Bollettino Completo 1985 - Società Tarquiniese Arte e Storia

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Bollettino Completo 1985 - Società Tarquiniese Arte e Storia
ATTIVITA’ DELLA S.T.A.S. NELL’ANNO 1985
Dal 1972, anno che seguiva la rinascita della Società Tarquiniense d’Arte e Storia,
ogni anno abbiamo programmato ed organizzato qualche gita sociale di un giorno, o
più giorni, fino a cinque e sei. Alle volte ritorno col pensiero a quelle “occasioni di
stare insieme” che ci hanno permesso di conoscerci meglio e di vedere tanti luoghi e
tante cose nuove e belle: paesaggi, città, monumenti, musei.
Alcune di queste gite sono rimaste memorabili. Ricordo la prima, nel 1972, a
Montecatini-Firenze, organizzata da me e dall’allora Segretario Ceniti, il nostro
“Totò”. Con ventiduemila lire, dico ventiduemila, potremmo stare sei giorni a
Montecatini, visitando da lì Firenze, Pistoia, Lucca, Viareggio, Pisa. Fatti i conti,
avanzarono dalle quote ancora quarantottomila lire con cui comperammo una
magnifica pubblicazione su Michelangelo, che regalammo al nostro presidente,
cardinale Guerri.
Ne ricordo un’altra, sempre di sei giorni, a San Remo, organizzata ancora dal nostro
“Totò” insieme con il compianto Tomassini e con Mario Moretti, nostro Socio di San
Remo, ma “cornetano” anche lui. Qui predominò il “contenuto gastronomico”.
Un’altra in cui invece prevalse il contenuto storico-sentimentale-patriottico, quella a
Trieste, con Gorizia, Aquileia, Postumia, Lubiana, Mirafiori, Redipuglia. Mai
dimenticherò la commozione intensa, la struggente tristezza provata davanti ai
morti di Redipuglia, davanti alle testimonianze della barbarie umana nel primo
piccolo parco.
A ben ricordare possiamo dire di aver visitato tante parti d’Italia, dal Nord al Sud,
avendo sempre di mira lo scopo culturale ma senza trascurare altri obiettivi di
minor peso ma anch’essi gradevoli. Era più facile allora organizzare; avevamo
energie più fresche, persone più adatte, ed eravamo quasi soli a farlo. Anche qui,
come in tanti altri campi, abbiamo fatto opera promozionale. Oggi siamo sommersi
dall’offerta di viaggi in ogni parte del mondo: predomina la moda, anzi la mania di
visitare cose nuove, specialmente fuori d’Italia; è più chic, anche per chi nulla
conosce del nostro Paese, o quasi nulla.
In questi ultimi anni la S.T.A.S. ha dovuto limitarsi a qualche breve gita, per visitare
qualche interessante luogo e per non perdere l’abitudine di incontrarci.
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Quest’anno 1985, “Anno degli Etruschi” per la Regione Toscana, abbiamo voluto
andare a vedere che cosa si era fatto in merito in quella regione, e siamo andati il 15
settembre a Siena e Firenze, il 22 ad Arezzo e Chiusi, il 29 a Talamone, Massa
Marittima e Populonia. Abbiamo visitato Mostre, tanto pubblicizzate, e qualche
luogo etrusco. Mentiremmo se dicessimo che tutto questo ci è piaciuto; saremmo
portati a dire invece “tanto rumore per nulla”. Ci è molto piaciuto in ogni modo il
viaggiare insieme, lo stare insieme, il vedere insieme tanti bei paesaggi.
Il 1986 sarà l’anno dell’Etrusco per il Lazio; speriamo che non si ripetano gli stessi
sperperi della Toscana.
La S.T.A.S. si è mossa, come sempre, anche in altro campo più strettamente
culturale, e il 10 novembre abbiamo avuto una conferenza del dr. Ludovico Magrini,
nostro Socio e fondatore dei Gruppi Archeologici d’Italia su “Corneto Etrusca”; il 10
dicembre una conferenza del prof. Luciano Osbat su “L’archivio diocesano e
capitolare di Corneto e Tarquinia”; il 15 dicembre un’altra conferenza dell’arch.
Giovanni Claudio Traversi dal titolo “Tarquinia relazione per una storia urbana”.
Un’altra cosa merita forse di essere ricordata. Nel novembre-dicembre il
sottoscritto, in rappresentanza della S.T.A.S., insieme all’avv. Paolo Mattioli,
presidente dell’Associazione Pro Tarquinia, al rag. Alvaro Santucci della Polisportiva
Tarquinia e al geom. Arrigo Fortuzzi della “Lestra”, anch’essi del resto nostri Soci, è
andato a Parigi, ospite per otto giorni di un’Associazione che nel 1984 era venuta a
trovarci a Tarquinia, “Le C.A.E.L.” di “Bourg La Reine”, un grazioso Comune della
cerchia di Parigi. Si tratta di un “Centro Animazione promozionale e tempo libero.”
Noi credevamo di trovarci di fronte ad una Associazione Culturale come le nostre, e
invece ci siamo trovati in un attivissimo centro di attività sociali, strettamente
collegato con il proprio Comune, con cui collabora e a cui fornisce servizi di ogni
genere, e da cui riceve ogni anno un contributo di 1.200.000 franchi, pari a 240
milioni di lire. - sì, dico proprio duecentoquaranta milioni. Tengono anche corsi di
lingua straniera, e in una serata in nostro onore, ci siamo incontrati con un folto
gruppo di allievi del corso di italiano, quasi tutte donne.
L’anno 1986, l’ultimo di questa gestione amministrativa, cercheremo di attuare, in
tema di viaggi e avvenimenti culturali, qualche cosa di più importante di quanto
abbiamo fatto in quest’anno ormai trascorso.
Cesare De Cesaris
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LA CHIESA DI S. GIACOMO IN TARQUINIA
PREFAZIONE
L’analisi di questa piccola chiesa di Tarquinia è il risultato della ricerca effettuata
durante gli studi universitari, nell’ambito del Corso di “Caratteri stilistici e
architettonici dell’architettura” tenuto dal Prof. Arch. A. Bruschi; egli proponeva un
metodo di ricerca costituito da una parte “filologica” e un’altra “interpretativa e
critica”: nella prima fase la ricerca dei dati “oggettivi” si basa sulla bibliografia, su
eventuali scritti inediti, epigrafi o immagini, su rappresentazioni grafiche o
fotografiche, sull’esame del rilievo architettonico per arrivare alla definizione di un
quadro complessivo di dati documentari, all’individuazione dei problemi filologici e
alla visualizzazione dei dati storici; nella seconda parte, esaminata la critica
esistente, si effettua la propria analisi attraverso i confronti con altre architetture, si
individuano i problemi specifici giungendo ad una propria sintesi critica. Tale
metodo ci è sembrato molto valido anche per questa nuova stesura per la chiarezza
che conferisce all’esposizione e ci sembra che evidenzi sufficientemente quanto
interesse abbia suscitato San Giacomo per la presenza di tanti elementi
caratteristici.
Nel nostro avvicinamento all’opera ci è sembrato interessante inquadrare san
Giacomo nella Corneto del XII secolo, per poter capire meglio alcuni caratteri
architettonici che altrimenti ci potrebbero apparire inspiegabili.
Infatti, tra l’XI e il XII secolo la città subì notevoli mutamenti politici e sociali che
incisero profondamente sulla realtà urbanisticia e architettonica: l’impianto
urbanistico si struttura caratterizzandosi con architetture di notevole pregio; il
4
sensibile aumento demografico fa sì che la città si espanda in ogni direzione; la
classe emergente dei mercanti divenuta il tramite di fruttuosi contatti con culture
lontane, costituisce il committente più o meno illuminato di nuove architetture;
proliferano le torri, come affermazione della singola famiglia, si costruisce la chiesa
di S. Maria in Castello come simbolo della collettività; gli ordini monastici che
nell’alto medioevo erano stati quasi gli unici dispensatori di cultura e di servizi di
carattere sanitario e assistenziale, continuano ad assolvere a tali compiti affiancati
sempre più da strutture “laiche”.
A Corneto le attrezzature religiose si attestano sulla parte settentrionale
strutturandosi in due bracci pressochè perpendicolari: sull’asse virtuale delle
ordinate sorgono le chiese di S. Salvatore, S. Egidio, S. Pietro del Vescovo, (l’attuale
Annunziata), S. Angelo del Massaro, S. Rosa, S. Fortunato; sul virtuale asse delle
ascisse compaiono S. Maria in Fiore, S. Giovanni dei Castaldi, S. Nicolao, S.
Bartolomeo, S. Lorenzo, e all’origine di tali assi troviamo S. Giacomo.
PARTE PRIMA
La chiesa di San Giacomo, di età romanica - per le evidenti differenze di ordine
stilistico e costruttivo - è nettamente distinta dal recinto antistante che racchiudeva
quello che forse fu il più importante cimitero ottocentesco della città.
La chiesa ha un impianto a croce latina, a navata unica, con transetto “nano” e con
una estremità triabsidata in cui l’abside centrale ha la stessa ampiezza della navata e
le absidi laterali sono inglobate nello spessore del muro.
La copertura è realizzata con crociere sulla navata e sulle parti laterali del transetto
e con un cupola ellittica sull’incrocio del transetto con la navata.
Le crociere - di tipo “lombardo” 1 hanno i costoloni di sezione rettangolare, poggianti
su mensole incassate nello spessore delle pareti.
La crociera della seconda campata termina con due elementi di materiale tufaceo
tronco-conici che insistono su mensole incassate ad angolo con il transetto,
riproducenti capitelli medievali tipo “a libro”. E’ interessante notare che questa
seconda campata è più bassa della prima di circa cinquantacinque centimetri.
1
Le crociere di tipo “lombardo” sono caratterizzate da un concio in chiave semplice (non evidenziato da decorazioni o
da dimensioni diverse) e da una sezione altrettanto semplice e rettangolare. Descrivono degli archi a sesto rialzato e
hanno gli archi trasversali a sesto acuto.
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La cupola estradossata 2 è a pianta ellittica ed è raccordata con la base rettangolare
con delle nicchie incavate.
Delle aperture preesistenti rimangono aperte una finestra strombata, molto stretta,
nell’abside centrale e un’altra all’interno dell’abside del transetto sinistro.
Nel transetto restano tracce evidenti di due porte sui lati prospicienti le due absidi
minori. Sul lato destro della navata è presente un’altra porta, adesso murata.
Fra la cupola e l’arco trasversale antistante quello dell’abside centrale c’è, infine,
un’altra piccola apertura che comunica con il sottotetto.
Probabilmente tutte le pareti interne della chiesa erano affrescate; oggi restano solo
alcuni frammenti della pittura o delle sinopie 3 .
L’attuale piano di calpestio è sopraelevato rispetto a quello originale di almeno
cinquanta centimetri. 4
All’esterno si distinguono chiaramente i cambiamenti subìti dalla costruzione in
tempi successivi, come la cella campanaria sul lato sinistro del transetto 5 , le
sopraelevazioni delle pareti laterali della navata, la facciata della chiesa 6 .
Il recinto esterno ottagonale presenta sul suolo quattro aperture ognuna delle quali
immette in una fossa comune di sepoltura; entrando in una di queste è stato
possibile vedere che il fondo del recinto è diviso in quattro parti da due muri
perpendicolari e la copertura è realizzata con volte a botte.
All’interno delle pareti del recinto ci sono delle nicchie dove venivano riposti i
cadaveri più vecchi, decomposti. 7
La facciata del recinto ripete quella della chiesa. Recentemente tale recinto è stato
restaurato dal Comune che ne ha intonacato le pareti riportandole così, alle
condizioni originali. 8
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Attualmente l’estradosso è meno evidente per il rialzo delle pareti esterne laterali effettuato nel XVIII secolo.
Sono ancora individuabili, sul lato sinistro del transetto, una “Madonna della Misericordia” e un baldacchino, o trono,
e sul lato interno di un costolone, la sinopia di un Santo.
4
Questo particolare è facilmente controllabile nei pressi di una lesena della navata che ancora mostra la sua base e il
vecchio piano di calpestio.
5
La realizzazione in mattoni la fa spiccare sulla sottostante costruzione in tufo.
6
Lo stile della facciata è completamente diverso dal corpo della chiesa ed è difficile datarlo perché tale
rappresentazione schmatica dell’ordine architettonico è stata utilizzata dal ‘500 in poi, per lo più in chiese di minore
rilevanza, per ridurre le spese della ristrutturazione.
7
Tale notizia ci è stata fornita dai manoscritti dell’Archivio Comunale.
8
Dalle foto realizzate prima del restauro risulta chiara la composizione costruttiva delle pareti del recinto cimiteriale: le
lesene sono costruite con pietrrame regolare di grosse dimensioni, le pareti con un conglomerato dagli inerti di piccole
dimensioni, livellato ogni trenta-quaranta centimetri da ricorsi di malta.
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6
Malgrado le piccole dimensioni e la semplicità dell’impianto e della decorazione, la
chiesa di San Giacomo Apostolo (o Maggiore) ha interessato e coinvolto l’attenzione
di diversi studiosi.
D’altra parte, non poteva essere diversamente, data l’articolata quanto rara
compresenza di elementi architettonici appartenenti a stili e a culture diverse.
Quello che risulta ancor più interessante - e questo lo si nota soprattutto all’interno
dell’edificio, perché non si viene distratti dalle successive modifiche settecentesche
che travisano parte dell’originale esterno - è che questa compresenza stilistica segue
un disegno complessivo capace di restituire un’immagine armonica e tipicamente
medievale - intimistica - di notevole fattura.
Quelli che seguono sono per l’appunto i titoli dei testi già editi, 9 scritti da alcuni
studiosi di cui sopra:
a) 1856 = CAMPANARI SECONDIANO - Tuscania e i suoi monumenti.
Montefiascone - Ed. Tipografia del Seminario - (vol. 1°, pagg. 110-125; vol. 2° pagg.
62-65);
b) 1910 = LUIGI DASTI - Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto Corneto-Tarquinia - Ed. Scuola Tipografica - (pagg. 310, 384, 410, e 413);
c) 1915 = PORTER KINGSLEY ARTHUR - Lombard Architecture - London, Oxford
- (pagg. 343-346);
d) 1927 = TOESCA - Il Medioevo - Torino - (pagg. 581);
e) 1928 = SALMI MARIO - L’architettura romanica in Toscana - Milano, Roma Ed. Bertetti e Tuminelli - (pagg. 19, 23, 50 e 54);
f) 1934 = AUBERT MARCEL - Les peus anciennes croisées d’ogive. Leur röle dans
la construction - Parigi - (pagg. 6-35);
g) 1937 = CREMA LUIGI - Accorgimenti estetici nelle chiese medievali italiane - in
“Critica d’arte” VIII Firenze - Ed. Sansoni (pagg. 66-76);
h) 1938 = APOLLONI GHETTI BRUNO MARIA - la Chiesa di San Giacomo a
Tarquinia - in “Palladio” II - Milano - (pagg. 171-183);
i) 1965 = GIORDANO A.M. - S. Robano: un monumento della campagna
grossetana - in “Bollettino della Società Maremmana” nn. 11, 12 e 13;
j) 1969 = DE ANGELIS D’OSSAT GUGLIELMO - La distrutta “cupola di castello” a
Tarquinia - In “Palladio” XIX (fasc. 1, IV pagg. 15-32);
9
Sono riportati tutti i testi che citano esplicitamente la chiesa di San Giacomo di Tarquinia; in alcuni casi anche solo
come riferimento per lo studio di un altro oggetto architettonico.
7
k) 1972 = RASPI SERRA JOSELITA - La Tuscia Romana - Milano ed. Electa (pagg. 14-22);
l) 1974 = GUIDONI ENRICO - Tarquinia - Quaderni dell’Istituto di ricerca
urbanologica e Tecnica della Pianificazione - Facoltà di Architettura - Roma - (pagg.
1-14);
m) 1976 = BRUNO BLASI - Le Chiese nella città di Corneto - in “Bollettino delle
attività nell’anno 1976 - Tarquinia - S.T.A.S. - (pagg. 69-107);
n) 1977 = MUTIO POLIDORI - Croniche di Corneto 10 (a cura di Anna Rita
Moschetti) - S.T.A.S. - Tarquinia (pagg. 103, 107, 256 e 320);
o) 1978 = CORTESELLI MARIO e PARDI ANTONIO - Gli ospedali di Corneto - in
“Bollettino delle attività nell’anno 1978 - Tarquinia - S.T.A.S. - (pagg. 14).
Per quanto riguarda la ricerca di altri dati documentari, per una serie di circostanze
concomitanti 11 siamo riusciti a reperire solo incartamenti inediti successivi al 1641,
data, questa, in cui venne redatto il documento rinvenuto nell’archivio del
Falzacappa in Tarquinia, oggi appartenente alla S.T.A.S. Questo manoscritto 12 ha
fornito notizie e date su alcune vicissitudini che la chiesa, con l’attiguo monastero,
ebbe nel corso di cinque secoli. Ma, soprattutto, ha fornito notizie su come vi siano
stabiliti i vari ordini monastici. 13
Nell’archivio comunale di Tarquinia, invece i documenti 14 relativi a San Giacomo
risalgono i più antichi al 1788. Rimangono, comunque, di notevole interesse, perché
riguardano la costruzione del recinto architettonico che ospitava al suo interno il
cimitero. 15
Dalla documentazione acquisita abbiamo tratto il seguente quadro cronologico.
10
Queste “Croniche” sono state stampate per la prima volta nel 1977, ma il testo fu redatto nel corso del XVIII secolo.
Alcuni atti che riguardano il Monastero annesso alla chiesa sono depositati nell’Archivio Vaticano, difficilmente
accessibile, altri incartamenti del ‘300 erano in fase di assegnazione presso un Notaio di Civitavecchia. Nell’Archivio
di Stato di Roma, nella sezione riguardante Tarquinia, ci sono i manoscritti del Camerale III (busta n. 972), ma non c’è
nessun atto che riguardi la chiesa di San Giacomo direttamente o indirettamente; tra i manoscritti dell’Archivio della
Sagra Congregazione del Buon Governo (serie II, busta nn. 1385-1411 - negli atti precedenti al 1788 non compare
nulla di interessante.
12
Tale manoscritto è completamente riportato tra gli allegati, nell’appendice.
13
Leggere, a tal proposito, i punti 1, 3 e 6, riportati in appendice, del medesimo documento.
14
Di questi manoscritti, alcuni sono stati riportati in appendice.
15
Grazie a tali manoscritti è stato possibile comprendere meglio l’organizzazione e la funzione del cimitero, sia per
quanto riguarda la sua gestione e manutenzione, sia per quanto riguarda il rapporto che intrattenne con l’intera città. A
tal proposito va ricordato anche un altro documento, che per quanto non riguarda direttamente San Giacomo, può dare
nuove indicazioni sull’assetto urbano di questa zona di Tarquinia. Si tratta di un progetto di un cimitero da costruirsi
nei pressi della vicina chiesa di Sant’Egidio. Di questo secondo cimitero - per quanto si sia trovata fra le carte originali
la stima del progetto rimane comunque il problema relativo ad una sua effettiva realizzazione. Infatti per quanto si sia
cercato non si sono trovati nè attestati di pagamenti nè documenti relativi alla conduzione organizzativa e contabile
dell’ecentuale cantiere edile.
11
8
Nel 1244 Papa Innocenzo IV affidò al Vescovo di Toscanella 16 il mantenimento del
Monastero di San Giuliano di Toscanella con ogni suo possedimento. Tale
monastero era stato fino ad allora di proprietà dell’ordine monastico dei
benedettini, che vi si stanziò sin dall’altomedioevo, bonificando gran parte del
territorio tuscanese. 17
Nel 1258 il Monastero e tutti i suoi possedimenti vennero affidati per decreto di
Papa Alessandro IV - alle Clarisse di Santa Maria di Cavaglione, che erano state da
poco cacciate da Cortona; fra i possedimenti di tale Monastero venne citata per la
prima volta la chiesa di San Giacomo di Corneto. 18
Da una iscrizione del 1291 viene confermata la presenza del monastero delle Clarisse
del III Ordine di San Francesco, situato probabilmente alla sinistra della chiesa; il 16
novembre dello stesso anno venne stipulato un atto dal “maestro Branca”,
promotore dell’intero complesso monacale cornetano, comprendente la chiesa di
San Giacomo e il monastero stesso. 19
Sembra, altresì, certa la presenza e il funzionamento del Monastero di San Giacomo
sia nel 1369, 20 , che nel 1385 21 .
Nel 1389 la chiesa di San Giacomo venne inserita nell’elenco delle chiese che
pagarono delle decime ordinate da papa Urbano VI. 22
Il 29 dicembre 1445, Papa Eugenio IV affidò al padre Guardiano di San Francesco le
monache di San Giacomo. 23
Un anno dopo, secondo il Porter, 24 il monastero era ancora funzionante.
Non dovette, però, rimanerne per molto. Infatti - per quanto contraddittori - i
documenti della seconda metà del XV secolo e quelli del XVI, sottointendono una
riduzione della sua attività e influenza.
Il primo di tali documenti è del 1460: lo trascrisse il Polidori 25 affermando che
“dovendosi fare il Monastero per le Monache del Terzo Ordine di S. Francesco”,
Papa Pio II, “per breve suo” commise “l’elettione del luogo”. Cosa assai strana
16
Toscanella è la denominazione medioevale dell’attuale Tuscania.
Campanari S. - op.cit. - II volume - pagg. 36-37 - documento XXXVI.
18
Campanari S. - op.cit. II volume - pagg. 37-38 - documento XXXVII Porter A.K. - op.cit. - pag. 343
19
mss. dell’Archivio Falzacappa VI punto; Porter A.K. - op.cit. - pag. 343; Blasi B. - op.cit. - pag. 74; da “Marrgherita
Cornetana” - atto stipulato il 16 novembre 1291 in Corneto.
20
mss. dell’Archivio Falzacappa VI punto.
21
Porter A.K. - op.cit., - pag. 343.
22
Polipori M. - op.cit. - pag. 103.
23
mss. dell’Archivio Falzacappa IV punto; Blasi B. - op.cit. - pag. 74
24
Porter A.K. - op.cit. - pag. 343.
25
Polidori M. - op.cit. - pag. 256.
17
9
questa, perché il luogo di detto monastero doveva essere stato già stabilito, perché
esistente almeno dal 1291.
Che le vicende della chiesa e del suo monastero avessero preso un corso negativo, ci
viene confermato nel 1469, allorquando il generale dell’Ordine dei Minori, chiese
alla città di Corneto di accogliere nuovamente le Monache del III Ordine di San
Francesco. 26
Malgrado i cornetani continuassero a dimostrare la loro devozione offrendo un cero
di tre libbre nel giorno della ricorrenza,
27
la chiesa aveva perso, oltre alle monache,
anche molta della sua influenza “politica”: infatti, nel 1486, non venne inclusa
nell’elenco dei “Contestabili” alcun suo rappresentante 28 e la stessa cosa si ripetè nel
1503 29 .
A detta del Polipori 30 “Questi Contestabili... s’eleggevano ogn’anno etiam che non
fosse rumore di guerra, perché servivano in ogn’accidente improviso per la
custodia della Città”.
Fra questi, nel 1486, comparvero anche i rappresentanti di alcune delle altre chiese
quali San Fortunato, Sant’Angelo del Massaro, San Pietro del Vescovo, Sant’Egidio,
San Giovanni de Castaldi, San Nicola. 31
La stessa cosa, ma in termini ancor più marcati, avvenne nel 1503, quando i
cornetani, nel sostenere Papa Alessandro VI contro gli Orsini e contro Guidobaldo
Duca d’Urbino, strutturarono militarmente la città e i suoi rappresentanti,
eleggendo nove comandanti di guerra - tre per ogni “Tertiere” 32 - e affidandosi alla
capacità e alla forza del “Contestabili” delle parrocchie. Fra questi nessuno
rappresentò San Giacomo 33 .
Le cose si dovettero mettere ancor peggio se il 6 maggio del 1520 “il Monasterio
delle Monache di San Francesco fu abbandonato et serrato perché le monache
erano di qualche scandalo, ma poi fu riconcesso ad altre monache più esemplari
dell’istesso habito di San Francesco”. 34
26
ms. dell’archivio Falzacappa VI punto.
mss. dell’archivio Falzacappa II punto.
28
Polidori M. - op.cit. pagg. 275-280.
29
Polidori M. - op.cit. - pagg. 296-302.
30
Polidori M. - op.cit. - pag. 278
31
Polidori M. - op. cit. - pagg. 275-280.
32
La Tarquinia medievale - denominata Corneto - era divisa in tre “Tertieri2 che oltre a svolgere un ruolo
circoscrizionale di gestione pubblica, erano anche strutture “politiche” di particolare importanza.
33
Polidori M. - op.cit. - pagg. 296-302.
34
mss. dell’Archivio Falzacappa VII punto; Polidori M. - op. cit. - pag. 320.
27
10
Questa nuova concessione non evitò comunque alla chiesa l’inevitabile suo
abbandono, che ci viene confermato nel 1570 dal Vescovo che non riuscì a visitare
San Giacomo perché chiusa a chiave, né le altre chiese vicine perché dirute,
devastate, “et discopertas in parte”. 35
Fu papa Sisto V - francescano - che tentò di risollevare le sorti del complesso
religioso istituendo fra il 1585 e il 1590 l’Abbazia di San Giacomo, destinandola al
Procuratore Generale di detto ordine dei Minori Conventuali. 36
Questa decisione ebbe solo in parte i suoi effetti positivi: nel 1619, la chiesa pagò una
somma in denaro per imposizioni camerali, che fu ritenuta dal Falzacappa 37 della
stessa entità dei pagamenti emessi dalle chiese maggiori, il che potrebbe far credere
alla bontà delle sue rendite in questo periodo.
In base ad uno studio svolto dal Corteselli e dal Pardi 38 si ritiene che dal XVII secolo
si istituì, a lato della chiesa, un “ospedaletto” che accoglieva i malati incurabili e, fra
questi, i sifilitici. Considerando il fatto che gli ospedaletti erano strutture sanitarie
molto piccole, a volte riconducibili ad una stanza con relativi servizi, potremmo
credere che tale ospedaletto venisse collocato all’interno del monastero.
Questo nuovo uso non durò comunque molto a lungo. La chiesa, infatti, venne
trasformata ben presto un fienile.
Quest’ultima condizione terminò solo sul finire del XVIII secolo.
A detta del Guidoni 39 la chiesa venne restaurata nel 1758, mentre a detta del Dasti,
nel 1759 venne costruito il cimitero, 40 ma ciò sembrerebbe smentito dai manoscritti
da noi rinvenuti nell’Archivio Comunale di Tarquinia.
Il 28 maggio del 1788 l’architetto Piernicoli 41 compilò i “capitoli” 42 riguardanti la
costruzione del cimitero di Corneto, che vennero inviati al Comissario di Corneto. A
questa data la chiesa di San Giacomo era ridotta in fienile pur essendo ancora di
pertinenza dei Minori Conventuali; il 10 luglio dello stesso anno vennero affidati al
Mastro muratore Domenico Neri alcuni lavori di restauro; il 3 agosto il cardinal
Garampi sollecitò una soluzione rapida per accordarsi con l’affittuario del fienile;
due giorni dopo venne stipulato un contratto di lavoro per il cimitero con il
35
mss. dell’archivio Falzacappa VIII punto.
Polidori M. - op.cit. - Pag. 107.
37
mss. dell’archivio Falzacappa VII punto.
38
Corteselli M. e Pardi A. - op.cit. - pag. 14.
39
Guidoni E. - op.cit. - pag. 21.
40
Dasti L. - op.cit. - pag. 384.
41
L’architetto Piernicoli dovrebbe essere stato un architetto del Comune, poiché compare in altri atti di questo periodo
riguardanti altri lavori eseguiti dal Comune di Corneto.
36
11
Capomastro muratore Gio’ Maria Conti; il primo dicembre venne registrato il
contratto di vendita di San Giacomo. 43
Cinque anni dopo - il 17 maggio del 1793 - venne eseguita la cerimonia per la
benedizione del cimitero; l’8 agosto dello stesso anno venne compilata una lista
dell’occorrente per dare degna sepoltura ai defunti 44 .
Il 4 marzo del 1810 l’architetto Paolo Nardeschi 45 presentò il conto di lavori per
migliorie da lui apportate nel camposanto 46 per ordine di un certo Lodovico
Casciola Maire; il 24 Marzo dello stesso anno, cioè venti giorni dopo, venne pagato il
capomastro muratore che aveva eseguito tali lavori. 47
Il 20 ottobre del 1811 Flaminio Neri presentò un altro conto per lavori di
ristrutturazione eseguiti nel cimitero e per la chiesa. 48
Nel 1814, il Vescovo Gazola rilevò il buono stato del nosocomio e si raccomandò che
i morti venissero seppelliti presso il cimitero di San Giacomo, con maggiore carità
cristiana e con maggiore decenza usando “una corda o una molla di ferro” per calarli
nel sepolcreto comune. 49
La chiesa subì altri lavori di ristrutturazione e di restauro il 30 luglio del 1824,
allorquando il capomastro muratore Gregorio Draghi 50 presentò un nuovo conto per
i lavori da lui fatti eseguire 51 e l’8 luglio del 1830, allorquando venne registrata una
nuova perizia. 52
Il 20 febbraio del 1841 il canonico Sergio Scappini riferisce che in occasione di una
visita pastorale del Vescovo Gazola, “venne ordinato di collocare una tela incerata da
porre sulle pietre consacrate; di fare due nuove sepolture dentro la chiesa, una per le
donne e l’altra per i bambini; entrambe dovevano avere una doppia pietra; di
falciare l’erba dentro il recinto; di costruire sulla sepoltura, destinata a porvisi gli
avanzi dello spurgo dei sepolcri, una piramide con una croce di ferro; di fare una
campana; e di restar ferma la strada che dal Salnitro immette al cimitero”. 53
42
I disegni del progetto del cimitero di San Giacomo sono irreperibili.
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
44
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
45
Tale architetto non compare in altri documenti da noi consultati.
46
Da questa perizia risulta, fra l’altro, che sono ancora aperte cinque finestre.
47
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
48
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
49
Corteselli M. e Pardi A. op. cit. - pag. 22.
50
I Draghi ricorrono spesso, in periodi diversi tra i mastri muratori.
51
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
52
mss. dell’archivio comunale di Tarquinia.
53
Blasi B. - op. Cit. - pag. 74; mss. dell’archivio comunale di Tarquinia. Non è stato possibile sapere con certezza se
tale progetto sia stato o meno attuato, perché nell’archivio era conservata solo la perizia e la stima della costruzione, ma
non abbiamo trovato documenti che attestassero pagamenti avvenuti.
43
12
Il 15 giugno del 1852 venne inviata dal cardinal Benedetti - Provicario Generale di
Corneto al cardinale Domenico Boccanera - Gonfaloniere di Corneto - la proposta di
costruire un altro cimitero adiacente a quello di San Giacomo, vicino la chiesa di
Sant’Egidio, allora “diruta”. Tale cimitero era diviso in quattro parti, una per ogni
Confraternita di Corneto. Il 25 agosto dello stesso anno l’agrimensore Giuseppe
Griappini disegnò una pianta del nuovo camposanto. 54 .
Ventitrè anni dopo - nel 1875 - venne costruito, a seguito di una delibera
parlamentare, l’attuale cimitero di Tarquinia, fuori dalle mura cittadine, per motivi
d’ordine igienico.
Negli anni sessanta la chiesa subì la sopraelevazione del piano di calpestio, voluta
dalla Sopraintendenza, per evitare che si allagasse nei giorni di pioggia.
Nel 1982 il recinto esterno è stato restaurato.
Da un punto di vista più propriamente “filologico”, il principale problema è quello
della datazione.
Il quadro cronologico, pur avvalendosi dell’intera documentazione, cita per la prima
volta San Giacomo solo nel 1244. Anno certamente postumo a quello della
edificazione.
Da un punto di vista “architettonico” la chiesa presenta numerose particolarità: la
differente altezza delle due campate dell’unica navata, le basi tronco-coniche dei
costoloni della seconda campata, la cupola araba-saracena raccordata con quattro
nicchie alla sottostante struttura, il sistema delle crociere “lombarde” poggianti su
semplici mensole modanate, tutti segni stilistico-costruttivi che convivono con
incredula naturalezza assieme alla più recente facciata, con il suo “schematico”
ordine architettonico, e con il recinto cimiteriale da intendere come tappa
fondamentale della tradizione funeraria italiana.
Da un punto di vista “storico” rimangono ancora indecifrabili le complesse
dinamiche sociali che accompagnarono la costruzione all’interno di un territorio
urbano in forte espansione. Dinamiche vieppiù articolate, quanto maggiori furono
gli interessi che vi gravitarono.
Forse non avremo mai modo di poter conoscere nei dettagli tali connessioni, data
l’assenza di documentazione specifica. Sembra certa solo l’originaria appartenenza
all’Ordine dei Benedettini (e precisamente al Monastero di San Giuliano di
Toscanella) che dovettero, quindi, esserne i committenti.
54
mss. dell’Archivio comunale di Tarquinia.
13
Tale mancanza di informazioni contrasta con la copiosa documentazione relativa
alla costruzione del cimitero con la quale è, oggi, possibile seguire dettagliatamente
le vicende di San Giacomo negli anni della prima metà del secolo scorso.
Non rimane, dunque, che pervenire ad interpretazioni e a valutazioni critiche che,
avvalendosi di comparazioni stilistico-costruttive con altri edifici religiosi, possano
colmare ciò che la ricerca storica lascia inespressa.
PARTE SECONDA
Analogie stilistico-costruttive.
La chiesa di San Giacomo - negli intenti del suo “progettista” - non venne realizzata
facendo riferimento alle indicazioni stilistiche e costruttive maturate sino ad allora
dalla esperienza edificatoria cornetana. Ciò risulta tanto più evidente considerando
un esempio di tipologia architettonica sacra antecedente a San Giacomo, qual’è la
chiesa - ancora esistente e funzionante di San Martino Vecchio. Le notizie storiche
attestano la presenza in città di tale edificio sin dal 1045 1) . E’ ancor oggi
caratterizzato da un impianto basilicale che ricorda la coeva architettura sacra
umbra, per quanto siano presenti più di un motivo di ordine decorativo di netta
influenza pisana.
Nei confronti della tradizione architettonica cornetana, le innovazioni più rilevanti
della chiesa di San Giacomo furono senz’altro l’adozione delle crociere e quella della
cupola.
Le prime - che forse erano state precedentemente costruite in San Pancrazio 2) vennero adottate, successivamente, nella chiesa di Santa Maria in Castello e in
molte altre costruzioni religiose.
Le crociere di Santa Maria in Castello risultano più evolute e raffinate di quelle di
San Giacomo, per la maggiore precisione con la quale vennero eseguite; precisione
forse imposta dalla committenza che voleva fare della chiesa un simbolo della città
stessa. Ma tale raffinatezza può anche essere il risultato di una raggiunta capacità
tecnica che, forse, all’epoca della costruzione di San Giacomo non aveva avuto modo
di essere del tutto assimilata.
1)
Supino P. - vedi bibliografia generale n. 30. La chiesa viene citata anche da un documento del 29 aprile del 1051
(Porter A.K. - vedi bibliografia generale n. 20).
14
Anche le crociere dell’Annunziata mostrano una maggiore padronanza del sistema
costruttivo, che si rileva sia dalla presenza delle esili colonnine (a sostegno delle
crociere stesse), sia dalla evidenziazione della chiave in volta, tramite la decorazione
a basso rilievo di una semplice rosa.
Delle crociere del San Salvatore non sappiamo con precisione come furono eseguite.
L’attuale copertura - realizzata con capriate in legno - dovrebbe probabilmente
sostituire una precedente in pietrame, sono infatti presenti e visibili sulle facce delle
murature, tracce di archi generatori di due crociere.
La peculiarità di San Giacomo consiste nell’originalità dell’adozione di una cupola a
pianta ellittica, che anticipò quella più famosa di Santa Maria in Castello di almeno
cinquanta-sessant’anni. 3)
Per quanto precedente, però, la cupola di San Giacomo non fu certo il prototipo
tipologico al quale i costruttori di Santa Maria in Castello fecero riferimento. Le
ricostruzioni realizzate dal De Angelis d’Ossat 4) - per le quali si rileva il sistema
stilistico 5) - mostrano un sistema costruttivo più affine alla cupola del Duomo di
Pisa che a quella della chiesa di San Giacomo. Diversamente, la cupola di
quest’ultima ha in comune con quella del Duomo di Pisa la pianta ellittica.
Per quanto riguarda, invece, la pianta triabsidata di San Giacomo, essa si ripete - in
termini stilistici sempre diversi - in moltissime altre costruzioni religiose cornetane
del XII e del XIII secolo. Alcuni esempi sono la vicina Annunziata con le tre absidi
notevolmente estradossate, la stessa Santa Maria in Castello avente le absidi laterali
meno estradossate di quelle dell’Annunziata; San Pancrazio, avente, anch’essa, tutte
e tre le absidi estradossate.
Nelle chiese cornetane di questo periodo si riscontrano decorazioni con forti
influenze pisane come la bicromia - mutuata dall’architettura araba e le modanature
a losanga, presenti all’esterno dell’unica abside del San Salvatore, decorazioni di
influenza meridionale, come le modanature a segmenti spezzati di san Pancrazio e
dell’Annunziata e quelle di influenza lombarda quali gli architetti pensili presenti
nella stragrande maggioranza degli edifici religiosi.
2)
Il Silvestrelli (vedi bibliografia generale n. 29) riferì che tale edificio già era presente e funzionante nell’XI secolo.
Sappiamo infatti, che la cupola di Santa Maria in Castello venne edificata una decina di anni prima della sua
consacrazione avvenuta nel 1207.
4)
De Angelis d’Ossat G. - vedi bibliografia generale n. 13.
5)
Il colonnato del tamburo è un elemento decorativo di consonanza orientale, il lanternino è riconducibile al
baldacchino di origine bizantina, e , infine, la “mela” allo stelo di origine islamica.
