttore della rivista "Studium" di cui sarà assiduo collaboratore, impegnandosi a sensibilizzare i
giovani laureati all'impegno politico.
Nel 1946 viene eletto all'Assemblea Costituente ed entra a far parte della Commissione dei "75"
incaricata di redigere il testo costituzionale; inoltre, è relatore per la parte riguardante "i diritti
dell'uomo e del cittadino" ed è anche vicepresidente del gruppo Dc all'Assemblea.
Nelle elezioni del 18 aprile 1948 viene nominato sottosegretario agli Esteri nel quinto
Gabinetto De Gasperi; continua comunque la sua attività di insegnante e di didatta, con molteplici
pubblicazioni a suo nome e nel 1953 diventa Professore Ordinario di Diritto Penale dell’Università
di Bari.
Nel 1953 viene rieletto al Parlamento diventando Presidente del gruppo parlamentare Dc alla
Camera dei Deputati, mentre nel 1955 diventa ministro di Grazia e Giustizia nel primo
governo Segni.
Nel 1957 diventa ministro della Pubblica Istruzione nel governo Zoli. Si deve a lui l'introduzione
dell'educazione civica nelle scuole.
Rieletto alla Camera dei Deputati nel 1958, è ancora ministro della Pubblica Istruzione nel secondo
Governo Fanfani.
Nel 1959 a Trento si svolge il VII Congresso della Democrazia Cristiana e Moro viene eletto
Segretario del partito, incarico che manterrà fino al 1964.
Nel 1963 viene rieletto alla Camera diventa Presidente del Consiglio chiamato a costituire il primo
governo organico di centro-sinistra, rimanendo continuamente in carica come Presidente del
Consiglio fino al giugno del 1968, alla guida di tre successivi ministeri di coalizione con il Partito
socialista.
E' in pratica la realizzazione in embrione di quello che verrà definito il "compromesso storico"
ossia quella manovra politica che prevedeva il riavvicinamento delle frange comuniste e di sinistra
verso l’area moderata e centrista.
Moro era uno strenuo fautore del dialogo tra le diverse fazioni politiche: “i provvedimenti vanno
affrontati per il loro contenuto e non per chi li presenta”.
Ma tali situazioni "di compromesso" suscitano malumori all'interno degli elettori del PCI, ma
soprattutto all'interno dei moderati, e si concretizzano nelle elezioni del 1968 quando Moro viene
sì rieletto alla Camera, ma le elezioni puniscono di fatto, dati alla mano, i partiti della coalizione e
determinano la crisi del centro-sinistra.
Dal 1970 al 1974, Moro assume l'incarico di ministro degli Esteri.
A conclusione di questo periodo, ritorna alla presidenza del Consiglio formando il suo IV ministero
che dura sino al gennaio 1976.
Nel luglio del 1976 viene eletto Presidente del Consiglio nazionale della Dc.
Il 16 marzo 1978 viene rapito dalle Brigate Rosse in via Fani, durante l’agguato, vengono uccisi i
cinque uomini della scorta.
Il 9 Maggio, a due mesi dal rapimento, Aldo Moro viene assassinato.
“L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO”: IL SEQUESTRO DI ALDO MORO
Per “CASO MORO” si intende l'insieme delle vicende relative all'agguato, al sequestro, alla
prigionia e all'uccisione di Aldo Moro, nonché alle ipotesi sull'intera vicenda e alle ricostruzioni
degli eventi, spesso discordanti fra loro.
CRONOLOGIA 1978
4 gennaio I comunisti chiedono di entrare direttamente nel governo Andreotti, che già
sostengono dall’esterno.
11 gennaio La DC non accetta la richiesta comunista.
12 gennaio Il Dipartimento di Stato americano disapprova eventuali partecipazioni dei
partiti comunisti nei governi degli stati occidentali.
16 gennaio Il governo Andreotti si dimette.
27 gennaio Enrico Berlinguer, segretario del PCI, chiede l’ingresso esplicito dei comunisti
nella maggioranza di governo.
16 marzo Il nuovo governo Andreotti, che vede la partecipazione del PCI, si appresta ad
ottenere il voto di fiducia in parlamento. Alle ore 9.05 le BR sequestrano Aldo Moro
uccidendo i 5 membri della scorta. Il governo ottiene la fiducia completa del parlamento
per affrontare la situazione.
18 marzo Le BR annunciano l’inizio del processo a Moro.
29 marzo Viene recapitata una lettera di Moro al ministro dell’Interno, Francesco Cossiga.
Le BR annunciano l’inizio dell’interrogatorio a Moro.
15 aprile Le BR rendono noto l’esito del processo: «Moro è colpevole, viene condannato a
morte».
18 Aprile Un falso comunicato delle BR annuncia l’uccisione di Moro.
20 Aprile Le BR smentiscono l’esecuzione, comunicando che Moro è ancora vivo.
24 Aprile In cambio della vita dello statista democristiano le BR chiedono la liberazione di
alcuni terroristi incarcerati.
