Roberta De Monticelli

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Roberta De Monticelli
16 marzo 2011
65° della Casa della Cultura
Un’inchiesta tra intellettuali milanesi e italiani sulla crisi del rapporto tra cultura e politica
LE RISPOSTE DI ROBERTA DE MONTICELLI
Le questioni su “Cultura e politica al tempo dei populismi”
Occupandomi di filosofia, non ho le competenze specifiche per un’analisi delle cause prossime e
sociologicamente verificabili della situazione descritta nelle domande. Ho cercato tuttavia di
individuarne due ordini di cause remote o piuttosto di condizioni persistenti (De Monticelli, La questione
morale, Cortina 2010). L’uno l’ho cercato nella apparente condizione di minorità (morale e) civile che
affligge un numero troppo consistente di italiani: questa condizione affonda nei secoli e per analizzarla
mi sono servita anche di alcune pagine dei nostri classici. L’altro ordine di cause si situa in un orizzonte
temporalmente più ristretto ma spazialmente più ampio, che include il pensiero, soprattutto filosofico,
del Novecento europeo e il dominio quasi incontrastato di cui almeno sul continente hanno goduto le
neo-sofistiche di radice anti-illumistica, storicismi compresi: soprattutto per quanto riguarda la risposta
alla questione se sia o no possibile una fondazione razionale del pensiero pratico, cioè del pensiero
che orienta il nostro agire e si esprime nella formazione di giudizi di valore e nella produzione di norme,
dunque anche nella progettazione politica. Esporrò nei prossimi paragrafi la sintesi soltanto delle
riflessioni concernenti il secondo punto, rinviando per il primo riflessioni.
Nell’Appendice riporterò un passaggio di Antonio Banfi che dovrebbe far riflettere, per le sue purtroppo
inquietanti assonanze con certe odierne polemiche contre le “anime belle” e il “moralismo”. E
contrasterò questa pagina “storicistica” con una limpida pagina ispirata al kantismo di Piero Martinetti.
1. La svendita della ragione pratica
Il XX secolo ha visto la bancarotta della ragione pratica. Non tanto negli eventi, fra i quali si contano sì
due guerre, il nazismo e gli altri totalitarismi: ma anche quella sorta di miracolo che è stata la redazione
di una specie di decalogo laico di una futura umanità cosmopolita, la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 1948 – e per quello che ci riguarda, la rifondazione dello Stato italiano. Di bancarotta – o
più freddamente di svendita – della ragione pratica si può parlare soprattutto per quanto riguarda la sua
principale fonte: il pensiero filosofico.
Nel pensiero filosofico europeo del Novecento è prevalso, prima e dopo le guerre, quello che possiamo
chiamare un fondamentale scetticismo pratico, e cioè la convinzione che non esista verità o falsità in
materia di giudizio di valore, e non esista di conseguenza oggettività alcuna in materia di giudizio
pratico, vale a dire del giudizio che risponde alla domanda: “che fare”? Questo scetticismo pratico ha
assunto le più varie forme in quelle che possiamo chiamare le neosofistiche del XX secolo –
soggettivismo, relativismo, determinismo tragico, decisionismo, nichilismo. Atteggiamenti spirituali e
dottrine che convergono infine tutte nella risposta negativa alla domanda fondamentale: c’è o non c’è
un fondamento di ragione per il pensiero pratico? Per “pensiero pratico” intendo le convinzioni e i motivi
che guidano l’agire delle persone, ma in particolare il pensiero che articola i giudizi di valore e ispira la
produzione di norme, in almeno tre grandi campi: morale, giuridico, politico. La domanda dunque è: ci
sono verità, e dunque vera e propria ricerca di conoscenza, in questi campi – o sono irrimediabilmente
affidati all’arbitrio soggettivo, all’urto degli interessi, alla ricerca di potere, alla guerra fra i diversi dei o
demoni, grandi o meschini, che si contendono il dominio delle anime e delle Città? C’è o non c’è una
ragione pratica? Qui lo scetticismo è maggioritario, e la risposta dominante è: no.
E non è un no da poco. Il pensiero pratico infatti è semplicemente la coscienza che illumina il senso
vivo e drammatico della nostra esperienza morale e dei conflitti di valore in cui ci troviamo immersi,
delle passioni che agitano gli uomini e delle idee che si scontrano: l’ “antilogia”, la chiamava Platone,
l’urto dei “discorsi” che da sempre dividono le piazze di ogni Città, di ogni società civile. Fa una grande
differenza che riteniamo o no possibile ricorrere a ragioni che ciascuno può capire, a evidenza
accessibile a chi voglia vedere, quando siamo impegnati nelle battaglie per i valori, nelle quali “ne va” di
ciò che sta più a cuore alle persone. Nelle quali cioè si costruisce e si gioca la nostra identità personale
e morale, il senso delle nostre scelte, in certi casi del nostro stesso lavoro, in ogni caso della nostra
vita. Fa un’enorme differenza, in tutti gli ambiti in cui diverse persone e diverse volontà si incontrano, si
conoscono e riconoscono, si scontrano. In tutti gli ambiti cioè in cui si pongono le questioni di valore, la
cui forma generale è: “Che cosa è più importante? Quale bene ha più valore?” Sono gli ambiti
dell’esperienza morale, ma anche del diritto e della politica. Fa un’enorme differenza che in tutti questi
ambiti dell’agire e del vivere possiamo, o non possiamo, render ragione e giustificazione delle nostre
convinzioni e delle nostre scelte. Che possiamo imparare, fare scoperte, fondare convinzioni nuove
anche in questi ambiti, o che siamo invece vincolati a un punto di vista, a una tradizione, a un
“demone”, a una sharia. Che possiamo verificare nei limiti dell’umano le nostre convinzioni, anche
attraverso la critica, o non possiamo per definizione. Che in tutti questi ambiti possa esistere uno spazio
delle ragioni e della discussione, o che non possa esistere altro che un teatro di maschere e bugie. Che
le idee servano a guidare lo sguardo in cerca di evidenza per giudizi veri e azioni giuste, o solo a nutrire
ideologie, vestiti di parole per opzioni e volontà insindacabili. In una parola, fa una gran differenza che
in tutti gli ambiti in cui il giudizio di valore e il giudizio pratico determinano la nostra vita, noi siamo
semplicemente ciò che di fatto siamo, con le tendenze e le volontà cui ci inchiodano tutti i determinismi
naturali, sociali e storici che ci attraversano, o invece siamo, come individui e come comunità, capaci di
quel rinnovamento che ci definisce dovunque la ricerca della verità sia possibile: “fatti non foste a viver
come bruti…”
Fa una gran differenza sulle nostre vite, che abbiano ragione gli scettici o che lo scetticismo pratico si
possa, con ragione, respingere. Combattere lo scetticismo pratico è difendere la serietà della nostra
esperienza morale. E’ difendere la tesi che noi siamo, qui ed ora, in ogni punto e in ogni momento, “in
presa di realtà”. Che la nostra esperienza anche in campo morale è fallibile, sì, ma proprio perché è
aperta al vero. Perché è almeno potenzialmente veridica. Tali sono, se capaci di resistere al vaglio
critico, i nostri sdegni e la nostra collera, i nostri rimorsi e i nostri rimpianti, la nostra ammirazione e il
nostro disprezzo, la nostra gratitudine e la nostra speranza. Non sono cose vane, “qualia” soggettivi,
sensazioni o stati d’animo senza ragione reale. Nulla appare invano – anche quando ad apparire è un
torto, una viltà, un’ingiustizia, un gesto servile – se ciò che appare resiste al vaglio critico, si mostra
essere quello che appariva. Lo scetticismo rispetto a ciò che appare, e dunque l’indifferenza riguardo
a ciò che l’apparenza dice, grida, chiede, è divenuta una inconsapevole, universale cultura del “come
se”. Al punto che perfino i papi oggi dicono che bisogna vivere “come se Dio ci fosse”, e dispensasse
ancora attraverso le sue chiese comandamenti e norme, pena l’implosione nichilista delle civiltà 1.