3)
15
In san Giacomo l’assenza di tali decorazioni, che può in parte essere causata dalle
modifiche esterne settecentesche, sottolinea la singolarità dell’edificio nella
tradizione architettonica locale.
Nel panorama esterno a Corneto, San Giacomo trova un punto di contatto frequente
nella pianta triabsidata, che dal nord venne diffusa in Europa e nell’Italia
settentrionale e centrale dai Benedettini-cluniacensi e nell’Italia meridionale dai
Benedettini-basiliani.
Il primo riferimento che mostra alcune affinità con San Giacomo è rappresentato
dalla chiesa di Santa Maria di Coneo a Collevaldense, vicino Siena: la sua
costruzione iniziò secondo il Salmi 6) nell’XI secolo, ma venne consacrata solo nel
1124, come risulta dall’archivio vescovile di Volterra; 7) la copertura della navata e
del transetto è a botte, nella navata sono presenti semicolonne da cui partono archi
trasversali, all’incrocio transetto-navata si erge - impostata su una base rettangolare
- la cupola ottagonale di tipo lombarda, inglobata all’esterno del tiburio.
Ma il particolare stilistico che avvicina San Giacomo a Santa Maria di Coneo è
senz’altro la planimetria. Entrambe infatti, sono a croce latina commissa,
triabsidate, con la sola abside centrale estradossata; notevoli anche le similitudini
rappresentate dalla presenza di alcune aperture situate su due absidi e sul lato
opposto all’abside sinistra del transetto.
Le due chiese fanno riferimento ad un unico “modello ideale” tipico delle chiese
Benedettine, con le variazioni stilistico-costruttive dipendenti dal contesto locale.
Fra le chiese benedettine realizzate in questi secoli e utili ai fini della nostra ricerca,
citiamo ancora la chiesa di Santa Maria dell’Alberese, meglio nota con la
denominazione di San Robano 8) : la sua costruzione iniziò, secondo il Salmi 9) ,
attorno al 1000 ad opera dei benedettini che vi dimorarono fino al XIII secolo. Ha
anch’essa una pianta a croce latina commissa, triabsidata, ma con tutte e tre le
absidi estradossate, la navata era coperta da crociere con costoloni rettangolari,
mentre il transetto ha ancora una copertura a botte; una cupola ottagonale innalzata all’incrocio transetto-navata - è racchiusa dal tiburio di evidente influsso
lombardo, all’esterno sono presenti, inoltre, archetti pensili e decorazioni a basso
rilievo 10) . E’ rilevante notare la soluzione del raccordo fra cupola e incrocio
6)
Salmi M. - vedi bibliografia generale n. 27.
Salmi M. - vedi bibliografia generale n. 27.
8)
Giordano M.A. - vedi bibliografia generale n. 16.
9)
Salmi M. - vedi bibliografia generale n. 27.
10)
Giordano M.A. - vedi bibliografia generale n. 16.
7)
16
transetto-navata, realizzato con l’adozione di quattro nicchie, che ricordano - per
dimensioni e forma - quelle eseguite per San Giacomo.
E’ molto importante, secondo noi, aver incontrato tale sistema costruttivo realizzato raramente nella tradizione architettonica toscana 11) in Santa Maria in
Alberese, sia perché questa era - come San Giacomo - un monastero
originariamente appartenente all’ordine benedettino, sia perché era collocata
territorialmente a pochi chilometri di distanza da Tarquinia.
Il tutto diventa ancor più interessante se ci rifacciamo all’ipotesi espressa dalla
Raspi Serra 12) per la quale Papa Callisto II (1119-1124) si adoperò a mantenere
stretti contatti fra il monastero toscano e la chiesa di San Giovanni vecchio di Mili e,
più in generale, con il mondo religioso calabro-siciliano, da cui originariamente va
riferito tale sistema costruttivo.
Tornando, di nuovo, in Toscana - a pari con quanto già fece l’Apollonj Ghetti 13) citiamo, infine, altre due chiese: la Badia di Santa Trinità, nei pressi di Talla, vicino
ad Arezzo, e la Badia Berardenga.
Di quest’ultima - manomessa nel 1806 - è possibile ancora riconoscere l’impianto
originale da un disegno di Baldassarre Peruzzi, conservato agli Uffizi di Firenze 14) .
Questo disegno mostra la pianta della chiesa, a croce latina commissa, ma con
un’unica abside centrale. La Badia - che dovrebbe risalire all’XI secolo - ha in
comune con la chiesa di San Giacomo, la cupola. Questa - “contenuta in un
rudimentale tiburio” 15) - era a pianta ellittica e aveva un andamento curvilineo
esterno simile a quello della cupola della nostra chiesa. Per questo motivo
rappresenta - assieme a San Giacomo - uno dei rari esempi di cupola a pianta
ellittica. Rara non solo per l’Italia centrale, ma anche per le terre che per prime
adottarono tale conformazione quali quelle siciliane.
La Trinità di Talla, probabilmente costruita nel XII secolo, presenta dei capitelli
simili a quelli della nostra chiesa, spesso riscontrati nell’architettura meridionale;
questo ed altri particolari confermano 16) - quanto la Toscana - e con essa il viterbese
- avesse avuto l’opportunità - tramite i suoi porti - di far propri sistemi costruttivi
11)
I testi come quello del Salmi (vedi bibliografia generale n. 27) non ne enumerano molte.
Raspi Serra Joselita - vedi bibliografia generale n. 25.
13)
Apollonj Ghetti B.M. - vedi bibliografia generale n. 1.
14)
Salmi M. - vedi bibliografia generale n. 27.
15)
Apollonj Ghetti B.M. - vedi bibliografia generale n. 1.
16)
Salmi M. - vedi bibliografia generale n. 27.
12)
17
provenienti dalle coste meridionali, integrandoli con sistemi architettonici
oltreappenninici, primo fra tutti quello lombardo.
Avvicinandoci a Corneto, è interessante ricordare anche l’antica e nota chiesa di San
Giusto, che come San Giacomo appartenne al monastero di San Giuliano di
Toscanella.
Sita per l’appunto nel territorio di Toscanella, le notizie di San Giusto risalgono al
962 17) . Attualmente la chiesa è usata come stalla; il transetto è la parte meglio
conservata, mentre dell’abbazia restano solo poderosi ruderi; l’impianto originario è
stato comunque ricostruito dalla Raspi Serra 18) che ha individuato le seguenti
caratteristiche: pianta a croce latina commissa con le tre absidi estradossate, navata
unica con le colonne incassate nelle pareti laterali, il transetto è coperto con tre volte
a crociere poggianti su mensole mistilinee.
La planimetria conferma ancora una volta quanto il modello concettuale di cui
abbiamo già scritto, fosse in questi secoli così imperante. Notare, per avvalorare tale
ipotesi, l’apertura collocata sulla parete del transetto antistante l’abside laterale
sinistra, che già avevamo rilevato sia nella pianta di Santa Maria a Coneo, sia in
quella di San Giacomo.
Nell’Italia meridionale, dopo l’investitura fatta da Papa Nicola II a Roberto il
Guiscardo nel 1059 a Melfi, i Normanni accettarono la permanenza dei benedettini
in Calabria e in Sicilia dove si unirono ai monaci basiliani dando origine ad una
architettura romanica meridionale dalla duplice influenza latina e dalla duplice
influenza orientale. Tanto è vero, che l’architettura meridionale risentì sia dell’opera
cassinese e benedettino-francese (o cluniacense-normanno), sia dell’architettura
bizantina-musulmana.
E’sorprendente, ai fini del nostro studio, la chiesa di Santa Maria di Tridetti, sita in
provincia di Reggio Calabria tra Staiti e Brancaleone Superiore, la cui osservazione è
possibile soprattutto attraverso i disegni dell’Orsi 19) che ne ha operato un’attendibile
ricostruzione attraverso i ruderi rimasti e che, comunque, condividiamo, soprattutto
dopo aver effettuato una nostra visita sul luogo.
La chiesa venne fondata nel 1036, però si ritiene da parte di alcuni Autori 20) che le
parti giunte sino a noi sono opera di una ricostruzione successiva eseguita dai
17)
Raspi Serra Joselita - vedi bibliografia generale n. 25 e 26.
Raspi Serra Joselita - vedi bibliografia generale n. 25 e 26.
19)
Orsi P. - vedi bibliografia generale n. 19.
20)
Come il Bottari S. - vedi bibliografia generale n. 6.
18)
18
normanni attorno al 1093. Ha un impianto longitudinale diviso in tre navate, con
l’estremità triabsidata.
Ma il particolare costruttivo che ritieniamo essere di maggiore interesse è senz’altro
la cupola, in parte crollata, della quale è possibile vedere il raccordo con l’incrocio
navata-transetto, costituito da quattro nicchie simili a quelle di San Giacomo;
all’esterno due tamburi - entrambi quadrati - precedevano l’estradosso.
I raccordi a nicchia rari nell’architettura meridionale sono molto frequenti
nell’architettura islamica, soprattutto in Egitto 21) come si può osservare nel
mausoleo n.5 di Aswan e nelle moschee di Al-Hakim, Al-Guyushi e Al-Sabbat Bahat,
dove, per altro - alla base dell’imposta della cupola - venne eseguita una cornice
orizzontale bicroma che ricorda quella di San Giacomo.
Tornando a Santa Maria di Tridetti le modanature delle mensole sostengono gli
arconi, posti alla base dell’imposta della cupola. Sono stilisticamente affini a quelle
dei capitelli di San Giacomo.
In Sicilia, San Giovanni degli Eremiti con i suoi raccordi a nicchia, per quanto rilevi
notevoli diversità sia nella pianta che nelle coperture, mostra una ricchezza di
purezza volumetrica, ottenuta dalla aggregazione degli elementi funzionali, che è
una prerogativa dell’architettura mediterranea e che trova riscontro in San
Giacomo.
Una simile composizione volumetrica esterna compare anche in Santa Maria di Mili,
fondata nel 1092, con una cupola estradossata e dei prospetti laterali che ricordano
San Giacomo.
Anche la cupola estradossata su tamburo rettangolare o quadrato ha origine
nell’architettura islamica: si ritrova, per esempio, nel tempio del fuoco, nei pressi di
Gira. 22)
E’, comunque, largamente usata anche nell’architettura meridionale: tra gli esempi
più antichi citiamo nuovamente San Giovanni vecchio di Stilo.
Spostandoci in Francia - soprattutto alle regioni di Périgord, dove maggiori sono le
presenze architettoniche romaniche aventi caratteristiche arabo-bizantini constatiamo quanto le ipotesi sostenute da alcuni Autori 23) , per le quali vennero
avanzate affinità stilistiche-costruttive fra l’architettura francese e quella di San
Giacomo, siamo inattendibili.
21)
Creswell Keppel A.C. - vedi bibliografia generale n. 10.
Creswell Keppel A.C. - vedi bibliografia generale n. 10.
23)
Apollonj Ghetti - vedi bibliografia generale n. 1.
22)
19
Crediamo, infatti, che la “purezza” formale della chiesa cornetana, avvicina questa
più agli esempi di “originale” fattura mediterranea, che a quelli che da essa trassero
una locale interpretazione artistica.
L’attuale facciata di San Giacomo è caratterizzata da un ordine architettonico di tipo
“schematico”.
Trova numerosi riferimenti soprattutto fra le chiese minori: a Roma facciate simili si
riscontrano nelle chiese delle “Congregazioni” come San Eligio dei Ferrari 24) la cui
facciata dovrebbe risalire al 1565, Sant’Omobono, protettore della Congregazione
dei Sarti, realizzata dopo il 1573 25) e San Giovanni decollato, appartenente alla
Confraternita dei Fiorentini, detta della Misericordia, perché assisteva i condannati
a morte, la cui costruzione avvenne sul finire del XVI secolo. 26)
Tutte e tre queste chiese hanno in comune con quella di San Giacomo il fatto di
essere molto più antiche della loro facciata: infatti, furono realizzate per ridare
funzionalità ad edifici ridotti in rovina, ma la scarsità di denaro, ridusse il restauro
ad una semplice ed economica progettazione.
La facciata di San Giacomo, dunque, propone una nuova tematica che riflette quel
diffuso e “anti monumentale” fenomeno che si manifestò nel corso dei secoli XVII e
XVIII e che fu caratterizzato dalla riappropriazione del patrimonio edilizio esistente
e dalla sua ristrutturazione, ma tale tema risulta troppo vasto per essere affrontato
adeguatamente in questa relazione.
Per il recinto cimiteriale e per il cimitero stesso, i problemi si complicano ancor più,
perché la loro tipologia “urbana-architettonica” - a livello nazionale - non ha avuto
un riscontro di ricerche organiche e ordinate.
Selezione della critica esistente.
Va dapprima scritto, che la chiesa di San Giacomo è stata studiata in modo specifico
dal Porter 27) , dall’Apollonj Ghetti 28) e, più recentemente, dalla Raspi Serra. 29)
24)
Tale Congregazione era suddivisa in “chiavari, chiodaroli, maniscalchi”. Zeppegno L. e Mattanelli R. - vedi
bibliografia generale n. 33.
25)
Era chiamata precedentemente San Salvatore in Portico. E’ collocata nei pressi del Portico d’Ottavia. Zeppegno L. e
Mattanelli R. - vedi bibliografia generale n. 33.
26)
Zeppegno L. e Mattanelli R. - vedi bibliografia generale n. 33.
27)
Porter A.K. - vedi bibliografia generale n. 22.
28)
Apollonj Ghetti B.M. - vedi bibliografia generale n. 1.
29)
Raspi Serra J. - vedi bibliografia generale n. 25
20
E’ stata spesso chiamata in causa, nello studio delle crociere, soprattutto per la
datazione fortemente anticipata fornita dal Porter - che la voleva costruita nel 1095 che aveva suscitato molto interesse e curiosità per la terminazione triabsidata 30) e
per la cupola all’incrocio della navata con il transetto 31) che la accomuna a molte
altre chiese. Da un punto di vista “filologico” il problema più dibattuto riguarda la
determinazione della datazione: il Porter - come abbiamo già scritto - identificò nel
1095 l’anno della costruzione di San Giacomo in base ad una semplice
considerazione di carattere matematico, essendo il 1095, l’anno intermedio fra il
1070 e il 1121; queste due date furono per il Porter dei riferimenti cronologici legati
allo stesso fenomeno artistico rappresentato dal sistema costruttivo a crociere
sostenute da pilastri o colonne, tipico dell’architettura romanica: il 1070, fu, infatti,
l’anno in cui l’uso delle volte costolonate in Lombardia ebbe una grande diffusione;
il 1121 è invece l’anno della fondazione della massima chiesa cornetana, Santa Maria
in Castello. Questa chiesa mostrando una matura e, concettualmente, completa
soluzione di tale sistema costruttivo, divenne per il Porter l’esempio architettonico
cornetano più valido per datare l’anno della raggiunta maturità tecnica e stilistica
ottenuta dalle maestranze locali. Il Porter, quindi, ritenendo che S. Giacomo non
avesse raggiunto tale completezza - per quanto mostri una “corretta” edificazione
delle volte costolonate - la collocò in un periodo cronologicamente intermedio fra il
1070 e il 1121.
Per suffragare la sua tesi, il Porter - con un’analisi comparata - dimostrò che le
decorazioni di Santa Maria in Castello furono realizzate successivamente a quelle di
San Giacomo.
L’Aubert 32) pur partendo dagli stessi presupposti del Porter - posticipò la datazione
dello studioso inglese, spostandola al primo quarto del XII secolo.
L’Apollonj Ghetti fece scivolare ancora la datazione, collocando l’anno della
costruzione di San Giacomo, tra il 1150 e il 1200, riferendosi non ai costoloni di tipo
lombardo ma alla cupola e alle altre “presenze” stilistiche di più marcata
provenienza meridionale.
Ipotizzò quindi che la chiesa cornetana fosse stata influenzata da una tendenza
formale manifestatasi nel corso del secondo quarto del XII secolo, identificabile
soprattutto con la chiesa palermitana di San Giovanni degli Eremiti, la cui
30)
Giordano A.M.- vedi bibliografia generale n. 16.
De Angelis d’Ossat - vedi bibliografia generale n. 12 e 13.
32)
Aubert M. - vedi bibliografia generale n. 4
31)
21
ricostruzione terminò nel 1132. Considerando, inoltre, il tempo intercorso per
l’adozione in Tarquinia di tale tendenza formale l’Apollonj Ghetti - con l’ausilio di
altri strumenti valutativi - collocò l’anno di edificazione di San Giacomo nella
seconda metà del XII secolo, ritenendo così San Giacomo in regresso stilistico e
costruttivo rispetto alla vicina Santa Maria in Castello.
La Raspi Serra, infine, relazionando San Giacomo alle chiese di Santa Maria di Mili,
Santa Maria di Tridetti e Santa Maria in Alberese, ritenne che la chiesa cornetana
fosse stata edificata nei primi anni del XII secolo, poiché in Sicilia, più tardi,
vennero realizzate delle architetture più complesse.
Riteniamo utile sottolineare la divisione che, nel corso di circa 60 anni, si è venuta a
creare,
fra
coloro
che
potremmo
definire
“filo-meridionalisti”,
perché
interpretarono la storia della chiesa cornetana relazionandola soprattutto al mondo
calabro-siciliano, da coloro che potremmo definire “filo-settentrionalisti”, perché
relazionarono la nostra chiesa al mondo lombardo e comunque centrosettentrionale.
Da un punto di vista architettonico, il Porter studiando le crociere di San Giacomo
le ricollegò alla architettura lombarda nella quale hanno origine nell’XI secolo le
volte costolonate, soprattutto per i caratteristici costoloni a sezione rettangolare.
Anche l’Aubert riconobbe alle crociere di San Giacomo l’origine lombarda
nell’impianto caratterizzato dagli archi trasversali d’imposta a sesto pieno, dagli
archi della crociera con il sesto un po' rialzato, dalla mancanza di una manifesta
chiave di volta delle costolature e rivendicò influenze francesi nell’uso dei grossi
conci di pietra. 33)
Anche i due raccordi tronco-conici posti alle due basi della seconda crociera nella
parte vicina al transetto, hanno subìto interpretazioni divergenti: il Porter li spiegò
come un tentativo successivo alla costruzione, di rendere tondi i costoloni;
l’Apollonj Ghetti richiamò alla memoria gli intradossi degli archi arabo-siciliani 34) ,
che spesso hanno un cordolo tondeggiante, presente in molte costruzioni isolane
della prima metà del XII secolo.
Tornando alle volte costolonate, la loro diversa altezza dal piano di calpestio evidenziate nel nostro rilievo dalla sezione longitudinale - ha fatto pensare, sia al
33)
Infatti le volte costolonate di tipo lombardo sono realizzate, nella maggior parte dei casi, con piccoli elementi
lapidei, spesso laterizi.
34)
Il Giovannoni G., in “Architettura ed arti decorative” I, Roma 1921, nell’articolo: “Un quesito architettonico nel
chiostro di Monreale” esamina il contrarco, interno degli archi del chiostro e, negando l’unicità di tale decorazione, la
ricollega a precedenti esempi arabi derivandoli dall’arco a strapiombo che si ritrova anche nell’arte bizantina.
22
Porter che all’Apollonj Ghetti richiamò alla memoria gli intradossi degli archi arabosiciliani 34) , che spesso hanno un cordolo tondeggiante, presente in molte
costruzioni isolane della prima metà del XII secolo.
Tornando alle volte costolonate, la loro diversa altezza dal piano di calpestio evidenziate nel nostro rilievo dalla sezione longitudinale - ha fatto pensare, sia al
Porter che all’Apollonj Ghetti, ad un espediente prospettico, tale da far apparire la
chiesa più lunga di quanto realmente fosse, i due Autori concordano anche sulla
disposizione irregolare dei conci nelle calotte delle absidi laterali, che ritennero
essere state così disposte nel tentativo illusorio di far sembrare le absidi più
incavate.
Il Crema 35 approfondendo il problema degli accorgimenti prospettici riscontrati in
diverse chiese medievali italiane 36) , ipotizzò un suo uso intuitivo anche in San
Giacomo.
Nei confronti della cupola, l’Apollonj Ghetti e il De Angelis ‘Ossat 37) concordarono
sulle origini arabo-siciliane, e soprattutto per la curvatura dell’estradosso, per il
tamburo rettangolare e basso, per i raccordi a nicchia con l’incrocio della navatatransetto 38) .
La Raspii Serra, inoltre, evidenziò il tentativo realizzato in San Giacomo di rendere
stereometrici i volumi esterni, inglobando le absidi laterali nello spessore del muro,
con gusto tipicamente meridionale.
Infine, per quanto riguarda le decorazioni bicrome venne relazionate dagli Autori di
cui sopra a Pisa. Solo la Raspi Serra le collegò direttamente al mondo arabo.
Le ipotesi e le interpretazioni espresse dagli storici dell’architettura citati - proprio
perché spesso contrastanti fra loro - dimostrano quanto sia stato difficile trovare
delle spiegazioni omogenee e complete, tali da fornire una chiara e definitiva
risposta ai problemi che la chiesa ha sollevato e continua a sollevare.
Le analisi effettuate mostrano una incompletezza metodologica - d’ordine “spaziotemporale” - che crediamo utile rilevare.
34)
Il Giovannoni G., in “Architettura ed arti decorative” I, Roma 1921, nell’articolo: “Un quesito architettonico nel
chiostro di Monreale” esamina il contrarco, interno degli archi del chiostro e, negando l’unicità di tale decorazione, la
ricollega a precedenti esempi arabi derivandoli dall’arco a strapiombo che si ritrova anche nell’arte bizantina.
35
Crema L. - vedi bibliografia generale n. 9.
36)
Tra le altre chiese il Crema esaminò quella di San Pietro di Tuscania, ritenendo la svasatura delle pareti voluta per
accrescere il senso della profondità della chiesa stessa. La Raspi Serra in “Tuscania”, negò, però, questa ipotesi
affermando che il rilievo del Crema era inesatto e addebitò l’irregolarità delle pareti a successive riprese della
costruzione e a criteri di carattere statico.
37)
De Angelis d’Ossat - vedi bibliografia generale n. 13.
23
La “specialistica” attenzione che gli storici dell’architettura hanno dimostrato di
avere nei confronti di San Giacomo, non ha permesso alla storiografia - sviluppatasi
prevalentemente nel nostro secolo - di uscire da una ricerca troppo legata al
particolare architettonico e poco attenta ai numerosi riferimenti “esterni” alla chiesa
stessa.
L’incompletezza metodologica ha distolto lo storico - in termini spaziali - dalle
aggiunte anch’esse architettoniche realizzate sul finire del XVIII secolo, che sono del
tutto ignorate dagli Autori citati 39) , e in termini temporali - dagli avvenimenti
storici che hanno caratterizzato la vita comunale cornetana dell’XI secolo e del XII, e
dall’assetto urbanistico della città stessa. 40)
Un contributo notevole per avere alcuni particolari di tali avvenimenti ci viene
fornito dagli annali scritti dal Polidori 41) nel XVII secolo.
Nel 1056, la città di Corneto - assieme a Toscanella - prese posizione avversa a Roma
e al Papato, schierandosi a favore di Roberto Guiscardo, “Prencipe de Normandi, et
Re della Puglia.” 42)
Già da questa prima nota rileviamo due aspetti che risulteranno importanti per la
storia di Corneto di questo periodo: la scelta “politica” a favore dell’Impero, che
vedremo essere condizionata anche da interessi economici e la stretta relazione che
intercorse fra Corneto e i Normanni.
Nel 1066, “Stante che li Conti dell’Anguillara si fossero impatroniti di Viterbo,
Corneto, Toscanella, et Vetralla Goffredo Gibero marito della Contessa Matilde
porgendo aiuto al Papa, discacciò detti Conti Anguillara, e recuperò dette Città
alla Chiesa Romana”. 43)
Nel 1080 nella gran parte delle città toscane, come in quella di Corneto, scoppiarono
di nuovo “discordie” fra i sostenitori del Papato e quelli dell’Impero. I cittadini che
appoggiarono quest’ultimo furono sconfitti e cacciati dalle rispettive città 45) .
38)
Anche il Toesca (- vedi bibliografia generale n. 31) ritenne di derivazione araba i pennacchi a nicchia. Stessa ipotesi
è stata avanzata dalla Raspi Serra.
39)
Addirittura l’Apollonj Ghetti nel corso della sua ricerca (-vedi bibliografia generale n. 1) aveva presentato un
“saggio di ripristino” e quindi di restauro, nel quale si manifestava l’intenzione di demolire le aggiunte settecentesche,
compreso l’antistante recinto cimiteriale.
40)
Solo la Raspi Serra (- vedi bibliografia generale n. 25) ha tentato una correlazione storica con San Giacomo, per la
quale ha esposto la sua tesi di fondo, imperniata sul concetto dell’internazionalità dell’architettura di Tarquinia.
41)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21)
42)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 165
43)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 165-166
45)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 166-167
24
Ebbero, comunque, la forza di unirsi e l’anno successivo - nel 1081 - assediarono
Toscanella. Ma furono di nuovi sconfitti. 46)
Nel 1082 per intervento della Contessa Matilde di Canossa, venne stipulata una
pace, fra i cittadini del Patrimonio e quelli di Orvieto e della Toscana, che prevedeva
la restituzione di Viterbo alla Chiesa e la possibilità agli sconfitti di rientrare nelle
loro città. 47)
Quest’ultimi avvenimenti rilevano quanto Corneto tentasse di uscir fuori
dall’influenza politico-amministrativa di Roma: la città pur appartenendo al
Patrimonio di San Pietro, non perse occasione per schierarsi con le città che
sostenevano l’Impero e che erano situate fuori dal territorio del Patrimonio.
Questi avvenimenti confermano, inoltre, le forti relazioni che Corneto intratteneva
oltre che con i Normanni e quindi con le regioni meridionali, anche con le città
toscane e dell’Italia centrale appenninica. Relazioni che si erano consolidate nel
corso dei secoli X e XI 48) e che si esplicitarono in intense politiche-militaricommerciali.
Le discordie ripresero nel 1090, allorquando i cornetani schierandos a favore
dell’Impero, assieme ad altre città, occuparono e saccheggiarono Toscanella 49) e nel
1095, quando parteciparono all’assedio di Montefiascone.
Da questo anno fino al 1134, il Polidori non fornisce più cronache relative agli
scontri fra i sostenitori del Papato e quelli dell’Impero. Ma è proprio del 1134 la
notizia, per la quale il Dasti 50) - facendo riferimento al Polidori, al Caffaro e al
Valesio - potè così scrivere:
“Corneto si ribellò al vero Pontefice Innocenzo II, ed aderì ad Anacleto antipapa.
Poscia incitò e sollevò tutto il Patrimonio a seguire il suo esempio, lo che ottenne, e
se il Papa non fosse stato aiutato da Lotario III Imperatore di Germania e re
d’Italia, Innocenzo non avrebbe potuto sedare da sé cotal ribellione. I cornetani ‘co
loro aderenti, l’antipapa e Ruggero Re di Sicilia, furono rotti e superati dalle
truppe del Papa e dell’Imperatore, le quali mossero subito alla volta di Corneto per
punire questa città, origine della sollevazione del Patrimonio intiero. Fu così
46)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 167
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 167
48)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30)
49)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 167
50)
L. Dasti - (vedi bibliografia generale n. 11) pagg. 296-297 / L’Autore fece riferimento al Polipori M. - (vedi
bibliografia generale n.21), al Caffaro (Ann. Genuens) e al Valesio (Codice, pag. 23).
47)
25
ricuperata la città dalla Chiesa, e fu dato il saccheggio alle case di tutti i ribelli, che
si rifuggiarono in Sicilia.”
Questa nota può rappresentare la definitiva e inconvertibile sconfitta politicomilitare che interruppe i rapporti politico-commerciali esistenti fra i cornetani e i
Normanni;
una
sconfitta
ancor
più
incontrovertibile
per
la
raggiunta
riappacificazione fra Genova e Pisa - da sempre le due maggiori interlocutrici di
Corneto 51) - e la conseguente loro accettazione del potere Papale.
D’altra parte documenti e/o fonti storiche che ripropongono intese politiche-militari
fra cornetani e Normanni non ve ne sono più o, comunque, i cronisti e storici locali
non ne riportano più notizie.
Diversamente sono proprio i documenti storici a rilevare il nuovo corso degli
avvenimenti, che diverranno sempre più imperniati in una manifesta sudditanza ora
economica, ora politica di Corneto, rispetto a Roma.
Da un documento del 1144 52) si rileva l’ufficializzazione di riacquistati diritti che la
Chiesa pretendeva di avere su Corneto e che Papa Lucio II riaffermò con maggiore
fermezza, sia l’ufficializzazione dell’avvenuta costituzione dell’istituzione comunale,
che già doveva essersi realizzata precedentemente.
Questa è in sintesi la situazione complessiva che si era venuta formando nel corso
della prima metà del secolo XII.
Non fu comunque una situazione stabilizzata. I dissidi fra Papato e Impero,
all’interno della città di Corneto, continuarono fino al 1169 53) e fino al 1184 54) .
Le finalità della nostra relazione non ci permettono di approfondire ulteriormente i
problemi storici; vogliamo solo aggiungere che le scelte “politiche” di Corneto a
favore dell’Impero, prima, e del Papato, dopo, furono coincidenti con le scelte
“politiche” effettuate dalle città commerciali e portuali con le quali aveva stipulato i
più stretti contratti economici, quali Pisa, Genova, Ragusa.
Non a caso, dunque, dopo la riappacificazione fra Genova e Pisa - avvenuta per
volontà di Papa Innocenzo II nel 1133 55) - Corneto stipulò trattati di alleanza con
Pisa nel 1174 56) e con Genova nel 1177 57) .
51)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pagg. 142-143
53)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 169
54)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pag. 169
55)
M. Polidori - (vedi bibliografia generale n. 21) pagg. 167-168
56)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pag. 144
57)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pagg. 145-146
52)
26
Tutto ciò avvenne mentre era in corso in Corneto un avanzato processo di
autonomia comunale.
Il comune, ufficialmente riconosciuto nel 1144, gravitava “intorno ai due consoli,
eredi di competenze politiche e giurisdizionali già proprie del visconte marchionale
e della sua amministrazione, competenze che, tuttavia,” 58) non furono “più
l’emanazione del potere del marchese, bensì di una autonomia o volontà di
autonomia della civitas”. 59)
Tale autonomia, per la città di Corneto, fu maggiormente accresciuta e garantita da
una forte economia locale, legata alle attività portuali (commerciali),
a quelle
agricole (grano) e a quelle di allevamento (lana e bovini).
“Quando si accenna ad un accrescersi dell’importanza economica di Corneto ci si
riferisce soprattutto all’attività commerciale del suo porto, attività che, per
essere... già in piena fioritura nella seconda metà del secolo XII, si deve far risalire
senz’altro ad alcuni decenni indietro e, stando alla documentazione, per lo meno al
tempo di Matilde, cui fa riferimento la prima notizia relativa ai rapporti marittimi
con Pisa. Probabilmente di maggiore rilevanza nel Medio Evo rispetto a quello di
Civitavecchia e il più attivo sulla costa tirrenica nel tratto compreso tra Pisa e
Terracina, il porto di Corneto doveva assolvere essenzialmente alla necessità di un
commercio di transito, vale a dire di duplice convogliamento: delle merci
provenienti dai più ricchi paesi del Lazio, dell’Umbria e della Bassa Maremma,
dirette poi su navi cornetane verso Pisa, Genova e - poco più tardi forse - verso la
Spagna, nonché dei prodotti acquistati dalle medesime navi nei porti del Tirreno e
del Mediterraneo e destinati ad essere assorbiti dai mercati dell’entroterra laziale,
umbro, maremmano.” 60)
Dunque, dalla Bolla di Papa Sergio IV (1009-1012) - nella quale si riconobbe
ufficialmente a Corneto la qualifica di “civitas” 61) - alla decisione presa, poco prima
del 1121, dalla commissione comunale di costruire Santa Maria in Castello,
intercorse poco più di un secolo, che vide maturare e concretizzare la forza e
l’influenza della città e a far di questa una nuova diretta antagonista di Tuscania e di
Viterbo.
58)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pag. 142
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pag. 142
60)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pagg. 140-141
61)
P. Supino - (vedi bibliografia generale n. 30) pag. 136
59)
27
Lo sviluppo all’interno della città fu probabilmente facilitato dalla sua stessa
struttura organizzativa che prevedeva la presenza decentrata e attiva di operatori e
di rappresentanti del corpo sociale.
Gli interventi programmatori e urbanistici del comune, si concentrarono nelle zone
della città rimaste libere o non utilizzate: la decisione di costruire un fuori-scala
architettonico così magnificente come Santa Maria in Castello, rimane la decisione
più evidente presa dal governo della città, è probabile che il potere locale intervenne
anche nella zona nord e nord-orientale, limitrofa le mura settentrionali, collocando
una serie di edifici religiosi che furono di proprietà di diversi ordini religiosi e che
svolsero sia funzioni parrocchiali che attività monacali e di interesse sociale (sanità
e istruzione).
Questi interventi si svolsero per tutto il XII secolo: mentre si costruiva Santa Maria
in Castello, iniziata nel 1121 e consacrata nel 1207, venne edificata San Giacomo e ad
essa e a San Fortunato vennero costruite le chiese del San Salvatore, di Sant’Egidio,
dell’Annunziata, di Sant’Angelo del Massaro, di Santa Rosa.
Da quanto fin qui è stato scritto, crediamo di poter avanzare una ipotesi.
Considerando che San Giacomo facesse parte di un programmatico intervento
urbanistico, caratterizzato dalla costruzione di Santa Maria in Castello, potremmo
credere che la nostra Chiesa sia stata iniziata solo dopo il 1121. A favore di tale
ipotesi, va aggiunto che le due chiese sono pressochè parallele, per cui, se si dovesse
scartare l’ipotesi della casualità dovremmo ritenere valida l’affinità urbanistica;
essendo, inoltre, Santa Maria in Castello vincolata dall’andamento orografico e dalla
preesistenza del “castello” potremmo scrivere, che chi costruì San Giacomo volle con
tale parallelismo stabilire una “legge” che regolasse lo sviluppo urbano della
“civitas”.
Considerando, altresì, gli elementi stilistici e costruttivi di san Giacomo, che
richiamano marcatamente esempi ed esperienze calabro-siciliane, potremmo
ritenere che la chiesa fosse già terminata (o comunque prossima alla conclusione)
nel 1134, poiché fu questo l’anno in cui si interruppero le relazioni con il mondo
normanno.
Crediamo,
infatti,
che
l’edificazione
così
accurata
e
precisa,
caratterizzata da una “maniera” architettonica chiaramente ispirata al mondo
meridionale, non poté essere realizzata se non da progettisti ed esecutori che
avevano già conclusa una esperienza edificatoria di quel tipo o che comunque ne
conoscevano profondamente le procedure progettuali e realizzative.
28
La chiesa di San Giacomo pone però all’attenzione dello storico anche altri
problemi.
E’ importante esaminare i caratteri della committenza; da quanto già scritto risulta,
essere più o meno direttamente l’Ordine monastico dei Benedettini, e più
precisamente i Benedettini cassinensi di San Giuliano di Toscanella 62) .
Dobbiamo sottolineare gli intensi interscambi “politici economici, culturali” che tale
Ordine religioso seppe costruire e mantenere in tutta Europa, e la loro capacità
organizzativa nel lavoro e nella gestione di vasti possedimenti territoriali con elevate
produzioni agricole e di allevamento e i rapporti con la città di Corneto.
Corneto infatti, nel XII secolo tendeva a divenire una città commerciale di notevole
importanza: fra l’altro commerciava e smerciava prodotti agricoli provenienti
dall’entroterra viterbese: i Benedettini di San Giuliano di Toscanella, che avevano
bonificato i territori tuscanensi rendendoli sempre più produttivi, dovendo
commercializzare la propria produzione, probabilmente stabilirono accordi
economici con la Città di Corneto per i quali potessero essere soddisfatti i reciproci
interessi, e San Giacomo potrebbe essere il risultato di una “clausola” di tali rapporti
“politici” 63) .
Per quanto riguarda il progettista, non abbiamo nessuna fonte storica che ci attesti
della sua effettiva presenza né sappiamo definire se l’incarico sia stato affidato ad
una sola persona o se San Giacomo sia il risultato del lavoro di maestranze
diverse 64) .
Comunque questo o questi furono probabilmente vincolati - nelle loro scelte
progettuali - dalla committenza stessa; infatti, i benedettini per la più richiedevano
all’architetto incaricato l’ideazione e la realizzazione di una chiesa che ricalcasse
modelli tipologici collaudati nel tempo e definiti dalla loro tradizione. Possiamo
anche ipotizzare che il progettista fosse un religioso benedettino, appartenente al
Monastero di San Giuliano che avesse normalmente il compito di controllare e
62)
S. Campanari - (vedi bibliografia generale n. 7) pag. 123
E’ probabile, quindi, che tali religiosi, al tempo di San Giacomo, come nell’altomedioevo, ebbero ancora una
notevole influenza contratturale con la città tirrenica.
64)
Il Crema - (vedi bibliografia generale n. 9) - a tale proposito - avanzò la tesi per la quale San Giacomo venne
progettata da una unica persona. Tale ipotesi ebbe modo di consolidarsi attorno alle considerazioni per le quali essendo
le diverse altezze delle due crociere della navata degli accorgimenti prospettici intuiti e voluti, ed essendo eseguiti con
unità di concezione, manifestano, per l’appunto, secondo l’Autore, l’esplicitazione di un unico progetto ideato da un
unico progettista.
63)
29
mantenere funzionante il relativo patrimonio edilizio di proprietà del Monastero
stesso. 65)
D’altra parte l’impianto planimetrico di San Giacomo - per l’evidente affinità con gli
impianti della tradizione chiesistica delle badie locali (San Giusto) e di quelle
toscane (Santa Maria di Coneo), fa ritenere che il progettista di San Giacomo avesse
una notevole conoscenza di questo modello tipologico.
E’, altresì, innegabile nell’Autore o negli Autori una profonda e attenta conoscenza
dell’architettura meridionale che può essere spiegata ricordando la situazione socioeconomica della Corneto dell’XI e del XII secolo, che potrebbe aver prodotto, tra
l’altro, l’arrivo di un “tecnico” meridionale che soggiornò a lungo nel viterbese e
nell’Italia centrale, per cui riuscì ad applicare l’esperienza normanna a quella locale,
o l’arrivo di maestranze provenienti da diverse regioni italiane.