27 Aprile Il segretario del PSI, Bettino Craxi, chiede di concedere atti di clemenza ai
detenuti brigatisti. Il capo del governo, Giulio Andreotti, respinge la proposta socialista.
29 Aprile Viene recapitata l’ultima lettera di Moro indirizzata alla DC.
3 Maggio Andreotti ribadisce la linea della fermezza.
5 Maggio Le BR comunicano l’assassinio di Moro.
9 maggio Il corpo di Moro viene trovato a Roma, dentro il bagagliaio di un’automobile
parcheggiata in via Caetani.
10 maggio La cerimonia funebre si svolge in forma riservata, poiché la famiglia rifiuta i
funerali di stato. Questi ultimi vengono ugualmente celebrati 3 giorni dopo a Roma.
14 maggio Si svolgono le elezioni amministrative: aumentano i consensi alla DC e al PSI,
mentre si registra un vistoso arretramento del PCI, che passa dal 34 al 26 per cento.
IL SEQUESTRO del 16 marzo 1978, in Via Fani
Alle 9:05 della mattina del 16 marzo 1978, alla
vigilia del voto parlamentare che, per la prima volta
dal 1947, avrebbe sancito l’ingresso del partito
comunista nella maggioranza di governo, l'auto che
trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione
alla Camera dei deputati fu intercettata e bloccata
in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato
delle Brigate Rosse.
In pochi secondi, sparando con armi automatiche, i
brigatisti rossi uccisero i due Carabinieri a bordo
dell'auto di Moro (Oreste Leonardi e Domenico
Ricci), i tre poliziotti che viaggiavano sull'auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco
Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
La tecnica utilizzata per l'agguato è denominata «a cancelletto», e prevede l’intercettazione di una
colonna di automobili attraverso il blocco di quella di testa, immobilizzando poi la colonna
bloccando l'auto di coda.
La colonna di macchine che trasportava Aldo Moro era formata da due auto: quella su cui
viaggiava il presidente della DC insieme a due agenti di scorta, seguita dall’auto di scorta composta
da altri tre agenti.
Una volta imboccata via Fani, la colonna di Moro venne bloccata da una Fiat 128 guidata da Mario
Moretti, componente del comitato esecutivo delle BR, mentre l’auto di scorta da una seconda
vettura brigatista che si mise di traverso.
A questo punto entrò in azione il gruppo di fuoco: da dietro le siepi del bar Olivetti, chiuso per
lavori, sbucarono quattro uomini vestiti con uniformi del personale Alitalia sparando con pistole
mitragliatrici. L'azione si ispirò a un'analoga tecnica della RAF, i terroristi di estrema sinistra
tedesca. Alcuni testimoni riferirono di aver udito urlare in una lingua sconosciuta, forse in tedesco.
In 600 secondi l’intera scorta di Moro venne uccisa, Moro venne fatto salire sulla Fiat 128 insieme
alle sue due borse.
Il giorno dell'agguato i fucili mitragliatori in dotazione agli agenti di scorta di Moro si trovavano
riposti nei bagagliai delle auto.
Durante il processo presso la Corte d'assise di Roma la moglie di Moro, Eleonora Chiavarelli, spiegò
che i mitra della scorta si trovavano nei bagagliai per il fatto che: «…questa gente le armi non le
sapeva usare perché non facevano mai esercitazioni di tiro, non avevano abitudine a maneggiarle,
tanto che il mitra stava nel portabagagli. Leonardi (il maresciallo a capo della scorta di fiducia di
Moro) ne parlava sempre. "Questa gente – diceva – non può avere un'arma che non sa usare. Deve
saperla usare. Deve tenerla come si deve. La deve tenere a portata di mano. La radio deve
funzionare, invece non funziona." Per mesi si è andati avanti così. Il maresciallo Leonardi e
l'appuntato Ricci non si aspettavano un agguato, in quanto le loro armi erano riposte nel borsello e
uno dei due borselli, addirittura, era in una foderina di plastica».
Le tre auto guidate dai brigatisti si diressero lungo via Stresa quindi proseguirono per via Trionfale
attraverso piazza Monte Gaudio; più avanti, in via Bitossi, era pronto un furgone grigio chiaro,
Morucci lasciò la Fiat 128 blu, prese le due borse di Moro e passò alla guida del furgone,
raggiunsero piazza Madonna del Cenacolo, il punto scelto per il trasbordo dell'ostaggio; qui Aldo
Moro venne fatto salire sul furgone dove era pronta una cassa di legno, che venne portata da
Moretti fino in via Montalcini 8, l'appartamento apprestato per fungere da luogo di detenzione di
Aldo Moro
LA NOTIZIA DEL SEQUESTRO
La notizia dell'agguato si diffuse Immediatamente in ogni
angolo del Paese. Le attività quotidiane furono bruscamente
sospese: a Roma i negozi abbassarono le saracinesche, in
tutte le scuole d'Italia gli studenti uscirono dalle aule
scolastiche riunendosi in assemblee spontanee, mentre le
trasmissioni televisive e radiofoniche furono interrotte da
notiziari in edizione straordinaria.