“Come se Dio ci fosse”: il contrario esatto dell’atto di nascita della coscienza laica moderna (che
nacque cristianissima), per la quale ci sono in verità esigenze, e dunque debbono in verità valere
norme, che tali restano anche nel caso non ci fosse Dio. E così al colmo dello scetticismo (negare vera
esistenza a queste esigenze e validità a queste norme in se stesse, al di fuori dell’arbitrio sovrano di un
Dio) si aggiunge il colmo dell’indifferenza al vero (ciò che importa è che i comandamenti siano dati in
nome di Dio, non che un Dio ci sia o no) e all’onestà (ciò che conta è obbedirvi, non credere che siano
divini).
Forse non siamo ancora del tutto consapevoli di quanto profondamente lo scetticismo oggi tolga serietà
alla nostra vita, togliendo realtà ai dati della nostra esperienza e ragione alle nostre prese di posizione.
In questo senso, la critica dello scetticismo pratico è anche un aspetto della resistenza a una tendenza
oggi alimentata non solo dai Gorgia – dai sofisti, dai retori, dagli immoralisti, dai relativisti morali, dai
nichilisti giuridici, dai realisti politici, dagli atei devoti – di ieri e di oggi, ma anche da infondate
liquidazioni provenienti dalle scienze sperimentali della vita e della mente, o piuttosto da letture
filosofiche dei loro risultati che nessuno finora ha dimostrato resistere al vaglio critico. Letture che
tendono a ridurre a nulla la nostra realtà di persone, nel senso di individui capaci di agire in base a
ragioni anche morali, dunque di scegliere liberamente anzitutto, e poi di agire con conseguenze ben
reali, e di portarne la responsabilità. In questo senso, opporsi allo scetticismo pratico significa anche
difendere la realtà delle persone che siamo, insieme alla serietà della nostra vita. E in ultima analisi,
dato che le nostre prese di posizione sono ciò che ci fa diventare quello che siamo, difendere l’identità
personale di ciascuno, l’idea stessa che ogni persona ne costituisca una, unica, non replicabile, non
riducibile, non uniformabile se non per sua stessa volontà. Che esistere, insomma, sia una cosa seria,
che richiede coraggio e coerenza oltre che estrema attenzione.
Insomma, o ci salviamo con il mondo come appare – non solo con i suoi colori e i suoi sapori, ma
anche con le sue qualità di valore e disvalore, con le cose preziose che contiene e devono essere
protette, e quelle che gridano vendetta e devono essere cambiate – o di noi non si salva niente,
neanche nel ricordo: neppure la differenza fra un uomo nobile e un vigliacco, fra una vittima e un
carnefice. Chiedersi se ci sia, se possa esserci una fondazione razionale del pensiero pratico non
significa dunque affatto abbracciare un “razionalismo” o un intellettualismo che ignori le passioni di cui
è fatta la nostra esperienza morale e civile: al contrario, è cercare il contenuto di verità e di falsità di
queste passioni – è prendere sul serio quell’esperienza, come via di conoscenza.
2. Il vero orizzonte della modernità. Equivoci sulla ragione
Nelle sue grandi linee la storia morale della modernità è ben nota: è quella della graduale erosione del
fondamento tradizionalistico e religioso dei costumi e delle istituzioni a vantaggio della coscienza
personale, che vede crescere l’ambito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e
assottigliarsi per così dire lo spessore di oggettività degli oggetti sociali: altari e tribunali, matrimoni e
mestieri…
Jeanne Hersch, pensatrice del Novecento che dovremmo frequentare più intensamente 2 ha descritto
questo processo come una progressiva evanescenza dell’ordine ontologico della vita sociale a
vantaggio della libertà personale, o del “dato” a vantaggio del “possibile”. Così il rapporto del signore
col vassallo, del prete col fedele, del maestro con l’allievo, di ognuno col sovrano è dato, regolato alla
perfezione dall’ordine cerimoniale, dalle forme tradizionali in cui la vita sociale si svolge: non c’è
neppure bisogno di consentirvi. Così la messa cattolica ha il suo senso e la sua sostanza, quale che sia
il livello morale e spirituale del celebrante, e non la perde se è un ubriacone o un corrotto. Ma il culto
protestante dipende quasi del tutto dalla qualità del pastore. (Una “questione morale” – vedi la recente
esplosione del problema della pedofilia – può in effetti cominciare a porsi pubblicamente anche per il
clero cattolico quando nessuno crede più davvero alla sacramentalità in sé dei sacramenti). Così il
“sacramento” del matrimonio ne fa qualcosa di esistente ed efficace per se stesso, indipendentemente
dalle vicende dei coniugi, ma la promessa civile riposa sull’amore e sulla fiducia. Il Padre era onorato
perché tale, ma un padre gode solo del rispetto che ispira personalmente. E così via. Ma se tutto
questo è noto, meno in luce è l’altra metà della storia. Questo processo di “umanizzazione” – di
riconduzione ai suoi soggetti ultimi, le persone umane – della vita sociale corrisponde anche a una
progressiva estensione dell’ambito delle opzioni soggette alla scelta e responsabilità degli individui, e
alla giurisdizione della ragione è [HUSSERL: RECHTSSPRECHUNG DER VERNUNFT]. Questo “e” è
importante. Certo, si è molto parlato di “razionalizzazione” 3. Ma sempre intendendo la “ragione” in uno
strano modo riduttivo, facendone qualcosa di esclusivamente “strumentale”, “tecnico”, che infatti va di
pari passo col “disincantamento del mondo” 4. E perdendo così di vista la ragione come filosofia.
Intendo dire come già l’intendeva Socrate: come abitudine a chiedere perché. Tanto delle azioni
compiute quanto delle parole dette. E come disponibilità a rendere ragione (logon didonai), a cercare
giustificazione per qualunque presa di posizione o giudizio o convinzione propri, che riguardi l’essere, il
valere o il dovere.
3. Modi dello scetticismo pratico
La distinzione humeana fra is e ought è parsa a tanti un’altra delle chiavi di volta della modernità, con il
rigetto che pareva soprattutto implicare della derivabilità delle norme – morali o legali – dalle “verità”
della metafisica e della teologia.