La perizia con la quale il tufo fu tagliato in blocchi fa pensare ad un lavoro svolto da
maestranze locali, tale è la somiglianza con la tecnica usata ampiamente in Corneto.
Ma, sia per quanto riguarda il sistema costruttivo delle crociere che per la cupola
raccordata con le quattro nicchie, la conformazione formale e l’esecuzione
costruttiva farebbero pensare all’arrivo in città di maestranze proveniente da diverse
regioni italiane.
Grava, inoltre, sulla realizzazione di San Giacomo anche l’attivo cantiere di Santa
Maria in Castello.
Non sappiamo quali siano stati, durante la costruzione delle due chiese, i rapporti
che intercorsero fra le maestranze impegnate simultaneamente nei due cantieri, è
comprensibile, comunque, credere che ci furono frequenti contatti che facilitarono
gli interscambi delle reciproche esperienze.
Restano, infine, insoluti i problemi più marcatamente architettonici, quali i due
elementi tronco-conici collocati all’imposta della seconda crociera della navata, le
diverse altezze delle due crociere, la piccola finestra che si affaccia nel sottotetto
impraticabile, l’irregolarità dei conci nelle calotte delle absidi minori, le varie
aperture oggi in gran parte murate; per quanto riguarda le diverse altezze delle due
crociere della navata, andrebbe definito il profilo esterno della chiesa, nell’ipotesi
che tale profilo non fosse originariamente occultato da un tetto orizzontale. 66)
65)
A tale proposito, ricordando la vicina chiesa di Santa Maria dell’Alberese, potremmo avanzare l’ipotesi per la quale
sia questa chiesa, sia San Giacomo vennero ideate da una stessa persona.
66)
Avrebbe, cioè, senso credere all’esistenza di un profilo esterno originale diverso da quello attuale? Potrebbe essere,
per esempio, che tale profilo fosse stato inclinato verso il transetto, con le crociere della navata estradossata?
30
Nel complesso, comunque - per quanto sia evidente la contemporaneità di
esperienze culturali diverse - riscontriamo una certa uniformità di ideazione e una
contemporaneità di realizzazione che fanno di San Giacomo un esempio di
architettura che ha conseguito senza particolari interruzioni e modifiche l’intero
ciclo edilizio (committente, progettista, esecutori, fruitori).
Dal panorama sin qui tracciato emerge di nuovo l’immagine di una chiesa, che
seppure di dimensioni ridotte, enuclea una consistente e qualificante serie di valori
storici e architettonici che la rendono ancor più interessante e la collocano fra gli
edifici più importanti del viterbese e dotata di un potere sufficiente per svolgere il
ruolo di “cerniera” del sistema di chiese lungo le mura settentrionali, favorita in ciò
anche dalla posizione dominante in cui venne edificata, fu scelta come il luogo più
adatto per accogliere il cimitero della Corneto del XVIII e del XIX secolo.
Individuazione dei problemi specifici non elaborati
Una prima questione ancora da chiarire, nell’ambito dei problemi “storici”, è quella
riguardante l’abbandono del Monastero di San Giuliano di Toscanella da parte dei
Benedettini 67) , e andrebbero chiariti i motivi che provocarono l’involuzione
“politica” di San Giacomo nel XVI secolo, dalla quale la chiesa non ebbe più modo di
risollevarsi. 68)
Nell’ambito dei problemi “architettonici-urbanistici” rimane insoluto il quesito
riguardante il Monastero di san Giacomo: di questo, infatti, rimangono, forse, solo
un tratto delle fondazioni, attigue al recinto cimiteriale, ma dell’intero complesso che forse ospitò anche l’ospedaletto per sifilitici - non è stato rinvenuto nulla.
Nell’ambito dei problemi “storico-filologici”, sarebbe interessante poter analizzare e
comprendere che tipo di influenza ebbero chiese quali Santa Maria di Coneo, Santa
Maria dell’Alberese, Santa Maria di Tridetti, Santa Maria di Mili sulle scelte
progettuali di San Giacomo, cioè decifrare i valori (simbolici, religiosi, culturali)
corrispondenti alle indicazioni formali e costruttive di tali edifici, per i quali si
trasformarono in “modelli” di riferimento. 69)
67)
Vedi capitolo “Quadro complessivo dei dati documentati” - II parte.
Infatti il cimitero - per quanto sia stato l’unico e “realistico” tentativo teso a “recuperare” la chiesa non ebbe modo di
garantire una fruizione meno circoscritta e più duratura, per la natura stessa dell’intervento e per le successive norme
post-unitarie.
69)
Vedi capitolo “Confronti” - III parte.
68)
31
Per quanto riguarda, invece, le modifiche settecentesche, i documenti riportati in
appendice delineano due temi di notevole interesse: il primo si riferisce
all’organizzazione del cantiere cornetano settecentesco e alle relative procedure
tecnico-amministrative; il secondo è relativo alla incidenza “politica” delle
Confraternite nelle decisioni pubbliche e nelle localizzazioni urbane dei cimiteri di
San Giacomo e di Sant’Egidio 70) ; rimane poi aperta la ricerca storica e l’analisi
critica delle modifiche stesse. 71)
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N.10 CRESWELL KEPPEL ARCHIBALD CAMERON - The muslim Architecture of
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70)
71)
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Vedi capitolo “Confronti” - III parte.
Vedi capitolo “Confronti” - III parte.
32
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N.13 DE ANGELIS D’OSSAT GUGLIELMO - La distrutta “cupola di Castello” a
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1963.
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N. 16 GIORDANO M.A. - S. Robano: un monumento romano della campagna
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Monumento del XII
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N. 21 - POLIDORI MUTIO - Croniche di Corrneto - A cura di Anna Rita Moschetti S.T.A.S., 1977
N. 22 - PORTER KINGSLEY ARTHUR - Lombard Architecture - London Oxford,
New Haven - 1915- 17
N. 23 - PORTER KINGSLEY ARTHUR - La chiesa dell’Annunziata in Corneto - In
“Arte e Storia”, I - Firenze, 1913.
N. 24 - PROMIS CARLO - Notizie epigrafiche degli artefici marmorari romani dal
X al XV secolo -
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N. 25 - RASPI SERRA JOSELITA - La Tuscia Romana - Milano - ed. Electa, 1972.
N. 26 - RASPI SERRA JOSELITA - Tuscania - Milano, s.d.
N. 27 - SALMI MARIO - L’architettura romanica in Toscana - Milano - Roma - Ed.
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N. 28 - SANPAOLESI P. - Il restauro delle strutture della cupola della Cattedrale di
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N. 29 - SILVESTRELLI GIULIO - Città, castelli e terre della regione romana - Città
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33
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N. 31 - TOESCA - Il Medioevo - Torino, 1927.
N. 32 - VENDITTI A. - Architettura bizantina nell’Italia meridionale, II volume Napoli, 1967.
N. 33 - ZEPPEGNO L. e MATTANELLI R. - Le chiese di Roma - Roma, s.d.
APPENDICE
Archivio Falzacappa, oggi Archivio S.T.A.S.
Archivio del Falzacappa Raniero
n. 12
San Giacomo Maggiore
1) Tuttora esistente è questa chiesa, una delle più antiche di Corneto appartenente
già alla Procuratoria Generale dei Padri Conventuali ed ora ridotta a chiesa del
pubblico cemeterio mediante un canone di scudi annui che dalla Comunità si paga a
detto Padre (per acquisto fattone il 1/12/1766 decembre)
2) I nostri antichi a dimostrare la loro devozione verso la chiesa vi offerivano nel
giorno della festa un cero di libbre 3 per parte della Magistratura
(speculum ab an. 1467 ad qui 1493 pag. 62 in segreteria comunale)
3) Il papa Sisto V instituì l’abbazia che destinò a provveditorato generale
de’Conventuali (Polidori: Cronache mss. di Corneto Capitolo IX) e prima di questa
epoca era monastero delle Monache del III Ordine di San Francesco (Polidori: Part I
pag. 267)
4) Nel 1437 alcune pie terziarie stabilirono il loro domicilio in Corneto, ma non si
conosce con certezza in qual parte: queste con l’interposizione del vescovo avendo
desiderato di stare sotto il governo dei Frati osservanti, ciò per ragione di supporre
che queste suore del III ordine fossero diverse dalle altre, le quali nel pontificato di
Eugenio IV erano sottoposte al P. Guardiano di S. Francesco, dalle quali lo stesso
Pontefice ordinò lì 29 1445 che sulla porta di loro abitazioni si scrivesse la seguente
memoria:
“Questa casa data alle suore del terzo Ordine di S. Francesco per la salute dell’anima
di Gianni di Ser Angelo per Commistione della Santità di N.S. Eugenio P.P. IV
34
nell’anno Domini MCCCCXLV” (Mem. il gov. delle chiese med. conventi de’ FF.
Minori della Provincia Romana (Ed. Romane 1744 cap. IX pag. 119).
5) Sotto il pontificato di Pio II li 5 Luglio 1460 si commise al vescovo Bartolomeo
Vitelleschi di destinare un locale per le dette terziarie dette Volg. di S. Bernardino.
Apparisce poi chiaramente che nel 152 queste med. somministravano il motivo
(Cod.Margherita pag. 200 in Segria Com)
(Riformazioni dal 1518 al 1520 pag. 1637 in D. Segreteria) perché si dividesse come
dal consiglio della 6 Maggio d.anno.
6) Era monastero delle Clarisse del Terzo Ordine di S. Francesco, come si raccoglie
da un isc.ne del 1291 in cui gli viene concesso dalla nostra Comunità il gabellato
sussidio per le casse (Margherita foglio 25 in Seg.ria com.) Ciò prova che per la sud.
chiesa era molto antica sebbene di det. monache non se ne sappia nè la venuta nè la
partenza egli peraltro è certo che nel 1369 ancora vi dimoravano (Cod.
Membranaceo P. 65 in Arch. della Cattedrale). Dopo del qual tempo abbandonarono
un tal monastero, atteso che il generale dell’ordine de’ Minori nel 1469 fece istanza
per il consiglio di questa città per la facoltà di nuovam. introdurre queste monache
nel loro monastero quale permesso gli fu benignamente concesso (Libro de’ Consigli
dal 1469 al 1494 foglio 968 in Seg.ria com.)
7) Nel 1619 questa chiesa per sua una parte nelle imposizioni camerali che dovevansi
dal Capitolo, il clero di Corneto pagava 2,50 il che prova la bontà delle sue rendite
paragonando questo pagamento con quello dovuto dalle altre chiese (Lib. del
Congre Capitolari di qto anno pag. 56 in Arch. della Cattedrale)
8) Allorché nel 1570 fuvvi la visita vescovile si dice, “Item visitavit eccma St. Jacopi
dic: Civitatis in qua non potuit ingredi quia erat clausa clavi: postea visitavit non
nullas alia Eccls dirutas devastatas et discopertas in parte, et alq Hostiis” (visita
vescovile del 1570 pag. 165 in Canc. Vescovile di Corneto) il che sembra potersi
attribuire alle antiche chiese che esistevano nelle vicinanze di S. Giacomo, quella
visita vescovile fatta nel 1539 avvi indicato “Fr. Petrus Paulus Tertiarius ecclesia S.
Jacobi..... “ (Visita vescovile: 1539 pag. 45 C.V.)
Archivio Comunale di Tarquinia
Il nuovo Cemeterio che dovrà costituirsi per ordine della sac. Congregazione del
B.G. nella città di Corneto nel sito già destinato da quella rispettabilissima
Comunità denominato oves esiste una antica chiesa abbandonata e che al presente
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serve ad uso di fienile, dovrà formarsi avanti alla medesima chiesa con un recinto di
muri di figura ottagona sotto del quale recinto potranno aver luogo quattro preziose
seppolture coperte sopra con volte e suoi chiusini per le bocche di dette. I muri di
recinto saranno formati al di dentro con arcate per riporvi le ossa allorquando
spurgheranno le medesime e ornate con fasce a fornire sopra ad il prospetto di esso
al di dentro che formerà facciata alla chiesa sarà adornato con fasce fissili e suo
frontespizio sopra.
Sotto la chiesa formerassi un’altra sepoltura per uso degli Ecclesiastici e costruirassi
dentro detta chiesa vicino alla tribuna un Altare isolato. La spesa occorrente per
costruire il Cemeterio nella forma di sopra descritta non potrà oltrepassare la
somma di scudi milleduecentocinquanta avver tendisi però non essere in questa
compreso il Ristauro da farsi alla chiesa tanto i tetti quanto nei muri, né lo spiano
della terra da farsi al di fuori innanzi al Cemeterio e per appianare il terreno e
formarvi la strada per le quali vi occorreranno circa altri scudi trecento.
Misura e stima di una antica chiesa al presente ridotta ad uso di fienile posta nella
città di Corneto in Contrada di pertinenza del R. Prov. dei Minori Conventuali fatta
da me per ordine dell’Emo e Rmo Sig. Card. Garampi e valutata nei suoi Cementi
secondo lo stato in cui preferentemente ritrovasi la valuto come appresso e come più
diffusamente dall’originale presso di me esistente appare cioè
= E. p m a =
Somma (ass)e tutto il cemento in diggione annua di scudi tre che puoi ritrargli su
detta chiesa affittata ad uso fienile calcolato al
M oc ÷ fe di capitali
Somma asse Cemento e quali divisi per metà secondo il solito e compreso utile
costituiscono il vero e real valore della medesima supposta libera di canone.
Misura e stima di una antica chiesa al presente ridotta ad uso fienile posta nella città
di Corneto in Contrada di pertinenza del R. Prov.
dei Minori Conventuali fatta da me sotto per ordine dell’Emo e Rmo Sig. Card.
Garampi e valutata nei suoi Cementi secondo lo stato in cui preferentemente
ritrovasi la valuto come appresso e come più diffusamente dall’aoriginale presso di
me esistente appare cioè
36
= E. p m a =
Somma (ass)e tutto di detto impianellato che copre la detta chiesa in 18 36 quale
per essere in cattivo stato di valuta (giusti cinque la a.ª
Sommano assieme tutti li muri tanto dei fondamenti che sopraterra compresa anche
la cuppioletta in ß 187 45 che valutati a giusti dieci la imp.ª
Somma add.
176 63
Mattonato ordinario nel pavimento di d ascende a
che valutato a giusti cinque la importa
(..........)
10.04
Partite stima non comprese nelle descritte consistenti nel fusto con suoi
serramenti, serrature e chiave alla porta di d.ª importa
1/20
_______
187 87
Somma asse tutto il cemento in diggione annua di scudi tre che puoi ritrargli su
detta chiesa affittata ad uso fienile calcolato al
M oC ÷ fe di capitali
Somma asse Cemento e quali divisi per metà secondo il solito e compreso utile
costituiscono il vero e real valore della medesima supposta libera di canone.
Misura e stima di una antica chiesa al presente ridotta ad uso fienile posta nella
cissà di Corneto in contrada di pertinenza del R. Prov. Gente de’ Minori Conventuali
fatto da per ordine dell’Emo e Rmo Sig. Card. Garampi e valutata nei suoi cementi
secondo lo stato in cui si ritrova presentemente, la valuto come appresso e come più
diffusamente dall’originale preso da me esistente apparisce cioè:
= E fma =
Somma assieme tutto il detto impianellato che copre la detta chiesa in 18 36 peso o
canone in scudi cento trentuno e baj 43 mta che è quanto dico e riferisco secondo la
mia perizia pratica e coscienza.
In fede Roma questo dì 28 maggio 1878
Cimitero
1788
37
Al Commissario di Corneto
Si trasmettono a V. in copia i Capitoli formati dall’architetto Piernicoli assieme con
le piante la costruzione del Cemeterio di codesta città affinché si consentì ordinare
che premessa l’affissione degli editti anche in luoghi vici si accenda la candela sui
miei capitoli e sospesa la delibbera, senzache gli oblatori acquistino diritto, mi
trasmetterà, poi copia pubblica degli atti che mi saranno seguiti le ulteriori
determinazioni della Congrega. P. poi due fogli separati riguardanti l’acquisto da
farsi da Comunità (......) Cemeterio della Chiesa dei Padri Conventuali che in questa
parte dell’ (.........) S. Card. Vescovo ragguagliandomi poi del risultato.
E Dio lo prosperi
Civitavecchia C. GIAG.
CAPITOLI
Da operarsi dal Capo Mro Muratore che sarà destinato dalla Sag. Congne. del Buon
Governo a costruire in nuovo Cemeterio da farsi nella città di Corneto; come
appresso
Pm che debba il Capo Mro Muratore eseguire in tutto e per tutto la suddetta
Fabbrica
a tenore delli disegni esibiti da Benedetto Piernicoli Architetto, in quattro fogli
distinti all’Emo e Rmo Sig. Card. Cerandini Prefetto di essa Sag. Congne. senza
variare, diminuire e accrescere alcuna delle sue parti, di modo che venga la Fabbrica
religiosamente eseguita a tenore de’ sufferiti Disegni.
2° Che debba il Capo Mro. assumersi il peso di fare a suo conto non solo tutti i lavori
ad uso di Muratore ma li lavori ancora ad uso di scalpellino, stuccatore,
imbiancatore, falegname e ferraro, anche tutti i lavori ad uso delle suddette arti
debbono essere fatti a tutta perfezione e ad uso d’arte.
3° che in ordine ai lavori ad uso di muratore, tutti li muri tanto de’ Fondamenti, che
sopra a terra, o altro debbono essere fatti con pietra di buona qualità, che non sia
spongosa, o cappellaccio bene spezzata, e scaglionata, lavorati con buona calce, e
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buona puzzolana con questo di più, che in tutti li vani dei muri di pietra debbono
farsi le spallette e archi di tavolozza o altra pietra solita mettersi nelli vani delle altre
fabbriche di detta città perché così si pattò.
4° che riguardo ai muri de’ fondamenti debbono questi profondarsi 2 o 3 palmi più
del piano delle seppolture, secondo che troverarsi il terreno saldo e non soggetto a
cedimento e la grossezza di essi debba essere di I palmo più del sopraterra da
ripartirlo mezzo palmo per parte.
5° Che il Capo Mro non possa lavorare li muri sopraterra in tempo di gran freddo e
gelate altrimenti sia tenuto a rifarli a sue spese come ancora debba mantenere tutti
li muri ben bagnati, e ciò non facendo sia lecito farli bagnare da altre persone di
detto Capo Mro.
6° che tutte le volte, che copriranno le seppolture, debbano essere lavorate sopra
l’armatura di legname da levarsi poi d’opera.
7° che la chiavica, che dovrà portar via li scoli delle acque piovane del recinto del
Cemeterio, debba prolungarsi anche fuori della fabbrica fino all’imbocco del fosso
che passa inferiormente in vicinanza di detto.
8° che tutto il piano del cortile, o sia recinto componente il cemeterio sia tutto
selciato di sassi vivi lavorato con buona calce.
9° che debba farsi una seppoltura sotto la chiesa per li Sacerdoti, come si vede
segnata nella pianta con fare il cavo e tutti quei muri, che saranno necessari coprirla
sopra con volta, e fare sopra di essa il mattonato similmente all’altro che ritrovasi
nel restante de detta chiesa.
10° che tutti li chiusini da farsi sopra le bocche delle seppolture tanto del cortile che
della chiesa e bottino debbano essere fatti tuttti di travertino duro con fusi telati
attorno con battente e pelle piana e fuori occhi di ferro impiombati poterli alzare.
11° che il muro di recinto, che racchiude attorno il cortile del Cemeterio, debba
essere ornato tanto al di dentro, che al di fuori a tenore del disegno, e fare dalla
parte di fuori a piedi di esso muro la selciata in calce in larghezza di palmi tre, e
avanti la porta di esso formarla a padiglione in larghezza di palmi dodici.
12° che alla porta suddetta del recinto debba fare a suo conto il Capo Mro il cancello
di ferro a tenore del disegno in grande che gli verrà dato dall’Architetto come anche
debba fare il cornicione del frontespizio, cimase, e altro tenore dei modini che
parimenti in grande gli verranno dati dal medesimo.
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13° e debba il capo Mro costruire di nuovo la mensa, o sia l’altare; isolato dietro la
chiesa di materiale ornato a tenore del disegno che gli verrà dato e farsi la sua
predella di legname o altro in conformità di esso disegno.
14° Li pagamenti da farsi al Capo Mro per l’esecuzione della Fabbrica del Cemeterio
e potranno distribuirsi nel seguente modo, cioè scudii 500 dopo che avrà fatto in
lavoro corrispondente a scudi 600, ed il restante dividerlo in quattro rate cioè una
rata allorché saranno coperte tutte le volte delle seppolture un’altra rata alla metà
dell’alzato di tutta la Fabbrica, la terza rata al compimento di tutta la fabbrica e la
quarta rata finalmente un anno dopo che sarà terminata la medesima, con questo
però che prima di dare al Capo Mro ciascuna delle (.......) quattro rate debba
l’architetto riconoscere se il lavoro sia stato eseguito come deve, e se merita quella
rata di denaro che deve darsegli.
(Firma illeggibile)
sul retro
li disegni restano presso l’impresari Luca Alessi e Bartolomei Draghi.
Canone e di ogni peso in scudi centotrentuno e baj 43 mta.
Che è quanto dico e riferisco secondo la mia perizia prattica e coscienza.
In fede Roma questo di 28 maggio 1788.
Benedetto Piernicoli Architetto
Emo e Pmo Principe
copia
Nulla avendo a che fare l’interesse, e il bene di particolari in riguardo all’utile e
comune
bene de viventi il Proc. Gnle de Min. Conali ringraziando di vero cuore
l’Ilma e Rma del favore che col suo soavissimo consiglio ed opera si degnerà
compartire per un’equa e convieniente sicurezza ed nobiltà della Gnle Procura, si
mette egli sicuramente nelle sue mani ed assoluta disposizione senza altro riflettere,
o pensare soltanto bramerebbe lo scrivente per sicurezza di sua coscienza, sapere se
siasi ottenuto per tale cessione e respettivo acquisto il necessario beneplacito
Apostolico oppure debba egli farne la dovuta richiesta e con umile e profondissimo
rispetto; bacia la S. Porpora.
Nell’Ilma Siga Romana (.......)
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P.S. Acciò l’affittuario Sig. N. Boccanera che paga annui scudi 710, non pretende per
tale cessione cosa più del dovuto, si desidera che col contentamento del detto
affittuario, di esprimere nella quel tanto meno che dovrà pagare che scudi 170 e di
(........)
illmo Peusmo Suo
Serv. (........)
O.G. (......) e Pepe
Procur. Gn de Conventuali
Emi e Rmi Signori
Li Conservatori della città di Corneto con tutto l’ossequioso rispetto,
rappresentano all’ (......) al codesto S. Consesso come (.......) la Santità di N.S. Pio
Papa VI felicemente regnante per liberare il popolo Cornetano da quell’influenza che
gli (......) e gli anni (.....) colla moltitudine de’ cadaveri sepolti nelle chiese e ospedali
di V. Pio VI che si (......) cagione di esorbitante fetore; ordinata la costruzione di un
pubblico cemeterio, onde possa ricevere tutti i cadaveri de’ fedeli che passano ad
altra vita.
Non esiste nel circondario della città altro sito più elevato ed esposto rispetto ad
esso, ai venti meridionali, (......) a tramontana, come si esige in simili cimiteri, che
un’antica chiesa sotto il titolo di San Giacomo che circa un secolo in qua trovasi con
(......) ordinaria profanata e ridotta a uso di fienile di libera pertinenza dell’Abbazia
sotto il titolo di detto Santo applicata dalla S di Sisto V alla Procura Generale dei
Minori Conventuali come che detta antica chiesa posta e situata dalla parte de’ venti
boreali.
Col permesso della sud. P. Ge. per (.......) l’acquisto assieme con (......) di terreno
annesso all’antica chiesa che viene ad essere la quinta parte circa di un (.......) di
terreno il quale consta di stare 16 il prezzo che si è offerto per tale acquisto al Sud. P.
Priore che per il materiale dell’antica dissestata e in gran parte (......) chiesa e fienile
è stata valutata al più nella somma di 100 (.....) sarebbe soltanto di scudi 18 a quanto
ciò fu valutato nell’ultimo e rigoroso catasto dell’anno 1778.
Ma ad esser di rendere anche più evidente l’utilità della Procura Gentile.
proprietaria del fondo, chiesa e fienile, la Comunità sud. ha (......) altri 32 scudi di
più sicché saranno in tutti scudi cento in quanto che la comunità è pronta a prender
a cento con corrisponderne (......) alla V Procura generale (.......)
41
Acconsente l’odierno P. Prov. Conv. alla proposizione ed ora per effettuare fra le due
parti il contratto, che renderà migliore la condizione della Procura ma anche in
benefitio alla salute pubblica della popolazione manca che la benigna approvazione
(......) e il necessario beneplacito (......) i Conservatori della città (.......)
Oratori dell’ (........) ne porgono a nome della città le più vive suppliche.
Mastro Domenico Neri Capo Mastro Muratore qui presente opperisca alla fabbrica
del nuovo cemeterio a tenore dell’editto affisso da disegni e capitoli non compresa la
restaurazione della chiesa di S. Giacomo il prezzo di ventimila e ducento monete in
fede, Corneto lì 10 luglio 1788.
Cro+ce (........) Domenico Neri che disse non saper scrivere.
Giovanni Petrighi di Commissione e
Lettera per
Agabito Forcella
3 ag. 1788
Sig. Forcella
ignoro ancora se e come Boccanera sia per accomodarsi alla cessione del fondo per il
nuovo cimitero e quindi non posso continuare il carteggio nè coltivare e ridurre ad
effetto le condiscendenti disposizioni che (.......) mi dimostrò il P. Proc. Generale dei
Minori Conservatori e indi istruirmi sul come possa io di nuovo commerciare e
conchiudere l’affare col V. religioso. Bramerei anche di avere per mio lume e
curiosità qualche notizia del nuovo appalto dello spurgo della città e sulla
conduttura dell’acqua di
(........)
(.......) Le
tutto di cuore
Card. Garampi
Io sottocroce segnato, opperisco alla costruzione del nuovo Cemeterio in questa città
di Corneto a tenore dei Capitoli e disegni esistenti nella pubblica segreteria ed in
conformità dell’editto affisso e pubblicato per il prezzo di scudi mille e cento
settanta.
In fede (......) Corneto questo dì 5 agosto 1788.
42
Cro + ce di me Giò Maria Conti Capomastro muratore illetterato Saverio Avolta di
Commissione e presenza fui testimonio al suddetto spacco di croce.
Emi e Rmi Signori
Li conservatori della città di Corneto con tutto l’ossequioso rispetto rappresentato
all’EE. loro ed a codesto sagro Consesso come la Santità di N.S. Pio Papa VI
felicemente regnante per liberare il popolo cornetano da quell’influenza che gli
sovrastò negli anni scorsi alla moltitudine de’ cadaveri sepolta nelle chiese e
ospedali di (.......) che si rendevano cagione di esorbitante fetore ordinano la
costruzione di un pubblico Cemeterio, onde possa ricevere tutti i cadaveri de’ fedeli
che passano all’altra vita. Non esiste nel circondario della città altro sito più elevato
ed esposto rispetto ad esso non ai venti meridionali, ma precisamente a tramontana
come si esige in simili cimiteri che un’antica chiesa sotto il titolo di S. Giacomo che
da circa un secolo in qua trovasi con autorità ordinaria profanata e ridotta a uso di
fienile di libera pertinenza dell’abbazia sotto il titolo di detto santo applicata dalla
(.......) di Sisto V alla Procura Gle. dell’ordine de’ Minori Conventuali.
(........) permesso della S. Congregazione del buon Governo s’è fatta istanza per parte
della Comunità al suddetto padre Priore Gle per farne acquisto assieme con stare tre
di terreno annesso a detta antica chiesa, che viene ad essere la quinta parte circa di
un rubbio di terreno, il quale consta di stare sedici. Il prezzo che si è offerto per tale
acquisto al sud. P. Priore Gle per il materiale dell’antica dissestata ed in gran parte
perita chiesa è stato valutato al più alla somma di 100, quello poi del poco terreno
annesso sarebbe soltanto di scudi diciotto a quanti cioè rivalutati nell’ultimo (.......)
Ma ad effetti di renderlo anche più evidente, l’utilità della Procura (.......) proprietari
del fondo della chiesa e fienile la Comta sudª ha esibito altri trentadue scudi di più,
sicché saranno in tutto scudi cento cinquanta che la comunità medesima è pronta di
prendere a censo con corrisponderne annualmente alla S. (......) gli interessi a
ragione del 4 per % Acconsente l’odierno P. (.....) gli interessi a ragione del 4 per %
Acconsente l’odierno P. (.......) alla proposizione ed ora per effettuare fra le due parti
il contratto che renderà accordo migliore la condizione della procura, ma anche un
beneficio alla salute pubblica della popolazione ed ora manca che la benigna
approvazione della S. CONgne e il necessario beneplacito.
(.......) Conservatori addunque della sud.ª città (.......)
ne porgano a nome della Communità le più vive suppliche.
Intestato alla Sag. Congregazione della Communità di Corneto.
43
una lettera è inviata al vescovo di Montefiascone e Corneto
Corneto 28 (......) 1788
Noi sottoscritti Capo Mastri Muratori opperiamo alla lavorazione da farsi del novo
Cemeterio nella città di Corneto e ci obblighiamo farlo a robba e fattura del nostro e
tutto fare a norma del disegno e perizia fatta dal Sig. Architetto Benedetto Piernicoli
con lavoro rivisto dal medesimo Sig. Architetto e ci obblighiamo farlo per il prezzo
di scudi mille con questo peso che a norma di questa divenga stipolato istromento.
Bartolomeo Draghi
In nome di sua maestà Napoleone primo Imperatore dé ‘ Francesi Re d’Italia e
Protettore
della Confederazione del Reno
In Dei Nomine Amen: die prima mensis decembris anno millesimi septingentesimi
octuagesimi octavi vedente Pio IV (......) anno epis decimo quarto.
Mentre che dall’Emo e Rmo P. Cardinal Giuseppe Garampi Vescovo di questa città si
zelava presso la Sacra Congne del buon Governo a vantaggio di questa popolazione
per l’erezione di un pubblico Cemeterio a cagione di togliere in avvenire
quell’influenza che nell’anni scorsi dalla sepoltura che si dava a cadaveri de’ fedeli in
alcune chiese e spedale di S. Croce si veniva a sperimentare, non si tralasciava però
di avere in mira il sito opportuno per il medesimo e fu destinato poi quello della
chiesa diruta detta di S. Giacomo e terreno annesso posta alla Ripa dentro della città
dalla parte de’ venti boreali, onde fu che nell’avere ottenuto dalla Sagra
Congregazione del Buon Governo il permesso di eriggerlo a spese del Pubblico
Erario ottenne ancora quello di trattare l’acquisto di detta chiesa e terreno annesso
con il P Pr Gnle de’ Minori conventuali a cui come possessione dell’abbazia di S.
Giacomo spettava a concluderlo come risulta da lettera di uffizio del Governo di
Civitavecchia in data 6 giugno 1788.
Il di cui tenore resta registrato in fine dell’istromento stipulato sotto li rev. del
passato novembre per gli Atti di questa Segreteria sopra la lavorazione di detto
cimitero. Trattasi pertanto per mezzo di lettera dal sudetto degnissimo porporato
l’acquisto sudetto con P. Provle Gnle Giuseppe Pepe acconsentì questo alla richiesta
come da sua lettera esistente in posizione del cimitero in questa segreteria in forza
della quale dall’Illmi Sig. Conservatori si diede parte alla S. Congregazione de’
44
Vescovi e Regolari per ottenere il benigno permesso di stipulare l’Istromento per il
prezzo di scudi centocinquanta a ragione di stima e compresovi l’aumento che fu
ottenuto nelle solite forme come si riconosce dalla supplica, Rescritto e Decreto
esecutoriale di questa Curia Vescovile che in un foglio si inserisce nel presente
istromento che poi volendosi effettuare il suddetto acquisto per mezzo di pubblico
istromento acciò la verità del fatto possa sempre apparire e ad ogni altro buon fine
ed effetto avanti di me Notaro e testimoni in fatti presenti, personalmente costituito
il (.....) Rvo P. Bacilere Frà Nicola Neri Guardiano attuale di questo Ven. Convento
de’ Minori Conventuali di S. Maria in Castello a me cognito quale come Prov.
specialmente costituito e deputato del Rev.mo Padre Giuseppe Pepe Prov. Gen.le de’
Minori Conventuali pro tempore e provisione dei beni dell’abbazia di S. Giacomo
esistente in questa città e suo territorio come da (.....) di Mto di Procura riconosciuto
in legal forma per gli atti del Buzzi Notaro Capitolino in Roma che si inserisce nel
presente in un (.....) de tenore e in virtù del menzionato special Rescritto della
sullodata Congregazione de’ Vescovi e regolari e Decreto Esecutoriale del Rmo
Vicario Gnle di questa città spontaneamente e in ogni migliore modo a nome di
detta abbazia di S. Giacomo e Procura Generale de’ Minori Conventuali vende, cede
ad aliieno a favore di questa Iilma Comunità di Corneto presenti ed accettanti per
essa l’Illmi Sig. Luigi Querciola figlio della B.M. Leonardo Confaloniero Francesco
Ronca figlio della B.M. Michele Capitano e Vincenzo Chierea figlio della B.M.
Antonio Console. Conservatori attuali di essa e Patrizi Cornetani a me cogniti
dall’alta, la suddetta chiesa diruta di S. Giacomo con stare Tre di terreno annesso
posti in questa città sotto la parrocchia ora di San Martino e confinanti colle rupi e
con i terreni della prebenda detta la Prepostura e del Sig. Agostino Mastellari Salvi
altri rispettanti alla suddetta Abbazia e Prov. Gnle con tutti i loro annessi e connessi
e per titolo e cagione di simil vendita ed alienazione gli cede ancora tutte e signole
ragioni ed azioni e non con l’infratta si serva come appresso ad aventi goderli anche
colla piena clausola del Costituto ed effetto del precario in forma. E questa vendita
ed alienazione di chiesa diruta e terreno detto P. Guardiano Neri col riferito nome
ha fatto e fa a favore della med.ma Illma Comunità per presso e nome di prezzo di
scudi centocinquanta mta Romana (.....) a scudo, de’ quali detti Ilm Sig.
Conservatori a nome come sopra, ed in virtù della facoltà impartite al sullodato Emo
e Rmo Sig. Cardinal Giuseppe Garampi Vescovo tanto nell’indicata lettera delli 6
giugno 1788 inventa nell’istromento della suddetta lavorazione del Cimitero in copia
e diretta alli predetti Illmi Sig. Conservatori se ne costituiscono veri e legittimi
45
debitori della detta abbazia di S. Giacomo e respettiva Propra Gnle de’ Minori
Conventuali e fino a tanto che parte di detta Comunità non saranno effettivamente
pagati e depositati perr doverli rinvestire a favore di detta abbazia in altri stabili
utiliori i suddetti Sig. Conservatori a nome della medesima promettono e si
obbligano a pagare alla medesima e per essa al suddetto P Rmo Procuratore Gnle
Possessore e ad altri che saranno pro tempore qui in Corneto i frutti compensativi
alla convenuta ragione di scudi quattro per qualsivoglia ed anno di semestre in
semestre posticipatamente la rata parte liberamente e mostra qualunque eccezzione
e fino a tanto che dalla predetta Illma Comunità non si sarà effettuato il sopradetto
pagamento di Sorte e Deposito della medesima e non saranno stati interamente
pagati i suddetti stabiliti frutti compensativi, il predetto P. Neri Guardiano e Prete a
nome della suddetta abbazia e Pro.ra Gnle intende che sia sempre ad essa riservato
il dominio ed ipoteca speciale su detta chiesa diruta di S. Giacomo e terreno e non
mai ceduto e trasferito alla sudetta Comunità perché così e non altrimenti. Promette
finalmente ed afferma il sudetto P. Neri Guardiano e Priore la sudetta chiesa diruta
detta di S. Giacomo e terreno annesso appartenere liberamente alla sudetta abbazia
sotto il titolo dello stesso Santo e rispettiva Procura Genle del suo ordine né esser
soggetti ad alcun censo, canone, livello, caducità, servitù, fidei commissa purificato
o da purificare e da qualunque altro peso né molto meno esser stati ad altri venduti,
donati ipotecati ed in qualsivoglia altro modo alienati presso il vocabolo de
l’alienazione nel suo più largo significato, né aver fatto altro in pregiudizio del
presente istromento e cose in esso contenute ed espresse ed attendere
rispettivamente sempre ad osservare la sudetta vendita fatta né contro di essa mai
venire, dire ed opporre sotto qualsivoglia pretesto e quesito cadere, altrimenti oltre
la precisa ed inviolabile osservanza delle cose premesse vuol anche nell’istesso nome
esser tenuto dell’ (.....) generale particolare ed universale in forma di ragione valida
a qui ed altrove solita e consueta ed a tutti e singoli danni de’ quali ho fatto e
stipulato in Corneto nella pubblica Segreteria della Medma Communità presso
presenti l’Illmi Sig. Saverio Avolta Figlio dell’Illmo Sig. Domenico e Francesco
Barboncini figlio della B.M. Domenico Antonio ambi patrizi cornetani testimoni
avuti chiamati pagati.
Essendo stato in questi ultimi anni costruito nella città di Corneto un competente
Cimiterio mediante la cura e la vigilanza pastorale dell’Emo Sig. Cardinale Vescovo
Garampi di (....) per ordine di Segreteria di Stato spedito li 17 del papato mese di
maggio dell’istesso anno corrente al Vicario Capitolare fu fatta la benedizione del
46
Camposanto e sua chiesa annessa alli 17 dell’istesso mese affinché servir potesse per
commodo di darvi sepoltura alli cadaveri particolarmente degli ospedali della città e
militare e così provvedere più che sia possibile alla salubrità dell’aria. Allorché fu
fatta la sud Benedizione mancavano e tuttora mancano alcuni favori di poca spesa
per la (......) protezione della fabbrica ed abbisogna di tutti li sagri arredi ed utensili
per essa convenevoli nonostante che fin da quando fu (......) luogo sacro vi si portino
li Defunti a dargli sepoltura il più bisognevole è il seguente.