L'agguato e il rapimento furono rivendicati alle ore 10:10
con
una
telefonata,
effettuata
da
Valerio
Morucci, all'agenzia ANSA: «Questa mattina abbiamo
sequestrato il presidente della Democrazia Cristiana, Moro,
ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di
Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse».
Alle 10:30 i tre maggiori sindacati italiani, CGIL, CISL e UIL,
proclamarono uno sciopero generale dalle 11:00 a
mezzanotte, mentre nelle fabbriche e negli uffici i lavoratori annunciarono scioperi spontanei, e
migliaia di lavoratori andarono di loro iniziativa a presidiare le sedi dei partiti.
Alle 10:50 un messaggio firmato dalla colonna brigatista Walter Alasia venne ricevuto dalla sede
torinese dell’ANSA: i brigatisti chiesero entro 48 ore la liberazione dei loro compagni detenuti
a Torino, oltre a quelli di Azione Rivoluzionaria e dei NAP, specificando che in caso contrario
avrebbero ucciso l’ostaggio.
Due giorni dopo, mentre in San Lorenzo al Verano si celebravano i funerali degli uomini della
scorta, venne fatto ritrovare il primo dei nove comunicati che le BR inviarono durante i 55 giorni
del sequestro:
«Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate rosse ha
catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro,
presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata,
composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali, è stata
completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo
il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più
autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime
democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano. Ogni
tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese
– dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del centrosinistra fino ai giorni nostri
con l’accordo a sei – ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive
impartite dalle centrali imperialiste.
Sia chiaro quindi che con la cattura di ALDO MORO, ed il processo al quale verrà sottoposto da un
Tribunale del Popolo, non intendiamo “chiudere la partita” né tantomeno sbandierare un
“simbolo”, ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il Movimento di Resistenza Offensivo si
sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e organizzato. Intendiamo mobilitare
la più vasta e unitaria iniziativa armata per l’ulteriore crescita della guerra di classe per il
comunismo. Portare l’attacco allo stato imperialista delle multinazionali. Disarticolare le strutture,
i progetti della borghesia imperialista, attaccando il personale politico-economico-militare che ne è
l’espressione. Unificare il movimento rivoluzionario.>>
TRATTATIVA
Nei 55 giorni di prigionia le BR interrogano Aldo Moro, come può
confermare il comunicato n. 3:
«L’interrogatorio, sui contenuti del quale abbiamo già detto,
prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte
che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che
le centrali imperialiste stanno attuando; delineano con chiarezza i
contorni e il corpo del “nuovo” regime che, nella ristrutturazione dello
Stato Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro
paese e che ha come perno la Democrazia Cristiana.» «Moro è anche
consapevole di non essere il solo, di essere, appunto, il più alto
esponente del regime; chiama quindi gli altri gerarchi a dividere con
lui le responsabilità, e rivolge agli stessi un appello che suona come
un’esplicita chiamata di “correità”.»
Di fronte alla richiesta di uno scambio fra il prigioniero Moro (richiesta del comunicato n.8 delle
BR) e alcuni terroristi detenuti (fra cui il capo delle BR, Renato Curcio), la maggior parte dei partiti
politici si schierò per quella che venne definita politica della fermezza.
Seppur divisa al suo interno, la DC si dichiarò contraria a una trattativa che avrebbe finito per
riconoscere le BR, creando contemporaneamente un precedente che avrebbe incoraggiato i
sequestri. La stessa posizione era sostenuta dal PCI, che voleva anche allontanare qualsiasi
sospetto di contiguità ideologica con i brigatisti.
I socialisti di Bettino Craxi, invece, chiesero per i detenuti una prova di clemenza, che potesse
salvare il leader democristiano; tuttavia, non presero una posizione netta per la liberazione dei
terroristi come richiesto dai sequestratori.
Per la trattativa lottò, invece, strenuamente la famiglia Moro, cercando di incrinare la posizione
della DC attraverso il coinvolgimento dei movimenti cattolici. Ma a favore della trattativa c’erano
soprattutto le lettere di Aldo Moro, che accusavano esplicitamente i vertici della DC chiedendo di
scendere a patti con i terroristi. L’intransigenza del PCI e della DC viene spiegata da Tullio Ancora
con una concezione politica dello stato che differenziava i due partiti dalla prospettiva di Aldo
Moro.
Prevalse il primo orientamento, anche in considerazione del gravissimo rischio di ordine pubblico e
di coesione sociale che si sarebbe corso presso la popolazione, e in particolare, presso le Forze
dell'Ordine, che in quegli anni avevano pagato un tributo di sangue già insostenibile a causa dei
terroristi, anche perché durante i due mesi del sequestro le BR continuarono a spargere sangue
nel Paese.
Il tragico epilogo con cui si concluse il sequestro Moro anticipò comunque una presa di posizione
definitiva da parte del mondo politico. Alcuni autori, tra cui il fratello di Moro, fecero notare
alcune apparenti incongruenze nei comunicati delle BR. Un primo punto riguardò l'assenza di
riferimenti al progetto di Moro di apertura del governo al PCI, questo nonostante il fatto che il
rapimento fosse stato effettuato lo stesso giorno in cui questo governo doveva formarsi, e
nonostante l'esistenza di comunicati precedenti e successivi agli eventi dove vi erano espliciti
riferimenti e dichiarazioni di contrarietà al progetto da parte dei brigatisti.