Hume discute il problema nel libro III, parte I, sezione I del suo Trattato sulla natura umana (1739) 5. In
quel celebre passo, sembra escludere che si possa derivare un enunciato normativo da un enunciato
descrittivo. C’è certamente un senso in cui Hume ha ragione. Chi alla protesta “non si dovrebbe
evadere il fisco” obietta “così fan tutti” non afferra questo senso: il senso in cui una norma non ha una
verifica empirica, induttiva, e non bastano dunque collezioni di fatti anche enormi a invalidarla. Però da
questo alla tesi che allora nessuna norma può essere razionalmente giustificata, ce ne corre. Kant
infatti accetta la tesi di Hume nel senso di una irriducibilità delle questioni di diritto o dovere a questioni
di fatto, ma non la tesi di ingiustificabilità razionale delle norme.
Ma questo passo ulteriore lo fa tutto il Novecento. A partire da Nietzsche, e dalla sua concezione
totalmente soggettivistica dei valori, fino a Weber, che riprende l’idea di John Stuart Mill che partendo
dall’esperienza si giunge al politeismo dei valori. L’idea del pluralismo valoriale, che rispecchia una
realtà sempre più visibile nelle nostre società multiculturali, resta così associata a due sole possibili
soluzioni: quella tragico-polemologica di Weber, che si prolunga nel realismo politico di molti
contemporanei; e quella relativistico-postmoderna, che arriva a teorizzare la completa evacuazione
della verità dal pensiero assiologico e pratico. -Due modi dello scetticismo: quello realistico-politico,
decisionistico, radicalmente ostile al governo della legge e allo stato di diritto, sempre nutrito di
populismo (da Carl Schmidt ai suoi nipotini: in Italia Gianfranco Miglio)
-Quello relativistico (“la verità è
violenta”)
Norberto Bobbio negli anni ’80, citando “un brano del principe degli scrittori reazionari, Federico
Nietzsche (col quale amoreggia da qualche tempo una nuova sinistra senza bussola)”:
La nostra ostilità alla Révolution non si riferisce alla farsa cruenta, all’immoralità con cui si svolse; ma
alla sua moralità di branco, alle “verità” con cui sempre e ancora continua a operare, alla sua immagine
contagiosa di “giustizia e libertà”, con cui si accalappiano tutte le anime mediocri, al rovesciamento
dell’autorità delle classi superiori 6.
Questa “nuova sinistra” in effetti sembra aver fatto di più che amoreggiare: sembra aver colto e
valorizzato proprio questo disprezzo per le supposte “verità mediocri” che hanno fondato l’ “età dei
diritti” e le sue Dichiarazioni e Costituzioni. Un disprezzo che in verità, con buona pace di Nietzsche, ha
radice proprio nell’altro grande ispiratore – questo ben più tradizionale – della sinistra tradizionale,
soprattutto italiana: Hegel. Che quanto a disprezzo per l’“astratta” razionalità dei democratici moderni
non teme confronti: proprio i “révolutionnaires” avevano dato
Il prodigioso spettacolo di iniziare interamente daccapo e trarre dal pensiero la costituzione di un
grande Stato effettivo, col sovvertimento di tutto ciò che esiste e che è dato, e di voler porre a base di
esso, semplicemente, la pretesa razionalità…[di] astrazioni prive di idee.
Fra i molti rivoli del pensiero nietzscheano, comunque, quello del disprezzo per le “astrazioni” altrove
onorate come i Principi dell’89 è quello che più direttamente scorre attraverso l’opera di Carl Schmitt, il
“costituzionalista” di Hitler, autore dell’atto sciagurato con cui, nel 1933, legittimò la soppressione
hitleriana della Costituzione di Weimar, e lo fece in perfetta coerenza con la sua tesi fondamentale
espressa nella sua Teologia politica (1922): “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, raffinata
dalla formula della “ricompensa politica al possesso legale della forza”, con cui il giurista “giustificò” la
legge di modificazione costituzionale che attribuiva al cancelliere Hitler il potere di abolire la
costituzione e tutti i partiti fuori da quello nazista.
Il dolente e rimosso capitolo HEIDEGGER. Lettura consigliata: Josè Pablo Feinmann, L’ombra di
Heidegger (un thriller: come mai H. sopravvisse alla notte dei lunghi coltelli, che eliminò Ernst Röhm, il
capo delle SA, da cuio dipendeva la politica universitaria, e dunque Heidegger….
4. Il grande progetto pratico husserliano
Al fondo dello scetticismo assiologico ed etico che ha attraversato il XX secolo, noi troviamo
precisamente una dissociazione tanto radicale quanto ingiustificata fra l’esperienza di valori e la ricerca
di verità, fra la vita autentica e la ragione. Una dissociazione che affonda paradossalmente –
tragicamente diremmo – una radice anche nel pensiero di un gigante della filosofia morale moderna, di
Immanuel Kant. Questo è ciò che vide Edmund Husserl fin dal suo primo esordio come docente – che
fu un corso di filosofia morale 9, dove si trovò a criticare il nietzscheano Al di là del bene e del male e
dove concepì quello che molti ignorano essere stato il vero progetto di tutta la sua vita: riuscire a
confutare lo scetticismo pratico. Perché l’antichità era riuscita a confutare definitivamente quello logico
– al prezzo di costruire l’eidetica del vero – la logica (l’esplicitazione cioè del concetto stesso di verità,
mediante gli assiomi di un sistema di logica) . Mentre la modernità filosofica aveva fallito il suo compito,
al suo “telos”: costruire un’eidetica del bene, un’etica. MA L’EIDETICA DEL BENE è L’ETICA
MATERIALE DEI VALORI!
In sua assenza, sulla troppo “infondata” base della filospogfoa pratica kantiana del dovere per il dovere,
non aveva dunque mai potuto sconfiggere lo scetticismo pratico. E’ per questa straordinaria diagnosi,
dalla cui ampiezza ed ambizione soltanto acquista senso il “rinnovamento” dell’idea socratica di
filosofia, che da questa idea può riprendere speranza il nostro pensiero.
UNA RINNOVATTA IDEA DI RAGIONE (teorica, assiologica, pratica).
I suoi ingredienti.
Definizione socratica di ragione – e la parola centrale di HUSSERL: Rechtsfertigung.
Epistemologia del giudizio di valore e la parola centrale di Scheler. WERT, ERFAHRUNG DER
WERTE, Werterkenntnis, “conoscenza assiologica”, conoscenza morale.
Ampliamento della nozione di ragione, epistemologia del giudizio di valore, fondazione cognitiva del
normativo, rigetto della dicotomia sentimento-ragione, il demone e il calcolo.
L’irruzione della centralità dell’individuo in filosofia, teorica e morale. Individualismo etico. La nozione di
ethos. fioritura personale
5. Il problema fondamentale dell’etica
Naturalmente qui ritroviamo la grande obiezione del cosiddetto politeismo dei valori, che possiamo
chiamare “il problema fondamentale” dell’etica oggi. E’ possibile un pluralismo senza polemologia
tragica e senza relativismo?
La tesi che propongo: è possibile, a patto di 1. distinguere 2. rimettere
correttamente in relazione ETHOS E ETICA.