Nota di quanto
Ancora per il Cimitero di Corneto e chiesa unita al cancello di ferro che chiude l’atrio
è necessario farvi altri tramezzi perché essendo troppo larghi quelli che vi sono non
impediscono l’ingresso ai cani e ragazzi conforme accade tutti i giorni con indecenza
e profanazione del luogo sacro.
Alle sepolture è necessario di fare li nuovi ordegni da farsi ai ferri, pali e funi per
aprire e chiudere con meno difficoltà.
E’ necessaria una barella coperta con sue cinghie e due piccoli lanternini per li
trasporti dei defunti.
Nella chiesa poi e nell’altare vi abbisognano croce candelieri, (....) e fiori con tovaglie
doppie per la muta in caso di dovergli imbiancare;
Una lampada
Un campanello
Due pianete una da vivi di tutti li colori, altra da morti
Due messali dell’istessa maniera
Due camici ed un calice con sua catena
corporali, (.....) e bonificatori
Una (......) ed una berretta da prete
Un rituale
Un incensiere
Un caldarello per l’acqua santa e suo aspersorio
Funi per le campane le quali devono ancora pagarsi al Conservatorio
delle Monache
Altre piccole cose ancora occorreranno che al presente non vengono in mente.
Corneto questo dì 8 Agosto 1793
Inviata a Baluzzi Vic. Capitolare.
47
Corneto li 4 marzo 1810
Conto del lavoro fatto da me sotto il Capo mastro Muratore a robba e fattura in
servizio del Camposanto con ordine del Sig. Maire per avere messo in opra n. 5 telari
di finestre con rampini da rilevarsi e stuccato attorno e in due fatto il suo piano sotto
di mattoni e fatta canne una di mattonato dove si era arreso al terreno in tutto
scudi 3: 30
Siegue il tetto di detta chiesa, la pendenza che guarda verso tramontana ricomposto
di nuovo, e mutate ho 3 cimarelle e n. 3 predarole, rimurata la gronda e murati tutti
li canali luogo pmi 45 largo in pendenza p 15
Canne 6:75
scudi 3: 55
Per n. 32 tegole e n. 28 canale e n. 24 pianelle con 3 cimarelle e predaparole
scudi 2: 17
siegue altro tetto della tribuna lungo pmi 25 largo pmi 15 murato simile e
ricomposto
scudi 1: 77½
Somma e siegue
scudi 10: 79½
Siegue somma
scudi 10: 79½
Siegue altro tetto cioè altra pendenza verso mare ricomposto di nuovo luogo e largo
simile in quantità e canne 6: 75
scudi 67 ½
Per n. 32 tegole e n. 28 canale e n. 24 pianelle con 3 cimarelle e
predarole
scudi 2: 17
siegue altro tetto della tribuna lungo pmi 25 largo pmi 15 murato simile e
ricomposto
scudi 1: 77½
Somma e siegue
scudi 10: 79½
Siegue somma
Siegue somma
scudi 10: 79½
Siegue altro tetto cioè altra pendenza verso mare ricomposto di nuovo lungo e largo
simile in quantità e canne 6: 75
scudi 67½
Per 32 tegole e n. 15 canale
scudi 1: 26
48
Data la calcia a scarpa alli muri e dintorno la cuppola lunga assieme pmi 1: 55 scudi
1: 55
Siegue il tetto del campanile rifatte li colmi e riassettato di nuovo con sua calcia a
scarpa al muro superiore
scudi : 58
Per tegole 8 e canale 12
scudi 44
Somma
_______
scudi 15: 30
Tarato per
14 : 50
Paolo Nardeschi
architetto
Maire de Corneto
allegato
24 Marzo 1810
Cantone di Corneto registro del Mondosi
pagamenti
Signore Crispino Grispini nostro Ricevitore potrà pagare a Mro Giacomo Draghi
Muratore scudi quattordici baj cinquanta moneta corrente quali sono per il
pagamento e soldo dei lavori fatti ad modi sua arte in servizio del pubblico
cemeterio come al conto
Lodovico Casciola Maire
Aggiunto
Segretario Municipale
Avolta
(controfirmato da Draghi)
Al dì 20 Ottobre 1811 Corneto
49
Conto e misura di lavori fatti da Flaminio Neri ad uso di muratore in riattamento del
Cemeterio di questa città di Corneto
Nella cupola di detto Cemeterio dove filtrava l’acqua piovana, spicconatura e
riastabilitura di nuovo con astrico di cocciopisto e puzzolana di Roma lungo in giro e
sopra al tamburo palmi 99, di sesto in giro verticale pi 118 C 19.18 compresi i ponti,
lavorata a stagno buttata e custodita
39,30
Per cinque lapidi alle sepolture di travertino con telari simili lunghe assieme palmi
8, larghi l’uno pi 8 con trasporto e mettitura in opera con altre controlapidi al di
sotto e telari simili
64
Selciata nuovo sopra a dette sepolture lunga palmi 40, larga palmi 37 C. 14.80 con
copertura e scopritura e sterro a trasporto di detta ricopritura
29.60
Tetto nuovo largo palmi 54 largo in pendenza palmi 35 C. 18.90 finito in
colmareccio e gronda
129.04
_______
261.94
ridotto a franchi sono Fr.
1041.1672
Perizia e scandaglio, che da me sotto scritto Capo Mastro Muratore si è fatto con
ordine dell’Illmo Sig. Francesco Ronca Gonfaloniere, per il restauro da farsi a tutto
costo nel locale del pubblico Cimiterio di questa città di Corneto spettante alla dei
(.....) Comune, come sotto segue così:
Primo: tetto che copre la chiesa per esser stato danneggiato dalli venti di
tramontana e libeccio ai quali rimane esposta la medesima chiesa perché isolata da
tutte le parti e posta in cima dei dirupi della città deve essere ritrattato con rinforzi
di novo le gronde e il colmo e mutarvi un travicello che porta con sé canne tre di
tetto guasto e rifatto murare tutto il sud tetto lungo palmi 23 e largo Palmi 30
compreso le pendenze Canne 6.90
Somma
10.35
Tetti delle tre tribune danneggiati come sopra da ritrattarsi e rimurarsi tutti
componenti assieme uniti canne 8
Somma
12.00
50
Siegue il materiale novo occorrente per li lavori dei tetti cioè 400 tegole maritare,
250 pianelle per le gronde e (........) occorrenti
Somma
22.08
Siegue una fodera di muro da farsi di nuovo a pozzolana di Roma a tutta la ridetta
chiesa sotto il piantato della cupola ragguagliata in giro di canne 2½
Somma
6.00
Siegue da ridarsi il cocciopisto, con puzzolana di Roma a tutta la ridetta cupola
lunga in giro palmi 54 altezza palmi 10 avuta in vista la diminuzione che in tetto
sono canne 5.40
Somma
6.48
Siegue nel muro del recinto dove sono le sepolture, il cappelletto da farsi in cima
della metà di esso muro di recinto a tramontana mai formato a motivo della qual
mancanza anno moltissimo sofferto le riquadrature ed il cornicione le quali sono
venuti mancanti per la lunghezza di palmi 84 di larghezza palmi 4 ed altezza del
(......) palmi 1 Canne 1.68 muro
Somma
15.97
Sieguono le riquadrature al di dentro di esso muro di detto recinto compreso il
cornicione e nei pilastri che formano specchio alle nicchie per le ossa dei defunti e la
mostra con suo gesto scorniciato, della porta d’ingresso con cancello di ferro lunghe
in giro palmi 168 alta 9 calando dalla cima in testa che sono canne 15.12
Somma
68
Sieguono le squadrature degli specchi al di fuori dello stesso muro del recinto,
compreso il cornicione e il timpano con la mostra e zoccolo della croce della sud.
porta d’ingresso lunghe palmi 168 alta 6 calando dalla cima in testa canne 10.08
Somma
15.12
51
Siegue circa palmi 37 di ramata di filo di ferro da farci alli 5 finestre della chiesa
ultimamente rinnovate per salvare le vetrate.
Somma
3.32
Totale somma
___________
107.00
Corneto 30 luglio 1824
Gregorio Draghi
capo mastro muratore
CAPITOLATO
Supplemento di lavori necessari da farsi al Cemeterio ed annessi di questa città oltre
i (....) nello scandaglio formato dal muratore Mastro Gregorio Draghi senza
aumentare la spesa di scudi centosette risultante dalla perizia del nominato artista.
Primo: dovrà rinnovarsi di buon travertino con anello di ferro della grandezza
proporzionata la lapide rotta della sepoltura contigua al Cemeterio destinata a
riporvi gli ossami dei fedeli defunti.
Secondo: nella linea che verrà indicata dagli Ilmi SS.PP.RR. a persona da essi
deputata dovrà spianarsi la strada che principia colla pianetta davanti al fabbricato
diruto della Salnistata fino alla parte del Cemeterio imbracciarsi ad uso d’arte con i
cementi della vicina fossa demolita nella larghezza di palmi trenta ed aprirsi
dall’uno all’altro lato le formette per lo scolo dell’acqua piovana quali formette
dovranno essere della larghezza di palmi tre in bocca e della profondità di palmi
due, le medesime non dovevan misurare in alcun punto e in alcun modo la larghezza
di palmi trenta che deve avere la strada.
Terzo: dovrà chiudersi la buca che vedesi aperta sul mezzo dell’altra strada del
Cemeterio verso la chiesa della Ssma Annunziata a poca distanza dalla porta del
Cemeterio che raccoglie e getta prima dentro la stessa buca tutti i sassi inutili
esistenti nella piazzetta e strada in vicinanza di detto Cemeterio.
Quarto: dovrà ripulirsi e riattarsi il selciato tutto nell’atrio della chiesa del
Cemeterio, ove si trovan le quattro sepolture esterne.
52
Quinto: dovrà imbiancarsi tutto il muro fuori di cinta dell’atrio anzidette dopoché
sarà riattato a forma della perizia suaccennata.
Sesto: dovrà aprirsi la formetta ripiena e d’intercapedine nell’intera estrazione del
circondario della chiesa e recinto del Cemeterio ad uso d’arte per lo scolo necessario
delle acque piovane.
Settimo: dovran farsi di ferro (.....) con le sue grappe lavorate ad uso d’arte per
murarle in modo solido e stabile i telari delle ramate di fil di ferro da porsi alle
finestre tutte della chiesa del Cemeterio ed il fil di ferro per le quattro ramate dovrà
essere grosso e consistente.
Ottavo: l’ (.....) deliberativo sarà tenuto di mantener la strada e formette delle quale
parlasi nel soprascritto numero II per due anni a contar dal giorno in cui si sarà
compita la lavorazione e per tale obbligo di manutenzione dovrà rilasciare in
deposito scudi dieci nel S. Monte di Pietà (.....) allorchè al termine delli due anni
della sud. manutenzione farà la consegna in buono stato della strada e formetta
ovvero sarà una (......)
Nono: Il pagamento della restituta somma a cui verrà deliberato il lavoro alla solita
candela vergine sarà sborsato per la metà in modo che saranno trovati tutti i lavori
da eseguirsi alli tetti al selciato dell’atrio e muro del selciato e per l’altra metà dopo
portati a fine tutti i lavori eseguiti bene e ad uso d’arte alla visita (.....) che ne avrrà
fatta d’ordine delle SS.PP.RR.
Corneto questo di 20 Agosto 1825
Draghi Falgari Gonfal. provvisorio
Corneto 8 luglio 1830
Per ordine dell’Illmo Sig. Angelo Maria Falzacappa Gonfaloniere provvisorio di
questa città di Corneto essendomi pattato io Benedetto Draghi Capo mastro
Muratore a visitare il Cemeterio esistente dentro la stessa città, per riconoscere lo
stato attuale del medesimo gli ho trovato li in primo luogo la cuppola della chiesa
essendo in più parti crepata per cui l’acqua in tempo di pioggia vanno ad inzuppare
le pareti della medesima ed ancora vengono sopra dell’altare essendo questo posto
sotto la detta cuppola sicché per riparare un tal danno si dovrà rintracciare tutti li
crepacci e rinzepparli con levare altre materie che sono distaccate sopra alla
medesima e rincocciarle in più parti e farci l’astrico sopra con cocciopisto grosso
53
once tre con colla sopra al medesimo il tutto da farsi con pozzolana di Roma,
essendo lunga per la metà della circonferenza la suddetta cupola palmi 22 lunga
sviluppata nell’altezza palmi 19, sono canne 4,18
12.54
Siegue da darsi il cocciopisto come sopra al zoccolo, che serve di base alla cuppola
lungo in giro pal. 60, alto palmi 4, sono canne 2.40 da farsi tutto con pozzolana di
Roma
7.20
Stabilitura da farsi con pozzolana di Roma sopra al cornicione del frontespizio della
chiesa quale è tutta mancante, lunga palmi 36, alta palmi 4, canne 1.44
2.16
Il tetto della chiesa si dovrà guastare e rifare una partita lunga palmi 34 e larga in
due pendenze pal. 32 canne 10.88 per alzare una incavallatura che ha ceduto per
esser fradicie le teste della corda e in cambio della suddetta si dovrà impiegare un
trave carrareccio di castagno lungo pal. 30 e riformare la stessa incavallatura, li
travicelli di detta partita di tetto che sostengono le limarelle invece d’esser giusti
traviccelli vi sono delle filagne e gioghetti di aratro e parte fradici onde si dovrà
rinnovare le suddette con n°10 travicelli di castagno lunghe l’una palmi 12 che in
tutto li valuta
23.88
Siegue da murarsi tutto in calce il detto tetto della chiesa il quale in ogni parte
rovesciato dal vento, essendo lungo palmi 48 in piano e largo in due pendenze palmi
32
15.36
con fare di nuovo il colmo in mezzo, lungo palmi 48 e rimettere in calce di gronda in
(....) le parti lunghe pal. 96 li valuta
54
17.36
Siegue il tetto sopra alla cappella verso tramontana similmente da murarsi in calce
lungo palmi 20 e largo palmi 12 canne 2.40 con rimettere più pezzi di gronda e
rifare in più parti alcuni pezzi di colmo ed incalciare tutto il rimanente
2.40
con rimettere più pezzi di gronda e rifare in più parti alcuni pezzi di colmo ed
incalciare tutto il rimanente
2.40
Siegue il tetto sopra del campanile lungo verso il mare pal. 22 da ricomporsi e largo
palmi 16
3.52
con mettere in calce più tegole della gronda e murare il primo canale appresso alla
bocchetta della gronda e dare la calce alli due colmi sopra alli diagonali sopra alli
uni della risega della (......)
2
cuppola si dovrà fare in più parti e pezzi
90
di tetto murato con puzzolana di Roma
1.80
Per valuta di n° 160 tegole mantate da impiegarsi in detti e n° 200 pianelli
7.80
per due vetri mancanti alla finestra della facciata della 7.80 chiesa
Nell’angolo verso ponente si dovrà riprendere una fodera di muro, quale è lunga in
due facciate palmi 30 alta palmi 11.30 grossa palmi 1. 3/4 ragguagliati fino a canne
3.30 quale dovrà essere sfoderato in più parti come ancora il cantone che in tutto
importa
8.25
Siegue da farsi in più parti canne 2 di rincocciature
90
Nella facciata della chiesa e nelli muri di recinto di detto Cemeterio tanto interni che
esterni ci si dovranno fare tutti li pezzi di cornicione mancanti e rifare ancora le
parti distaccate dal medesimo.
55
Siegue in più pezzi da farsi alli detti muri canne 7 di stabilitura, con altre (.....) e
raschiare ancora il vecchio colore dalli stessi muri e facciata e darci di nuovo il
colore
12.50
Spurgo da farsi alle vecchie forme in giro del suddetto per cui di valuta opre tre di
aquilano
2.90
Somma
_____
99.84
Allegato
copia
L’Emo e Revmo Arciv. Vescovo visitando questa chiesa (S. Giacomo) e Cemeterio
annesso ha ordinato
1) Che si faccia una tela incerata, e si ponga sulla pietra consagrata
2) Che dentro la chiesa si facciano due nuove sepolture una per le donne e una per i
bambini, le quali sepolture dovranno avere una doppia parete
3) Dentro il recinto si svella l’erba.
4) Della sepoltura destinata ai poveri gli avanzi dello spurgo dei sepolcri sopra la
lapide che chiude la med. sepoltura si costruisca una piramide con una croce di ferro
nella sommità la quale piramide abbia la luce posta a uno dei lati.
5) Si faccia una campana.
6) Resti ferma la strada che dal salnitro mette al Cimiterio.
Corneto a dì 20 febbraio 1841
G. Canc. Scappini Sergio
Illmo Sig. Card. Domenico Boccanera Gonfaloniere di Corneto l’Eminentissimo e
vigilantissimo nostro vescovo, presa occasione dalla sagra visita pastorale appresta
da qualche tempo in questa nostra città e Diocesi ha portato la sua attenzione sul
sistema attuale della tumulazione dei defunti e porgendo (.....) tuttora nelle chiese è
venuto alla determinazione di raparare (.....) a questo disordine (.....) pertanto a
quanto già si disponeva dall’antica disciplina della chiesa ed alle recenti ordinazioni
di essa adottate ed eseguite generalmente da per tutto e specialmente in Roma capo
dell’orbe cattolica, ha decretato che venga stabilito e formato un pubblico Cemeterio
56
ove riposino le spoglie mortali di tutti, farvi riconosciuti privilegi per regolare (......)
sarà in seguito legale ordinamento. Per quest’oggetto avrebbe l’Emo prelodato
delineato quel pezzo di terreno di proprietà del comune adiacente alla chiesa di S.
Giacomo confinante con lati col fondo della vedova Compagnoni (N.B. Vicino
all’attuale piazza de’ Granari) dall’altra con la rupe onde così posto in
comunicazione colle altre sepolture dell’esistente cimitero e a facilitare l’attenzione
del progetto con possibile economia del comune avrebbe pur divisato e stabilito di
far dividere in maniera simmetrica nuovo pezzo in guisa che ognuna delle quattro
confraternite di questa città s’abbia il luogo per due seppolture da farsi a loro spese.
L’ospedale ne dovrebbe così avere due ed altra dovrebbe formarsi per fanciulli che
(.....) a spese del comune, inoltre il comune dovrebbe formare il recipiente funerario.
Il terreno rimanente lungo la chiesa e li muri circostanti sarebbe destinato a formare
proporzionate sepolture gentilizie o particolari quando venisse richiesto. Le quattro
sepolture esistenti dovrebbero servire alla generale tumulazione dei cittadini. In
nome pertanto di una (.....) da cui ho speciale incarico vengo a partecipare al V.S.
(.....) la superiore risoluzione ond’ella sia compiacente portarlo quanto prima a
conoscenza della Magistratura e del consiglio per la concorde adesione. Io non
dubito che V.S. Illma porterà tutto lo zelo e premura nel giusto divisamento
dell’Emo vescovo e per conseguente vorrà bene disporre la Magistratura e il
consiglio a decretare che il luogo destinato ad accogliere i nostri avanzi nel riposo e
nella accettazione della venuta del nostro Iddio da cui ci verrà il rivestimento
dell’incorruttibilità e dell’immortalità sia corrispondente ai pentimenti di decoro, di
umanità, di religione pe’ quali ella e tutto il Consiglio si distingue. Per cui ne
avvenga che i fedeli vincano quella ripugnanza che li occupa di seppellirsi al
cimitero e ne facciano un oggetto di loro pietà in vita andandovi per porgere ai
propri defunti cristiani suffragi per qual (.....) di lutto l’Emo preso l’accordo con V.S.
Illma vi propone di dare gli opportuni ordinamenti. Ho il piacere di professarmi con
(.....) nell’atto che vi rassegno.
Di vostra Sig. Illmo V Corneto 15 giugno
Devmo Oblimo Servo vostro
Card. Benedetti
Provicario Generale.
Architetto FRANCA FABRIZI
Architetto GIOVANNI CLAUDIO TRAVERSI
57
“ANTICAPPELLA”
DEL PALAZZO VITELLESCHI
Nel palazzo, fatto erigere dal Cardinale Giovanni Vitelleschi, patriarca di
Alessandria (+2 Aprile 1440) nella sua città natale Corneto-Tarquinia (Lazio), con
l’inclusione di costruzioni preesistenti, gli alloggi del principe della chiesa erano
evidentemente collocati all’ultimo piano. Chiaramente si fa riconoscere solamente la
cappella a volta al 2° piano nell’angolo nord dell’ala a levante, dirimpetto alla torre
Fani; Fra Filippo Lippi dipingeva nel 1437 il quadro della Madonna, posto
sull’altare. Sulla parete lunga a destra un portale con tre gradini porta su in un
ambiente adiacente, finora chiamato anticappella. Questa non ha un accesso proprio
da fuori del corridoio della cappella che si distacca dal portico del cortile interno;
ma una semplice porta, diagonalmente opposta all’ingresso della cappella porta in
una stanza con il soffitto a travi, nella quale supponiamo fosse la camera da letto del
cardinale.
L’ambiente, stretto, rettangolare, dell’ “Anticappella” viene sovrastato da una volta a
botte appuntita, in legno, a cassetta, sotto alla quale si sviluppano degli affreschi. A
un’altezza di circa 3,5 m. comincia sulle pareti longitudinali un fregio storico di circa
1,2 m. di altezza; appena un po' più basso comincia l’arcata dell’unica finestra sul
lato stretto verso est, che viene completata da un sedile.
58
Le lunette contengono temi a sè stanti. Sul lato posteriore è lo stemma del cardinale
su una rosetta in pietra dipinta. Di fronte, sul lato anteriore, il vano viene dominato
dalla rappresentazione di Gesù (Tav. 1), dodicenne fra i dottori. Entrambe sono
incorniciate da bande ornamentali che accompagnano piccole arcate a tre. Però il
quadro di Gesù insegnante occupa, oltre al campo ad arco, anche la stessa porzione
del vano che ai lati è occupato dalle Historie. Lo zoccolo di pietre dipinto si svolge
uniformemente lungo le tre pareti.
L’odierna parete di fondo, secondo il nostro parere, non corrisponde alla pianta
originale del vano; l’inclinazione dei tetti, le cui assi si contrappongono
verticalmente fra di loro, hanno reso necessario un accorrciamento della
“Anticappella” ad ovest, a causa dell’alta volta a botte, così che la parete posteriore
sottile è stata ritirata all’interno di 1,2 m. rispetto alla parete esterna (con finestra,
adesso chiusa, verso il corridoio della cappella). Perciò questa parete, con lo stemma
sotto il cappello cardinalizio, è stata dipinta per ultima, fatto confermato anche dalla
scarsa qualità della pittura.
Cominciamo però con la parete della finestra:
il Gesù dodicenne nel tempio ( Lc. 2,41-52)
Guardiamo assialmente in un edificio gotico, grazioso, che riempie il quadro
completamente. L’atrio del tempio è sovrastato da un’abside nella quale, immenso,
risalta il giovane Gesù, seduto su un trono con tre scalini. Sulla gamba sinistra,
retratta poggia il Codice aperto, la destra è alzata nel gesto docente. Sulla veste
bianca ha poggiato un mantello rossiccio che passa sotto il suo braccio destro; porta
dei sandali. Una rappresentazione che ci è familiare per il Cristo insegnante dai
sarcofaghi del protocristanesimo. Un’aureola d’oro con grande croce fa da sfondo
alle forme finemenente levigate del volto infantile e sottolinea il carattere maestoso
che pervade tutta la figura.
Ai suoi piedi, su banchi intagliati in due file, ciascuna sotto due sottili arcate, stanno
seduti dirimpetto dodici dottori, alcuni hanno il tallit indossato sui costumi antichi.
Con gesticolazione vivace meditano e discutono, controllando i testi dei loro rotoli e
libri, però alcuni balzano il volto per poter ascoltare meglio il dodicenne. Lavorio
mentale è leggibile dai volti e gesti. Sotto un capitello dipinto si fanno largo le grandi
figure di Giuseppe e Maria che ritrovano il loro figlio nel tempio. Il padre adottivo,
curvato, alza dal mantello la sua mano sinistra con gesto pieno di rimprovero; anche
59
egli porta dei sandali; mentre la madre, nel vecchio gesto di tristezza della mano
portata al mento, esprime la sua apprensione. Il suo piccolo volto viene incorniciato
da un chiaro velo da testa.
Lo spazio corrispondente sul lato destro è stato usato dall’artista per l’introduzione
di due figure nuove nell’iconografia, per conservare con ciò la simmetria del quadro,
cioè Cristo al centro dell’immagine, questo in contrapposizione alla tavola di Duccio
di Boninsegna sul davanti della Maestà a Siena. Un sommo sacerdote, eretto
dignitosamente, guida un piccolo ragazzo, che sa già leggere per indicargli il
bambino prodigio Gesù. Entrambi portano zoccoli, calzature in legno tipiche degli
orientali, una osservazione curiosamente realistica, come anche la lavagna.
Grandezza
e
collocazione
nell’interno
della
“Anticappella”
conferiscono
predominanza alla scena del NT (Nuovo Testamento). La composizione centrale garantita dall’introduzione di nuovi elementi figurativi - in più l’orientamento in
prospettiva dell’edificio, con la sua sovraelevazione tramite una specie di
baldacchino a cupola centrale, servono a mettere in evidenza Gesù sull’alto trono.
Il tema “Gesù fra i dottori” ottiene perciò, attraverso la rappresentazione stessa,
incremento a tema centrale dell’ambiente. Questa posizione iconologica particolare
diventa ancora più evidente se teniamo presente che questa scena di insegnamento
è finora emersa solo a fresco nel ciclo della vita oppure della gioventù di Gesù e
anche in Italia non ha mai trovato una raffigurazione autonoma.
Qui sono dati entrambi gli aspetti, discussione e insegnamento. Insegnare, ascoltare
e disputare sono le basi dello studio medioevale. Così si raccomanda la descrizione
di Gesù insegnante eo ipso come ideale per le università: Heidelberg e Friburgo la
scelsero, per esempio, scettro e sigillo.
Gettiamo uno sguardo sull’architettura fantastica del tempio, allora sembra quasi
credibile che gli angeli usino il piano superiore come loggia; essi contrassegnano
così l’edificio come quello “che è di mio padre”. Per quanto poco costruttiva sia la
raffigurazione, chiaro è lo zoccolo che, con stelle cosmatesche incastonate, segue il
limite anteriore dell’affresco, e sul quale poggiano, su un basamento rotondo, tre
colonne per lato, stranamente ritorte.
Queste colonne attorcigliate, con la loro grazia diventano determinanti per
l’articolazione di tutti gli affreschi anche delle altre pareti. Solo che sui laterali
lunghi sono rossiccie e non bianco marmoreo come qui. Là poggiano sullo zoccolo di
pietra dipinto, portano sui capitelli semplificati la decorazione a cornice con piccoli
archietti trilobati, e sopra il fregio a piccola consolle. Esse dividono ognuna delle
60
pareti lunghe in tre grandi e due piccoli riquadri, dove i quattro piccoli sono
riservati alle virtù cardinali. Una composizione omogenea rileva già l’articolazione
dominante su tutto l’ambiente di queste graziose colonnine.
Gli affreschi con le figure in grisaille sullo sfondo blu scuro, talvolta su prato,
altrimenti in edifici grigi, hanno un carattere di rilievi. Diverse le virtù a colori, che
siedono su troni con gradini dello stesso numero e le ali laterali dei quali
corrispondono singolarmente con le colonne contornanti.
Prima di tutto osserviamo il ciclo nei riquadri principali che è stato già riconosciuto
da Bertini Calosso come la Storia di Lucrezia, tramandata da Livio, De urbe condita
I 57-59.
Sotto il regno di Tarquinio il Superbo, il settimo Re di Roma, i romani assediano
Ardea, capitale dei Rutuli nel Lazio. L’assedio dura a lungo. Per scacciare la noia, i
principi reali organizzano un banchetto durante il quale il discorso si sposta sulle
loro consorti. Tarquinio Collatino, un nipote del Re, sfida tutti a scommettere che
egli possiede la più bella e virtuosa di tutte le mogli, la sua Lucrezia, accertandola
con una visita a sorpresa presso le loro consorti. A Roma trovano le donne a un
banchetto sontuoso, Lucrezia (figlia di Spurius Lucretius Tricipitinus) tuttavia
nonostante fosse mezzanotte, vestita semplicemente nel cerchio delle sue ancelle
intenta a lavorare la lana. Riceve suo marito e i giovani in modo principesco. Le
viene riconosciuto il premio.
Però durante il banchetto che il vincitore Collatino offre ai suoi ospiti principeschi,
la bellezza e la pudicizia di Lucrezia suscitano la passione del figlio del re Sexto
Tarquinio.
La
sera
(solo
con
un
accompagnatore)
parte
di
nascosto
dall’accampamento dinanzi Ardea verso Collatia, dove Lucrezia lo riceve con
ospitalità quale parente del marito. La notte, mentre tutta la casa dorme, riesce a
mettere piede nella stanza da letto di Lucrezia; le confessa il suo amore e la minaccia
con la sua spada, se lei non fosse accondiscendente ai suoi desideri. Lei rifiuta
decisamente. Però quando minaccia di strangolarla e adagiare accanto a lei uno
schiavo nudo morto, per far credere agli altri che lui l’avesse ammazzato per questo
adulterio volgare, lei cede ai suoi desideri.
Con dolore smisurato Lucrezia manda il mattino seguente a chiamare suo padre a
Roma e suo marito ad Ardea, pregando entrambi di venire da lei con un amico
fidato. Il padre accorre con Publio Valerio, il marito con Junio Bruto. Lucrezia
confida loro ogni cosa, li fa giurare vendetta verso il colpevole ed espia il suo
involontario disonore con il suicidio: davanti agli occhi dei quattro uomini si
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trafigge il petto con un coltello. Bruto estrae il ferro, rinnova il giuramento di
vendetta in quanto vuole scacciare da Roma Tarquinius Superbus e la sua famiglia.
Gli altri giurano dopo Bruto; i giovani combattenti, commossi dalla fine
commiserevole di Lucrezia e dalle parole piene di orgoglio di Brutus, lo seguono a
Roma dove gli animi vengono sollevati dal racconto anche dei vecchi delitti del re
Tarquinio il Superbo. Si precipitano ad Ardea, ma egli è fuggito in esilio. Sexto si
ritira a Gabi, dove gli avversari tramite la sua sconfitta e la sua morte puniscono
l’infamia da lui commessa.
Collatino e Bruto divengono i primi consoli di Roma, nell’anno 509.
Il racconto raffigurato inizia sulla parete sinistra in fondo subito sopra l’ingresso
della cappella con la cavalcata notturna dei principi verso Collatia. Da sinistra sono
giunti diversi cavalieri in abbigliamento da cortigiano, il loro capo, certamente
Collatino, si porta in avanti verso Lucrezia, la più virtuosa, per salutarla o
congratularsi con lei che da parte sua è accompagnata da tre fantesche. Portano
tutte un abito aderente fino alla vita, con maniche lunghe, la gonna ampia a pieghe
cade fino a terra. Una di loro ha in mano un attrezzo, simile a un grande setaccio. Il
primo cavaliere retrocede meravigliato davanti a tanta grazia con un gesto vago,
forse di difesa, della mano destra. In lui presumiamo Sesto. Sebbene in questo
episodio sono presenti l’insieme di luogo e tempo, ci sono altre inquadrature dove (a
destra o a sinistra) della scena principale si svolgono scene secondarie di minore
importanza.
Verso destra segue la virtù della sapienza, Prudentia, qui con la clessidra ad acqua,
che è sormontata da un minuscolo cerbiatto. La prossima scena mostra il misfatto
notturno di Sesto che, a sinistra, con l’armatura al completo e visto da tergo, toglie il
pesante chiavistello dalla porta per penetrare nel castello.
Il quadro principale, a forma di armadio, mostra, dopo un loggiato con un soffitto a
cassettone che deliimita discretamente la stanza da letto attraverso arcate, Lucrezia
sul suo letto, che ha la testata spostata. Il Sextus corazzato, con la spada nella destra,
attende alla porta, con lo sguardo abbassato. Strano che non sia lui a minacciare la
donna seminuda che si solleva, ma che abbia incaricato del malfatto assurdamente
una donna! Perché è una serva che si avvicina a Lucrezia, tocca il suo seno sinistro e
la minaccia con un’arma simile ad uno stiletto, mentre Lucrezia cerca di spingerla
lontano da sé.
Il periodo, sul quale si basa da sessant’anni la tradizione di Livio su questo ciclo, è
portato con questa sostituzione dell’operatore all’assurdo in questa riproduzione,
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per il resto precisa: Sextus...stricto gladio ad dormientem Lucretiam venit
sinistrraque manu mulieris pectore oppresso...
Segue la virtù della temperanza: Temperantia versa dell’acqua da una brocca in un
boccale.
Il quadro successivo evidenzia in modo esauriente gli avvenimenti del mattino
seguente: Lucrezia sta seduta in una loggia e scrive nel suo grembo una lettera, la
penna in mano, la sinistra regge pronto il calamaio. Lei porta mantello e un velo.
Accanto a lei una serva inginocchiata con le chiome sciolte che porge una lettera già
pronta fuori, in un cortile, dove la prende in consegna un uomo barbuto, cappello in
mano, che flette il suo ginocchio. Tre altri messaggeri attendono; il cammino viene
accennato da uno stretto scorcio di paesaggio con rocce, che delimita la seguenza
illustrata della parete di sinistra.
Il ciclo prosegue sull’angolo dirimpetto della parete destra con una scena all’aperto,
un paesaggio brullo di fronte alla fortezza di Ardea assediata.
A sinistra è di nuovo inginocchiato il vecchio con la barba che ha portato la missiva
al cavalier consorte Tarquinius Collatinus che sta a gambe larghe davanti alla sua
tenda. Nonostante la sua altezza e con l’armatura al completo il lettore sembra
vacillare, colpito dalla notizia che irrita profondamente anche i suoi compagni di
battaglia sulle due sponde del fiume Tevere, che è attraversato da un ponte sul
davanti, e che li induce a gesti di minaccia.
E’ interposta la virtù della fortezza, Fortitudo, con la colonna.
Il centro della parete (sopra il passaggio al vano adiacente) è evidenziato da una
diversa scala di grandezza delle figure, è occupato dalla scena chiave, la morte di
Lucrezia - espressione della massima virtuosità. Da sinistra si avvicinano i quattro
cavalieri convocati, il primo suo marito. Il dramma vero e proprio si compie
strettamente teso nel guscio quasi quadrato di una stanza con il soffitto a cassettoni
ma senza porta e finestra, senza via d’uscita. Lucrezia, con i capelli sciolti, fra due
delle sue fantesche si è trafitta or ora eroicamente, con il coltello l’aorta, per salvare
il suo onore e si appoggia, stramazzando, ancora con la sinistra sul tavolo posto di
traverso davanti agli attori, la cui tovaglia scivola. Con urla selvaggie la compagna a
sinistra accanto a lei getta entrambe le braccia in alto - un gesto di Giotto - mentre
una più anziana, più pensierosa cerca maldestramente di estrarre l’arma mortale. Il
padre si è gettato attraverso il tavolo nel dolore indescrivibile, la testa fra le mani.
L’amico del padre come unico testimone si è inginocchiato davanti al tavolo, un
piede spostato fuori dalla cornice del quadro. Solamente lui in formato minore.
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Adesso è la virtù della giustizia, Justitia, che è inserita prima della fine della
tragedia.
Viene rappresentata la grande battaglia di fronte a Gabi, la resa dei conti con i
malfattori. Qui è Collatinus che trafigge Sextus con una lancia. Pende il caduto
ancora con un piede nella staffa. Anche il padre di Lucrezia finisce in
combattimento il suo avversario sul margine sinistro del quadro.
Altri avvenimenti della battaglia non sono quasi più riconoscibili, ad eccezione di
lance, spade e lo spadone a due mani lanciato in alto. Certa è solo la vittoria per i
vendicatori dell’onore della Lucrezia Romana.
Ma è ancora il testo di Livio con l’eroina matrona che descrivono queste immagini?
Non ne sono un po' troppe le deviazioni?
Nel nostro ciclo mancano inizio e fine di quanto tramandato: scommessa, banchetto
delle romane, ma anche tutto l’episodio riguardante Bruto, la sua presenza al
suicidio di Lucrezia con indignazione, giuramento di vendetta, battaglia e vittoria
della rivoluzione. Non si tratta allora di politica, come perfino nella illustrazione
breve nell’ambito delle “Storie dei Romani” nel Petrarca-Codex di Darmstadt.
Queste omissioni da una parte, corrispondono, dall’altra, a delle aggiunte che
mostrano almeno le stesse distanze dallo spirito e dalla parola di Livio: sono da
annotare le serve che circondano sempre la loro padrona, fino alla incredibilità nel
quadro II dove una di esse minaccia onore e vita di Lucrezia al posto del seduttore.
Ancora non è Bruto che estrae nella scena del suicidio il coltello, bensì una
compagna.
Lucrezia non ha mai un contatto diretto con un uomo, escluso nel benvenuto a suo
marito dopo la sua vittoria nella scommessa riguardo le virtù. Perfino in questa
circostanza porta un velo.
Lei viene in contatto con il sesso maschile sempre per il tramite di un’ altra perfino
le lettere per lei così importanti non le consegna personalmente al messaggero.
D’altra parte è divulgata l’importanza dello scrivere, consegnare e leggere proprio in
due scene.
Come l’azione politica della vendetta familiare anche la componente erotica è
mitigata convientemente. Tutto questo può ancora valere come adeguamento alla
moda gotica come architettura e abbigliamento? Non svela tendenze nuove? Altre
condizioni sociali fanno diventare la visita nella stanza di filatura un cerimoniale di
ricevimento, l’aggancio alla cultura di corte contemporanea è nella nostra
descrizione così stretto che viene accettata la perdita di contenuto psicologico - per
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es.: se una donna al posto di un uomo impersona il ruolo di seduttore. Non solo il
malefatto in sè ma anche l’offesa dell’onore perde con ciò chiarezza. Più importante
del dramma è la virtuosità della pudica Lucrezia che traspare dappertutto nei nostri
quadri.