Mentre Papa Paolo VI e il segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim continuarono ad
appellarsi alle BR per la liberazione del prigioniero, Craxi incaricò Giuliano Vassalli per trovare, nei
fascicoli pendenti, il nome di qualche brigatista che potesse essere rilasciato, in segno di buona
condotta. Si pensò a Paola Besuschio, ex studentessa di Trento arrestata nel 1975: accusata di
rapine «proletarie», sospettata d'aver ferito il consigliere democristiano Massimo De Carolis, era
stata condannata a 15 anni e in quel momento era malata.
Il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, esperto di giudiziaria e da anni attento alle
vicende del rapimento Moro, ha partecipato ad una video chat su Corriere.it dal titolo “Il caso
Moro. Il dietro le quinte del sequestro”
Perché per Moro non si volle trattare, quando poi per Ciro Cirillo si scomodarono i camorristi?
(Marco Sulmona )
E’ accertato che la DC scelse di non trattare con i terroristi per Moro, salvo poi affidarsi alla
camorra di Cutolo per la liberazione dell’assessore Cirillo. E’ plausibile affermare che Moro non sia
stato ucciso solo dalle BR? (Peppe Salerno)
Questo problema è esattamente ciò che viene rimproverato da molti (ad esempio alcuni familiari di
Aldo Moro); quando si dice che lo Stato non poteva trattare, ed è uno degli argomenti per
contestare la cosiddetta “linea della fermezza” irremovibilmente tenuta durante il sequestro Moro.
Prima (con Sossi) e dopo (con Cirillo e D’Urso) si è trattato; oppure si è riusciti a liberare l’ostaggio
(come nel casi del gen. Statunitense James Lee Dozier). Nel caso di Moro non s’è fatta né l’una né
l’altra cosa, e questo è uno degli argomenti con i quali si può sostenere che forse, all’interno dello
Stato, c’era anche chi, dal momento del rapimento, ha pensato che sarebbe stato meglio che Moro
non tornasse a casa.
LA DECISIONE FINALE
«Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di
prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo
Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro
rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16
marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato
condannato.»
(dal comunicato n°9 delle Brigate Rosse)
Il 9 maggio, dopo 55 giorni di detenzione, al termine di un «processo del popolo», Moro fu
assassinato per mano di Mario Moretti, con la complicità di Germano Maccari.
Verso
le
12:30
Valerio
Morucci
contattò
il
professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro, e
con un tono freddo, disse «adempiendo alle ultime volontà
del presidente di comunicare subito alla famiglia che il corpo
del presidente si trovava nel bagagliaio di una Renault 4
rossa, in via Caetani i primi numeri di targa sono N5...».
Il cadavere fu ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in via Caetani, una piccola strada nel
centro di Roma vicinissima sia alla sede del PCI, sia a quella della DC. Il cadavere venne
simbolicamente frapposto tra quei due mondi politici che Moro voleva unire per gestire il paese.
Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9
Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno
Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di un’utilitaria.
Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di
tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una
società, arrivino a mettere in dubbio se stessi.
La scelta di rapire Moro e non di ucciderlo subito fu un tentativo di eliminare la sua credibilità
politica; uccidendolo subito ne avrebbero fatto un martire.
Dalle deposizioni rilasciate alla magistratura è emerso che non tutto il vertice brigatista fosse
concorde con il verdetto di condanna a morte. Lo stesso Moretti telefonò direttamente alla moglie
di Moro il 30 aprile 1978 per premere sui vertici della DC al fine di accettare la trattativa: la
telefonata fu ovviamente registrata dalle Forze dell'Ordine. La brigatista Adriana Faranda citò una
riunione notturna tenuta a Milano e di poco precedente l'uccisione di Moro nella quale lei e altri
brigatisti dissentirono per la morte dello statista, tanto che la decisione finale sarebbe stata messa
ai voti.
In seguito al ritrovamento del cadavere, Cossiga si dimise da Ministro dell'Interno, mentre la
famiglia Moro rifiutò ogni celebrazione ufficiale con la seguente nota: «Nessuna manifestazione
pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla
memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro
giudicherà la storia»
LE LETTERE SCRITTE IN PRIGIONIA
Durante il periodo della sua detenzione, Moro scrisse 86 lettere ai principali esponenti
della Democrazia Cristiana, alla famiglia e all'allora Papa Paolo VI. Alcune arrivarono a
destinazione, altre non furono mai recapitate e vennero ritrovate in seguito nel covo di via Monte
Nevoso.
Pochi mesi dopo l'uccisione dell'ostaggio copie di alcune lettere non ancora note furono trovate
dagli uomini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (ucciso dalla mafia nel 1982) in una casa che i
terroristi utilizzavano a Milano (nota come «covo di via Monte Nevoso») mentre altre furono
trovate nello stesso appartamento nel 1990, durante i lavori di ristrutturazione dell'abitazione.