Chiamiamo dunque ethos, come si fa comunemente, una
complessiva, non necessariamente esplicita, concezione del bene, o uno stile di vita, che può anche
avere una radice religiosa, e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche comunità di
appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme di questa comunità: in questo
senso un ethos può definire l’identità culturale o religiosa, e lato sensu morale, di una persona. Ma
un’identità culturale o religiosa non sussiste se non come parte di un’identità personale. In ultima analisi
un ethos vive della vita delle persone che, più o meno consapevolmente – ritorneremo su questo punto
cruciale – lo assumono. Come si può caratterizzarlo con più precisione, in questa prospettiva? Diremo
che ciò che caratterizza essenzialmente un ethos è un determinato ordine di priorità valoriale che
struttura il sentire, e quindi le decisioni e le scelte, dell’individuo maturo, e che una volta riconosciuto e
assunto, determina non solo gli aspetti di valore delle cose cui una persona è sensibile, ma anche in
qualche modo il “compito”, il dovere personale di quell’individuo, la sua “vocazione” o “destinazione”,
per così dire: insomma il bene che lui, e solo lui, può portare al mondo. Ed ecco una buona ragione
per apprezzare la pluralità degli ordini di priorità valoriale. La diversità intrinseca delle personalità è un
valore positivo, perché ciascuna personalità porta con sé una possibilità di esperire e realizzare nel
mondo beni che non sarebbero altrimenti percepiti o realizzati. E’ il valore dei talenti o delle vocazioni,
fondate nell’inesauribilità degli aspetti di valore della realtà, che hanno bisogno di ciascuna vita e di
tutta la storia per essere scoperti e realizzati.
Riassumendo: per ethos intendiamo l’ordinamento valoriale costitutivo di un’identità personale e morale
(individuale o condivisa, culturale o anche religiosa); e per etica? Per etica intendiamo la disciplina del
dovuto da ciascuno a tutti. Senza questa distinzione non è possibile sfuggire all’uno o all’altro corno
dell’alternativa fra fondamentalismo e scetticismo.
Il secondo passo consiste nell’esplicitare il rapporto fra ethos ed etica. L’etica, evidentemente, deve
giocare il ruolo di limite e di vincolo rispetto agli ethe, se vogliamo bloccare l’implicazione dal pluralismo
al relativismo. Perché non si dia relativismo, occorre appunto che sia negato l’anything goes, la
convinzione che tutto è permesso (purché sia sostenuto da una forza sufficiente). E come?
Non ogni
ethos evidentemente può “andare”, ma solo quelli compatibili con l’etica. Se nella mia cultura l’onore
maschile è ritenuto valere di più della vita di un’adultera (o supposta tale), al punto che il mio ethos
permette la lapidazione delle supposte adultere su semplice denuncia, ebbene, il mio ethos non è
affatto compatibile con l’etica, perché se c’è qualcosa che è dovuto da ciascuno a tutti questo è, in
primo luogo, il riconoscimento di eguale dignità a prescindere da sesso, razza, religione eccetera; in
secondo luogo la presunzione di innocenza fino a prova contraria e il diritto ad essere giudicati da
un’istanza imparziale, che dal primo principio discendono.
Bene, vada per il caso particolare: ma come
si stabilisce in generale che cosa è l’etica, vale a dire che cosa è dovuto da ciascuno a tutti? Come si
può argomentare che l’etica non è semplicemente uno degli ethe in gioco? Quale è la fonte di
legittimazione della norma etica, che la rende effettivamente universale, cioè che le dà il titolo ad
essere criterio di legittimità degli ethe, e non semplicemente quello di una pretesa che ciascun ethos
può avanzare di essere lui il migliore e di doversi imporre sugli altri?
Enunciamo dapprima la formula
dell’etica: quello che è dovuto da ciascuno a tutti è lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio
ethos, che si chiede per sé. Ogni ethos che viola questo dovuto è apriori incompatibile con l’etica.
Questa formula coniuga l’antica formula della giustizia, suum cuique tribuere, con i principi della libertà
e della pari dignità (eguaglianza “in dignità e diritti”) di ognuno, che abbiamo visto comparire nelle
grandi Dichiarazioni dell’Età dei diritti. L’antica formula esprime già il principio universalistico dell’etica,
l’universalità del dovere, indicandolo con il suo riferimento a tutti gli individui umani. Ma l’aggiunta toglie
alla formula antica della giustizia quel carattere tautologico che secondo i giuspositivisti la rende
totalmente vacua. Ad esempio il principe dello scetticismo pratico novecentesco di marca liberale, Hans
Kelsen, aveva sostenuto il suo carattere tautologico, perché “non dà risposta alla domanda…che cosa
è il “suum”, ciò che spetta a ciascuno”.
Il “suum”, possiamo ora rispondere, è l’ethos di ciascuno: che è, possiamo aggiungere, il contenuto
della sua “libertà”, quello che fonda le sue scelte e definisce la sua identità morale, quello che,
letteralmente, fa di certe questioni “questioni di vita o di morte”. Conculcando la sua libertà di scegliere
sulla base del suo ethos maturamente assunto si uccide moralmente una persona, disconoscendone
l’identità. Ma con il dovuto a ciascuno la nostra formula stabilisce immediatamente anche i limiti di
questo dovuto e dunque di questo esigibile. Questi limiti sono esplicitati dall’altro principio che
implicitamente vi compare, che è quello della pari dignità, e dunque dei pari diritti (devo a ciascuno lo
stesso che chiedo per me). Che qui un criterio etico sui limiti dell’esigibile ci sia, contrariamente a
obiezioni di tipo kelseniano, risulta da qualunque controesempio si voglia proporre. Se chiedo a un altro
di appoggiare una mia impresa losca, disposto a rendergli il favore, contravvengo al principio di parità
di diritti di tutti gli altri che la mia impresa losca danneggia.
6. L’incarnazione della ragione pratica
Abbiamo dunque usato nella definizione del dovuto da ciascuno a tutti – cioè dell’eticamente giusto –
precisamente i principi di libertà e pari dignità riassunti nell’articolo primo della Dichiarazione dei diritti
dell’essere umano del ’48.
Non per caso, certamente. In questi principi il moderno costituzionalismo indica il nucleo razionale del
diritto positivo, quale si articola nelle moderne costituzioni liberali e democratiche.
Con questo
passiamo all’altra faccia dei rapporti fra il XX Secolo e la ragione pratica.
La filosofia non è affatto
rimasta utopica: espulsa dal pantheon delle scienze teoriche e da quello delle scienze pratiche, la
filosofia (socratica) si è inopinatamente e senza parere diffusa nelle coscienze e nelle mentalità di
questa parte del mondo fino al punto di farsi, in linea di tendenza e pur attraverso rivoluzioni e reazioni,
terribili conflitti, trattative logoranti e instabili compromessi, ragione pratica incarnata nelle istituzioni
della vita civile e politica della maggior parte dei Paesi che ci circondano.
E così, se da una parte la filosofia ha sempre più perduto prestigio nella formazione delle classi
dirigenti, l’altra faccia della medaglia è che la storia di questa parte del mondo, anche attraverso i suoi
rinnovamenti religiosi, è essenzialmente contraddistinta da una tendenza, visibile attraverso i corsi e
ricorsi, presente già nell’Atene dove Socrate discute con Eutifrone, a sostituire civiltà fondate in
religione – civiltà teocratiche, ierocratiche, tradizionali – con civiltà fondate in ragione. Come quelle che
sognava Husserl!