Il “muliebre decus” viene salvaguardato esemplarmente. Tutto questo però ci
allontana da Livio e ci avvicina alla venerazione della donna tipicamente umanistica,
che fa diventare il caso Lucrezia come esempio di quelle donne famose che
Boccaccio, con la comprensione dei loro caratteri e della loro forza motrice delle
anime, festeggia: De claris mulieribus (intorno al 1360).
E’ perciò ovvio cercare il modello dei nostri affreschi in un manoscritto illustrato di
Boccaccio? Nella raccolta degli scritti la storia appare solo come un documentario
serrato. Invero il tema Lucrezia sembra essere diventato una specie di soggetto
preferito, che è stato ricopiato anche separatamente, come dimostra per es. il Cod.
Lat. 18941 conservato a Monaco.
Però io non conosco nessun manoscritto della “Claris mulieribus” con una
illustrazione della storia di Lucrezia interpretato così pienamente.
Inoltre non è completa la corrispondenza dei nostri affreschi con la novella del
Boccaccio. Così non è dipinta la scommessa. Prima di tutto però manca il testo per
l’ultimo quadro, la battaglia, la vendetta tramite Collatino. Bruto resta politicamente
ininfluente. Però sembra possibile che per es.: a un manoscritto illustrato del
Boccaccio, in possesso del cardinale Vitelleschi fosse ancora aggiunta una scena?
Finora non conosciamo la fonte precisa, altrettanto vale per il modello
dell’illustrazione stilisticamente antica, il cui pittore Bertini Calosso vorrebbe
collocarsi nelle vicinanze di Lorenzo e Jacopo Salimbeni da Sanseverino. Dato che
nel Lazio manca una tradizione pittorica propria (i Padovani viceversa erano
memori della relazione particolare della loro città verso Livio, inoltre preferivano la
grisaille) per l’umbro-marchigiano” fa riflettere, per quanto riguarda il ciclo storico,
l’esemplarietà di tali miniature.
Ma per quale motivo l’inserto delle quattro virtù cardinali?
Forse il suo senso si lascia riconoscere meglio, se le osserviamo al loro posto dentro
la novella di Lucrezia: tramite loro viene evidenziata, di volta in volta, nel corso
dell’azione, una delle eccellenti qualità dell’eroina.
Perché Lucrezia era da sempre considerata la personificazione delle virtù romane.
Queste signore, vestite e abbigliate alla moda, stanno dunque, per quanto riguarda il
contenuto, in stretta relazione con la storia della primatista mondiale della virtù.
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Richiama d’altra parte l’attenzione sulla loro appartenenza spirituale alla lunetta
con Gesù e i dottori della Chiesa la loro coloritura: Gesù l’essenza di sapienza e virtù.
Si confronti, per esempio, la composizione dei colori in Giuseppe e in Justitia e
Fortitudo.
Anche il collegamento più stretto verso la tradizione iconografica è comune a
entrambi i temi, perfino i troni mostrano similmente nella loro artistica forma a
gradini la preferenza per il prezioso.
Vediamo la omogeneità delle decorazioni murali sia dal punto della tematica che
dalla forma e dei colori. La progettazione complessiva uniforme, che è stata già
tradita dal disegno fondamentale del reticolato continuo delle colonne, traspare
egualmente dall’unione tematica: la gloria romana vista insieme alla scienza
cristiana. Virtù e sapienza determinano perciò il contenuto dell’allestimento
dell’ambiente. Da tutto ciò si può desumere la sua funzione? Noi crediamo di sì.
Già la piccolezza della cosiddetta, anticappella, dell’anticamera della cappella, il suo
provvidenziale soffitto in legno, la mancanza di un accesso dall’esterno e prima di
tutto la sua vicinanza con la cappella al 2° piano del palazzo, fanno supporre una
destinazione particolare, una sorta di stanza del tesoro. Il suo contenuto possiamo
interpretare tramite la lettura congiunta del susseguirsi dei quadri. Ci indicano lo
studio e più precisamente nella sua direzione principale teologia e in aggiunta storia
patriottica. Racchiudere libri e più precisamente libri di tale contenuto in primo
luogo, era perciò la destinazione di questo vano - almeno nei piani del committente.
L’anticappella era una biblioteca, sinonimo di studiolo! Lo zoccolo dipinto formava
il listello finitore superiore del rivestimento in legno per i piani inclinati e gli scaffali
dello studio privato. Arredi perciò che conosciamo da rappresentazioni di Santi
(Tav. 7) p.e. Gerolamo in Gehäus o eruditi (Petrarca) e pure più tardi da biblioteche
più grandi (Piccolomini, dal 1492 biblioteca del Duomo di Siena). Un’abitazione
paragonabile di un principe della Chiesa dell’epoca purtroppo non ci è conservata.
L’intreccio stretto tra temi pagani e cristiani che troviamo nella biblioteca, non era
poi così inconsueto. Nel palazzo Trinci a Foligno (a circa 150 Km.) che Giovanni
Vitelleschi conosceva sicuramente, la loggia al 2° piano era dipinta esaurientemente
con un’altra storia del 1° libro di Livio, quella di Romolo e Remo, della quale il
Codice di Darmstadt riproduce cinque scene. La cappella direttamente attigua è
ornata da scene dalla vita di Maria di Ottaviano Nelli 1424. Anche qui le figure del
Nuovo Testamento sono abbigliate all’antica e quelle della leggenda della
fondazione di Roma, al contrario, alla moderna, “gotico internazionale”. Si può
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supporre che dietro questa disposizione si trovano ponderazioni sottili come per
esempio quella verso la Verginità? Dovevano, la Vergine che concepiva da un Dio qui la vestale Rea Sylvia e Marte - là la fanciulla Maria e lo Spirito Santo - e i loro
figli, sempre eminenti, esseri messi a confronto? Sicuro è in ogni modo che gli
affreschi nel Palazzo Trinci, sede dei Vicari Pontifici fine 1438, dovevano portare
davanti agli occhi la grandezza e magnificenza di Roma, come lo esprimono i versi
aggiunti: Roma come potenza mondiale, anche la Roma papale!
Per questa coscienza umanistica del collegamento con l’antichità, parla anche
Corrado Trinci che, con l’aiuto del suo consigliere Francesco da Fiano, impiantava
una collezione archeologica - base dell’odierno museo archeologico, nei vani attorno
al cortile del castello a Foligno. Non bisogna attendersi qualcosa di simile anche da
Giovanni Vitelleschi che era orgoglioso del suo paese di origine, il terreno del quale
permetteva ritrovamenti così ricchi? Ne potrebbe essere un altro indizio, che per la
facciata Vitelleschi scelse la nuova rustica - cioè “all’antica” - la prima volta per un
palazzo cardinalizio!
Il cardinale, che iniziava la sua ripida carriera come pronotaio apostolico a Roma,
era certamente un buon letterato. Non ultimo testimonia in questo senso il sospetto
dei suoi contemporanei, che lui abbia mandato al condottiero Piccinino per sua
fatalità lettere cifrate. La sua permanenza a Roma, sotto Martino V, lo ha messo in
condizione di poter scegliere personalmente il programma dei quadri per il suo
studiolo. Così si spiega il riferimento teologico su Gesù e i dottori della Chiesa come
personale. Che anche l’aspetto bellico, la vittoria nella battaglia, avesse la sua
importanza, si capisce presso un condottiero della Santa Romana Ecclesia. Il campo
dello stemma dà a capire la propria provenienza. La rilevanza di Roma, delle virtù
romane, la testimonianza della tradizione, tutto questo trovava in Lucrezia la
rappresentante adatta - lei era, in una persona, legata con il luogo d’origine del
committente e la sede degli affreschi del Palazzo a Corneto-Tarquinia, nello stesso
modo con Roma, e questo in quel periodo quando Tarquinia era predominante e
Roma era ricevente - anzi diventava appena città! In entrambi concorda con
Giovanni Vitelleschi al quale viene conferito il titolo di Pater Patriae dal senato
Romano. Non solo a lui stesso, ma a tutti i cittadini della sua città natale fu conferito
il diritto di cittadinanza Romana dal senato dell’Urbe nel 1436, noi supponiamo
come ringraziamento per le forniture di grano che tenevano basso il prezzo del pane
a Roma nei periodi di carestia. Una onorificenza che è ricordata ancora oggi da uno
scudo gentilizio sul Palazzo Comunale di Tarquinia.
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Che il cardinale Giovanni Vitelleschi possedesse molti e preziosi libri non è solo
probabile in sè, ma può essere documentato con prove. Prima di tutto tramite il
testamento di suo nipote, Bartolomeo Vitelleschi, vescovo di Corneto dal 1463,
pubblicato nel Bollettino del 1982 pag. 127.
Esso informa, attraverso indicazioni scrupolose a chi dovesse andare in eredità il
retaggio che lui aveva assunto dal grande zio, il Reverendissimo Signor Cardinale.
Una grande parte di questa eredità però sono libri, di cui alcuni sono elencati
singolarmente non ultimo perché particolarmente preziosi, forse perché rilegati in
pelle rossa o bianca, scritti su pergamena ecc.
Si tratta principalmente di manoscritti liturgici e teologici. Inoltre, dopo la sua
morte i libri e la “libreria” (!) devono essere venduti, ma solo dopo il tesoro in
argento. Anche da ciò si può dedurre il valore e l’importanza della libreria.
Un altro argomento per il possesso è la quietanza che riceveva il suo nemico e
successore, patriarca Lodovico di Aquileia, su un pagamento, fra l’altro per libri
dalla successione del Giovanni Vitelleschi
Pochi anni prima della improvvisa morte del cardinale, dopo la distruzione di
Palestrina (1436) ad opera delle truppe papali sotto il suo comando si parla riguardo
ai tesori che lasciava trasportare da lì a Corneto, p.es.: di colonne di marmo,
probabilmente anche quella nell’arcata della finestra della biblioteca, nonché di
libri.
Sulla data della costruzione del vano biblioteca siamo informati esattamente, grazie
alla cronaca del Pier Gian Paolo Sacchi di Viterbo, uno dei più fedeli, anche nella
disgrazia del Giovanni Vitelleschi: l’8 febbraio 1439 il palazzo era perciò terminato
“di tutto punto”. Poiché il nostro ambiente è decorato con lo stemma sotto il
cappello cardinalizio, la nomina però avvenne solo nel 1437, dobbiamo fissare per la
pittura gli anni 1437/38. Nell’anno dell’ultimazione della biblioteca 1438 il Comune
assume un insegnante professore per grammatica, retorica e poesia (ma solo nel
1147 assume un medico). Sicuramente non senza il mecenate.
Con ciò l’interno della biblioteca viene ad essere uno dei più antichi ambiente per i
libri principeschi che conosciamo, forse è la sala biblioteca privata più vecchia
esistente in assoluto. Perfino dello studiolo quasi contemporaneo (1447/51)
adiacente alla cappella dipinto da Fra Angelico nel Vaticano per il Papa Nicola V,
manca oggi qualsiasi traccia. L’ubicazione tranquilla della biblioteca privata, la sua
collocazione vicino alla cappella del palazzo Vitelleschi, come la sua volta a botte in
legno, e soprattutto il programma dei quadri correttamente funzionale, fanno
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diventare una certezza la nostra interpretazione. Con questo, il tema delle nostre
immagini diventa il legame fra sapienza e virtù, il “conubium virtutis ac scientiae”,
con l’accento sull’origine divina di ogni sapere tramite il docente Gesù, per secoli
eletta a espressione principale delle biblioteche ecclesiastiche, ed inoltre anche nelle
pitture dei soffitti dei conventi barocchi nei paesi di lingua tedesca. L’elemento
principesco, che è rappresentato dalla scelta e interpretazione del soggetto antico
insieme allo stemma personale è completamente integrato nel carattere religioso. La
nobiltà del costruttore si basa in modo visibile su sapientia e virtus.
Dalle biblioteche, pubbliche o dei conventi contemporanei in Italia, p. es.: dalla
biblioteca di S. Marco a Firenze, costruita da Michelozzo 1437-41 per Cosimo de
Medici, la nostra libreria si differenzia per funzione e forma; potrebbe essere nata
per una certa esigenza di rivalsa di prestigio in quanto arcivescovo di Firenze, una
carica che Giovanni Vitelleschi copriva già dal 1435. Se il movente era più la
passione del collezionista di libri o identica sete di sapere, chi può deciderlo ancora?
E’ però certo che dobbiamo allargare l’immagine del costruttore, del guerriero e
cardinale, che in crudeltà non era da meno dei suoi antagonisti con una grossa
componente culturale. Questa formazione umanistica si mostra già da sola tramite
l’assunzione fra le stanze private del palazzo di questa inusuale “biblioteca”, come da
ora si dovrebbe chiamare l’ “anticappella”. Si esprime nella scelta e fusione dei temi
religiosi e mondani e non ultimo nella elaborazione cortigiana della storiella e di
Gesù docente da bambino. Non si avverte nulla del rude condottiero.
La salute cagionevole di Vitelleschi, la sua richiesta di dimissione dall’esercito
papale di cui scrive Eugenio IV, fanno presumere inoltre che volesse crearsi qui un
rifugio, al godimento del quale non sarebbe più arrivato. Fra l’altro Sacchi lo
caratterizzava “Savio”! Anche la progettata elevazione del livello intellettuale a
Corneto, tramite l’assunzione di un professore fa parte di ciò - tratti perciò che
richiedono un arrotondamento positivo della sua immagine che rendono il cardinale
e condottiero più umano. Le immagini della Biblioteca di Vitelleschi, nate da
credenza e riflessione storica, trasmettono un appello morale al rinnovamento di
Roma antica, a mezzo delle Virtù Cardinali.
Renate Schumacher-Wolfgasten
Traduzione della Sig.ra Teresia Cagnoli
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DON PARDO
Prefazione
Nel 1831 Stendhal viene nominato console di Francia a Civitavecchia. La vista che
egli gode del suo appartamento, situato in Campo Orsino, lo colpisce: “De ma
fenêtre, j’ai une vue et une air agréable. Je jette dans la mer les grappes d’un
excellent raisin qu’on nous apporte de l’île Giglio, à 20 lieus; je la vois de ma
croisée”. 1) Tuttavia se l’insieme lo soddisfa, d’altro canto egli già si lamenta della
limitata larghezza di vedute degli abitanti di Civitavecchia: “Quand tout
Civitavecchia se cotiserait, il ne pourrait comprendre la plus simple de mes
idées.” 2)
Infatti, ben presto Stendhal s’annoia a morire in questa città dove nessuna
conversazione letteraria è possibile. Soltanto con Donato Bucci, ex-negoziante di
tessuti, “devenue passionné pour de vases étrusques et qui a laissé là les draps pour
ne plus s’occuper que d’antiquités” 3) , che si rivela come un uomo dotato di un certo
gusto e di una sensibilità culturale, Stendhal ha occasione di discutere lungamente
d’arte.
E’ nel suo studio di antiquario, sito al numero 17 della piazza S. Francesco, che
Stendhal fa la conoscenza di due personaggi verso i quali prova subito un certo
interesse: gli avvocati Pietro Manzi e Benedetto Blasi, il primo presidente della
Società Filarmonica di Civitavecchia, il secondo appassionato di letteratura e di
archeologia; è con loro che Stendhal scopre il proprio amore per le ricerche
archeologiche dedicando il suo tempo a scavare nelle tombe di Corneto, riportando
alla luce vasi etruschi e greci.
1)
“Dalla mia finestra, ho una bella vista e sento un’aria gradevole. Getto nel mare i raspi di un’uva eccellente che ci
viene portata dall’isola del Giglio, a 20 leghe da qui; la intravedo dal mio balcone”.
2)
“Quand’anche gli abitanti di Civitavecchia si mettessero insieme, non potrebbero comprendere la più semplice delle
mie idee”.
4
) “Voi conoscete le abitudini motorie di H. Beyle, che era preso dallo spleen se doveva restare a lungo nello stesso
luogo e soprattutto in un piccolo centro come Civitavecchia, senza alcuna società, senza distrrazioni e risorse d’alcuna
specie.
70
Essendo, comunque, rare le distrazioni in questa piccola città degli Stati Pontifici,
non appena lo può, Stendhal lascia Civitavecchia per recarsi a Roma e in altre città
ricche d’arte come Firenze, Siena, Ravenna; o ancora spingendosi più a sud, fino a
Napoli.
Una lettera di Donato Bucci indirizzata al cugino di Stendhal, Romain Colomb,
datata 10 gennaio 1858, ci sve l’insofferenza dello scrittore nel rimanere troppo a
lungo nello stesso luogo: “Vous connaissez les habitudes locomotives de H. Beyle,
qui était pris du spleen s’il devait rester longtemps dans le meme lieu, et surtout
dans un petit pays comme Civita-Vecchia, sans societé, sans distractions et
ressources d’aucune espèce” 4) .
Stendhal, spirito cosmopolita, ha infatti bisogno di allargare le sue conoscenze
geografiche e umane.
Già nel 1833, la nostalgia della raffinata società parigina si fa sentire. Sollecita
dunque un congedo di tre anni e ritorna nella capitale francese. Tre anni dopo,
ottiene un altro congedo di durata triennale, grazie all’interessamento del conte
Oblé. Durante questi anni, Stendhal si consacra intensamente all’attività letteraria.
Il 10 agosto 1839, Stendhal ritorna a Civitavecchia. Senza per nulla rallentare la sua
produzione letteraria, nel dicembre del 1839 redige “Vittoria Accoramboni” e “I
Cenci”. E qualche mese dopo, il 31 marzo per l’esattezza, Stendhal abbozza una
novella che ha per protagonista uno degli abitanti della città di Civitavecchia: così
nasce il “Don Pardo”.
In questo frammento, Stendhal si rivela com’è nel suo stile, un osservatore curioso;
questa volta ciò che lo interessa non è la narrazione degli intrighi intessuti
all’Ambasciata di Francia in Roma (questo era il tema di una novella precedente
intitolata “Una position sociale”), ma la descrizione della vita del “popolino”, cioè di
tutti coloro che egli incontra quando passeggia nei pressi del porto.
Tramite il “Don Pardo”, Stendhal ci offre un esempio di racconto di natura
picaresca. Infatti il protagonista Don Pardo incarna perfettamente l’eroe picaresco
del XVII secolo, personaggio della strada, personaggio della miseria; non è un eroe
glorioso, ma un pezzente. Nonostante ciò, guarda gli altri con una freddezza lucida e
sfrontata: non sopporta alcuna alienazione e parte per l’avventura indossando ora i
panni laceri del mendicante, ora quelli usuali dello studente o infine la stola
consunta del prete.
4)
71
Personaggio errante, incurante dei problemi, dalla condotta di vita sregolata e
amorale, questo è Don Pardo. Il suo unico scopo è sopravvivere.
Questo ragazzo è disposto a tutto pur di ottenere un pezzo di pane.
L’episodio di Corneto mette in rilievo la sua furbizia superiore di gran lunga alla
media. Dimostra una grande abilità nell’estorcere denaro agli abitanti della città,
impietositi dallo spettacolo di questo monello morente di fame. Fattosi adulto, Don
Pardo conserverà questo modo di essere non esitando a calpestare i precetti morali e
non rifiutando di abbassarsi al compromesso pur di realizzare i suoi loschi fini.
L’esistenza vissuta da Don Pardo è miserabile, ma egli vive libero; e quando, in
seguito, accetterà un barlume di regola, lo farà solo per assecondare la sua
ambizione.
Nel “Don Pardo”, la volontà di agire, di essere padrone del proprio destino è
perfettamente messa in risalto. Questo modello di energia non poteva non sedurre
Stendhal: per tale motivo, pur rispettando i limiti del personaggio, lo si può, senza
esagerazione, collocare nel pantheon degli eroi stendhaliani.
Il tiro che Don Pardo gioca agli abitanti di Corneto è considerato dall’autore come
una “spedizione” da cui traspare la genialità del personaggio principale e la sua vera
dimensione letteraria. In poche pagine, Stendhal, con rapide pennellate, abbozza
con critica lucidità il modo di vita di questa gente di umile condizione che egli aveva
osservato così acutamente.
Anche oggi, leggendo “Don Pardo”, ci sembra per un attimo di rivedere questo
grande autore del secolo scorso che curiosa tra i moli del porto di Civitavecchia nel
viavai quotidiano di merci e di varia umanità, caratteristica della città di quell’epoca.
E crediamo di sentire l’uomo di lettere, il ricercatore avido di conoscenza mentre
propone ai viaggiatori famosi, di passaggio nella città, di accompagnarli nella visita
delle tombe etrusche della cittadina di Corneto.
****
Traduction de Don Pardo (Stendhal)
DON PARDO
Sotto il pontificato di Pio VI c’era a Civitavecchia un povero tornitore di pulegge di
nome Tommaso che aveva ben quattordici figli. Per questo motivo le derrate
72
alimentari che egli comprava non erano soggette al dazio comunale all’entrata della
cittadina. Per guadagnare qualche soldo in più (o baiocco) faceva passare di
contrabbando alle due porte della città le derrate destinate ai suoi vicini. Ma questi
tentativi non erano esenti dal pericolo di essere scoperti. I doganieri non avrebbero
multato Tommaso che era protetto da don.... potente legato, il quale aveva fatto
sparire i numerosi verbali di contravvenzione stilati contro il tornitore Tommaso.
Ma di natura molto vendicativa come gli abitanti di questi paesi dove le leggi
proteggono soltanto i potenti (l’uomo del popolo che non si protegge da se stesso è
disprezzato e insultato dai suoi simili), gli impiegati del dazio pestarono di santa
ragione il padre dei quattordici figli la prima volta che lo scoprirono mentre portava
dentro un sacco una quantità di alimenti maggiore di quella che gli era stata
assegnata per sfamare la sua famiglia per un mese. Per rispetto del legato, don....,
poiché il fatto avvenne alle prime ore del giorno, quando le porte si riaprono, essi
fecero finta di non riconoscerlo.
Alla seconda bastonatura, Tommaso fu costretto a restare a letto per tre giorni, il
che lo portò alla disperazione perché, quantunque lavorasse da sei a otto ore al
giorno, cioè il doppio di quanto lavorassero tutti gli artigiani suoi vicini, arrivava a
malapena a nutrire la sua numerosa famiglia. Sua moglie, tuttavia, era molto abile
nel domandare l’elemosina, si destreggiava molto bene nel procurarsi la protezione
dei legati preposti a distribuire i proventi della carità di alcune buone anime, e
inoltre insegnava molto bene a chiedere l’elemosina a sei dei suoi figli capaci di
camminare nelle strade, evitando le carrette.
I due figli maggiori Egregio e Giuseppe erano dei piccoli monelli sporchi, sempre
affamati e senza un briciolo di intelligenza; il terzo, di nome Pardo, era di natura
molto diversa. Il cielo gli aveva fatto dono di una estrema magrezza che sua madre
curava andando a cercare nei fossati vicini alla città delle sanguisughe che gli
applicava tutti i mesi; schiariva il suo viso con un po' di farina che una panettiera
sua vicina le regalava per carità, e Pardo, così conciato e messo accovacciato vicino
ad un paracarro, nella posa di un infelice bambino morente di fame, raggranellava
qualche volta fino a otto o nove soldi (baiocchi) al giorno.
Tali frequenti applicazioni di sanguisughe così utili alla bellezza della sua
carnagione, lo rendevano molto famelico alla vista della carne. Aveva una agilità
sorprendente nel camminare carponi lungo tutta una strada, e, strisciando e senza
essere visto, arrivava fino alla bottega di un macellaio, mordeva dei bocconi interi di
carne cruda dalla parte inferiore della merce esposta in vendita e i suoi denti erano
73
talmente aguzzi che staccavano di netto il pezzo di carne. Pardo rinunciava al
piacere di inghiottire immediatamente il boccone. Essendoci dei complici da
sedurre, egli dava un secondo morso e strappava un pezzetto di carne che donava
fedelmente ai cani del macellaio divenuti suoi amici per la pelle. Tuttavia questi cani
erano spesso bastonati a causa delle sue malefatte; li si accusava dei morsi e dei tagli
netti che il macellaio scopriva nella parte inferiore dei suoi pezzi di carne. Pardo
rideva di cuore quando vedeva i cani pestati a morte per i suoi misfatti e che,
comunque, venivano un istante dopo a leccargli le mani. Col tempo egli approfittò
della loro amicizia per sgattaiolare nel mattatoio dove arraffava sempre qualche
pezzo di carne.
E non aveva che otto anni quando già combinava tutte queste belle cose. A nove
anni, acchiappava dei gatti che divorava interamente crudi, perché aveva subito
l’esperienza dei suoi fratelli... più forti di lui che gli rubavano quasi tutta la sua parte
quando egli tentava di far cuocere le povere bestie. In questo periodo, il povero
tornitore di pulegge, suo padre, confidò talmente nella sua abilità che lo incaricò di
far passare di contrabbando i viveri alle porte. Pardo giocava per un’ora di seguito
insieme ai monelli suoi coetanei accanto alla porta e ai muri, poi, inseguito da uno
dei suoi piccoli compagni, attraversava di corsa l’androne della porta. I doganieri
non facevano caso ai suoi maneggi ed egli consegnava dei viveri a suo padre. Il suo
aspetto scarno e il suo pallore non meno straordinario lo facevano assomigliare ad
un tubercoloso e lo si vedeva di solito avvolto in un lenzuolo molto sporco nelle cui
pieghe nascondeva i viveri.
Civita-Vecchia è un porto franco. Le navi arrivano qui... cariche di sigari dell’Avana.
La difficoltà è: 1° di sbarcarli a terra, e in secondo luogo di farli passare per la porta
tenuta d’occhio da quattro o cinque doganieri vigilanti, per andare a venderli a
Roma. Pardo era formidabile in queste due operazioni. Guadagnò a volte fino a venti
soldi al giorno che dava a suo padre, ma non poté approfittare della sua bravura che
soltanto per un anno: i monelli suoi compagni gridavano ai doganieri di stare in
guardia ogniqualvolta Pardo facesse finta di giocare nelle vicinanze delle porte.
Negli ultimi tempi della frode sui sigari, Pardo andava a consegnarli in gran segreto.
Don... scoprì il segreto delle sanguisughe applicate la sera sulle gambe del bambino.
Costui restò meravigliato dal fatto che, dopo tre anni che la cosa si ripetesse, Pardo
non ne fosse ancor morto e, in più, che ne avesse mantenuto il segreto. Quest’ultimo
fatto collocò Pardo molto in alto nella considerazione di Don...
74
“Uno come Pardo potrebbe diventare un ottimo frate questuante soprattutto per la
sua discrezione” pensò Don... machiavellicamente e gli insegnò un poco a leggere.
Pardo non dimostrava alcuna intelligenza. Ma Don... avendo, un giorno, fatto una
operazione d’addizione in presenza del piccolo mendicante così magro, quest’ultimo
gli chiese delle spiegazioni e in meno di otto giorni risolse brillantemente ogni tipo
di addizione e di sottrazione. Era il tempo in cui rubava dei sigari fra quelli che
faceva passare per la porta della città che conduce a Roma. Queste operazioni
aritmetiche agevolano al massimo i suoi furti e gli risparmiavano una buona dose di
scapaccioni da parte dei negozianti e dei viaggiatori che si servivano di lui. Pardo
imparò abbastanza presto moltiplicazioni e divisioni, ma fu molto deluso di non
trovarvi alcuna utilità per i suoi furti. Tuttavia, incoraggiato dall’enorme vantaggio
che ricavava dalla sottrazione, egli apprese a leggere.Si rendeva utile ai numerosi
viaggiatori che salgono sulle navi a vapore e che sbarcano a Civita-Vecchia; e un
giorno avendo un viaggiatore lasciato cadere un napoleone d’oro, Pardo mise il suo
piede nudo sulla moneta d’oro tenendovelo per tutto il tempo che il viaggiatore lo
cercò, poi ebbe la presenza di spirito di fare finta di cadere a terra per la fame,
afferrò la moneta con le labbra e la conservò nella bocca per tutto il resto del giorno.
Era tutto pensieroso sognando l’immenso tesoro di cui s’era impadronito. Ma la
sera, ebbe la debolezza di parlarne a sua madre chiedendole di fargli un vestito. Sua
madre glielo promise. Il giorno dopo, (essa) gli applicò un tale numero di
sanguisughe che, per due giorni non ebbe la forza di lasciare il pagliericcio sul quale
dormiva insieme a cinque dei suoi fratelli. Quando Pardo, si riebbe, la sua moneta
d’oro era sparita.
Sua madre saliva spesso nella soffitta sopra la stanza dove dormiva con suo marito e
le sue cinque figlie. Un giorno, mentre essa saliva, Pardo sfiorò un piolo dal foro del
montante della scala in maniera che esso restasse in equilibrio precario. La madre,
scendendo, si procurò una storta che la fece piangere per il dolore. Pardo scoppiò a
ridere e, per non essere visto, scappò nella strada, e per tutto il resto del giorno
ripetè a mezza voce: Perché mi hai rubato il mio Napoleone? - In seguito a questo
primo atto di ribellione tagliò in due con un pezzo di vetro le sanguisughe che sua
madre gli applicava sulle gambe.
Tuttavia capiva il vantaggio del suo pallore e organizzò una spedizione piena di
genio. Corneto è una cittadina a dodici miglia da Civita-Vecchia celebre per via dei
versi dell’Ariosto che disse parlando del bel Giocondo: “CREDEVA ANDARE A
ROMA E ANDATO ERA A CORNETO.”
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Pardo montò dietro una carrozza che andava da Civita-Vecchia a Corneto, due dei
suoi compagni salirono dietro un’altra. Arrivati a Corneto, comprarono tre soldi del
vino che andarono a bere in una catapecchia. Dopodiché, i due compagni di Pardo lo
portarono al caffé gridando che era svenuto di fame, perché non aveva mangiato
nulla da due giorni. La magrezza eccessiva, il pallore di Pardo gli tornarono utili in
maniera conveniente; ci sono delle persone agiate a Corneto, e Pardo fu portato via
dal caffé con più di cinquanta baiocchi nelle sue tasche mentre ne aveva sottratti
altri venti, formati da quattro monetine d’argento che aveva nascosto nella bocca.
Ma i due compagni che l’avevano trasportato, essendo più forti di lui, lo picchiarono
talmente da obbligarlo a sputare queste due monete, e ad accontentarsi di diciasette
baiocchi come i suoi due compari. Pardo sentiva di aver diritto ad una parte più
consistente perché, in fin dei conti, era stato lui ad avere avuto l’idea della
messinscena, ma non era capace di farsi capire. Dopo avervi riflettuto ben bene
durante tre giorni, la curiosità prevalse sulla prudenza, e Pardo domandò a Don... di
confessarsi con lui e sotto il segreto della confessione raccontò quanto era successo a
Corneto:
- Non avevo diritto a più di diciassette baiocchi?
- Certamente, gli rispose Don Alessandro, stupìto, tu ne avevi avuto l’idea. Senza di
te gli altri due che ti hanno trasportato di peso nelle strade e al caffé di Corneto non
avrebbero mai potuto inventare il colpo.
Don.... fu colpito da quest’idea del “colpo” dell’uomo morto o morente molto in uso
a Napoli; non gli fu molto difficile capire con delle abili domande che Pardo non era
mai venuto a conoscenza di ciò che si pratica fra i mendicanti di Napoli; così
cominciò ad avere una cerrta ammirazione per il nostro eroe, e finì per raccontare la
cosa a due suoi amici Don... e Don...
Uno di questi Don.... disse a Pardo di venire da lui tutte le mattine per fargli leggere
la Bibbia. Già il secondo giorno il bambino gli rispose sfrontatamente che era stanco
di perdere così il suo tempo.
- Mentre leggo per far piacere a Vostra Eccellenza, un VAPORE arriva ed io potrei
BUSCARE (arraffare) un baiocco o due.
- Certo, rispose Don...., ma i vapori arrivano solo ogni tre giorni, e, due volte al
mese, arrivano alle 8 del mattino, ora che ho stabilito per insegnarti la tua religione.
La conclusione della discussione fu che Don.... avrebbe dato un baiocco a Pardo per
ogni ora di lettura. Don... fece questo sacrificio con piacere, pensando di allevare per
la chiesa un bravo frate questuante. Don.... era soprattutto indignato dalla
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predizione dei liberali del paese che ripetono spesso che in meno di venti anni non si
vedrà più un monaco.
Per dare una smentita a questi infami dannati, Don... portò a due baiocchia la sua
spesa, precisando i giorni in cui dare lezione di scrittura a Pardo per la durata di
un’ora. Fin dalla terza lezione Pardo ebbe il genio di domandare a Don.... che lui gli
insegnava a scrivere. Don... rimase sorpreso, ma promise. Però fece delle domande a
Pardo:
- Se potessi mai arrivare ad avere un...
Prefazione e traduzione di
Muriel Augry
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STORIA DEL CARDINALE GIOVANNI VITELLESCHI
PREMESSA
Prima di introdurvi nella lettura delle interessantissime pagine illuminanti di
vivissima luce il periodo più felice e drammatico insieme del nostro più illustre
concittadino quando, unitamente alle battaglie vittoriose, alle conquiste, alla
gloria del Condottiero si facevano largo e crescevano l’invidia e le ambizioni dei
suoi implacabili nemici favoriti dai sospetti e dalla gelosia del Sommo Pontefice
culminanti con il vile agguato e l’atroce assassinio di Castel Sant’Angelo, ho
ritenuto utile dire brevemente come e quando ha avuto inizio lo scambio epistolare
tra me e PIERO NOBILI VITELLESCHI, fiero ed orgoglioso discendente di
GIOVANNI VITELLESCHI Cardinale di Santa Romana Chiesa.
L’avvenimento prese il via da un mio articolo pubblicato sul quotidiano “IL
TEMPO” del 21 agosto 1957 n°231 pagina di Viterbo sotto il titolo indubbiamente
bello “I TARQUINIESI DIFENDONO IL CARDINALE VITELLESCHI”.
Questo numero, finito nelle mani di Alberto Nobili Vitelleschi abitante a Roma, fu
da questi trasmesso al fratello Pietro, Console Generale d’Italia a riposo, residente
in Brasile e più esattamente a Maringà (Paranà) che si premurò di rivolgersi alla
redazione di Viterbo per “ un eventuale scambio di vedute sulle cause ed i veri
responsabili della tragica ed immeritata morte del CARDINALE CONDOTTIERO
con l’autore dell’articolo”.
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Subito informato accettai l’invito con interesse e piacere, dando così il via ad una
serie di lettere attraverso le quali e senza peli sulla lingua, il pronipote Pietro
Nobili Vitelleschi rievoca quel periodo e quegli eventi nel generoso e legittimo
impegno di far conoscere non soltanto la verità nel comportamento fedele e devoto
del CARDINALE - CONDOTTIERO nei confronti di papa EUGENIO IV
rivendicandone quindi il giusto posto che merita nella Storia di casa nostra, ma
anche per porre nel dovuto risalto come il corso degli eventi sarebbe cambiato ove
la fortuna fino allora dalla parte di Giovanni Vitelleschi l’avesse accompagnato
ancora nella sua rapida e fulgida ascesa verso la vetta più alta della Chiesa
Cattolica.
Se GIOVANNI VITELLESCHI fosse riuscito a sventare l’agguato ed a sfuggire
all’atroce morte che ne seguì, la Storia di casa nostra sarebbe stata probabilmente
un’altra. Migliore o peggiore non è possibile dire ma sicuramente diversa.
Ringrazio pertanto la Società Tarquiniense d’Arte e Storia per avermi offerto la
possibilità di rendere pubbliche queste rivelazioni finora a tutti sconosciute, perché
attraverso questo BOLLETTINO potranno essere poste a conoscenza di tutti coloro
che vorranno dedicarvi la loro attenzione e farsi, di conseguenza, un’idea più
esatta e più rispondente alla verità sugli avvenimenti di quell’importante periodo
della nostra Storia.
Giuseppe Santiloni
Maringà (Paranà) BRASILE
12 Novembre 1957
Caixa Postal 259
Gentmo Rag. Santiloni,
La ringrazio assai della Sua cortese del 22 Ottobre, giuntami ieri da Roma.
Le ho suggerito quel giro vizioso, per evitarLe il fastidio di una più costosa
trasmissione di diretta corrispondenza transoceanica, quantunque, da qualche
tempo, le lettere agli “EMIGRATI” possono affrancarsi con sole lire cento, purché si
abbia l’avvertenza di scrivere sulla busta, con caratteri evidenti, la parola EMIGRATO-. Mi sembra però che, di recente, la tassa sia stata aumentata.
79
IO - sia pure nella mia pochezza di semplice dilettante di memorie familiari voglio innanzi tutto felicitarmi con Lei di quella che ritengo una perfetta visione
storica della figura politica e militare di Giovanni Vitelleschi, come emerge dai Suoi
due ottimi articoli, recentemente pubblicati su “IL TEMPO” di Viterbo.
Le dirò anzi, che soltanto a leggere il titolo del primo articolo: - I
TARQUINIESI DIFENDONO IL CARDINALE VITELLESCHI - rimasi scosso e
toccato nel cuore, perché mi sovvenni di quel che storicamente noto, circa il fiero
risentimento sanguinoso del forte popolo di Tarquinia, contro i “Commissari” di
Papa Eugenio IV°, quando nell’Aprile del 1440 (era ancora caldo il cadavere
dell’infelice Cardinale) non frapposero tempo in mezzo per giungere a Tarquinia, al
fine di redigere esatto inventario (fino agli animali da lavoro) dei beni dell’ucciso
condottiero, reclamati dal Papa, asserendo questi, con suo breve in data 11 Aprile
1440, diretto ai Priori di Corneto: -.... Omnia praedicti Cardinalis bona, et quia sic
ex testamento voluit et alia ratione sint mea”. (vedi DASTI, Notizie storiche di
Corneto, pag. 457).
Impressionato dal titolo dell’articolo esclamai soddisfatto: - Si vede che i Tarquiniesi
di oggi non sono da meno dei loro valorosi predecessori!Circa le vere cause e i veri responsabili della cattura e successiva morte del
Cardinale (lasciato languire per quattordici giorni sotto le oscure volte di Castel S.