Buona parte del mondo politico di allora riteneva, tuttavia, che Moro non avesse piena libertà di
scrittura: le lettere sarebbero state da considerarsi, se non dettate, quantomeno
controllate o ispirate dai brigatisti.
È stato ipotizzato che in queste lettere Moro abbia inviato messaggi criptici alla sua famiglia e ai
suoi colleghi di partito. Non immaginando che i brigatisti la renderanno pubblica, in una lettera
inspiegabilmente domanda: «Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e
tedesca?» (lettera di Aldo Moro su Paolo Emilio Taviani senza destinatario, recapitata tra il 9 e il
10 aprile e allegata al comunicato delle Brigate Rosse n. 5).
Altra ipotesi, avanzata dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, è che nelle lettere medesime
Moro avesse l'intenzione di inviare agli investigatori messaggi sulla localizzazione del covo, per
segnalare che esso (almeno nei primi giorni del sequestro) si trovasse nella città di Roma: «Io sono
qui in discreta salute» (lettera di Aldo Moro del 27 marzo 1978, non recapitata a sua moglie
Eleonora Moro). La stessa moglie, sentita come testimone durante il processo, disse che in alcuni
passaggi Moro faceva capire di trovarsi nella capitale.
In molte lettere lo statista accusa i democristiani per la posizione della fermezza da loro presa.
Lettera del 29 marzo a Francesco Cossiga: “Ritornando un momento indietro sul comportamento
degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l'espulsione dei
dissidenti dal territorio sovietico. Capisco che un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma
si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire.”…” Tieni presente che nella maggior
parte degli stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla necessità e si adottano criteri umanitari.
Questi prigionieri scambiati vanno all'estero e quindi si realizza una certa distensione. Che giova
tenerli qui se non per un'astratta ragione di giustizia, con seguiti penosi per tutti e senza che la
sicurezza dello Stato sia migliorata?”
Lettera dell’8 aprile a Eleonora Moro: “Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di
tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito,
doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe
stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza
personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa
attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non
volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo
immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro.”
La lettera scritta era indirettamente rivolta al PCI, in quanto c'era anche scritto:”… I comunisti non
dovevano dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla
Camera per la consacrazione del Governo che mi ero tanto adoperato a costruire.
Lettera del 20 aprile, a Benigno Zaccagnini:” Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che
sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell'interesse della D.C.(…) Dio
sa come mi sono dato da fare per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho
fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi
viene tributata per questa come per tante altre imprese. Un allontanamento dai familiari senza
addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a
morte. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio
sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti.
Non guardate al domani, ma al dopo domani. “
Lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim:
“Signor Presidente, desidero innanzitutto ringraziarla, nella
drammatica situazione nella quale mi trovo, per il fervido messaggio
che ha voluto formulare per la salvezza della mia vita. Bene, ora io mi
trovo nella condizione di prigioniero politico ed intorno a questa mia
posizione è aperta una vertenza tra il governo italiano e le BR intorno a
qualche scambio di prigionieri delle due parti. Il suo alto appello
umanitario non ha potuto così conseguire il risultato desiderato, poiché
il governo oppone la richiesta di un gesto gratuito ed unilaterale,
mentre l'altra parte chiede una contropartita da concordare. In verità
sia in Italia sia all'estero non mancano casi di scambi di prigionieri. “
A Eleonora Moro, mai recapitata:” Ricordatemi un po', per favore. lo sono cupo e un po' intontito.
Credo non sarà facile imparare a guardare e a parlare con Dio e con i propri cari. Ma c'è speranza
diversa da questa? Qualche volta penso alle scelte sbagliate, tante; alle scelte che altri non hanno
meritato. Poi dico che tutto sarebbe stato eguale, perché è il destino che ci prende. Mentre
lasciamo tutto resta l'amore, l'amore grande grande per te e per i nostri frutti di tanta incredibile e
impossibile felicità. Che di tutto resti qualcosa. Ti abbraccio forte, Noretta mia. Morirei felice, se
avessi il segno di una vostra presenza. Sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla. Aldo”
Lettera alla DC: “Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un
innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è
tutto qui….. E' nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i problemi. E, nel caso che mi
riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avvallata dalla D.C., la quale arroccata sui
suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo
esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a morte.”
Lettera a Benigno Zaccagnini: ”Ti scongiuro. Fermati, in nome di Dio. Fin qui mi hai sempre
ascoltato. Perché ora vuoi fare di tua testa. Non sai. Non ti rendi conto di quale grande male tu stia
preparando al Partito. Finché sei ancora in tempo, poche ore, fermati e prendi la strada onesta di
una trattativa ragionevole. Che Dio ti assista. Aldo Moro”
Lettera a Giulio Andreotti: “Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani,
imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio
il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza
riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po' più, un
po' meno, ma passerà senza lasciare traccia.”
Lettera a Eleonora Moro:” Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto. Andreotti è
restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge,
anche se l'umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal
carcere sarebbe potuto andare all'estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo
disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant'altro ancora.