Una civiltà “fondata in ragione” è una civiltà in cui tutte le norme che regolano la vita personale e
sociale sono, come i comportamenti che regolano, soggette al vaglio delle coscienze che chiedono
ragione. In cui tutte le norme, letteralmente, sono soggette alla giusrisdizione della nostra ragione. Una
civiltà fondata in ragione è quella in cui, in particolare, gli ordinamenti giuridici di una comunità
nazionale prima, internazionale e cosmopolitica poi, sono potenzialmente (e nelle forme previste)
soggetti a questa richiesta di giustificazione da parte di chiunque di noi voglia avanzarla. Questo è il
“telos” che caratterizza l’Europa – avrebbe detto Husserl 11. Un telos non è che un compito. Il compito
di incarnare la ragione pratica. Di incarnarla nelle istituzioni della Città moderna. Costruire queste
istituzioni, a partire dagli ordinamenti dei moderni Stati di diritto, è il modo che la nostra ragione ha
trovato per salvarci dall’antilogia, dall’urto dei discorsi e dal conflitto delle volontà, prima che degeneri
nell’impero della forza bruta.
E che altro sono, in effetti, le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, se non tentativi di fondare
una civiltà in ragione? Che altro sono, se non civiltà che si vogliono in linea di principio fondate in
ragione, i moderni stati di diritto e le moderne democrazie liberali?
Una ragione che è RAGIONE ASSIOLOGICA e PRATICA, disponibilità e capacità a fondare il giudizio
di valore. DWORKIN CI FA NOTARE che le nostre intuizioni sulla giustizia presuppongono quel “diritto
all’eguale considerazione e rispetto”, che non solo non si oppone, ma addirittura implica i diritti di
libertà.
Jeanne Hersch: Le droit d’etre un homme.
Del resto il costituzionalismo è essenzialmente un’applicazione giuridica della teoria della giustizia di
Rawls, ovvero della teoria di una “società regolata efficacemente da una concezione pubblica della
giustizia…in cui ognuno accetta e ognuno sa che tutti gli altri accettano ….gli stessi principi”.
Dove il primo di questi principi compatibili con la libertà e l’eguaglianza dei contraenti è che
“ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile a uno schema pienamente adeguato di eguali libertà di
base compatibile con un identico schema di libertà per tutti gli altri” 13.
L’idea nuova – un nuovo concetto di società aperta
Nutrita di questi protocolli della ragione pratica, la nostra formula del dovuto ha forse un’aria di ovvietà
che cela, anche a causa delle nostre abitudini inveterate di pensiero, quella che riteniamo un’idea
nuova. Che non è certo invenzione di questo o quel filosofo: questa novità è invece una scoperta che è
la vera rivoluzione dell’età dei diritti, per usare la formula felice con cui Bobbio si riferisce alla
modernità. E’ una scoperta che scompagina completamente tutte le vecchie idee su giusnaturalismo e
giuspositivismo e sui rapporti fra etica e diritto. Perché vede nell’ordinamento giuridico non soltanto un
mezzo di giustizia, ma un luogo di scoperta del giusto.
E’ l’idea che l’istituzione del diritto nella sua essenza è precisamente il mezzo che la nostra ragione ha
indicato non solo per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire attraverso il
confronto e non più lo scontro delle diverse sempre nuovi aspetti di questo dovuto. Salvo restando, nei
limiti della compatibilità etica, l’ethos di ognuno – e se si vuole, alla Weber, il suo demone, la sua fede,
la sua religione.
Pensata in profondità, questa scoperta riguarda le fonti del normativo, di tutto il
normativo: è a questo livello di generalità che bisogna ricominciare a interrogarsi, prima di riguadagnare
le (necessarie) distinzioni fra morale, diritto, politica. E in questo senso occorre ritrovare nel pensiero
l’unità della ragione pratica attraverso le sue divisioni. L’età dei diritti ha inciso nuove tavole della
legge, ha in qualche modo conferito positività, se non efficacia, all’etica. Ne ha fatto la disciplina dei
diritti umani. Questa idea del diritto positivo come mezzo per garantire e proteggere il dovuto è
espressa nello stesso Preambolo della Dichiarazione, dove si legge che “è indispensabile che i diritti
dell’uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere,
come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”. I “diritti presi sul serio” sono l’etica
(l’esigenza di giustizia) che esige protezione giuridica.
Forse c’è un nuovo diritto da iscrivere fra quelli fonda,metali, senza il quale in realtà le nostre
democrazie sono perennemente a rischio. Il diritto di diventare moralemnet adulti.
E con questo arriviamo all’ultima sezione :
7. Il problema fondamentale della ragione pratica
Ma farsi guscio di protezione giuridica al gheriglio della libertà personale non è certamente il solo modo
in cui la ragione pratica si incarna e la disciplina del dovuto diventa anima del diritto e fondamento di
civiltà.
Il diritto, dicevamo sopra, non è solo un mezzo di protezione e garanzia, ma anche un mezzo di
scoperta del dovuto da ciascuno a tutti. E’ il mezzo che la nostra ragione ha trovato per scoprire
attraverso il confronto e non più lo scontro degli ethe sempre nuovi aspetti di questo dovuto. Come la
disciplina dei diritti umani insegna, con il progressivo ipotetico allargamento dell’insieme dei diritti
esigibili, e l’inesausta discussione su quali lo siano veramente.
Questo esempio dobbiamo interpretarlo
in senso generale: lo stesso accade in effetti nel dibattito pubblico su tutte le più rilevanti questioni. E’ la
sfera dell’etica pubblica. A questa espressione si associa spesso un senso superficiale, che ancora una
volta ci impedisce di vedere l’importanza della posta in gioco nelle sue discussioni. La posta in gioco è
che alla libertà di ciascuno sia garantito l’accesso alla (ricerca di) conoscenza anche in materia morale,
e in particolare, certamente, del proprio e personale dovere. Ma questa non è separabile dalla costante
verifica dei limiti che la libertà di ciascuno deve darsi per rendersi eticamente compatibile. E qui il fronte
è mobile, perché proprio la moltiplicazione degli orientamenti valoriali e la competizione delle esigenze
fanno emergere sempre nuovi aspetti del dovuto da ciascuno a tutti, prima non visti o trascurati. Nuovi
soggetti rivendicano l’accesso alla pari dignità, nuove minacce a preziose e limitate risorse suscitano
doveri di protezione e tutela, nuove scoperte e nuovi poteri aumentano la nostra libertà e ci chiedono di
regolarla. Solo se ammettiamo che la ricerca non ha fine anche in etica, avremo argomenti contro lo
scetticismo pratico. Altrimenti vi soccomberemo. A noi è stata offerta la possibilità di crescere in una
società aperta alla perenne rifondazione di tutto il normativo nella coscienza dei singoli. Vale a dire
aperta al rinnovamento morale costante – nel senso lato di “morale”, che comprende la sfera dell’ethos
come quella dell’etica, che ora possiamo dire per definizione pubblica. E’ in questo modo, credo, che
andrebbe oggi approfondito il concetto liberale di “società aperta”. Questa “apertura” non è che una
possibilità – certamente inesistente nelle società dall’ordinamento tradizionale, teocratico, ierocratico,
totalitario o semplicemente autoritario. E altrettanto certamente non è automaticamente assicurata in
una moderna società democratica, anche solo per il fatto che la sopravvivenza della democrazia non è
mai garantita indipendentemente dalla volontà dei cittadini.