Angelo) constato con piacere, che i nostri punti di vista - in via generale concordano perfettamente. Le mie modeste ricerche m’inducono alla seguente
enumerazione di cause:
1° - Tensione gravissima dei rapporti fra il Cardinale e Cosimo de’ Medici il Vecchio,
per ragioni personali e politiche;
2° - Odio e rivalità implacabili del Card. Ludovico Scarampi, succeduto al Vitelleschi
nell’episcopato di Firenze;
3° - Grave tensione dei rapporti tra il nostro Condottiero e il comandante la
cavalleria, Conte Everso dell’Anguillara, rimasto impassibile al momento della
cattura e ferimento del suo Capo, ad opera dei pochi scherani del castellano Antonio
Rido;
4° - Azione diffamatoria e sobillatrice di Renzo Colonna e della Sua fazione, per
vendicarsi degli atti di guerra del Vitelleschi, e specialmente, delle recenti
distruzioni di Palestrina e Zagarolo, rocche forti dei colonnesi;
5°- Odio ed invidia implacabili del castellano Antonio Rido, aizzato dal suo
protettore Card. Scarampi, da Cosimo il Vecchio, da Renzo Colonna e sua fazione di
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Baroni romani. Era Antonio Rido un “bravaccio pronto a qualsiasi nefando delitto,
come lo descrive il GIOVIO: “vir militaris et ad omne patrandum facinus paratus,
quod commendatione Ludovici, ad eam praefectarum pervenisset”.6° L’animo pavido, mutevole, avido ed invidioso di Eugenio IV, conseziente alla
cattura, e cosa ancor più grave, alla successiva morte del Vitelleschi, sospettato - per
le diaboliche arti di Cosimo de’ Medici - di tramare contro la sicurezza dello Stato e
la persona stessa del Papa.
Ognuna di tali cause, sommariamente indicate, richiederebbe una particolare
trattazione. Mi limiterò a dire qualcosa della più importante: la prima, concernente
la tensione gravissima dei rapporti tra il Cardinale e Cosimo il Vecchio.
Il dissidio profondo tra i due potenti personaggi era sorto fin dal settembre 1434,
quando il Vitelleschi, incaricato dal Papa, aveva interposto i suoi buoni uffici presso
Rinaldo degli Albizzi, del quale, come riferisce il Macchiavelli, era “amicissimo” per
ottenere che Cosimo da qualche tempo esiliato a Venezia - potesse rientrare a
Firenze, previa promessa di pace, fra la fazione di Cosimo e quella di Rinaldo.
Accadde invece che, contrariamente ai patti solennemente convenuti davanti allo
stesso Pontefice, Cosimo, non appena rientrato in patria, si adoperò in tal modo,
presso la nuova Signoria, ligia ai suoi voleri, che Rinaldo quasi subito fu condannato
al bando, insieme con gli altri capi della sua patria, e dovette iniziare quella dolorosa
via dell’esilio, che terminò soltanto con la sua morte.
E’ facile immaginare come una sì grave e odiosa azione di malafede e
d’ingratitudine, non potesse mai venir dimenticata da un uomo della tempra di
Giovanni Vitelleschi. Ma oltre a tale risentimento profondo, di carattere personale,
l’avversione progressiva del Cardinale contro Cosimo, traeva origine dal piano
politico di voler attrarre Firenze nell’orbita politica della Santa Sede, col porre a
capo di quella Signoria, un uomo devoto, di cui il Papa potesse valersi, come di una
“longa manus”.
A tale scopo, più che l’odiato Cosimo - la cui crescente potenza cominciava a dar
ombra allo Stato ecclesiastico - avrebbe giovato meglio il conservatore Rinaldo degli
Albizzi, dal Vitelleschi molto apprezzato per elevati meriti intellettuali e morali.
Il Cardinale, che aveva studiato diritto romano nella celebre Università di Bologna allora centro d’irradiazione del movimento umanistico - aveva il culto della
romanità e della universalità di Roma, non solo come centro e faro di luce Cristiana,
ma come potenza politica unificatrice - specialmente delle varie regioni e città
d’Italia, sotto la suprema autorità del Romano Pontefice. Fu indubbiamente “guelfo”
81
ma illuminato da un’alta idealità politica unificatrice, ispirandosi ad antichi e
recenti esempi, tra i quali ultimi quelli forniti dal celebre Card. Albornoz e da Cola di
Rienzo, per il quale Manfredo Vitelleschi, antenato del Cardinale, e Priore di
Corneto nel 1346, si era valorosamente battuto alla testa delle milizie cornetane.
Però, mentre Cola, generoso utopista, sognava nuovamente Roma capitale del
mondo, il Cardinale-Condottiero - mentre più realistica e braccio militare del Papa la sognò e volle, almeno, capitale effettiva, ordinata e disciplinata degli Stati
Ecclesiastici.
Il GREGOROVIUS - storico non sospetto di simpatie ecclesiastiche - così scrive del
Vitelleschi: fu il primo uomo di Stato che intraprendesse a schiacciare i tiranni del
principato ecclesiastico”.Da qui il contrasto profondo, tra il Cardinale e Cosimo il Vecchio, accorto e larvato
tiranno di Firenze, il quale, forte della sua grande e sempre più crescente potenza
economica e quindi politica, tendeva a crearsi signore e padrone di Firenze e della
Toscana, per farne uno Stato mediceo, ereditario nei suoi discedenti.
Il Vogël (Vedi “De ecclesiis Recanatensi et Lauretana”) esprime questo giudizio su
Cosimo: - Per quanto riguarda Cosimo de’ Medici, esso era odiato dal Card.
Vitelleschi, perché uomo infido et ingrato”.L’episcopato fiorentino fu nelle mani del nostro Cardinale dal 12 Ottobre 1435 al 9
Agosto 1437, quando fu creato cardinale-prete di Lorenzo in Lucina. Quella nomina,
fu, forse un “promoveatur ut amoveatur” sia per il crescente timore di Cosimo e per
la sua malefica influenza nell’animo di Eugenio IV (questi dal 1434 era fuggito da
Roma ed erasi stabilito a Firenze, ove si sentiva più sicuro, ma venendo così a cadere
sotto la costante e diretta influenza di Cosimo) sia perché l’onda di odio e d’invidia
dei molti nemici (palesi ed occulti) del fiero Cardinale, dovette certamente agitarsi e
sollevarsi con violenza, dopo che il Patriarca-Condottiero aveva ricevuto, sull’alto
del venerando Campidoglio, gli onori del trionfo (12 Settembre 1436).
Il Vitelleschi perdette l’episcopato di Firenze, ma la voce pubblica, anzi la verace
“vox populi, vox Dei” lo aveva già battezzato e continuò a chiamarlo: - Cardinal
Fiorentino - fino alla morte. E quel fatale appellativo, che celava il germe d’una
tremenda sventura, rimase unito al nome del Cardinale fin nell’epigrafe famosa,
fatta incidere sulla di lui tomba, dalla riverente pietà dell’esimio nipote, Vescovo
Bartolomeo Vitelleschi; epigrafe tremenda, che suona e suonerà voce eterna di
protesta e di accusa nei secoli, contro coloro che si resero proditoriamente e
infamemente colpevoli dell’atroce morte di tanto uomo.
82
Ma per non prolungar troppo questa mia, bisogna ormai:
“Calar le vele e raccoglier le sarte”
come dice il venerato papà Dante!
In data 30 Aprile 1439 (attenzione a questa data) con Diploma in pergamena da me
rinvenuto nell’Archivio della mia Famiglia, il Cardinale viene inscritto alla
cittadinanza di Siena “... et etiam omnes illi de suis attinentibus et affinibus de
domo sua”. Dunque per sé e per tutti i suoi parenti.
Tale assunzione di cittadinanza senese, da parte di un uomo arrivato ormai ai fastigi
della potenza e della gloria, che peraltro, amava moltissimo la sua turrita Corneto ove aveva fatto innalzare un palazzo superbo, che era, è e sarà vanto artistico
imperituro dell’Italia - quale segreta causa aveva potuto motivarla? Che cosa
significava, che cosa poteva nascondere? Purtroppo il Cardinale doveva avere
perfettamente intuito che i suoi nemici, presso il Papa, stavano prendendo il
sopravvento, e che non godeva più dell’intera fiducia del Pontefice. Venuto in questo
dubbio, anzi convincimento (per il motivo che subito dirò) egli non doveva più
sentirsi sicuro, né a Corneto, né negli Stati della Chiesa e predispose per la salvezza
sua e dei suoi chiedendo preventiva ospitalità e protezione alla Repubblica di Siena,
tradizionale nemica di quella di Firenze.
Quando fu che il Cardinale cominciò a sentire che gli tremava la terra sotto i piedi,
cioè che il Papa era stato messo in sospetto contro di lui? C’è un documento
nell’Archivio Vaticano (Reg. 366 - fol. 357) che mi sembra rispondere
esaurientemente alla domanda. Intanto si faccia attenzione alla data di tale
documento; esso fu emesso dal Papa, da Firenze in data 7 Giugno 1439, e si riferisce
al “redde rationem” cui il Vitelleschi era stato in precedenza chiamato dal Pontefice,
per giustificare le ingenti spese militari occorse al Cardinale nelle sue molteplici
campagne di guerra. E’ interessante notare che nel preambolo del documento, anche
il Papa, conformandosi alla voce popolare, chiama il Vitelleschi “Cardinali
florentino”. Ne trascrivo le parti più interessanti: “Eugenius ecc. dilecto filio Iohanni
tt. Sancti Laurentii in Lucina presbitero Cardinali florentino vulgariter nuncupato,
ecc., e, dal testo si rileva che il Cardinale non solo era stato in grado di dare ampia
giustificazione delle ingenti somme spese, ma che era rimasto creditore, verso la
Camera Apostolica, delle rilevante somma di Ducati 79.91 e 8 Bolognini, della quale,
generosamente, aveva fatto dono al Papa. Questi per non mostrarsi insensibile a
tanto nobile gesto, conferisce al Vitelleschi una pensione supplementare di 1.000
fiorini d’oro al mese, per il periodo di DIECI ANNI... Troppo lungo per non essere
83
sospetto e per non far pensare - per i tragici fatti avvenuti a breve scadenza - che,
quando faceva quella promessa, il Papa avesse già preso “in pectore” gravi
determinazioni nei riguardi del suo favorito...Si faccia attenzione alla vicinanza delle date, quasi concomitanti quasi legate da
rapporto di causa ad effetto; quella dell’assunzione della cittadinanza senese da
parte del Cardinale e della sua famiglia (30 Aprile 1439) e l’altra anteriore, ma non
specificatamente indicata nel documento del 7 Giugno, con il quale il Papa si
riferisce al precedente invito al “redde rationem” finanziario...Due potenti nemici del Vitelleschi erano presso il Papa a Firenze divenuta ormai
quasi una seconda Avignone - Cosimo de’ Medici e Ludovico Scarampi, il nuovo
arcivescovo fiorentino.
Essi - in mancanza di altri elementi di accusa - è da presumere che avessero
insinuato, nell’animo mutevole e impressionabile di Eugenio IV, che il suo favorito,
anzi il suo “Cesare” come talvolta usava scherzosamente chiamarlo, fosse un
profittatore, che probabilmente destinava le somme Camerali per i suoi fini
personali, e ambiziosi, come fornivano al sospetto le ingenti spese che doveva
incontrare il Cardinale per la costruzione del suo magnifico palazzo in Corneto.
Il Vitelleschi, vedendo scossa nei suoi riguardi la fiducia del Papa, risponde
fieramente con la più ampia giustificazione contabile e, per di più, fa generoso dono
al Papa della somma ingente di cui era rimasto creditore. I suoi acerrimi nemici
erano stati, per il momento sconfitti, ma egli doveva sentire che la partita non era
chiusa; che l’animo del Papa era mutato nei suoi riguardi, e pensò di crearsi un
rifugio di scampo in terra di Siena.
Così stando le cose, il Vitelleschi, con la più grande energia, porta a compimento le
sue campagne di guerra e stringe d’assedio con rilevanti forze Foligno, antico feudo
della famiglia Trinci, amica di Cosimo de’ Medici, il quale di più in più si
sgomentava per il precipitare degli eventi militari. A Nord, le truppe del Duca di
Milano e di Niccolò Piccinino, tra le quali Rinaldo degli Albizzi alla testa di tutti i
fuoriusciti fiorentini; a Sud, Giovanni Vitelleschi, che stringe Foligno di formidabile
assedio; quella Foligno che era un capo-saldo a protezione di Firenze.
Narra Durante Dorio che “il 24 Luglio 1439, la Repubblica Fiorentina, come
affezionata a casa Trinci, et a Foligno, mandò due ambasciatori a detto Card. Legato
pregandolo a levar l’assedio della città di Foligno, ma il Cardinale rispose loro
francamente che mai l’averia levato, anzi che voleva levare ai Trinci tutto lo Stato”.
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Se la risposta del Cardinale fu vera, come non è da dubitare, anche perché
perfettamente conforme al suo fiero carattere, fu imprudente, perché rivolta al più
potente dei suoi nemici, il qual dovette sentirsene colpito come da una scudisciata in
piena faccia e da una specie di avviso premonitore, che la sorte di casa Trinci
sarebbe stata presto seguita da quella di casa Medici.
Il Papa viveva ormai a Firenze, quasi sotto la tutela di Cosimo, ed il Cardinale, ad
evitare gravi sospetti ed il mortale risentimento del suo pericoloso nemico, avrebbe
potuto prudentemente e politicamente rispondergli, ch’egli aveva iniziato l’assedio
di Foligno, d’ordine del Papa, e che soltanto il Papa aveva autorità d’intervenire per
fargli abbandonare l’impresa, giunta, peraltro, verso il suo epilogo.
Infatti, nel mese di Settembre 1439, il Cardinale riesce ad espugnare Foligno, e
manda prigioni, nella Rocca di Soriano, legati sopra ronzini condotti da Angelo
Vitelleschi, Corrado Trinci ed i suoi figli Niccolò e Ugolino, che poi, nel 1441, furono
fatti tutti e tre strangolare da Eugenio IV, (Vedi Durante Dorio - Storia di Casa
Trinci-)-.
D’altra parte la pressione del Vitelleschi, per staccare il Papa Cosimo, farlo rientrare
a Roma e aver mano libera a Firenze, aumenta sempre di più, ed è uno degli
elementi che presumibilmente insospettiscono molto il Papa, riempiendo di
sgomento il suo pavido animo.
Già con lettera del 26 Agosto 1439 (Vedi Pinzi - Lettere del Legato Vitelleschi ai
Priori di Viterbo) il Cardinale invita i Priori a spedire due ambasciatori al Papa, per
esortarlo a tornare a Roma.
Con altra lettera da Montoro, in data 16 Ottobre 1439, il Legato impone ai Viterbesi
la tratta di 400 rubbia di sale, per far fronte alle spese del ritorno del Papa a Roma
(Vedi Pinzi, op. citata).
Intanto, fra le truppe del Piccinino, avanzavano minacciosi i fuoriusciti” de quali lo
Stato che allora reggeva Firenze (cioè Cosimo) aveva un terrore grandissimo “come
scrive il Machiavelli, a pag. 33 delle sue Istorie Fiorentine” Vol. II°.
Non c’era più tempo da perdere. Bisognava sbrigarsi ad ottenere l’ordine di arresto e
cattura del Cardinale. Questa volta l’astuzia diabolica di Cosimo ebbe modo di
manifestarsi in pieno e di trionfare.
Bisognava creare, se non una prova “certa” il che era impossibile, almeno un
sospetto di colpevolezza e di tradimento da parte del Cardinale. Si inscenò, così
l’arresto di un corriere, presso Montepulciano (ad opera di “esploratori” di
Cosimo)... in possesso di lettere, diabolicamente scritte in cifra dirette al Piccino e
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attribuite al Card. Vitelleschi. “Mostrate al Papa dal magistrato preposto alla guerra”
(narra il Macchiavelli nelle sue precitate “istorie Fiorentine” Vol. II° pag. 45) benché
le fussero scritte con non consueti caratteri, e il senso di loro implicato in modo che
non se ne potesse trarre alcun specificato sentimento, nondimeno questa oscurità,
con la pratica del nemico, messe tanto sospetto nel Pontefice, che deliberò di
assicurarsene; e la cura di questa impresa ad Antonio Rido di Padova, il quale era
alla guardia del castello di Roma preposto, dette”.
Il castellano - creatura del Card. Ludovico Scarampi - Informato di quanto doveva
fare (e non era impresa facile), dovette prendere segreti accordi con il Comandante
la Cavalleria del Cardinale, Conte Everso dell’Anguillara, “potente canaglia” come lo
definisce bene un odierno scrittore, per aspettare l’occasione propizia alla cattura
del temuto Condottiero, che era in procinto di partire da Roma, alla testa dei suoi
quattro mila cavalli e duemila fanti, per dirigersi verso la Toscana, passando per
Tarquinia, sua patria prediletta. L’audace impresa, senza il tradimento del Conte
Everso, non sembra che sarebbe stata possibile.
Intanto, nelle ore d’attesa del felino castellano, l’angoscia e l’impazienza di Cosimo
aumentavano sempre di più.
Scrive Scipione Ammirato: - “Nel 1440, per consiglio di Cosimo fu mandato Luca
Pitti con lettere di credenza ad Antonio Rido, castellano di Castel Sant’Angelo, acciò
s’ingegnasse d’avere il patriarca vivo o morto nelle mani, e così venissero in quiete e
sicurezza della Sede Apostolica”.
Narra il Dasti (Storia di Corneto, pag. 136): - La sera del 18 Marzo 1440, il card.
Vitelleschi fa avvertire il Castellano di Castel Sant’Angelo, Antonio Rido, di recarsi la
mattina seguente sul ponte della fortezza per ricevere i suoi ordini”.
Povero Cardinale! Che glielo avesse detto che, inviando quell’ordine inviava,
implicitamente, la sua sentenza di morte! e quale morte...!
Lo spettacolare agguato, nella sua raffinata perfidia, volle avere anche il significato
di una suprema beffa (propria al carattere dei tempi e particolarmente a quello di
Cosimo de’ Medici) perché - come narra Machiavelli - “.... il patriarca in un tratto si
trovò, da comandatore di eserciti, progione di un castellano”. E tale atrocissima
beffa deve essere stata il dolore più cocente che abbia straziato l’animo dell’infelice
Cardinale, nella sua lenta agonia, fatta bestialmente durare quattordici giorni!!In genere, le circostanza in cui il fatto, o meglio il grande misfatto avvenne, sono
state così tramandate:
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Il Cardinale, avendo saputo che Francesco Sforza era entrato a Rimini, aveva
raccolto con tutta celerità il suo esercito, forte di quattromila cavalli e duemila fanti,
per avviarsi verso la Toscana, passando da Corneto. La mattina del 19 Marzo egli si
decise a partire: una forte schiera di fanti lo precedeva, e un’altra di cavalleria, sotto
gli ordini del Conte Everso dell’Anguillara, lo seguiva, in modo che egli, con
pochissimi familiari e col suo scudiero. Pier Gian Paolo Sacchi, veniva a trovarsi in
mezzo fra le due schiere.
A piè del ponte, fattoglisi incontro Antonio Rido, ossequioso e riverente, lo trattenne
in discorsi, fino a che le milizie che lo precedevano furono passate. Allora
d’improvviso, senza che il Cardinale di nulla potesse accorgersi, venne sbarrata la
porta del Castello dalla parte di Borgo, cadde la saracinesca, una catena venne a
chiudere il ponte, e i soldati del Rido, armati, uscirono fuori scagliandosi contro il
Vitelleschi.
L’animoso Patriarca, rendendosi conto - troppo tardi - dell’agguato in cui era
caduto, trasse la spada, cercando di tener lontani i suoi aggressori; mentre il Sacchi,
che gli era vicino, gridava alle milizie che venissero in aiuto. Ne successe una
mischia tremenda, ed il Cardinale, ferito in più parti del corpo, venne trascinato
dentro il Castello.
Fu allora (dico, soltanto allora) che le milizie a cavallo, comandate dal Conte Everso,
si avanzarono minacciose fin sotto il Castello, per tentare un assalto; ma il Rido, dai
merli, seppe calmare il tumulto, mostrando loro un ordine papale, di carcerazione,
di cui i soldati non poterono indagare la verità, cosicché dovettero tornare indietro,
dirigendosi col loro comandante, verso Ronciglione.
Due settimane dopo, cioè il 2 Aprile 1440, l’infelice Cardinale era cadavere.
In tale spettacolare e del tutto inusitato agguato, compiuto non di notte, ma di
giorno, in pieno sole mattutino romano, contro un Capo, supremo di esercito, nel
bel mezzo delle sue schiere a piedi e a cavallo, l’attitudine del Conte Everso,
comandante la cavalleria - che doveva guardare le spalle del Cardinale e che invece
rimase insensibile e impassibile, nonostante le disperate grida di soccorso, lanciate
dallo scudiero Gian Paolo Sacchi, non può non impressionare sfavorevolmente; non
può non essere severamente giudicata; anzi, dirò di più: essa dà adito al fondato
sospetto (anche per le cose che dirò appresso) di uno dei più neri tradimenti che la
storia ricordi.
Dai diaristi del tempo si rileva che l’Anguillara avanzò con la cavalleria soltanto
quando il Cardinale, disarcionato e ferito in più parti del corpo, per la strenua sua
87
difesa, fu trascinato e chiuso in Castel Sant’Angelo. Sicché il Conte Everso, alla testa
di 4.000 cavalleggeri in assetto di guerra, si fece “soffiare” proprio sotto il naso, il
suo Capo, dai pochi scherani del Rido, balzati d’improvviso sul ponte; egli
indubbiamente valoroso e sperimento uomo d’armi, fiancheggiato dalle famose
“lance spezzate” del Cardinale, non ebbe uno slancio neanche al cozzare della spada
del suo Capo, contro le alabarde e le ronche dei quattro soldati del Castellano.
La delittuosa passività dell’Anguillara, da quali cause traeva origine? Sta di fatto
che, da molto tempo, i rapporti fra il patriarca ed il Condottiero, erano
particolarmente tesi per atti d’indisciplina e di prepotenza, compiuti dal
comandante la cavalleria del Cardinale.
La interessantissima raccolta delle lettere del Legato Vitelleschi ai Priori di Viterbo
(purtroppo da me smarrita nelle vicende della mia randagia vita da Console) offre la
prova palmare dei contrasti esistenti tra il Legato e l’Anguillara. Ne riporterò alcuni
estratti:
19 marzo 1438 - lettera da Ferrara. Il Legato deplora le rappresaglia del Conte
Everso;
18 Xmbre “ - Ordina che siano trattati con rigore quei sudditi del Conte, che
ricusassero di pagare la tratta del sale.
22
“
“ - Comanda che qualunque vassallo del conte Everso esca dalla porta di
Viterbo, sia sottoposto alla tassa di 2 Bolognini (moneta bolognese del
valore di 20 centesimi).
2 Gennaio 1439 - Chiede ai Priori di Viterbo che gli mandino due ambasciatori, per
spianare le cose col Cte. Everso.
E vengo a due altre notizie, che mi hanno dato molto da pensare e da dubitare; la
prima, estratta dall’Archivio Vaticano, e la seconda da quello Capitolino. Ecco la
prima:
- 6 Maggio 1440 - Il Card. Ludovico Scarampi riceve da Everso dell’Anguillara, già
capitano del Vitelleschi, tutto ciò che aveva appartenuto all’esercito del Cardinale,
rilascindogliene quietanza. (Vedi Arch. Vatic. Arm. XXXIV. Cod. IC LXXIIII A)
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L’unione - apparentemente occasionale - dei due nomi: Anguillara e Scarampi,
sopra un documento del genere, dopo la grande tragedia accaduta, e specialmente,
dopo l’inspiegabile, passivo contegno tenuto dal Conte al momento della cattura del
patriarca, mi sembra tristamente rivelatrice di una precedente “unione” delle
volontà dei due uomini senza scrupoli, diretta alla violenta soppressione dell’odiato
favorito del Papa.
Alla lettura di quel triste documento, mi balzarono in mente le famose parole di S.
Matteo: - Et diviserunt vestimenta ejus!Ma se il Papa riuscì a conservare gli arnesi di guerra del Vitelleschi, non riuscì
(almeno per quanto io sappia) a conservarne l’esercito, che, con la tragica
scomparsa del suo Capo “animoso” (come lo definisce il Macchiavelli), perdette ogni
volontà e disciplina di coesione, ed ogni spirito di combattività.
Cade qui acconcio ricordare come il Vitelleschi fu il primo Comandante di miliziei
pontificie, che riuscì a trasformare le bande irregolari “in un primo nucleo di
esercito regolare pontificio,” composto di 4000 cavalli (le famose lance spezzate) e
di 2.000 fanti.
Un giorno giunse perfino a prescrivere una specie di coscrizione obbligatoria,
prelevando un uomo per ogni casa di Roma.
Ma è tempo di passare alla seconda notizia, estratta dall’Archivio Capitolino:
“Eugenio IV, con Bolla del 21 Luglio 1440, confermò la vendita di Vico e Caprarola
fatta dal Vitelleschi al Conte Everso per il prezzo di 7375 fiorino d’oro (Arch.
Capitolino - Istromenti della famiglia Anguillara. Tom 65. Cred. XIV).
E’ questo un documento che comprova - indubbiamente - un atto di benevolenza del
papa verso l’Anguillara, compiuto dopo pochissimo tempo dal famigerato agguato di
Ponte S. Angelo, e mi sembra che abbia tutto il carattere di un atto di ricompensa
“indiretta”, più che di benevolenza....!
Quando mai il Papa si sarebbe indotto a confermare la validità di un atto compiuto
dall’uomo di cui ormai detestava la memoria, fino a tentare di perseguitarne il
cadavere; che aveva lasciato languire e morire nella più orrida prigione di Castel
Sant’Angelo (chiamaro S. Marocco); se non fosse stato spinto, anzi obbligato da
grave e imperioso motivo di ricompensare (in un modo, peraltro, che non gli costava
nulla) il “prode” comandante delle “lance spezzate” pontificie, per qualche grosso
servizio resogli?
La storia, certo non si può fare a forza di supposizioni, ma quando queste sono
corroborate da un complesso di seri elementi di prova, quali io ho potuto raccogliere
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a carico dell’Anguillara, mi sembra che abbiano il loro peso e che non possano
respingersi di leggieri.
La morte del Cardinale
Scipione Ammorato, nelle sue “Istorie Fiorentine” narra che il Patriarca fu ucciso da
Luca Pitti” il quale gli percosse la testa con la mano mentre fingeva di medicargli la
ferita riportata al momento della cattura”.
La notizia mi sembra molto attendibile. Infatti è da ricordare che il Pitti Gonfaloniere di Giustizia di Cosimo il Vecchio - era stato da questi, come si è detto
più sopra, inviato al Rido, per sollecitarlo, ad effettuare la cattura e la morte del
tanto temuto nemico, e che quindi nel dare il colpo di grazia al povero Cardinale,
egli avrà ritenuto di esercitare doverosamente con la massima diligenza - le sue
specifiche funzioni di giustiziere della... giustizia medicea!
Dal manoscritto Falzacappa, che riporta il Diario di Stefano Caffaro (Biblioteca
Casanatense), rilevasi quanto appresso:
“ 2 Aprile 1440 - Anno ut supra et die 2da mensis Aprilis, in die sabati, per horam
unam ante diem, obiit Dominus Patriarca antedictus ed sepultus fuiti in Minerba”.
Feroce ironia della sorte....! Colui che aveva dominato Roma da signore assoluto,
che aveva ricondotto alla soggezione i superbi e prepotenti baroni romani e della
provincia; che aveva avuto onori degni di re e imperatori, “vituperoso fu di notte
portato a S. Maria in giupetto, scalzo e senza brache”.
Da quel momento cominciò un’altra congiura: quella del silenzio o delle menzogne,
che ha perseguitato l’infelice Cardinale oltre la tomba, allo scopo di farlo
dimenticare o d’infamarne la memoria, specialmente per cercare di “coprire” la
tremenda responsabilità dei “mandanti” di tanto odioso misfatto.
Il Gregorovius (Storia di Roma, Vol. III, pag. 727) afferma che: “Eugenio consentì
che il suo favorito fosse carcerato, e simulò l’ignoranza della cattura del suo
ministro.”
Ora, chi abbia studiato con una certa serietà, la storia del Card. Vitelleschi, non può
che aderire, in pieno, al giudizio del non sospetto storico tedesco.
Due personaggi, degni di fede, Niccolò Macchiavelli e Gian Paolo Sacchi, scudiero
fedelissimo del Cardinale, lasciarono scritto: il primo: “.... di tutte le imprese che il
Papa in Toscana, in Romagna, nel Regno e a Roma fece, ne fu capitano (Vitelleschi),
onde che prese tanta autorità nelle genti e nel Papa, che questo temeva a
90
comandargli, e le genti a lui solo e non ad altri ubbidivano.” (Ist. Fior. Vol. II pag.
44)
Scrisse il secondo: “Essendo per mezzo del reverendissimo patriarca restituita Roma
e tutte le terre della Chiesa alla devozione e obedentia de la Sede Apostolica, Papa
Eugenio attendeva di tornare a Roma e temeva di tanta grandezza del patriarca suo
legato. Temendo e immaginandosi di non potersi esser superiore di forze in Roma,
pensò di farlo mal capitare.”
Negli ultimi tempi, lo stato d’animo del papa verso il Vitelleschi poteva riassumersi
in due parole: timore ed invidia. Quello che oggi si qualificherebbe un vero e proprio
“complesso d’inferiorità”.
Io, nella mia pochezza, ma con un senso di serena obiettività, posso comprendere e
scusare il Papa - tratto in inganno dalle diaboliche arti degli implacabili nemici del
Cardinale - provvedesse alla cattura di chi, per tanti anni era stato il suo valoroso
braccio destro.
Quel che non posso comprendere né scusare si è che, evitando qualsiasi forma
d’indagine e d’inchiesta sulle colpe attribuite al Vitelleschi, lo lasciasse languire, per
ben quattordici giorni - peggio di un cane ferito - sotto le tetre volte di Castel
Sant’Angelo.
Ciò dimostra un animo veramente feroce, chiuso ad ogni sentimento di cristiana
carità ed anche di semplice umanità.
Come se ciò non bastasse, il Pontefice si rese responsabile di altri gravi ed odiosi
fatti, che seguirono immediatamente la morte del Legato: la persecuzione di tutti i
parenti del Cardinale, che si videro costretti a rinchiudersi e a difendersi nella Rocca
di Civitavecchia, di cui era castellano Pietro Vitelleschi;
la persecuzione di cui fece oggetto il pio Vescovo Bartolomeo Vitelleschi, fieramente
e degnamente incrollabile nel rifiuto di consegnare al Pontefice il cadavere dello zio;
l’avida ed affannosa ricerca dei beni del defunto, di cui il Papa reclamava il possesso
“ex testamento et alia ratione”...
Il 6 Maggio 1440, per ordine del Papa, il Cardinale Scarampi cinse d’assedio la
Rocca di Civitavecchia, ove si era rinchiuso Pietro Vitelleschi insieme con molti suoi
parenti e una parte delle ricchezze di famiglia. Dopo strenua resistenza, il Castellano
si decise a venire ad un accordo col Papa, ed a restituire la Rocca, a patto che gli
venissero pagati 3000 ducati a saldo del suo ufficio di castellano, e che fosse lasciato
tranquillo nel possesso dei beni che il Cardinale aveva avuto in Corneto dal
patrimonio paterno.
91
Si noti il “distiguo” che Pietro era riuscito ad escogitare e conseguire, tra i beni di
eredità paterna del Cardinale e quelli provenienti dalla sua attività professionale,
che abbandonava alla cupidigia del Pontefice.
Secondo il Della Tuccia, diarista, il Cardinale avrebbe fatto testamento “durante la
prigionia”... lasciando 214.000 mila fiorini d’oro al Papa; 200 fiorini alla Chiesa di
S. Maria della Minerva (dove il cadavere fu seppellito) e 200 fiorini alla cattedrale di
Corneto.
Ho la personale impressione che tali cifre siano rigorosamente esatte; infatti la
somma non “rotonda” ma frazionata, di 214.000 fiorini, sta ad indicare il conteggio,
fino all’ultimo fiorino, del tesoro personale del Cardinale, che certamente fu rimesso
al Papa, in base ai patti contenuti tra Pietro Vitelleschi e il Card. Scarampi a
Civitavecchia, ed i due lasciti alle Chiese di Roma e Corneto sono perfettamente
giustificabili, per evidenti ragioni di tumulazione di cadavere, in Roma, e di omaggio
alla Chiesa madre di Corneto!
Mi sembra dunque aver raggiunto la prova, fornita sia dalle parole stesse del Papa,
con suo Breve in data 11 Aprile 1440, diretto ai Priori di Corneto (per la ricerca ed
inventario dei beni del Cardinale) sia dalle precise notizie del diarista Della Tuccia,
sia infine, dai patti convenuti tra Pietro Vitelleschi e il Card. Scarampi, che un
testamento, a favore del Papa, fu fatto firmare a Giovanni Vitelleschi. Ma in quali
terribili condizioni? Io non esito a dichiarare il mio personale, profondo
convincimento, che il Cardinale, ferito, più o meno gravemente, in più parti del
corpo, fu lasciato, espressamente, alcun tempo in vita, sia per carpirgli, tra i
tormenti; o mendaci promesse di libertà, il testamento in favore del Papa, sia nel
vano tentativo di fargli confessare presunti segreti contro la sicurezza dello Stato e
del Pontefice, inventati diabolicamente dai suoi nemici.
Un’altra vittima di Antonio Rido, ma non fino alla morte, fu il fedele scudiero del
Patriarca, nonché suo parente, Gian Paolo Sacchi. Egli, nei suoi interessantissimi
“Ricordi” il cui manoscritto originale si conserva in Viterbo, presso il Conte
Pagliacci-Sacchi, così narra della sua prigionia in Castel S. Angelo:
“Fui sottoposto a crudeli tormenti affinché rivelassi i negotii, le scripture et denari
di esso Patriarca”.
E poiché nulla si riuscì a tirargli di bocca, finalmente, dopo otto mesi di prigionia, gli
si fece sapere che se voleva aver salva la testa doveva pagare una taglia di 12.000
ducati di Camera. Non potendo pagare quella forte somma, chiese la morte. Allora si
ridusse la taglia a 8.000 ducati, e in pochi giorni, “per uscir di bocca di lupi” fu
92
costretto a vendere tutto quel che possedeva a Corneto e a Viterbo” per manco del
mezzo del valore”, e il 2 Novembre 1440 poté uscir “di mano di Faraone più morto
che vivo, misero et mendico”.
Quando Eugenio IV morì in Roma, il 22 Febbraio 1447, Gian Paolo Sacchi, nel suo
precitato manoscritto di “Ricordi” fece il seguente commento, che mi ha sempre
impressionato profondamente, per il suo contenuto di calma e solenne rampogna,
mitigata da un profondo sentimento di pietà cristiana:
“Addì 22 Febbraio morì Papa Eugenio IV. Vada che Dio li perdoni i suoi peccati e
tanta ingratitudine usata contro quelli che lo sollevarono et exaltarono, dove era in
stato abjecto et fugitivo”.
Alludeva alla fuga poco decorosa di Eugenio IV, la notte del 4 Giugno 1434,
travestito da frate benedettino, disteso nel fondo di una barca, a Ripagrande, sul
Tevere, mentre il popolo sollevatosi, lo faceva oggetto di nutrita sassaiola. Il Papa
raggiunse Ostia, salvandosi sopra un veliero, che gli era stato predisposto dal
Vitelleschi...
Quanto al pio e coraggioso Vescovo Bartolomeo Vitelleschi, rilevo, dalle Cronache
Cornetane del Polidori, che il 17 Marzo 1438 fu provvisto del vescovado della patria,
per cessione di Valentino, come si vede dalle liste registrate negli annali del 1438.
Ma nel 1440 ne fu privato, per la resistenza fatta al Papa, non volendo consegnare le
spoglie del Card. Vitelleschi, suo zio. Egli, che appena udita la morte dello zio, si era
rifugiato a Civitavecchia, allorché apprese che il legato Scarampi si avvicinava col
suo esercito, cercò, per via di mare, di mettersi in salvo e di raggiungere poi Siena (il
cui luogo di salvezza e di scampo, era stato saviamente predisposto dal Patriarca,
come più sopra ho narrato). E riuscì a portare con sè “denaro e roba assai”. Citato a
comparire davanti al Pontefice e deposto dal suo vescovado, Bartolomeo si appellò
al Concilio scismatico di Basilea, e si recò presso l’antipapa Felice V, il quale gli
restituì la dignità episcopale e lo creò cardinale di S. Marco, grado che tenne fino
alla morte di Eugenio IV (Vedi Ciacconio. Vitae et res gestae pontificum romanorum
et S.R.E. Cardinalium. Vol. II, pag. 946-947).
Terminato lo scisma e salito alla cattedra pontificia Niccolò V, Bartolomeo
Vitelleschi fece atto di sottomissione, rinunciando al titolo cardinalizio e venne
restituito alla sua Chiesa di Corneto e Montefiascone.
Soltanto dopo la morte di Eugenio IV fu possibile a Bartolomeo di trasportare a
Corneto le venerate spoglie dello zio, ciò che avvenne con Breve di autorizzazione
del nuovo Pontefice, Niccolò V, rilasciato in data 1 Aprile 1452.
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Perché Eugenio IV si era tanto accanito nel tentativo d’impossessarsi della salma del
suo legato? Per dispederla, e per evitare che un monumento fosse, eventualmente,
eretto, con relativa epigrafe sepolcrale, che forse avrebbe potuto ricordare cose non
lusinghiere, circa le cause e i responsabili della tragica morte del Patriarca.
Insomma, l’animo pavido del Papa, ebbe paura del Vitelleschi quando era vivo; e ne
ebbe paura ancor più quando fu morto.... Si vede proprio che non aveva la coscienza
a posto...!