Che significava, in presenza di tutto questo, il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di
una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della Dc? Che significava tutto
questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male
nella sua vita? Tutto questo non significava niente. (...) Andreotti sarebbe stato il padrone della Dc,
anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no". (...) Ho un immenso piacere di avervi
perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti.”
Lettera a Benigno Zaccagnini:”Questa irremovibile intolleranza, che nasce, sia ben chiaro, da un
fatto morale più che politico mi induce a questo punto a rendere formali le mie dimissioni dal
Partito, intendo non solo dalle cariche, comprese quelle ipotetiche e future, ma proprio dal corpo,
dalla famiglia della D.C. Passerò perciò, per la durata della legislatura al Gruppo Misto. Sia dunque
ben chiaro, perché non vi siano equivoci, che non si pone solo il problema della mia persona per
quel che poco significa per la D.C., ma il problema oggetto del modo di reagire con senso cristiano
e democratico di fronte a situazioni di obiettivo pericolo e che richiedono interventi umanitari.”
I PROCESSI
A distanza di pochi giorni dall'epilogo della tragedia si ebbero i primi arresti di brigatisti coinvolti
nell'agguato di via Fani e nell'uccisione di Moro. Furono arrestati: Enrico Triaca, un tipografo che
s'era messo a disposizione di Mario Moretti, poi Valerio Morucci e Adriana Faranda.
Il 28 gennaio 1983 i giudici della Corte d'Assise di Roma, al termine di un processo durato nove
mesi, inflissero ai 63 imputati delle istruttorie Moro-uno e Moro-bis 32 ergastoli e 316 anni di
carcere. Decisero anche quattro assoluzioni e tre amnistie. Furono applicate le norme di legge che
concedevano un trattamento di favore ai collaboratori di giustizia, e furono riconosciute alcune
attenuanti ai dissociati. Il 14 marzo 1985, nel processo d'appello, i giudici diedero maggior valore
alla dissociazione (scelta fatta da Adriana Faranda e Valerio Morucci) cancellando 10 ergastoli e
riducendo la pena ad alcuni imputati. Pochi mesi dopo, il 14 novembre, la Cassazione confermò
sostanzialmente il giudizio d'appello.
Negli anni successivi furono celebrati tre nuovi processi (Moro-ter, Moro-quater e Moroquinquies) che condannarono altri brigatisti per il loro coinvolgimento in azioni eversive svolte a
Roma fino al 1982 e in alcuni risvolti del caso Moro.
Luigi Ciampoli, procuratore generale del processo Moro, afferma nel 2014: “Bisogna prendere atto
che in via Fani, con la moto, non c’erano solo le Br. Questi hanno successivamente sminuito queste
presenze non conosciute all’epoca. Oggi sappiamo che su quel palcoscenico c’erano, oltre alle Br,
agenti dei servizi segreti stranieri, interessati a destabilizzare l’Italia”.
Un’importante testimonianza è stata registrata da Pino Nicotri, nel girare i confessionali di
tantissime chiese, fingendosi un politico corrotto o un commerciante corruttore, e registrando
ogni informazione nascondendo un registratore dentro ad un giornale. Ecco le parole di due preti
della chiesa del Gesù e di San Lorenzo, a Roma:
«Erano arrivati alla casa vicina a dove stava lui. Hanno avuto l'ordine di fermarsi. Lo so perché
un mio alunno faceva parte di queste cose qui. Me lo ha detto lui: "Noi abbiamo avuto l'ordine di
fermarci e tornare indietro". Erano arrivati a pochi... A venti metri erano arrivati. Quindi lo
sapevano benissimo. Cioè, lo sapevano. Setacciando casa per casa, alla fine lo dovevano trovare».
-«Via
Montalcini?»
-«Adesso non so perché io non sono addentro alle segrete cose. Però questo me lo ha detto un
mio alunno che stava lì, insomma, ecco, faceva parte di quelli lì. Hanno dovuto rimettere, capito?
Ma non parliamo male che non è questa né la sede né il luogo né il caso».
«Un mio ex alunno si era arruolato nella polizia ed era entrato nel corpo delle "teste di cuoio".
Un giorno è venuto a chiedermi l'autorizzazione morale per infiltrasi nelle Brigate Rosse, voleva
cioè sapere da me se l'infiltrarsi era morale o immorale. Gli dissi che era morale. Passato del
tempo, quel mio ex alunno è tornato da me schifato. Mi ha raccontato che mentre stavano
andando a liberare Moro ed erano arrivati a una ventina di metri dalla sua prigione, all'improvviso
ricevettero l'ordine di tornare indietro. Il mio ex alunno rimase talmente schifato che si è dimesso
dalla polizia. Ora lavora nella falegnameria del padre»
LEONARDO SCIASCIA: “L’AFFAIRE MORO”
Sciacia, scrittore e politico, prima di far parte di alcune commissioni parlamentari sul “caso Moro”,
nel 1978 scrisse il libro, “L’affaire Moro”, che discostandosi molto dalle tesi ufficiali aveva
sollevato, alla pubblicazione, un vasto dibattito di consensi e dissensi.