E tuttavia un ordinamento democratico moderno è condizione almeno necessaria perché la via della
conoscenza morale e la maturazione delle personalità sia veramente accessibile a tutti. Ma d’altra
parte senza un sufficiente numero di persone capaci di un costante, dinamico rapporto con la ricverca
di verità, vale a dire di costrante verifica critica dei loro ethe, di costante partecipazione allo spazio della
discussione e della comprensione delle ragioni degli altri – senza questo costante rinnovamento morale
degli individui, che è anche costante rinnovamento della legittimazione di una democrazia di ditritto
nelle loro coscienze – il delicato equilibriuo delle democrazie va a pezzi.
Come vediamo OGGI IN
ITALIA.
Questo pone il problema fondamentale della ragione pratica – vista ormai nella sua unità. Quale deve
essere il livello di moralità della vita personale – ATTENZIONE, si intende sempre alla sua base etica,
etica per definizione pubblica, o universale: etica come disciplina del dovuto a tutti – perché una
moderna democrazia, che non ha né l’investitura dall’alto del cielo né quella dal fondo della storia, del
popolo o della classe, ma solo la fragile legittimazione delle coscienze individuali – possa resistere e
progredire?
L’unità della ragione pratica ha forma di circolo, vizioso o virtuoso a seconda della direzione in cui si
riesce al farlo girare.
Abbiamo fatto uso della filosofia di Socrate. Che a noi viene attraverso Platone. Ma non dobbiamo
temere Platone? Non avevano forse ragione Isahiah Berlin e Karl Popper? Non c’è forse, nel sogno di
armonia della ragione, impossibilità del dissenso, e con questo in nuce il totalitarismo?
Tutto quello che ho detto mira a mettere in luce con più esattezza dove fu l’errore di platone, e dopo di
lui della filosofia politica tradizionale, fondata sull’idea della Città platonica.
Questa tralascia il solo mezzo in cui può vivere l’esercizio di ragione – e cioè la libertà delle singole
persone. Non lascia che questa ragione si alimenti della loro vita, della loro carne, della loro
esperienza. Questo fu, possiamo dire, l’errore di Platone, e per estensione del pensiero antico e poi di
quello medievale e cristiano nella misura in cui si fece pensiero politico. La giustizia di una società
umana non è un riflesso di quella cosmica, non può confondersi con l’ordine o l’armonia del cielo o
della natura, non può designare “una figura del tutto”.
La giustizia di una società umana è solo chances uguali per la libertà di ciascuno, e dunque è il tutto
affidato all’imprevedibile esito della libertà di ciascuno, è il tutto al rischioso servizio di questa. E
certamente questo è ciò che si vide, invece, alla luce dei Lumi. Ma perché – come fece Kant, come
abbiamo ripetuto noi stessi – identificare addirittura nell’età dei Lumi l’età adulta dell’uomo? Forse le
persone non diventavano adulte, moralmente adulte anche prima?
Ovviamente sì: di nobile maturità virile e muliebre, di valore e virtù è piena la nostra memoria del
mondo antico, che ci ha lasciato del resto teorie morali e sistemi normativi che nulla hanno da invidiare
a quelli moderni in compiutezza e coerenza. Capire meglio la metafora dell’età di ragione è mettere
meglio a fuoco il concetto di autonomia morale – cosa davvero indispensabile non solo a capire meglio
il fenomeno della minorità morale e civile che ancora ci affligge, ma a intravederne la via d’uscita – ed è
l’ultima cosa che ci resta da fare. Si diventava moralmente adulti molto prima che i Lumi preparassero,
con la fine dell’Ancien Régime, le condizioni di esistenza e diffusione dell’autonomia morale. Ma l’età
morale adulta degli uomini moderni è cosa nuova. L’autonomia morale è cosa nuova – anzi cosa che o
si rinnova ogni giorno, o non c’è.
L’autonomia morale esige anche l’incarnazione della libertà nella crescita degli individui, il loro
confronto sullo spazio pubblico delle passioni e delle ragioni, e infine la capacità di avallare o
respingere, quale che esso sia, lo stile di vita, il modo di sentire, la destinazione, la cultura o la religione
in cui si nasce, di farlo o non farlo proprio. Insomma è la capacità di autenticare o no un dato ethos, a
seconda che sia o no per la persona fonte di vita autentica.
E la sola possibilità perché “il maggior numero” sviluppi la maturità dell’essere persona responsabile –
la disciplina della libertà confacente a un ethos liberamente autenticato nel confronto con tutti gli altri –
occorre che una democrazia offra gli strumenti per questa formazione e maturazione – cioè che
funzioni in tutti i suoi istituti fondamentali: dalla Scuola, alla giustizia, alla dvisione dei poteri, alla libertà
e trasparenza dell’informazione, alla competizione secondo regole e meriti…
Cioè occore che una democrazia funzioni perché gli individui capaci di farla funzionare ci siano, e che
ci siano questi individui perché una democrazia funzioni. E’ questo il problema fondamentale della
Ragione pratica oggi. E questa è la ragione per cui oggi a differenza che in passato la politica dovrebbe
stare a cuore anche e soprattutto a chi, in primo luogo, ha a cuore l’etica e la fioritura delle persone.
Appendice – Un confronto tutto italiano fra storicismo e kantismo
Mi pare istruttiva questa pagina tratta da un intervento di Antonio Banfi del 1957 16, che precede di
poco la morte (e segue di poco le folgori di Togliatti sulle anime belle e la rivolta di Ungheria)– per le
assonanze inquietanti con certe crociate odierne contro il “moralismo” (si vedano svariate recenti
esternazioni di Giuliano Ferrara).