Naturalmente, accadde proprio quello che Eugenio IV aveva temuto che accadesse:
giunta la salma a Corneto, il devoto e non immemore nipote, eresse in memoria del
suo grande zio, un magnifico monumento, di cui oggi non rimane purtroppo che la
sola epigrafe, del seguente tenore:
REVERENDISSIMO DOMINO
JOANNI DE VITELLESCHIS DE CORNETO
PATRIARCHAE ALEXANDRINO
CARDINAL FLORENTINO
BARTOLOMEUS EPISCOPUS CORNETANUS
NEPOS
IN POSTERIATIS MEMORIAM
____________________
QUANDO EGO PRO PATRIA, PRO MAIESTATE REPRESSI PONTEFICIS
FURIAS BELLORUM HOSTEQUE SUBEGI ECCLESIAE, NOSTRIS QUAE
FLORUIT AUCTA SUB ARMIS. RESTITUI RES EFFUSAS, URBESQUE
DECUSQUE, INVIDIT SORS ATRA MIHI, MAGIS AEMULA VIRTUS IMMERITAM
STATUENS NON AEQUO MUNERE MORTEM.
___________________
L’infelice Cardinale non ebbe pace neanche dopo morto, perché nel 1642, un
incendio distrusse gran parte della Cattedrale e con essa andò disperso anche il
monumento elevato al Cardinale.
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L’opera d’arte pregevolissima andò distrutta, ma rimase l’epigrafe, cioè
rimase la voce del morto; quella voce di cui Eugenio IV aveva avuto il
presentimento minaccioso, nella fiera resistenza del nipote Bartolomeo a non voler
consegnare la salma dello zio.
L’epigrafe si compone di una prima e di una seconda parte; la prima,
chiarissima, non presenta alcuna difficoltà di traduzione, perché si riferisce alla
dedica del monumento a Giovanni Vitelleschi, da parte del nipote Bartolomeo; la
seconda, importantissima, perché in essa il Vescovo Bartolomeo fa altamente,
seriamente e minacciosamente parlare la voce del defunto, presenta difficoltà di
traduzione, specialmente nell’ultima parte, di carattere necessariamente allusivo e
metaforico, per non rendere troppo facilmente individuabile l’accusa del morto.
Io, specialmente quando ero in Italia, ricordo di aver letto diversi testi di
traduzio della FAMOSA LAPIDE, ma nessuno di essi seppe convincermi, tanto che
venni nel sospetto che traduttori, faziosamente interessati, avessero messo in
circolazione traduzione inesatte, per rendere volutamente oscura ed incerta, la
chiara allusione e terribile accusa contenuta nell’ultima parte dell’epigrafe.
Scrivo qui di seguito la traduzione di quella che il Vescovo Bartolomeo volle
che fosse e restasse nei secoli, la voce del morto:
QUANDO IO PER LA PATRIA, PER LA MAESTA’
DEL PONTEFICE REPRESSI IL FURORE DELLE GUERRE,
SOTTOMISI I NEMICI DELLA CHIESA, CHE FIORI’ PIU’ GRANDE
SOTTO LE NOSTRE ARMI, RIPRISTINAI LE DISPERSE COSE,
LE CITTÀ’ E LA GLORIA, UN DESTINO ATROCE, MA PIU’ANCORA
UN EMULO POSSENTE EBBE DI ME INVIDIA STATUENDO, COME
INIQUO COMPENSO, IMMERITATA MORTEM
Tutta la forza della frase allusiva e allegorica sta nelle parole:
UN EMULO POSSENTE EBBE DI ME INVIDIA, STATUENDO, COME
INIQUO COMPENSO, IMMERITATA
MORTE -.
Cosa dicono invece le traduzioni antiche, sulle quali si sono modellate quelle
moderne?
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- UN EMULO POSSENTE N’EBBE INVIDIA, E MI DANNARONO A
INGIUSTA, IMMERITATA MORTE-.
No, quest’ultima traduzione non solo non è fedele, ma cerca di ottenebrare e
attenuare le responsabilità.
Grida la voce del morto - AEMULA VIRTUS IMMERITAM STATUENS NON
AEQUO MUNERE MORTEM - Il che in parole povere significa che un rivale
potente, per tutta ricompensa di tanti grandi servizi resi, mi condannò a
immeritata morte. Qui sta il “puntum saliens” dell’allusione e dell’accusa.
La punta contenuta “sotto il velame degli versi strani” contro chi era rivolta?
A chi alludeva, a chi pensava Bartolomeo Vitelleschi, quando fece incidere nel
marmo quelle terribili parole “IN POSTERITATIS MEMORIAM”? D’altra parte, chi poteva avere la somma e legittima autorità di stabilire un
compenso, per tanti grandi servizi resi dal Vitelleschi, e finalmente, per inaudita
ferocia e nerissima ingratitudine, chi aveva la potestà di statuire che tale compenso
dovesse consistere nella morte?
Per me, e credo anche per il pio Vescovo Bartolomeo, di venerata memoria,
l’allusione e l’accusa non potevano colpire che una persona: il Papa.
Gli antichi traduttori partigiani, per cercar di non scoprire la responsabilità
papale, fecero una traduzione “Ad usum Delphini” che è il testo consacrato nel
tempo, fino ai nostri giorni, e che fa parte della congiura di menzogne, ordita anche
“post mortem” contro l’infelice Cardinale; allo scopo di nascondere o mascherare i
veri autori - quali mandanti - del truce misfatto, fino ad imbrogliare la traduzione
dell’epigrafe sepolcrale....!
I congiurati, certo, interessati direttamente a non esporre la loro e la
responsabilità di Eugenio IV, persuasero il Rido a dichiararsi unico e solo
responsabile della cattura del Patriarca, come risulta dalla lettera da lui inviata alla
Signoria di Firenze, lo stesso giorno della cattura.
E dovranno averlo assicurato, non solo di non temere alcuna punizione
papale, ma che non gli sarebbero mancati futuri favori e munifiche ricompense,
come infatti avvenne.
Antonio Rido, autore confesso della cattura arbitraria di un Cardinale di
Santa Romana Chiesa, Legato del Papa e Comandante supremo dell’esercito
pontificio, incorse soltanto (pro forma) in una irrisoria “censura” papale, da cui
presto fu assolto - insieme con i suoi familiari e soldati - con Breve del 1 Marzo 1441,
a meno di un anno di distanza dal tragico evento. Successivamente il Rido fu
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ricolmato, dal Papa, di onori e favori, che per brevità non starò ad enumerare. Mi
limito soltanto a trascriverne la motivazione: In riconoscenza dei grandi servizi resi
alla Santa Sede-.
Morì il Rido nel 1450, e il figlio, Giovan Francesco, eresse al padre un
monumento di puro stile quattrocentesco, che si ammira tutt’oggi nel vestibolo
laterale a destra nella Chiesa di S. Francesca Romana, in Roma.
Il famigerato castellano è in posa da imperatore romano, sopra il suo cavallo
focoso, con la zampa anteriore rampante, simile a quello di Marc’Aurelio... - Strana
ironia della sorte!! Il Vitelleschi aveva avuto decretata dal Senato Romano, una
statua equestre con l’iscrizione:
JOHANNI VITELLESCO PATRIARCAE ALEXANDRINO TERTIO A ROMULO
ROMANAE URBIS PARENTI, - ma la decisione senatoriale rimase lettera morta.
Più fortunato fu dunque il Rido - materiale esecutore del delitto e carnefice del
Cardinale - che, per la pietà del figlio fu eternato nel marmo, all’ombra della
suggestiva Chiesa di S. Francesca Romana! “Sunt lacrymae rerum...” non posso fare
a meno di commentare! E aggiungo che ho sempre avuto il dubbio che il
monumento equestre, innalzato al Rido, fosse un’affermazione di soddisfatta
invidia, contro la deliberazione, non realizzata, del Senato Romano, in omaggio al
Cardinale.
Ma il congiurato che, più d’ogni altro dovette emettere un profondo sospiro di
sollievo, all’annuncio della morte del Patriarca, fu certamente Cosimo de’ Medici.
Ormai poteva dormire i suoi sonni tranquilli: la spada del Cardinale non pendeva
più sulla sua testa!
Non sono lontano dal credere che se il Vitelleschi fosse rimasto in vita, la famiglia
dei Medici - molto probabilmente - avrebbe seguito la stessa sorte della famiglia dei
Trinci di Foligno. E quale diverso seguito avrebbero avuto le vicende politiche
dell’Italia.
Un fatto certo è questo: che con la scomparsa del Patriarca non ebbe più freno
l’incremento politico ed economico di Cosimo il Vecchio Padre della patria - e
pertanto posso concludere dicendo che le fortune di Casa Medici, furono innalzate
sulle sfortune di Casa Vitelleschi.
La massima “Mors tua vita mea” pare che fosse - anche a detta del Macchiavelli strettamente collegata alle vicende storiche fiorentine.
Se finora ha rattristato il mio animo, parlando di tante nequizie, voglio consolarlo e
con il mio anche quello del benevolo lettore, ricordando un gesto coraggioso e
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nobilissimo compiuto dalla Repubblica di Siena, allo scopo di salvare la vita del
Cardinale, in stretta relazione al fatto della cittadinanza senese, assunta dal
Cardinale pochi mesi prima, come più sopra ho detto, lascio la parola al Vogel: (De
ecclesiis Recanatensi, ecc.)
“I Senesi, il 30 Marzo 1440, inviano ad Eugenio IV, Leonardo Benevolenti
Benevolentium, pregandolo fosse scarcerato il loro cittadino e protore Giovanni
Vitelleschi. Rispose Ludovico Scarampi affermando con giuramento, che il cardinale
era stato carcerato a insaputa del Pontefice”.
Risposta più che ipocrita e più stupida di questa non si poteva dare!
Sicché, dato e non concesso che il Cardinale fosse stato carcerato ad insaputa del
Papa, ciò esonerava costui dalla potestà e lo impediva ad intervenire per liberare il
suo Legato, fatto arbitrariamente prigioniero!
In questa ridicola risposta, non so se sia più grande l’impudenza o la scemenza.
Le parole dello Scarampi furono subito confermate da quelle scritte del Papa, il
quale, il giorno 3 Aprile 1440, cioè successivo alla morte del Vitelleschi, spedisce un
Breve ai Cornetani, in cui asserisce che la cattura del Legato si doveva attribuire agli
odii occulti “simultates”, esistenti tra lui e il Castellano. Altre sbalorditive
dichiarazioni fece il Pontefice - che si vede non sapeva più che pesci pigliare nell’allocuzione pronunciata l’11 Aprile 1440 agli Ambasciatori Viterbesi, mandati a
lui per ottenere il perdono di alcuni, sollevatisi all’annuncio della morte del
Cardinale. Gli Ambasciatori, di ritorno a Viterbo, riferirono che il Papa, parlando “a
caso” di quella cattura, assicurò con fermezza che egli ignorava il fatto, derivato “ex
inimicitia quam cum Castellano castri S. Angeli minime justa gerebat”. Parole
queste gravissime, che impegnano terribilmente la responsabilità e la connivenza
del Pontefice nel delitto, perché con esse egli tenta di scusare l’eccesso a cui il Rido
si era lasciato indurre, affermando “ingiusta” l’inimicizia del Vitelleschi verso il
Castellano! (Vedi Dasti - Memorie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto,
pag. 454 e Relazione degli Ambasciatori Viterbesi - Reformationes Vol. VII - fol.
105).
Dunque, il generoso e umanissimo intervento della Repubblica Senese a favore del
suo “cittadino e protettore Giovanni Vitelleschi” non solo fu vano, ma certamente
deve aver provocato l’immediata partenza, a briglia sciolta, di un altro corriere per il
Rido, con l’ingiunzione di non frapporre ulteriori indugi alla morte del prigioniero.
E Luca Pitti, il Gonfaloniere di Giustizia medicea, nelle ore antelucane del 2 Aprile
1440 (l’intervento degli Ambasciatori presso il Papa a Firenze era avvenuto il 30
98
Marzo) assestava con la migliore sua diligenza sulla testa del “TERZO PADRE DI
ROMA DOPO ROMOLO” il definitivo colpo di grazia!
Ma il nobile intervento della Repubblica Senese non fu del tutto inutile: esso valse,
se non altro, ad abbreviare e a stroncare le terribili sofferenze, materiali e morali del
prigioniero!
Ho vuotato il sacco del mio modesto sapere, e da questa lontana terra straniera, per
mezzo di questi tenui fogli di carta velina, a Lei trasmetto, Sig. Santiloni, e come
Tarquiniese, e come uno dei pochissimi, che hanno saputo rompere la congiura del
silenzio o delle menzogne, sia per lasciar nell’oblio, sia per infamare la memoria di
uno schietto Italiano, che molto fece per la Patria e per Tarquinia.
Purtroppo il Card. Vitelleschi ha avuto quasi sempre una cattiva stampa, tanto se
visto “da sinistra” quanto se visto “da destra”.
Nel primo caso, perché sotto la sua corazza di condottiero, c’era la sua sottana di
prete; nel secondo, perché se ci fosse indagato sul vero responsabile della sua morte,
sarebbe balzata fuori la colpevolezza “in facere aut non facere” di Papa Eugenio IV.
Anche la solenne ENCICLOPEDIA TRECCANI, non ha mancato di lanciare la sua
pietra contro il Cardinale - Condottiero, definendolo una “selvaggia figura di
condottiero”-.
Una “selvaggia figura” dunque, discendente da antica famiglia patrizia, studioso di
diritto romano, Vescovo di Recanati, Arcivescovo di Firenze, Cardinale prete di S.
Lorenzo in Lucina e che, finalmente, con rara sensibilità artistica - per esser uomo
più di spada che di pastorale seppe nella sua amatissima Tarquinia, innalzare un
palazzo che oggi è una fulgida testimonianza dell’arte ogivale italiana, e oggetto di
costante ammirazione del pensoso turista, nazionale e straniero.
Credo che di tali “selvagge figure” sarebbe stato augurabile averne un maggior
numero, se non altro, per il maggior vantaggio artistico e per il grande decoro della
patria nostra.
Ma tralasciando ogni spirito polemico, mi limiterò ad osservare, per la verità, che ad
agire con implacabile e spesso atroce giustizia, il Cardinale fu spinto non solo dalla
durezza dei tempi in cui visse, ma dalle inequivocabili direttive dello stesso
Pontefice.
Scrive infatti il Dasti (Op. cit. pag. 240)
“Il dì 8 Maggio 1431 Eugenio IV costituisce Giovanni Vitelleschi Commissario
dell’esercito della Chiesa, istigandolo a giustissima vendetta contro i ribelli nemici
della Chiesa”.
99
Potrei fornire, inoltre, non poche prove dell’animo magnanimo e profondamente
religioso di Giovanni Vitelleschi: me ne astengo per non dilungarmi oltre.
In questa mia solitudine di “emigrato” mi è caro pensare, talvolta, che il dolorante
spirito del Cardinale - chiedente giustizia - aleggerà spesso per le ampie sale del suo
bel palazzo Tarquiniese, le cui scale, quando ritornava polveroso dalle sue frequenti
campagne di guerra, usava salire a cavallo.
Dopo si lungo corso di secoli, sarebbe tempo, ormai, che si procedesse ad una
doverosa rivendicazione della buona memoria di tanto uomo, non per spirito
campanilistico, o per effimero orgoglio familiare, ma soltanto in omaggio alla
sacrosanta verità storica.
Mi è gradita l’occasione, gentile Sig. Santiloni, che con i Suoi ottimi articoli sul Card.
Vitelleschi ha saputo destare in me tanta viva simpatia ed anche profonda
riconoscenza, di stringerLe idealmente la mano mentre formulo i più fervidi auguri
per la prosperità Sua personale e della cara, avita, antichissima e nobilissima
Tarquinia, i cui degni figli non sono immemori delle gloriose memorie di tanta
Madre, nè di coloro che seppero tanto amarla ed onorarla.
****
“Quod scripsi, scripsi” rispose Ponzio Pilato, secondo S. Giovanni, ai sacerdoti
israeliti, che erano andati a protestare perché sulla croce di Gesù era stata posta
l’iscrizione: I.N.R.I.
E con le stesse parole, rispondo a Lei, caro Santiloni, circa quanto ho scritto sulla
ben trista figura di Papa Eugenio IV, unico e solo responsabile della morte di
Giovanni Vitelleschi. E se un giorno l’incontrassi all’Inferno, nom mancherei di
gridargli in faccia il fatto mio! Con tali sentimenti che bollono nel mio cuore, non mi
chieda di “mettere in sordina” quanto è uscito dalla mia modesta penna, su di lui.
Se ciò facessi, mi sembrerebbe di partecipare alla seconda congiura - post mortem ordita contro l’assassinato, per nascondere la responsabilità dell’assassino. E mi
sentirei più infame di Maramaldo e il più vile dei discendenti della famiglia del
Cardinale.
Io sono attaccatissimo, per convinzione e per tradizione alla santa religione dei miei
Avi. Mio nonno e mio Padre furono entrambi Guardie Nobili e tutti i miei figli
(maschi e femmine) furono educati in Collegi religiosi in Roma, presso il Collegio
Nazareno, l’Istituto Massimo e le Suore del Sacro Cuore di Gesù: in Francia, presso
100
il Collegio “Saint Joseph dei Padri Gesuiti, a REIMS, ove fui Console d’Italia, anzi di
S.M. il Re d’Italia dal 1929 al 1936). Sono di fede monarchica e nel 11943, nella mia
qualità di Console Generale di S.M. il Re d’Italia in Anversa (Belgio), rifiutai, per
rimanere fedele al mio Re, di “collaborare” con le Autorità Militari Tedesche di
occupazione, le quali provvidero subito ad arrestarmi, tenendomi per due mesi
prigioniero. Debbo riconoscere, per la verità, che il “furor teutonicus”, almeno nei
miei riguardi, come pure verso gli altri diplomatici miei colleghi, non venne meno
alle leggi del più umano trattamento.
Io piego il ginocchio, davanti alla memoria di Eugenio IV, come successore di S.
Pietro; ma come uomo gli grido: assassino!
Per quanto sopra esposto, l’autorizzo a valersi delle mie modeste lucubrazioni
storiche nel modo che crederà migliore; ma qualora pubblicandole, ritenesse
opportuno fare il mio nome, Le faccio cortese obbligo di non mettere alcuna
“sordina” che potesse mutilare le mie parole, il mio pensiero e le mie accuse. Mi
attengo all’antico detto: - Amicus Plato, sed magis amica veritas”.
Veniamo ora a parlare dei Suoi generosi “progetti” esposti con tanto impeto
passionale, per conseguire “il ritorno alla vita” del nostro CARDINALECONDOTTIERO. Ahimè, non esistono più neanche le sue tormente ossa...!
Come Lei giustamente osserva l’idea (in se stessa ottima) di girare la pellicola a
colori sulla vita del Card. Vitelleschi, presenta non poche difficoltà. Da dieci anni
manco dall’Italia e non ho mai avuto contatti con il mondo cinematografico italiano
e straniero. Qui vivo la vita solitaria del “fazendeiro” resa particolarmente difficile
dall’improvviso variare delle condizioni meteorologiche. Per due volte, negli anni
1953 e 1955, le mie piantagioni di caffé sono state distrutte dalle gelate, con mio
gravissimo pregiudizio economico.
Tenga poi presente che il grosso pubblico che frequenta i cinema gradisce
specialmente le vicende di personaggi passionali e che la figura del nostro Cardinale,
dal punto di vista sentimentale, non mi sembra che sia stata finora oggetto di
particolari indagini.
Lorenzo Bonincontro (V. Annales 1360-1458, in Muratori, R.I.S. Vol. XXI, col. 149),
narra che il Vitelleschi, fatto prigioniero sul ponte di Castel S. Angelo, e ferito, pochi
giorni dopo sarebbe morto di veleno.
Durante la prigionia, una nobildonna, Jeronima Orsini “matrona excellens” la
chiama il Bonincontro, aderendo ad un appello pervenutole dal Cardinale, si recò a
visitarlo, e lo avrebbe incitato a sperar bene, poiché il Pontefice, ignaro
101
dell’accaduto, lo avrebbe al più presto fatto rilasciare. Al che il Cardinale avrebbe
risposto:
“Non propterea te accersiri feci. Qui enim tot rebus egregie gestis capi non debuerat,
nec relaxari debet. Sed ideo ut intelligas non his vulneribus, me interiturum sed
veneno”.
Confesso, che in passato, il racconto del Bonincontro mi aveva lasciato molto
scettico. Mi pareva assurdo e inverosimile. Poi sulla base di alcuni accertamenti di
fatto mi sono ricreduto.
Subito dopo la morte di Martino V, avvenuta nel febbraio 1431, i cardinali presenti a
Roma, si adunavavano nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva, per procedere
all’elezione di un nuovo pontefice. Era evidente che i Colonna, i quale da Martino V
erano stati elevati ai più alti fastigi della potenza, cercassero di esercitare la loro
influenza, affinché uscisse dal conclave un papa a loro favorevole. Gli Orsini, d’altra
parte, che troppo a lungo avevano dovuto tacere ed erano irritati della cresciuta
potenza dei Colonna, in questa occasione tornarono a levar la testa, per vendicarsi
dei loro secolari nemici. Il 3 Marzo, sembra per la preponderanza del partito degli
Orsini, i voti si raccolsero sulla persona di Gabriele Condulmier, veneziano, che
prese il nome di Eugenio IV. Egli da giovane aveva vestito il saio azzurro dei frati
Celestini; poi, mediante l’appoggio dello zio, Gregorio XII, era stato creato Vescovo
di Siena e Cardinale di S. Clemente. Nel 1424 gli era stata affidata la legazione nelle
marche.
L’aspetto della sua persona era severo e maestoso, “ma l’indole incostante e facile ad
esaltarsi”. (V. GREGOROVIUS - Storia di Roma p. 699).
Dunque Eugenio IV, benché avesse un animo non disposto a sentimenti di
gratitudine, non poteva certo dimenticare di essersi seduto sulla cattedra di Pietro,
grazie al potente appoggio di Casa Orrdini, e quindi, tenuto anche conto
dell’influenza politica di tale illustre Casata, deve essersi trovato nella condizione di
non potersi opporre alla richiesta della “matrona excellens” Jeronima Orsini, di
recarsi a visitare il prigioniero.
Si noti, poi, il carattere imperioso, tagliente, delle parole del Cardinale, in risposta a
quelle confortatrici e pietose di Jeronima:
“Non per questo ti feci chiamare. Chi, per tante agregie imprese compiute non
doveva essere catturato, non può essere rilasciato. Perciò affinché tu comprenda, io
non morirò di queste ferite, ma di veleno”.
102
Quel linguaggio altero, imperioso, tagliente, era proprio della fiera indole del
Cardinale.
Mi consta anche che il Vitelleschi, quando per la stagione invernale era costretto ad
inviare le sue milizie negli accampamenti d’inverno, amava venire a trascorrere
qualche tempo in Roma. E dove alloggiava? Precisamente “a monte Giordano” ove
era il grandioso palazzo degli Orsini, oggi, se non erro, palazzo Taverna.
Dall’Archivio Comunale di Viterbo (V. Reformationes communis Viterbii) ho tratto
quanto segue:
“1438, Ottobre 22 Roma (Monte Giordano)
Giovanni Vitelleschi nomina ser Giovanni di Pietro da Corneto Conservatore della
Gabella, per un anno, subito dopo la scadenza di Vanni da Corneto”. (Reformat. VII
fol. 7)
1439, Gennaio 12 - Roma (Monte Giordano)
Nomina Giacomo di Befanio da Corneto, Guardino del Comune di Viterbo, per un
semestre, alla scadenza di Giovanni Battista da Corneto”.
1439, Dicembre 6 Roma (Monte Giordano)
Giov. Vitelleschi nomina “tome del doctore” da Bologna, conservatore della gabella,
per un anno, subito dopo la scadenza del conservatore in carica (Reformat. VII. fol.
63).
La documentazione prodotta sta a dimostrare che era abitudine del Cardinale
trascorrere i mesi invernali a “Monte Giordano” molto probabilmente ospite della
famiglia Orsini, di cui era amico.
Anche i mesi invernali del funesto anno 1440 furono da lui trascorsi in Roma, dalla
quale si mosse, col suo esercito, per avviarsi verso la Toscana, il famigerato 19 di
marzo.
Da tutti questi elementi, sia pure indiziari, ho tratto il convincimento che il racconto
del Bonincontro sia stato veritiero.
Ecco quindi che accanto alla figura accigliata e severa dell’uomo d’armi, si erge
anche quella del patrizio elegante, uso ad intrattenersi in brillanti conversazioni con
gentiluomini e gentildonne romane, ad una delle quali, può darsi, che abbia ispirato
“corresponsione d’amorosi sensi”...!
A questo punto ci vorrebbe che un bravo “regista” s’impossessasse di tutto il
materiale storico concernente la vita del Cardinale-Condottiero, per tirarne fuori
quello che realmente fu, nel radioso albore della Rinascenza, un animo grande,
educato al senso eroico della vita, al fascino della rinata autorità di Roma,
103
dominatrice e sterminatrice di tiranni e tirannelli, sede augusta del Romano
Pontefice, del papato temporale, inteso come forza unificatrice delle varie regioni e
città d’Italia e non più, come l’aveva inteso Dante, una pietra d’inciampo e di
scandalo, ma una pietra angolare, sulla quale innalzare il tempio armonico della
felicità terrestre come anticipo di quella celeste....!!
Il “Sacro Romano Impero” che, in tempi a noi più vicini, lo spirito mordace di
Voltaire definì essere né sacro né romano, Giovanni Vitelleschi lo intendeva
concentrato nell’autorità Pontificia del Romano Pontefice, e non in quella
dell’Imperatore straniero.
Egli seppe dimostrare che per abbattere Palestrina, Rocca forte dei Colonnesi (i
quali grazie al nepotismo di Martino V, erano riusciti, quasi, a crearsi uno “Stato”
nello Stato Pontificio) il Papa Eugenio IV, a differenza di quanto aveva fatto
Bonifacio VIII, non aveva bisogno del consiglio fraudolento di nessun Guido da
Montefeltro:
“E poi mi disse”: Tuo cor non sospetti
Fin or ti assolvo, e tu m’insegna fare
Si come Penestrino in terra getti”
(Inf. XXVII - 100)
ma sarebbero bastate le squadre, armate di picconi, di muratori romani, inviate dal
“Cardinal fiorentino”!
****
Poiché gli argomenti da trattare sono molteplici, proseguirò questa mia
enumerandoli:
1°) ELENCO NOMINATIVO DI TUTTI GLI STORICI CHE HANNO SCRITTO SUL
CARD. GIOV. VITELLESCHI.
Lo troverà allegato alla presente, da me estratto dalla “Dissertazione di laura” su - IL
CARD. GIOV. VITELLESCHI - presentata alla allora R. Università di Roma, nel
maggio del 1924, dalla Signorina Maria ALBERTI. L’elenco è poderoso; trattasi di
ben sessantotto opere letterarie ch’io ho creduto opportuno di far precedere dal
“Sommario dei capitoli” della “Tesi”
104
perché Lei potesse avere un’idea generale del contenuto della Tesi stessa, ed una
immediata visione d’insieme delle turbinose vicende di vita del CardinaleCondottiero.
Se poi Lei avesse desiderio di leggere l’interessante lavoro dell’ALBERTI, oggi in
PERLA (abitante in Roma, Via Faa di Bruno, 48, Telef. 363 - 611 (ripeto 363-611)
come suol dirsi “in extenso”, allora dovrebbe prendere contatto con la medesima,
prima per telefono, possibilmente, poi inviandole in omaggio gli articoli da lei
pubblicati su “IL TEMPO” e finalmente chiedendole di andare a farle visita in casa.
L’avverto che la predetta Signora, di professione insegnante di scuole medie, è
sempre ingolfata di lavoro; di salute alquanto cagionevole; occupatissima in mille
faccende nella sua casa, sicché non ha né tempo né voglia di “dissertare”
nuovamente sull’argomento che fu appassionato oggetto dei suoi studi giovanili.
Questo Le dico per mia esperienza.
Il lavoro dell’ALBERTI è specialmente interessante dal punto di vista della
cronistoria della vita del Cardinale e delle fonti d’informazione. L’argomento era
troppo pesante per le sue giovani spalle di fanciulla, poco più che ventenne. Difetta
d’interpretazione politica di fatti e documenti. Per es. la famosa lettera diretta da
Eugenio IV al Cardinale in data 7 giugno 1439, da Firenze, e relativa al “redde
rationem” finanziario, già in precedenza richiesto al Vitelleschi, è oggetto del
seguente commento dell’ALBERTI: - EUGENIO IV ASSEGNA AL CARDINALE
GIOVANNI VITELLESCHI UNA PENSIONE SUPPLEMENTARE DI 1.000 FIORINI
D’ORO AL MESE PER DIECI ANNI PER LA SUA OPERA CONTINUA SVOLTA IN
FAVORE DELLA CHIESA-.
Molte altre osservazioni avrei da fare, ma sarebbero inutili e non generose verso una
cara giovinetta, che mise il massimo impegno nell’adempimento dell’arduo lavoro
consigliatole credo, dall’allora ministro Fedele.
2°) COME ARRIVARE ALLA CONSULTAZIONE ED EVENTUALE ACQUISTO
DELLE FONTI D’INFORMAZIONE?Recandosi possibilmente, a leggerle presso le varie Biblioteche di Roma, Firenze,
Napoli, Bologna, Milano, e cercandone i testi presso i negozianti di libri antichi e
qualche volta anche sulle pubbliche “bancarelle” a Campo dei Fiori in Roma, oggetto
di mie antiche peregrinazioni!
3°) ALTRI MOMENTI DELLA STORIA DELLA VITA DEL CARDINALE.
L’argomento è impegnativo e mi ha costretto a fare quel “tuffo di cui più sopra Le ho
parlato...! Distinguo tali “momenti” come segue:
105
A) inimicizia implacabile tra Giov. Vitelleschi e Cosimo de’ Medici accertata dal
Machiavelli.
Questi, a pag. 44 delle sue “Historie Fiorentine” mette bene in evidenza il grave
stato apprensivo di Cosimo, anzi la sua vera e propria “paura” che aveva del
Cardinale e il tormentoso sospetto che questi fosse intenzionato di rendergli, come
suol dirsi “la pariglia” provocandone la cacciata da Firenze, per sostituirlo con
Rinaldo degli Albizzi “amicissimo” del Patriarca.
Scrive il Macchiavelli: “Di tutte queste cose fatti certi, i Fiorentini (leggi Cosimo)
spaventarono, veggendosi venire la guerra addosso e in Lombardia non si era fatto
molto profitto. Né dava loro meno affanno i sospetti ch’eglino avieno delle genti
della Chiesa; non perché il Papa fosse loro nemico, ma perché vedevano quelle
armi, più ubbidire al Patriarca loro inimicissimo che al Papa”.
Più oltre il Macchiavelli continua:
“Trovandosi pertanto questo cardinale con le genti in Roma quando venne la fama
che Nicolò voleva passare in Toscana, si raddoppiò ai Fiorentini (leggi Cosimo) la
paura, per essere stato quel cardinale, poi che messer Rinaldo fu cacciato, sempre a
quello stato nemico, veggendo che gli accordi fatti in Firenze intra le parti per suo
mezzo non erano stati osservati, anzi con pregiudizio di messer Rinaldo maneggiati,
sendo stato cagione che posasse le armi e desse comodità a’ nemici di cacciarlo,
tanto che ai principi del governo pareva che il tempo fosse venuto da ristorare
messer Rinaldo de’ danni, se con Nicolò, venendo quello in Toscana, si accozzava”.
Inoltre il fatto che il Vitelleschi, da qualche tempo, si dava ogni paura affinché il
Pontefice, residente quasi sempre a Firenze fin dal tempo della sua fuga da Roma,
potesse farlo ritornare nell’Urbe, aveva male impressionato Cosimo, il quale temeva
che il Cardinale, come già aveva fatto l’Albornoz, riuscisse a dare alla Santa Sede una
potenza contraria alle mire politiche di Casa Medici. (V. Rodocanachi E. Historie de
Rome pag. 222).
Tali ulteriori notizie, sulle quali non vi è motivo di dubitare, stanno a dimostrare che
il duello mortale era impegnato principalmente tra i due colossi: Giovanni
Vitelleschi e Cosimo de’ Medici.
Tutte le altre sono figure di scorcio; compresa quella del Papa.
B) Diversa versione delle parole pronunciate dal Patriarca ferito e prigioniero.
Vi è sostanziale contrasto tra la versione data dal Bonincontro, e quella data dal
Machiavelli. Secondo il Bonincontro, le parole furono dal prigioniero rivolte non già
106
ad Antonio Rido, come asserisce il Macchiavelli, ma a Jeronima Orsini. Di tutto il
breve discorso, la parte più importante fu questa:
“Qui enim tot rebus egregie gestis capi non debuerat, nec relaxari debet”.
Il Macchiavelli, invece, presenta la seguente strabiliante versione:
“Ma il Castellano confortando con umane parole il Patriarca, e dandogli speranza di
bene, gli rispose che gli uomini grandi non si pigliavano per lasciargli e quelli che
meritavano di essere presi, non meritavano di essere lasciati”.
Il Macchiavelli, pur nella sua eminente perspicacia e sovrana intelligenza, ma
ottenebrata dal desiderio e dalla necessità di scrivere cosa gradita a Casa Medici,
arriva all’assurdo inverosimile di mettere in bocca al Cardinale niente di meno che
la confessione della colpa attribuitagli e il riconoscimento della legittimità della sua
irrevocabile sorte, con le ridicole parole:
“quelli che meritano di essere presi non meritano di essere rilasciati (!)”Io mi domando, quasi allibito, come mai un uomo del calibro del Macchiavelli, abbia
potuto scrivere un’enormità simile, facendo parlare tanto balordamente un uomo
del calibro di Giov. Vitelleschi!
Comunque sta di fatto che, così facendo, il grande Segretario Fiorentino si è reso
colpevole o per faziosità o per momentaneo ottenebramento mentale (Quandoque
bonus dormitat Homerus) di congiura - post mortem - per infamare la memoria del
Cardinale.
C) L’inaspettato rilascio di Renzo Colonna da parte del Papa, nel maggio del 1439, è
sintomo del mutato stato d’animo del Pontefice verso il Cardinale.
Asprissima lotta era stata condotta dal Papa - col braccio di Giov. Vitelleschi - contro
Renzo Colonna.
Nel marzo 1437 il Cardinale aveva distrutto Palestrina, e in quella occasione non
venne risparmiata neanche la cattedrale, che fu spianata al suolo. I suoi stipiti
marmorei sembra che venissero mandati quasi in trofeo a Corneto, ad ornare il
Palazzo del Patriarca (portale d’ingresso).
Nel dicembre 1438 era stata distrutta la formidabile Rocca ciclopica di S. Pietro; il 2
Aprile 1439 era stato raso al suolo Zagarolo, ultimo rifugio fortificato di Renzo
Colonna.
Il diarista Paulus Lelii Petroni (Paolo di Lellio Petronio) in Muratori, R.I.S., così
scrive:
107
“Il Maggio 1439 - Dopo aver preso Zagarolo, il Cardinale fa ardere e sradicare la
terra, dopo aver fatto prigioniero Renzo Colonna e inviatolo sotto buona guardia al
papa Eugenio IV a Firenze, dove ottenne la grazia.
Dunque ci troviamo davanti a un mutamento istantaneo e radicale dei sentimenti
del Papa, sia verso il Colonna, sia verso Vitelleschi. Cosa avrà pensato il Cardinale
dell’improvviso perdono concesso dal Papa a tanto grande nemico della Chiesa e
delle armi pontificie?
A che era valsa la buona guardia, con la quale aveva spedito al Papa il potente
ribelle?
Potrò sbagliare, perché i fatti si giudicano male a distanza di oltre cinque secoli, ma
credo che il perdono concesso al Colonna rientrasse nel quadro dei provvedimenti
ostili adottati contro il Vitelleschi, dei quali si ha prova palmare nella richiesta del
“redde rationem” finanziario rivolta dal Papa al Patriarca, proprio intorno a
quell’epoca.
D) Il Papa e Antonio Rido.
Come ho riferito in precedenza (vedi mio sunto storico) l’assoluzione del Castellano
A. Rido dalla “censura” in cui era incorso (pro forma) insieme ai suoi famigliari e
soldati, per la cattura del Cardinale, fu concessa dal Papa con un suo breve in data 1
Marzo 1441 (V. Arch. segr. Vatic. Reg. Vol. 375, pag. 226 e PASTOR: “Storia dei
Papi” Ultima ediz. pag. 803-805).
Sta dunque di fatto che per l’arbitraria cattura del Cardinale e fino al 1 Marzo 1441, il
Rido fu un suddito pontificio colpito dalla pena, che ne ledeva almeno la buona
fama, specialmente per l’esercizio arbitrario e violento delle sue ragioni, aggravato
dall’abuso di autorità, quale Castellano della più importante fortezza pontificia.
Ma nonostante tale sua scossa posizione di suddito colpito da censura tuttora in
atto, avviene un fatto veramente straordinario (a distanza di appena quattro mesi
dall’eccidio del Cardinale) che getta una luce ancora più sinistra sulla bieca figura di
Eugenio IV.
Il fatto si rileva dall’Arch. segr. Vatic. Reg. Vol. 360 pag. 26 e dal Pinzi (op. cit.)
“Il 1 Agosto 1440, Eugenio IV con sua Bolla, investe Antonio Rido Castellano di
Castel S. Angelo, di poteri straordinari, in materia criminale e di polizia, tanto in
Roma, quanto nella provincia del Patrimonio, Marittima e Campania durante
l’assenza del Legato”.
108
Il documento è anche riportato nella “Miscellanea” del BENIGNI. I “poteri”
veramente straordinari, consistevano nella facoltà di “punire quascumque
personas ecclesiasticas et seculares in alma Urbe et provinciis”.