«Già me le sento le cose che diranno. Che sto con Craxi, che faccio politica. La verità è che io non
sto con Craxi, sto con Moro, quel Moro che, politicamente, ho sempre avversato, e che oggi voglio
difendere. Bernanos diceva che a un certo punto uno scrittore deve scegliere tra il conservare la
fiducia dei lettori o il perderla; e che preferiva perderla anziché ingannarli. Faccio anch’io questa
scelta».
Come previsto, il libro suscitò davvero polemiche e incomprensioni. Quello che Sciascia fece è
stato fidarsi delle parole dello statista, come fece la vedova Eleonora Moro; secondo lo scrittore
siciliano Moro aveva dovuto tentare di «dire con il linguaggio del non dire, di farsi capire
adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva
comunicare utilizzando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per
autocensura».
Inoltre Sciascia sottolinea che non vi fu forzatura da parte dei sequestratori di Moro nella
redazione delle lettere, nel senso che non furono missive dettate; piuttosto, la censura fu nel non
recapitarle tutte ai destinatari, riuscendo a carpirne il contenuto e partecipando, così, al pensiero
di Moro.
Sembra anche che il politico avesse tentato di adottare una sorta di codice, lanciando dei messaggi
nelle sue epistole, fornendo indizi utili al suo ritrovamento, ma che quelle indicazioni non vennero
mai davvero considerate (fu lo stesso Francesco Cossiga ad ammettere che un’analisi scientifica di
quella corrispondenza – seria, non approssimativa – non venne mai davvero compiuta).
Sciascia dice che Aldo Moro è “l’incarnazione del pessimismo meridionale”, che definisce come la
tendenza di vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione “correre verso la morte”. Forte e
consapevole di questo; Moro non aveva paura della morte in sé, quanto piuttosto temeva quella
morte, che era stata firmata dalle stesse persone che avrebbero dovuto salvarlo.
Il potere è così destinato a perdere la sua componente umana a favore dei meschini interessi
individuali.
Nel 1974, Sciacia, aveva pubblicato “Todo Modo” nel quale, attraverso un’analisi politica,
prefigurava l’autodistruzione della DC. Nei giorni immediatamente seguenti al sequestro lo
scrittore si chiuse in un mutismo che spiegò con le seguenti parole:” Come uomo, come cittadino,
di fronte al caso di Moro sento lo stesso sgomento e la pena di una persona che abbia sentimento
e ragione. Ma come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle
cose immaginate. Per questo mi ha fatto da remora, nell’intervenire, come scrittore, anche per un
senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate verificarsi”
POSSIBILE COINVOLGIMENTO USA
Nel corso degli anni alcuni collaboratori di Moro hanno dichiarato che durante una visita a
Washington, Moro ebbe un duro scontro con l'allora Segretario di Stato Henry Kissinger (contrario
a un'eventuale entrata del PCI nel governo italiano).
L'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni il 5
luglio 2005, in un'intervista disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli confidò,
discutendo della difficoltà di trovare i covi delle BR, di essere a conoscenza del fatto che sia i
servizi americani sia quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, ma che gli italiani non erano
tenuti al corrente di queste attività che sarebbero potute essere d'aiuto nell'individuare i covi dei
brigatisti.
« Pecorelli scrisse che il 15 marzo 1978 sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia e si scoprì
dopo che Moro doveva essere rapito il giorno prima [...] l'assassinio di Pecorelli potrebbe essere
stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare. »
(Intervista con Giovanni Galloni nella trasmissione Next.)
La vedova di Moro, Eleonora Chiavarelli, ebbe modo di dichiarare al primo processo contro il
nucleo storico delle BR che suo marito era inviso agli Stati Uniti fin dal 1964, quando venne varato
il primo governo di centro-sinistra (Governo Moro I), e che più volte fosse stato «ammonito» da
esponenti politici d'oltreoceano. Le pressioni statunitensi sul marito, secondo la deposizione della
signora Moro, s'accentuarono dopo il 1973, quando Moro era impegnato nel suo progetto di
allargamento della maggioranza di governo al PCI (compromesso storico). Nel settembre
del 1974 fu il Segretario di Stato americano, a margine di una visita di Stato di Moro negli Stati
Uniti, Henry Kissinger ad avvertire lo statista italiano della «pericolosità» di tale legame col PCI.
E di nuovo, nel marzo 1976 gli avvertimenti si fecero più espliciti.
Nell'occasione,di fronte alla Commissione parlamentare d'inchiesta, la moglie di Moro rievocò così
l'episodio: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli
avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. [...] Adesso provo a ripeterla come la ricordo:
'Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano
politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare
questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere'».
Molte di queste teorie si basarono sull'ipotesi che la ricerca di un compromesso tra i partiti di
governo e il Partito Comunista Italiano al fine di creare un governo di grande coalizione, stava
profondamente disturbando gli USA e quanto accaduto a Moro poteva risultare vantaggioso per
gli Stati Uniti.