Antonio Banfi (1957)
* Un modo molto diffuso di considerare e interpretare gli avvenimenti politici contemporanei, specie
quelli sanguinosi, è quello delle “anime belle”, di coloro, cioè la cui unica preoccupazione è quella di
essere sempre a posto con la coscienza e con i grandi principi. Il moralismo è il difetto dominante di
questo modo di considerare e interpretare gli avvenimenti e nel quale [sic] cadono anche molti
intellettuali. I grandi principi da cui si parte e che servono come metro di misura degli avvenimenti sono,
naturalmente, quelli della libertà, della giustizia, dell’odio contro qualsiasi violenza, da qualunque parte
provenga. E questi principi, senza dubbio, sono da considerarsi nobili e rispettabili in ogni caso, ma ad
essi non si dovrebbe mai mancare di accoppiare il senso storico e politico. E invece le “anime belle”
mancano totalmente di questo duplice senso storico e politico, il quale permette, a chi ne è in
possesso, di considerare storicamente positivi anche quei fatti che apparentemente contraddicono ai
principi sopra menzionati. Mentre le “anime belle” sono abituate a considerare astrattamente gli
avvenimenti e a misurarli direttamente e immediatamente con i grandi principi, coloro che sono forniti di
senso storico e politico non si contentano di fare subito questa misurazione, ma assoggettano gli
avvenimenti ad un’analisi storicistica, per verificare se essi sono suscettibili di essere inquadrati solo in
modo mediato nei grandi principi; per analizzare cioè gli avvenimenti alla luce della situazione storica
reale onde verificare se essi sono da considerarsi progressivi o meno, anche se in via immediata
possono considerarsi dolorosi o discutibili. In tutte le crisi storiche, in tutte le rivoluzioni, in tutte le
epoche di grandi rivolgimenti, le “anime belle”, anche se animate dalle migliori intenzioni, finiscono
quasi sempre nel campo reazionario. Gli avvenimenti, in questi casi si presentano tumultuosi e violenti,
le loro apparenze sono quasi sempre contrarie ai grandi principi e le “anime belle” non possono
accettarli nella forma in cui si presentano e pertanto finiscono col prendere in odio anche le idee
rivoluzionarie che in un primo tempo e del tutto astrattamente avevano condivise e ciò per il solo fatto
che quelle idee si realizzano in modo tumultuoso e violento.
Le “anime belle” non concepiscono che il
progresso storico non si realizza mai attraverso percorsi facili e rettilinei e privi di difficoltà. Non
concepiscono che spesso gli interessi del progresso del progresso storico richiedono operazioni
dolorose, amare, impopolari, il cui significato positivo non è sempre verificabile immediatamente. Esse
hanno della storia una concezione astratta e, in ogni caso, anche quando sanno che la storia passata si
è svolta attraverso lotte e rivoluzioni più o meno cruente quando si è voluto far fare al popolo un passo
avanti, credono che l’ulteriore cammino in avanti dell’umanità possa avvenire, d’ora in poi, senza
bisogno di lotte e rivoluzioni. Non vedono l’urto gigantesco di interessi e concezioni che anche oggi
informa la storia moderna, oppure, pur vedendolo ne diminuiscono l’intensità. E anche se non è affatto
escluso che il progresso storico ulteriore possa avvenire pacificamente, tuttavia esse fanno di questa
ipotesi una specie di dogma. Tutto ciò non fa che mostrarci la evidente necessità che gli intellettuali non
dovrebbero mai mancare di un concreto senso storico e politico nella valutazione degli avvenimenti. In
ogni caso occorre concludere che, se le sorti del progresso storico dovessero essere affidate alle
“anime belle” l’umanità farebbe pochissimi passi avanti.
Credo che sarebbe utile e salutare per ciascuno confrontare queste parole con quelle di un altro
maestro – di ascendenza martinettiana, questa volta, cioè kantiana. Certo, altro il momento, altro il
contesto. Eppure, che cosa c’è qui da contestualizzare o relativizzare? Nulla. Parole limpidissime,
perfette allora e oggi. Per gentile concessione dell’autore, riprendo dunque una citazione da un
articolo di Dario Borso, Docente di Filosofia presso l’Università Statale di Milano, noto per i suoi studi
kierkegaardiani e più recentemente per la sua storiografia filosofica del 900 italiano, di prossima uscita
su “Italia contemporanea”.
Cinque giorni dopo la caduta di Mussolini, su «Il Giornale di Vicenza» 17 del 30 luglio 1943, esce un
articolo di fondo di Dal Pra dal titolo Ordine e libertà:
La bandiera del nostro Risorgimento torna a sventolare gloriosa; tornano sulle nostre labbra i nomi di
Mazzini, di Garibaldi, di Mameli, di tutti coloro che intesero la Patria come Libertà. Oggi più che mai
apprezziamo che cosa significhi avere una responsabilità, partecipare colla propria passione alla vita
politica, sentire il peso della propria costruzione, per quanto modesta. Siamo usciti di minorità, abbiamo
riguadagnato la personalità. E sentiamo che appunto in questa libertà sta l’ordine vero, l’ordine
spirituale. Comprendiamo bene l’abisso che separa il capriccio dalla libertà; il capriccio è appunto il
segno della minorità spirituale, lo sbandare di chi non conosce regola, di chi ignora il sacrificio
liberamente accettato e deciso. Invece libertà è farsi una nobile coscienza ed a questa essere fedeli.
Va contro la libertà appunto colui che, col proprio ideale, tradisce se stesso. Libertà, responsabilità,
ordine dell’uomo che colla ragione dà impronta alla sua vita: in ciò consiste la nobiltà migliore del nostro
agire.
Questa libertà che è ordine morale non si riacquista per decreto di legge, né per colpi di Stato; si
riacquista solo per educazione, per formazione, per ferrea volontà ispirata agli eterni valori dello spirito.
La libertà non è dunque dono, ma è conquista, faticosa conquista che riassume in sé tutte le conquiste
della civiltà e della storia. Per realizzare tale conquista occorre essere pervasi dall’amore dell’idealità,
dal desiderio di superare l’egoismo per unirsi a tutti gli uomini nella fraternità dello spirito. Il senso della
nostra fragilità, del tradimento dell’ideale in cui possiamo ad ogni istante cadere, deve farci attenti
contro noi stessi, forti nella lotta contro tutti gli allettamenti immediati dell’egoismo. Oggi l’egoismo si
potrà chiamare vendetta, o recriminazione per ambizione personale, o arrembaggio alla conquista degli
interessi e dei privilegi che ogni situazione può presentare all’uomo senza coscienza. E contro questo
egoismo bisogna essere forti; di quest’ordine bisogna essere disciplinati; per questo governo degli
spiriti bisogna aderire fermamente al nuovo Governo nazionale. Infatti in quest’ordine morale,
espressione di tutta la nostra personalità, enunciazione della nostra dignità d’uomini, consiste il vero
progresso della nostra vita collettiva, la vera rinascita della nostra Patria.
Combattiamo dunque l’errore
di credere che l’ordine delle coscienze possa scendere dall’alto, possa farsi da sé, quasi come un
processo fisico o chimico, per forze a noi estranee. Dobbiamo farci autori di quest’ordine che si chiama
libertà appunto perché ha la sua radice nell’interiorità. Quello che altri chiamò fin qui ordine era la
compostezza della morte, l’uniformità di una maschera che tutti ci ricopriva e che tutti ci umiliava in un
volto solo, senza palpiti e senza passione. Si trattava di ordine apparente e di disordine sostanziale.
Oggi ognuno si trova impegnato di fronte alla propria coscienza, di fronte al proprio dovere: non si
sente più servo, ma libero e quindi obbligato all’interiorità. Ognuno così può riguadagnare la sua
inconfondibile fisionomia, riacquistare le movenze della sua personalità morale; mentre diverrà così più
profondamente se stesso, si troverà anche unito a tutti, nella dedizione ai sommi valori.
Agli uomini non
si può servire mai; essere invece servi del bene, del bello, del vero significa regnare. A tutti gli italiani,
in quest’ora solenne della rinascita patria, noi additiamo questa via dell’ordine che è libertà e
formazione morale. Così diverremo intransigenti prima di tutto nei confronti di noi stessi e poi nei
confronti di altri, nella vita morale come nella vita politica. Avremo a schifo i compromessi, deploreremo
le mezze misure, avremo così caro i nostri ideali che non tollereremo più di vivere fuori della loro
luce.
Tutto resta da fare per la costruzione morale dell’Italia, per il suo trionfo come primato morale e
civile. Chi si concede ora riposo, costituisce un peso insopportabile che ci trascina inesorabilmente
verso il passato e ci precipita nella servitù. Occorre al contrario vigilare per noi, per la Patria, per quello
che essa rappresenta oggi che abbiamo riguadagnato la libertà.
Se qualcuno crede che la parola
«ordine» implichi compressione delle coscienze si inganna, in quanto intende l’ordine nel senso
estrinseco che ci ha dominati fin qui; ordine è primavera delle coscienze, empito di vita, potenzialità di
costruzione, trionfo morale, vittoria dello spirito. Ci auguriamo che tutti gli italiani siano creatori, oggi, e
custodi gelosi di quest’ordine per la nostra vera grandezza.
Quest’invito si rivolge soprattutto ai giovani,
che hanno fino ad ieri nelle nostre scuole dato testimonianza a questa nostra idealità; con quella fede
che ci ha guidati nel formare le loro coscienze oggi ritorniamo a loro e diciamo: per la salvezza della
nostra Patria, per non venir meno al nostro preciso dovere, facciamoci apostoli di quest’ordine nella
libertà, in cui è divenuta lieta, anche ieri, la nostra giovinezza.
1 J. Ratzinger, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008
2 J. Hersch, Idéologies et réalité, Plon, Paris 1956, pp. 102-106
3 M. Weber(1919), Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1967, pp.19 sgg.
4 Recentemente ha ancora sposato questa concezione davvero riduttiva della ragione perfino un
grande costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky: dopo avere, in modo fra l’altro poco consono al
suo invito a “guardare alla giustizia come oggetto di emozioni e di sentimenti, piuttosto che di
speculazioni e di dimostrazioni, accettato in pieno l’opposizione positivistica e settecentesca fra
l’emotivo e il razionale, prosegue: “Un progetto di questo genere [“impiantare la vita individuale e quella
collettiva” su “solide fondamenta razionali”] presupporrebbe la restaurazione della verità nel mondo dei
valori, cosicché il vero bene, la vera giustizia ecc. potessero essere riconosciute o dimostrate dalla
ragione. Ma chi si sentirebbe di appoggiarsi oggi su un simile presupposto? Oggi: cioè in un tempo in
cui – come tante volte e in piena ragione si è detto – la ragione di cui disponiamo è solo “ragione
strumentale”, che non conosce la verità dei suoi fini”. Il lettore è pregato di considerare l’inciso. È
“ragione strumentale” quella cui l’inciso fa appello? Qui come sempre lo scetticismo sconta il suo
destino autoconfutatorio, che Aristotele ci insegnò a osservare. Se quello che Zagrebelsky dice è vero
e ha ragione di dirlo, allora il suo dirlo confuta la sua stessa tesi.
5 D. Hume (1739) A Treatise of Human Nature. London: John Noon. p. 469.
6 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1880-88), vol. VIII, tomo II delle Opere di Friedrich Nietzsche,
Adelphi, Milano 1971, p. 59, citato in N. Bobbio (1997), cit., p. 102.
7 G.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, a c.
di G. Marini, Laterza, Roma Bari 1991, parte III, sezione III, §258
8 Già nel 1931 Schmitt aveva sostenuto che l’Articolo 48 conferiva al presidente tedesco la facoltà
incondizionata di sospendere la Costituzione durante uno stato d’emergenza, e di restaurarla solo ad
emergenza conclusa. In base all’Articolo 48, il presidente disponeva in effetti di questo potere, ma in
veste di “protettore della Costituzione”. Era dunque impossibile interpretare questo articolo in questo
senso, senza l’invenzione di quella formula in sé contraddittoria (se il potere era stato conquistato
legalmente, che senso aveva la “ricompensa”? Dov’era lo stato di emergenza?) Interessante notare la
protervia con cui Gianfranco Miglio loda in quella formula “l’estremo tentativo di far coesistere l’utopia
del diritto con la realtà della politica” (Presentazione di C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 11). Per poco che sappiano di queste contorsioni logico-giuridiche i leghisti bresciani,
c’è come un’aria di famiglia fra di esse e la scuola pubblica proprio a Miglio dedicata, e poi coperta, in
spregio alla Costituzione, di simboli del partito di cui questo schmittiano convinto fu l’ispiratore. Chissà
se anche quei settecento “soli delle Alpi” sono tentativi di far coesistere l’utopia del diritto con la realtà
della politica?
9 Si tratta di un corso tenuto a Halle nel 1897, cf. HUA XXVIII, Ergaenzende Texte, p. 382-83. Le
meritorie traduzioni pur parziali delle lezioni di etica del 1908-14 e del 1920-24 stanno contribuendo a
far conoscere anche da noi l’ampiezza e il rigore della filosofia morale fenomenologica – che pure resta
ancora ampiamente sottovalutata, anche nella sue complementari dimensioni scheleriana e
hartmanniana. Cf. E. Husserl, Lineamenti di etica formale (1908-1914), trad. it. a c. di P. Basso e P.
Spinicci, Le Lettere, Firenze 2002 (da: HUA XXXVII, Vorlesungen zur Ethik und Wertlehre, 1908-14;
contiene (1897), Ethik und Rechtsphilosophie); E. Husserl (1923-24), L’idea di Europa (Cinque saggi
sul rinnovamento), trad. it. C. Sinigaglia, Cortina, Milano 1999; E. Husserl (1920-24), Introduzione
all’etica, a c. di F.S. Trincia, Laterza Bari 2009, da HUA XXVIII, Einleitung in die Ethik – Vorlesungen
1920/24)
10 H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1998, p. 17.
11 E. Husserl, L’Idea di Europa, trad. it. di C. Sinigaglia, Cortina 1999
12 Ibid., pp.14-15. Dworkin contraddice “l’idea diffusa e pericolosa secondo cui l’individualismo
[affermato dai diritti di libertà] sarebbe nemico dell’eguaglianza”: errore comune agli egualitaristi e ai
libertarians.
13 J. Rawls, Giustizia come equità, feltrinelli, Milano 2002, pp. 47-49
14 Citato da N. Bobbio, Presente e avvenire dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, cit., pp. 24-25
15 J. Hersch, Idéologies et réalité, Plon, Paris 1956,p. 120
16 Per i riferimenti precisi si veda il recente intervento di Dario Borsh su www.phenomenologylab.eu/ –
dove sio troverà anche traccia della polemica De Monticelli-Ferrara sulle anime belle e il moralismo
17 Diretto dall’azionista Antonio Barolini, aveva appena sostituito «La vedetta fascista» (cfr. E.
Franzina, Prove di stampa. Renato Ghiotto e la stampa veneta tra fascismo e postfascismo, Il Poligrafo,
Padova 1989).
Roberta de Monticelli