Circa le parole riferite dalla moglie di Moro in seguito, durante una sua deposizione, secondo cui,
prima del sequestro, «una figura politica statunitense di alto livello» disse ad Aldo Moro «o lasci
perdere la tua linea politica o la pagherai cara», sono da ricollegare al timore che in Italia si
giungesse a una soluzione simile a quella del Cile che nel 1973 aveva subito un colpo di Stato per
opera del generale Augusto Pinochet, che aveva instaurato un'efferata dittatura militare. Il
cambiamento era inteso come abbandono di ogni ipotesi di accordo con i comunisti. Alcuni
ritengono che quella figura fosse Henry Kissinger, che già aveva parlato in termini molto diretti al
Ministro degli Esteri Moro in un incontro a tu per tu nel 1974.
“Moro, ministro degli esteri, aveva mobilitato gli ambasciatori dell’ONU e altri per liberare e
lasciare la democrazia in Cile; lui parlava di quella situazione ma intanto pensava all’Italia” (Sergio
Flamigni, incontro filosofico)
Nel 2013, a distanza di molti anni, parla Steve Pieczenik, consulente del dipartimento usa nel ’78 in
materia di terrorismo e componente del comitato di crisi voluto da Cossiga, allora ministro
dell’Interno.
In un’intervista di Radio 24 Pieczenik ha rotto il silenzio e ha parlato di una “manipolazione
strategica al fine di destabilizzare la situazione dell’Italia” in quel periodo. Racconta di aver temuto
che Moro venisse alla fine rilasciato : “Mi aspettavo che le BR si rendessero conto dell’errore che
stavano commettendo-col rapimento- e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il
mio piano- ha spiegato l’ex consulente USA-Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro”.
«Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava
facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l'Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva
prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. (…) a Cossiga ho suggerito di screditare
la posta in gioco, a sminuire la posizione e il valore dell’ostaggio, di dire che quello delle lettere non
era il vero Moro (…) in quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro
avrebbe potuto essere rilasciato. (…) Decidemmo quindi, d'accordo con Cossiga, che era il
momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso
comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della
Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così
all'autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto.
(…) Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia”
POSSIBILE COINVOLGIMENTO KGB
Nel novembre 1977 Sergej Sokolov, studente presso l'Università La Sapienza di Roma, avvicinò
Moro per chiedergli di frequentare le sue lezioni. Nelle settimane successive, si fece notare per le
domande sempre più indiscrete fatte agli assistenti circa l'auto e la scorta, tanto da suscitare
anche qualche sospetto in Moro che raccomandò al suo assistente di rispondere vagamente a
eventuali domande dello studente. Sergej Sokolov incontrò l'ultima volta Moro la mattina del 15
marzo. Da allora nessuno lo incontrò più. Nel 1999, in seguito allo scoppio dello
scandalo Mitrokhin, si sospettò che Sergej Sokolov fosse in realtà Sergej Fedorovich Sokolov,
ufficiale del KGB sotto copertura a Roma, dove iniziò a lavorare come corrispondente della TASS .
Il senatore Paolo Guzzanti¸ dopo aver presieduto per due anni la Commissione parlamentare
d'inchiesta sul dossier Mitrokhin, sostenne che almeno alcune tra le azioni delle Brigate Rosse
furono richieste dal KGB.
COMMENTO
A fronte di questa lunga dissertazione cronologica e storica sugli anni di piombo e l’esecuzione di
Aldo moro, una piccola riflessione sull’uomo ispirata dai racconti di mia nonna.
La mia mamma, ancorchè bimba negli anni ’60-‘70 ricorda le sue villeggiature estive-invernali a
Bellamonte, paesino a 1400 metri di altezza in Val di Fiemme, nello stesso albergo dove
alloggiavano Aldo Moro e la sua scorta. Nei suoi ricordi infantili la figura di quell’uomo sempre
gentile con tutti, anche nella sua riservatezza che nelle sue passeggiate solitarie, anche se
scortato, aveva sempre un sorriso per tutti.
E che dire della giovialità di Leonardi (caposcorta di Moro) che con vigore faceva volteggiare la mia
mamma sul prato dell’albergo spingendola sull’altalena, illudendosi forse di essere con sua figlia.
Belle persone, piene di umanità, sacrificate per un ideale che con l’umanità ha ben poco da
spartire.
Bibliografia:
• Francesco Curreri / Un giorno un secondo / Conti Editore
• Andrea Camilleri / Un onorevole siciliano, le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia /
Passaggi Bompiani
• Paul Ginsborg / Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi / Einaudi
• Leonardo Sciascia / L’affarire Moro / Adelphi Edizioni
Sitografia:
•
http://www.scudit.net/mdanni70_piombo.htm
•
http://www.ferrervisentini.it/Documenti%20per%20web/Gli%20anni%20di%20piombo.pdf
•
http://www.treccani.it/enciclopedia/aldo-moro_(Dizionario-Biografico)/
•
https://it.wikipedia.org/wiki/Caso_Moro
•
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/ecco-chi-secondo-moro-fu-vero-responsabilesua-morte-giulio-55558.htm
•
http://www.luigiboschi.it/node/34744
Carlotta Antoni 5C