Si vede proprio che il Rido, pur essendo nella falsa posizione di “censurato”, ma
avendo dato buona prova per aver fatta esecuzione sommaria di un Cardinale
Legato, capitatogli in mano, era ben competente e aveva meritato - secondo il Papa di “punire qualsiasi persona “ecclesiastica e secolare, nell’alma Urbe e nella
provincia” (!)
ma i “poteri straordinari”, che comportavano naturalmente straordinario onore,
non sembrarono sufficienti al Pontefice, il quale, con Bolla in data 5 Marzo 1444,
concesse ad Antonio Rido il dominio e possesso dei Castelli di S. Pietro in Formis e
di Borghetto, per sé e i suoi figli fino alla terza generazione, in ricompensa dei
grandi servigi resi alla Santa Sede. Castelli che il “bone memorie Johannes tituli S.
Laurentii in Lucina Cardinalis” aveva confiscato ai Savelli.
Così le terre riconquistate alla Chiesa dal coraggio e dall’abilità militare e politica di
Giovanni Vitelleschi, furono il premio concesso dal Papa al di lui assassino!
E) Eugenio IV, per scagionarsi dalla responsabilità di non aver soccorso il Cardinale
ferito e fatto arbitrariamente prigioniero, insinua che la sua morte fu immediata e
inaspettata.
Il fatto che il Cardinale, ferito, continuasse per più giorni a vivere prigioniero in
Castel S. Angelo, si rileva - oltre che dai cronisti del tempo - dalla Bolla di Eugenio
IV, in data 1 Marzo 1441 di assoluzione del Rido dalla “censura”, Bolla in cui è
riportata la supplica ch’egli presentò al Pontefice, per ottenere l’assoluzione.
Dal racconto del Rido si rileva tra l’altro:
“Trasportato ferito entro il Castello, il Cardinale ebbe molti riguardi e fu curato da
medici espertissimi e assistito persino da alcuni suoi famigliari. Ma, nonostante le
cure prodigategli, l’indignazione per la grave umiliazione subita, il debole stato della
salute, conseguenza della sua vita disordinata, contribuirono ad accelerargli la
morte.
Ma con la Bolla del 5 Marzo 1444 il Papa, non ricordando quanto risultava da quella
precedente del 1 Marzo 1441, accenna alla morte del Vitelleschi, con queste parole:
“subitum et inopinatum Cardinalis obitum”.
( V. Pinzi, op. cit)
109
Nel 1444 il Papa non solo aveva dimenticato la confessione stessa del Rido, ma
anche il tentativo nobilissimo fatto dalla Repubblica di Siena il 30 Marzo 1440, per
salvare la vita del suo “cittadino e protettore” Giovanni Vitelleschi, che, dopo il vano
tentativo dei Senesi morì, o più precisamente, fu fatto morire, senza più ulteriori
indugi, il 2 Aprile successivo, come indirettamente risulta anche dal privilegio
concesso al vesc. Bartolomeo da Nicolò V, in data 1 Aprile 1452, per la traslazione
della salma dello zio, così riferito dal Polidori (Croniche di Corneto):
- 1 Aprile 1452 - Nicolò V con suo privilegio, concede al vescovo Bartolomeo, nipote
del Card. Vitelleschi, di trasportare il corpo di questi, dalla Chiesa della Minerva in
Roma, dov’era stato portato il 2 Aprile 1440, alla Chiesa cattedrale di Corneto”.
F)
MAGNANIMITA’
DI
GIOV.
VITELLESCHI;
CONFORME
AGLI
ALTI
INSEGNAMENTI DELLA CULTURA CLASSICA
“22 Giugno 1434 - Giovanni Vitelleschi, in Castro Reforziato accetta la dedizione con
suo diploma, del Castello di Montalto, di Fossombrone e gli concede molti privilegi”
affinché capiscano bene gli abitanti che il sommo Pontefice, loro padre
Clementissimo, non voleva solamente vincere e perdonare ai vinti, ma anche essere
generoso benefattore dei suoi sudditi” (Vol. Vogel op.cit.).
Ora, le parole “vincere e perdonare i vinti” sono quasi la letterale traduzione del
famoso verso di Virgilio: - Parcere subjectis et debellare superbos” come missione
del popolo romano, secondo la profezia che l’ombra di Anchise fece ad Enea
(Eneide, VI. 853)
Non sono stato fortunato di trovare altri documenti che, come il precedente,
facessero tanto chiaro riferimento alle più insigni opere dell’antica Roma; ma tutto
il comportamento militare e politico del Card. mi sembra inequivocabilmente
ispirato all’altro famoso verso di Virgilio tanto prossimo al precedente:
- Tu regere imperio populos Romane, memento! - (Eneide, VI. 851) Alla formazione
mentale e dello spirito eroico di Giov. Vitelleschi, credo fermamente che non sia
stata estranea la meditata lettura delle “Vite parallele degli Uomini Illustri” di
Plutarco.
G) CORAGGIO PERSONALE DEL VITELLESCHI
Estraggo nuovamente dal Vogel:
110
- 22 Giugno 1434 - “Nello stesso tempo si ribellava al Papa, Sancio Gariglio,
comandante di cavalleria, per istigazione del card. spagnolo suo zio per parte di
padre, il quale nello scisma teneva la parte dei padri di Basilea, e poco mancò che da
questi fosse di nuovo presa Pesaro, ma la celerità del Vitelleschi mandò a vuoto i
disegni dei nemici, poiché egli, con rapidissima marcia, senza truppe, sopraggiunto
a Pesaro, tenne in dovere la città e i cittadini, colla sola sua presenza (vedi anche
Blondus - decade III - I - 5).
H) RELIGIOSITA’ DI GIOV. VITELLESCHI
16 Maggio 1433 - Mentre il Vitelleschi era intento alla sua opera di pace, gli venne in
sorte, nelle campagne di Fano, di trattenersi a lungo col Beato Galeotto Roberto
Malatesta e notano gli storici, che neppure per un momento nei tre giorni che
furono insieme, potè fare a meno della sua presenza”.
Più oltre, lo stesso scrittore aggiunge:
“Nell’incontro che durante i giorni 16 e 17 Maggio ebbe il Vitelleschi col Beato
Galeotto nelle campagne di Fano, questi fu preso dalle virtù del santo, pietà,
modestia e santa conversazione, in modo che è ferma testimonianza che il nostro
Vescovo fu cultore della religione anche tra le armi.”
Sta di fatto che il Vitelleschi, pur ispirandosi al concetto della romanità e agli esempi
dei grandi Uomini di Grecia e di Roma, si sentì eroe e cavaliere cristiano, anzi,
cavaliere di Cristo.
In lui si fondeva l’animo del soldato e quello del sacerdote.
Il concetto filosofico del “Sustine et abstine” proprio della vita mistica del ‘300, si
capovolge completamente nella concezione della vita attiva, in Giov. Vitelleschi.
Vincere se stesso, i propri difetti e vizi, sta bene; ma per ristabilire un tranquillo
ordine di cose, in mezzo a tanto disordine, e costanti conflitti di opposte fazioni, e
specialmente, per assicurare il Papa il pacifico esercizio delle sue altissime funzioni,
urgeva vincere i ribelli e i nemici della Chiesa Romana.
I) LINGUA USATA DAL CARD. VITELLESCHI
Egli usava, alternativamente, la lingua latina e quella italiana, ma, per le sue
abitudini di vita guerresca e di contatto diurno con rudi soldatesche tratte
specialmente dai più umili centri agricoli degli Stati Pontifici, le quali non parlavano
e non comprendevano altro che il rude dialetto della loro terra, è evidente che non
suonava come quella d’un trecentista del “dolce stil novo”.
111
Per darne un’idea, trascrivo le seguenti lettere del Cardinale:
“.... Ceterum ve avisamo che ad XI del presente mese in la levata del sole per forza
havemo la Rocca Priora de Cola Savello cum la donna et figlioli. Et questo di a
quest’ora del mezzodi havemo Ponte Lucano.
“Così de di in di cum lo adiuto del Dio procederemo cum stato et honore de sancta
Chiesa et de nostro Signore. Datum in castris felicibus D.N.P. in Pantanis Griffi - Die
XIII Aprilis 1436. (V. Michaeli, Memorie storiche della città di Rieti - V. anche Paolo
di Lellio Petronio Collez. 1112-1114-.
La seconda lettera è diretta ai Priori di Viterbo, in data 25 Aprile 1436:
Con ogne accurata sollecitudine, quanto più possemo, ci sforziamo la navicella di S.
Pietro, da tante procellose tempeste agitata et mo divino presidio requieta,
innalzarla et prosperarla in rebelles et suoi persecutori. Ma perché omne arbore di è
esano crope delle sue fronde, et della terra conviene si faccia la carbonara, è
necessario i devoti popoli et figlioli di quella alli suoi bisogni invochiamo.
“Et pertanto, havendo noi omninamente deliberato gir contra al Conte Antonio di
Ponte ad hera (Pontedera), quale con l’aiuto di Dio pigliaremo, et, divino presidio,
romparemo, vi commandamo che infra termine di X di, di poi receptione de la
presente, mandiate da noi sey balestrieri, con sufficienti balestri, per uno mese, ecc.
(V. Pinzi, p. 29).
Questa seconda lettera mi sembra di particolare interesse, perché non manca di
qualche pregio letterario, nell’accenno alla “navicella di S. Pietro” di sapore
Dantesco, e nella pittoresca similitudine “ Ma perché omne arbore si crope delle sue
fronde ecc.
L) ASPETTO ACCIGLIANO E SEVERO DEL CARD. VITELLESCHI
In un manoscritto di famiglia trovo: - Era il Vitelleschi persona grande e robusta,
rubicondo di occhi e capelli neri -.
Narra il CIACCONIO (V. VITAE ET RES GESTAS etc.)
“7 Agosto 1437 - In occasione della nomina a Cardinale di Giov. Vitelleschi furono
fatte in Roma grandi feste.
“Le campane di Campidoglio suonarono a lungo; furono accesi fuochi di notte;
torme di cittadini a cavallo scorrevano la città con fiaccole ardenti. Seguì giostra di
cavalieri con giuoco della arti a premi assegnati. Sopravvenne poi Giov. Vitelleschi;
tanto era il terrore di esso immesso ai Romani, che per tema non osavano di fissarlo
in volto.
112
“Avvegnachè egli era un uomo imperioso e fiero, e inclinato piuttosto alla vita
dispotica che alla religiosa”.
D’altra parte, DURANTE DORIO (Storia di Casa Trinci), così descrive l’ingresso del
Cardinale a Foligno:
“1439 - Fatto giorno il di 9 Settembre di Mercoledì, il Crd. Vitelleschi entrò dentro
Foligno con 60 cavalli et altra gente, andando per tutte le strade principali della
città, e per tal vittoria ne furono fatte pubbliche allegrezze, per compiacere ad esso
Legato, che era orribile e spaventoso a tutti i popoli e gratissimo al Papa.
M) CARATTERE IRONICO DI GIOV. VITELLESCHI, PRONTO A FAR PAGARE
CARE LE OFFESE RICEVUTE-.
Lascio la parola al GIOVIO (Uomini illustri IV. II-Bibl. Casanat.)
“Il re Alfonso d’Aragona di Napoli e Giov. Vitelleschi-.
“Il di 25 Decembre, giorno di Natale, Giovanni Vitelleschi muove assalto al re
d’Aragona, mentre il re dopo l’aurora stando a udire tre messe si era inginocchiato
davanti all’altare. Re Alfonso, essendosi vantato antecedentemente di aver fatto
sapere al Patriarca a mezzo di una trombetta che maneggiando egli col giudicio di
Marte fuor di proposito l’armi, l’avrebbe ridotto a tale che come un povero
pretucciolo, gli avrebbe detto messa per un grosso. Alle quali insolenti parole, il
Vitelleschi, usando la sua ironia, avrebbe risposto: “Ch’egli non rifiutava la
condizione di diventare cappellano d’un gran re, ma ch’egli non era per pigliar
questa impresa prima che cominciasse l’anno, il di proprio del Natale di Cristo,
acciocchè con buona ventura e senza prezzo gli dicesse messa”.
“Il re si salvò con la fuga e dopo il saccheggio, l’arnese delle credenze reali fu messo
fuori per ordinare una solenne tavola. Quando il re fu liberato dal pericolo, presenti
molti suoi, riconoscendo l’ironia dell’ambasciata, confessò d’essere stato benissimo
ingannato con quel motto”.
N) Qualche considerazione sul famoso Palazzo in Tarquinia
Nicolò della Tuccia riferisce che il Patriarca “in Corneto faceva lavorare un
bellissimo palazzo e fatto portare da Roma grandissima qualità di colonne di marmo
e altri lavori; ci teneva cento maestri e durò più di tre anni”.
Sicché anche il nostro Cardinale (diciamolo sotto voce) fu uno dei tanti “guastatori”
dei sacri delubri di Roma, per costruirsi il suo bel Palazzo Tarquiniese.
113
In riguardo a codesto meraviglioso gioiello d’arte, mi permetto azzardare due mie
personali considerazioni:
1°) Conservatore e tradizionalista per temperamento e per tradizione il Vitelleschi,
nella concezione artistica del suo Palazzo, non si distaccò da quella fino allora
imperante dello stile gotico, dimostrando, così di non subire l’influsso della nuova
arte rinascimentale, anzi di respingere il risuscitato indirizzo dell’arte grecoromana, forse anche perché incideva sul costume sociale, orientandolo verso una
grande spregiudicatezza di vita.Per me l’insigne opera d’arte, rispecchia fedelmente il carattere del Cardinale: austero e potente complesso armonico a “punte acute” ma aperto nella parte
superiore, delle ariose legge, alle fulgidi visioni del lontano orizzonte, come fulgide
erano le visioni del Cardinale, per una Roma ed una Italia, che risorgeressero
coscienti della loro missione nel mondo.
Fine (Laus Deo!!)
****
Gentmo Santiloni,
nel terminare questa mia seconda, modesta fatica, Le ripeto le parole di
Dante:
“Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba”
Per la seconda volta ho rovistato nel sacco, non solo l’ideale, (perché anche le
ingiallite carte e i vecchi libri pesano) delle notizie storiche concernenti chi tantò
amo, e chi tanto fece per Tarquinia, allora e per l’avvenire! Non ho proprio altro da
scriverle, su tale argomento.
Mi permetto di farLe una sola raccomandazione:
continuando nel Suo nobile sforzo di rendere giustizia alla memoria del nostro
Cardinale, si attenga per il miglior successo dell’ardua impresa, alla seguente
norma: - Niente passionale fine apologetico, ma serena e scrupolosa obiettività
storica-.
Tenga anche presente, che le mie lettere le ho scritte “currenti calamo” e quindi
senza alcuna elaborazione e possibilità di correzione.
114
Nel rileggerle, mi sono accorto di frequenti sviste di “macchina” di qualche periodo
un po' troppo “estemporaneo”.... Tutte cose che richiederebbero una doverosa
“limatura” in caso di pubblicazione.
Mi auguro ardentemente che le imminenti elezioni assicurino a Tarquinia e all’Italia
la vittoria dei partiti d’ordine; di quell’ordine che fu uno degli scopi principali del
nostro grande Tarquiniese.
Buon lavoro e molti cordiali saluti.
****
PER
GIOVANNI
VITELLESCHI
CARDINALE-CONDOTTIERO
DI CUI IL GREGOROVIUS HA SCRITTO
“IL PRIMO UOMO DI STATO CHE INTRAPRENDESSE
A SCHIACCIARE I TIRANNI DEL PRINCIPATO
ECCLESIASTICO”
ASSALITO A TRADIMENTO SUL PONTE S. ANGELO
IN ROMA IL 19 MARZO 1440
TRASCINATO FERITO NELLA FORTEZZA PAPALE
IVI SOFFRI’ QUATTORDICI GIORNI DI ATROCE
PRIGIONIA FINCHE’ RIUSCITO VANO IL TENTATIVO
DI LIBERAZIONE COMPIUTO IL 30 MARZO 1440
DAGLI AMBASCIATORI DELLA GENEROSA REPUBBLICA
DI SIENA PRESSO IL PAPA FUGGIASCO A FIRENZE
ESALO’ IL GRANDE SPIRITO A DIO IL 2 APRILE 1440
SOTTO L’ULTIMO AFFRETTATO COLPO DI MANO ASSASSINA
PER CONGIURA DI
COSIMO DE’ MEDICI IL VECCHIO
E PER MANO DI
ANTONIO RIDO CASTELLANO
COADIUVATO DA LUCA PITTI
GONFALONIERE DI GIUSTIZIA MEDICEA.
115
IL PAPA EUGENIO IV
DICHIARATOSI EREDE TESTAMENTARIO DEL
TRUCIDATO CARDINALE CUI DOVEVA LA VITA
E LO STATO NE RICERCO’ E INCAMERO’ I BENI
COME DA BREVE PONTIFICIO IN DATA XI APRILE 1440
DIRETTO AI PRIORI DI CORNETO
Di ferreo pugno e di elevata mente
nel grande albore della Rinascenza,
supremo intento ti fu ognor presente:
rendere a Roma autorità e potenza.
Contro più schiere di nemica gente
valor mostrasti e militar sapienza
la spada e il pastorale alternamente
ben maneggiando per altrui esperienza.
Precorse i tempi l’alto tuo ideale
per esser troppo generoso e audace
tal che in molti destò l’odio mortale.
Ti spense il tradimento ed il pugnace
tuo Spirito attende ancor l’imparziale
giudizio della Storia e non mandace!
Modesto omaggio del tardo pronipote emigrato
Pietro
Nobili
Vitelleschi
116
INTORNO A UNA ANTICA LETTERA DI CONGRATULAZIONI
Si ripercorrono le diverse sezioni delle Croniche del Polidori e sempre si ritrova, in
quella inesauribile miniera di informazioni e di testimonianze, una notizia che riesce
a suscitare la nostra curiosità, l’invito a tentare qualche approfondimento. Così mi è
capitato - e spero non del tutto ingiustificatamente - per l’annotazione relativa al
dominio diretto sulla Tolfa nuova esercitato da Bartolomeo Vitelleschi.
117
Con la precisione consueta, il prelato cornetano, che nella seconda metà del XVII
secolo si fece storico appassionato delle vicende della sua città, anche a questo
riguardo distingue l’ipotesi avanzata per via di deduzione, dal dato certo, garantito
dal documento d’archivio. E così annota, nella sezione degli Annali, sotto l’anno
1435:
Il Patriarcha Vitelleschi, Legato Apostolico, con l’Orsini et Conte Dolce Anguillara,
posero campo alla Tolfa nuova, posseduta dal Prefetto di Vico. Presa, la
destrussero, restando desolata. Stimo che detta Tolfa nuova fosse concessa dal
Vitelleschi a Bartholomeo suo nepote dal quale fosse riedificata.
Mentre, sotto l’anno 1454:
Havendo Sante Vitelleschi fratello del vescovo Bartholomeo dato parte al
Magistrato di Corneto della vittoria ottenuta in Rota della lite che pendeva fra esso
Vescovo et li Signori Ludovico et fratelli, Signori della Tolfa Vecchia, per occasione
del dominio diretto della Tolfa nuova (...), il medesimo Magistrato scrive Litera di
congratulatione al medesimo vescovo Bartolomeo. 1)
Se accettata, la congettura del Polidori, fornirebbe un tassello non trascurabile per
la
ricomposizione
dell’avventurosa
biografia
di
Bartolomeo
Vitelleschi.
L’attribuzione del feudo della Tolfa nuova, proprio in quell’anno 1435 che vedeva
l’istituzione della diocesi di Corneto e Montefiascone, sarebbe infatti il primo
gradino di una rapidissima ascesa che nel breve arco di cinque anni lo avrebbe
elevato
al
governo
della
nuova
diocesi
e
ai
più
prestigiosi
incarichi
nell’amministrazione dello Stato della Chiesa: non fu certo per caso che, sul finire
del mese di marzo del 1440, la notizia dell’arresto dello zio lo sorprese a Firenze,
dove Cosimo de’ Medici ospitava (e fortemente condizionava) la curia pontificia.
I due estremi di un primo segmento nel tortuoso tracciato della vita di Bartolomeo
sarebbero così nettamente individuati.
Esiste tuttavia almeno un secondo motivo per considerare con attenzione la
testimonianza del Polipori: la consistenza certamente notevole della Tolfa nuova
durante la prima metà del XV secolo.
E’ difficile, per l’odierno visitatore, trovarne un qualsiasi riscontro.
Solo dopo esserci arrampicati per i sentieri scoscesi che scalano l’altura vulcanica,
sempre insidiati e a tratti cancellati dal disordinato attestarsi di rovi, cespugli e
118
arbusti; solo dopo avere raggiunto il primo pianoro della vetta, ci troveremo di
fronte a resti di fortificazioni, a segni che possono offrire una tenue conferma al
racconto di vicende così lontane.
Certamente di più riuscirà a colpirci il grandioso panorama, la vicina rocca dei
Frangipane verso l’interno, l’ampia vallata digradante verso il Tirreno, alle spalle di
Santa Marinella. Insomma, il nome di Tolfaccia, da tempo attribuito al luogo, con
efficacia rappresenta l’attuale stato di abbandono, la cancellazione pressoché
completa dell’antico castello e del borgo che gli sottostava. 2)
Eppure i dati di cui disponiamo inducono a ritenere che quello fosse il centro più
rilevante di tutta l’area a sud del Mignone e alle spalle della non ancora insorta
Civitavecchia, un’area nella quale si era da gran tempo e profondamente radicata la
presenza di Corneto. Lavorando infatti per deduzione sui dati della gabella del sale,
si arriverebbe ad attribuire alla Tolfa nuova una popolazione prossima alle mille
unità per l’anno 1416, largamente superiore a quella di Civitavecchia e di Tolfa
vecchia (l’attuale Tolfa) che si vedono assegnare un numero di rubbia pari alla
metà. 3)
Con tutte le riserve del caso, è indispensabile scorrere l’elenco dei centri situati al di
là e al di qua del corso del Mignone, che ci tramanda il Liber secunde imposite salis
et focatici del 1416, per farci una idea abbastanza precisa dell’assetto consolidatosi
nel nostro territorio alla vigilia di un evento rivoluzionario quale fu la scoperta
dell’allume, per evidenziare quella fascia di arroccamenti e di insediamenti interni,
variamente assoggettata alla potente civitas cornetana, caratteristica dell’età che
stava morendo. 4)
Esemplare fu la storia di Cencelle. Non meno interessante può risultare la
conoscenza dell’ultimo periodo della Tolfa nuova. Si potrebbe anzi dire,
sintetizzando un poco, che, se il racconto della fondazione di Cencelle costituisce
una suggestiva introduzione alla civiltà medievale, ciò che accadde della Tolfa nuova
fra il 1435 e il 1471 è un istruttivo spaccato del processo di definitiva affermazione
1)
M. POLIDORI, Croniche di Corneto (a cura di M. Moschetti), Tarquinia 1977, p. 230 e p. 250. I Signori della Tolfa
vecchia sono Ludovico e Pietro Frangipane che gradualmente, nel periodo compreso tra il 1435 e il 11448, vennero in
possesso del castello e di tutte le pertinenze.
2)
Si arriva ai piedi della Tolfaccia, che con i suoi 579 metri è la seconda altura dei Monti della Tolfa, dopo aver
percorso alcuni chilometri della strada che dalla frazione di La Bianca arriva fino a S. Marinella. Le più notevoli
emergenze architettoniche sono descritte da F. TRON, I Monti della Tolfa nel Medioevo, Roma 1982, pp. 82-83. Si
veda anche la recente monografia di G. COLA, La Tolfaccia e Forum Clodii, Tolfa 1984.
3)
Come è noto, a causa delle ampie e non individuabili aree di esenzione dall’imposta, il numero degli abitanti che si
ricava per i diversi centri e località è alquanto approssimativo.
119
dello Stato della Chiesa e, in tale ambito, della Costituzione di un nuovo assetto del
nostro territorio.
Del resto, un ulteriore elemento accomuna la Tolfa nuova a Cencelle: la difficoltà
che ebbero entrambe, negli anni più vicini a noi, a liberarsi dalla dimenticanza e
dalle confusioni, a rivendicare la propria autonoma esistenza.
La ricostruzione fortemente limitatrice imposta da Carlo Calisse, giustamente e di
gran lunga il più autorevole esponente della storiografia locale, assorbì e fece
scomparire la storia di Cencelle in quella di una Civitavecchia troppo precocemente
risorta, e presentò la Tolfa nuova come il borgo della Tolfa vecchia. 5)
Ciò poté accadere anche perché all’illustre storico sfuggì la preminente funzione
svolta dall’allineamento Corneto - Cencelle - Tolfa vecchia - Tolfa nuova fino alla
metà del quattrocento.
Quella strada che Giovanni da Castro percorse, partendo da Corneto nel 1460 per
raggiungere i Monti della Tolfa e dare inizio alla grande avventura dell’allume, aveva
costituito fino ad allora l’asse principale nella struttura politica, militare ed
economica del territorio.
Non di una concessione di poco conto avrebbe dunque beneficiato Bartolomeo
Vitelleschi. L’uso del condizionale è d’obbligo per chi, spinto dalla annotazione del
Polidori, consulti il fondamentale testo del Silvestrelli senza trovare, nella scheda
dedicata alla Tolfa nuova, alcun riferimento ai Vitelleschi, oltre quello relativo al
recupero della rocca da parte del legato pontificio Giovanni, nella fase conclusiva
della sua guerra contro Giacomo di Vico.
Al contrario, troverà costui la sconcertante annotazione che proprio in quell’anno
1435 Eugenio IV infeudò della Tolfa nuova, nonché delle pertinenze di Monte
Castagna, Ferrara e Val Marina, Francesco Orsini. 6) L’infeudamento venne
successivamente confermato agli Orsini negli anni 1451, 1455 e 1471.
Allora ho voluto leggere integralmente la Litera ricordata e sintetizzata dal Polidori
e l’ho ancora trovata nell’Archivio Storico di Tarquinia, riportata alla pagina 193 del
Registro dei Consigli dall’anno 1452 all’anno 1455: Eccone la traduzione:
4)
La tabella è pubblicata da G. PARDI, La popolazione del distretto di Roma sui primordi del Quattrocento, in “Arch.
Soc. Rom. St. Patria”, XLIX (1926), pp. 331-354 e riportata da COLA, op.cit., p. 87.
5)
Rinvio, per Cencelle, al lavoro di O. TOTI, La città medievale di Centocelle, Allumiere 1958. F. GUERRI per primo
dimostrò l’infondatezza della fusione di Tolfa vecchia e Tolfa nuova (Il Registrum cleri cornetani, Corneto-Tarquinia,
1908, pp. 267-270 in nota).
6)
G. SILVESTRELLI, Città castelli e terre della regione romana, 2ª ediz. Roma 11970, II, p. 592.
120
“Ieri sera il nobile cavaliere signor Sante, fratello di Vostra Signoria, con la consueta
cortesia e con il rispetto che sempre ha mostrato di avere verso questo Ufficio,
venendo da noi per parteciparci la comune lieta notizia, molto decorosamente ci ha
reso noto che, da parte di coloro cui fu affidata la causa della lite e controversia tra
Vostra Signoria e Ludovico riguardo alla attribuzione del dominio sulla Tolfa nuova,
era stata pubblicata sentenza a favore di Vostra Signoria. E a seguito di questa
sentenza, come doverosamente siamo stati colti, insieme con il vostro suddetto
fratello, da stroardinaria e grandissima gioia, così abbiamo deciso di scrivere a
Vostra Signoria della medesima letizia da noi tutti sentita profondamente per una
causa di tal genere.
Ci congratuliamo dunque con voi e siamo presi da una gioia incredibile e tale da non
potersi affatto comunicare a parole.
Sperando che possa in avvenire conseguire simili o maggiori successi molto
facilmente per la bonta consueta e per le benemerite virtù, stia bene e a lungo Vostra
Signoria. Lo stesso Dio onnipotente risponda propizio alla vostra e alla nostra buona
volontà. Pronti sempre agli ordini. Abbiate ogni cura della vostra salute che Dio
conservi conforme ai voti. Corneto, 14 febbraio 1454.” 7)
Una testimonianza, come si vede, molto circostanziata ed interessante anche per chi
voglia addentrarsi un poco nell’esame dei complessi rapporti che intercorsero in
quegli anni centrali del XV secolo tra la potente famiglia dei Vitelleschi e l’antica
istituzione comunale.
Al di là di troppo riduttive formulazioni, 8) colpisce, a questo proposito, il
riconoscimento a Bartolomeo (anche sul piano del cerimoniale, e non già in quanto
vescovo: piuttosto in quanto massimo esponente di quella famiglia, come suggerisce
l’iniziale riferimento al fratello Sante) di un ruolo di interlocutore provvisto di
dignità almeno pari a quella del rappresentante della Civitas cornetana.
7)
Heri vesperi generosus miles dominus Sanctes, germanus vestre dominationis, ea, qua solet humanitate et reverentia
quam semper erga officium habere visus est, communis gaudii notificandi gratia ad nos veniens, omni servata
honestate exposuit: per illos quibus litis et controversie inter dominationem vestram et Ludovicum occasione veri
dominii Tulfe nove causa commissa fuit pro eadem vestra dominatione pronuntiatum et sententiam extitisse. Ex qua
sententia sicut ingenti maximoque gaudio cum prefato vestro germano debite affecti sumus, ita de eadem letitia
huiusmodi ex causa a nobis omnibus concepta ad dominationem vestram duximus scribendum. Congratulamur
vobiscum et incredibili quodam et eo, quo aut lingua aut palatu aliquo numquam explicari posset, grandi gaudio
afficimur post hac sperantes vel similia vel maiora facillime solita bonitate vestrisque merentibus virtutibus consequi
posse, bene et diu valeat vestra dominatio cuius et nostre bone voluntati Deus ipse omnipotens propitius respondeat.
Non alia parati semper ad mandata C V D quam Deus item ad vota conservet. Corneti quarto decimo februarii 1454.
8)
Mi riferisco al “dilemma” formulato alla pagina 97 della peraltro pregevole monografia di G.C. TRAVERSI,
Tarquinia, relazione per una storia urbana, Tarquinia 1985: “In sostanza ci si chiede se Corneto finì nelle mani di
“eminenti scapestrati” che nella loro arroganza aristocratica fecero o credettero di fare il bello come il cattivo tempo, o
divenne proprietà di una famiglia....”
121
La compiaciuta sottolineatura della cortesia e del rispetto usati da Sante verso la
magistratura comunale; l’iperbolica manifestazione di gioia per il felice esito della
causa; le ripetute affermazioni di sottomissione, fino al conclusivo parati semper ad
mandata, travalicano forse l’etichetta ed esprimono efficacemente il prestigio dei
Vitelleschi rispetto ad istituzioni che sembrano più sopravvivere a se stesse. Può
essere interessante notare, di passaggio, che l’ad maiora del magistrato cornetano si
concretizzò, di lì a pochi mesi, nella attribuzione a Bartolomeo del governatorato di
Foligno e Perugia. 9)
Che questa lettera non sia il frutto di una municipalistica amplificazione ce lo
dimosta un documento di ben maggior rilievo: il contratto di vendita alla Camera
Apostolica di Tolfa e di tutto il suo territorio.
Siamo nell’anno 1469. Il vescovo cornetano è morto ormai da sei anni e la famiglia
Vitelleschi non è certo guidata e rappresentata da un esponente all’altezza dei
predecessori. Eppure Ludovico e Pietro Frangipane, i signori della Tolfa vecchia e
antichi rivali di Bartolomeo, giunti alla formula della evizione (e, cioè, alla
rivendicazione eventualmente esercitata da altri sulle proprietà che si accingono a
vendere) si preoccupano di garantirsi dalle pretese che evidentemente i Vitelleschi
possono ancora avanzare, facendo inserire nel contratto l’espressa riserva “di non
essere tenuti riguardo alla evizione per i diritti e le ragioni che hanno e pretendono
il Patriarca Vitelleschi di buona memoria ovvero i suoi eredi e successori, o
qualunque altro avente causa da quelli o da uno di quelli.” 10)
E’ un segno, mi pare, molto eloquente di ben radicati diritti, che scopertamente
richiama la controversia del ‘54 e ripropone in maniera non eludibile il problema
della titolarità della dominatio sulla Tolfa nuova.
Per avvicinarsi a una soluzione corretta di tutta l’intricata questione, occorre altresì
considerare che la ricordata titolarità degli Orsini, risalente al 1370, viene
confermata da Sisto IV dopo la definitiva distruzione della Tolfa nuova. Ciò
sembrerebbe dimostrare che occorre distinguere l’oggetto di quella distruzione (e,
cioè, il castello della Tolfa nuova) dal territorio circostante e dalle pertinenze e
limitare al castello la dominatio di Bartolomeo Vitelleschi risalente al 1435 e
rivendicata con esito favorevole nel 1454.
9)
Deinde Fulginatibus, Perusinisque ius dixit anno scilicet 1455 (F. UGELLI, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae,
Venetiis 1717 col 986).
10)
Quod non teneantur de evictione pro iuribus et rationibus, que bone memorie Patriarcha de Vitelleschis vel sui
heredes et successores, aut alii quicunque ab eis vel eorum altero causam habentes. Lo leggo in O. MORRA, Tolfa,
profilo storico e guida illustrativa, Civitavecchia, 1979, p. 67.
122
A confermarci in questa proposta ci sovviene un quasi contemporaneo
provvedimento del cardinale Vitelleschi che così il Polidori tramanda: Ritrovandosi
il Patriarcha Vitelleschi in Civitavecchia, deputò Castellano della Rocca di
Civitavecchia Pietro Vitelleschi, privatone il Mazzatosta che all’hora vi risedeva. 11)
Nello spazio di alcuni mesi, tra il 1435 e il 1436, il controllo delle due maggiori
fortificazioni situate a sud del Mignone, quelle che avevano offerto al Prefetto di
Vico l’ultimo rifugio e la speranza di una improbabile ripresa, venivano dunque
affidate dal legato pontificio Vitelleschi ai due nepoti Bartolomeo e Pietro. Una
conoscenza anche superficiale delle ultime vicende di Giacomo di Vico induce a
ritenere che non si trattasse di provvedimenti di scarso rilievo. 12)
Tanto meno si trattò di graziose concessioni da iscrivere nell’ambito del sorgente
nepotismo. Più probabilmente, Giovanni Vitelleschi volle prendere delle precauzioni
(e quanto fossero giustificate lo dimostrarono i drammatici avvenimenti successivi
all’uccisione del Patriarca), dare attuazione a convincimenti certo ben radicati
nell’animo dell’antico segretario del Tartaglia e che proprio in quegli anni così
andava enunciando a Basilea Enea Silvio Piccolomini: “Molto spesso io avevo
aderito all’opinione di coloro che affermavano l’utilità della separazione dalla Chiesa
del potere temporale... Ma ora ho imparato che la virtù è ridicola senza il potere e
che null’altro è il pontefice romano senza il patrimonio della chiesa che un servo di
re o di principi.” 13)
La disattivazione del complesso sistema di fortezze che avevano assicurato ai di Vico
il controllo di un territorio molto vasto e in parte coincidente con il successivo
ducato di Castro, il conseguente recupero e la utilizzazione, in tale ambito, dei due
nepoti furono fondamentalmente finalizzati al consolidamento dello Stato della
Chiesa? Siamo arrivati, come si vede, alla questione capitale della vasta bibliografia
su Giovanni Vitelleschi: da essa, in questa sede, è prudente ritrarsi per avanzare
qualche più facile considerazione.
Sotto la prestigiosa guida di Giovanni e Bartolomeo Vitelleschi, Corneto visse la sua
ultima stagione di gloria e quel dominio della Tolfa nuova, che poteva apparirci
all’inizio precario e irrilevante, finisce forse per caricarsi di un forte valore
11)
POLIDORI, op.cit., p. 233.
Rinvio a COLA, op.cit., pp. 27-28.
13)
Saepius ego illorum assensus fueram, qui expedire dicebant temporale dominium ab ecclesia secerni... Nunc autem
didici quoniam ridiculosa est sine potentia virtus, nec aliud est Romanus pontifex sine patrimonio ecclesiae quam
regum et principum servus. Questo passo del De gestis concilii Basiliensi commentariorum libri duo si legge in P.
PRODI, Il sovrano pontefice, Bologna 1982, p. 37.
12)
123
simbolico: esso costituisce, oltre che l’esordio di Bartolomeo, la più avanzata
presenza cornetana al di là del Mignone, l’ultimo atto di una espansione
plurisecolare, che aveva preso avvio il 31 marzo del 1201 con la sottomissione di
Ugolino, signore della Tolfa vecchia e di Monte Monastero. 14)
Ancora nel senso di un simbolico coronamento del glorioso passato comunale può
essere compreso un altro provvedimento di cui, sempre nel corso di quell’anno 1435,
si fece promotore Giovanni Vitelleschi. La costruzione della resechata e della torre
di “Matilde di Canossa”, che restrinse e rafforzò nell’area del Castello il perimetro
delle mura, intervenne infatti sulla struttura che meglio di ogni altra quel passato
rappresentava, e ancora oggi rappresenta. 15)
Abbiamo già visto come il ricordo della supremazia cornetana sopravviva nell’atto
che sancisce l’acquisto di tutta l’area dei Monti della Tolfa da parte della Camera
Apostolica, tanto da spingere i Tolfetani, ancora nell’anno 1475, a chiedere di
continuar il Vassallaggio e pagar il solito tributo, benchè hora siano nel Dominio
della Chiesa. 16) . Ma ormai lo sfruttamento delle miniere di allume e la parallela
rinascita di Civitavecchia avevano stravolto il precedente equilibrio.
E se il primo contratto per l’estrazione dell’allume stipulato da Giovanni da Castro e
approvato da Pio II vede il Comune di Corneto come un contraente di pari dignità
rispetto alla Camera Apostolica, basta leggere le minacciose lettere di Paolo II e di
Sisto IV per avvertire il cambiamento dei tempi intervenuto nel giro di alcuni anni: a
Corneto tocca ormai soprattutto di assicurare grano per il sostentamento di
Civitavecchia e bestie da soma per il trasporto dell’allume lungo la nuova strada che
collegava le miniere al porto di Civitavecchia. 17)
L’entità dei proventi che derivarono dalla esportazione dell’allume raggiunse fin dal
primo anno dimensioni tali da imporre, come si è visto, la presenza della Camera
Apostolica: si consideri che il contratto di appalto per lo sfruttamento di queste
miniere metteva a disposizione delle casse pontificie 50.000 fiorini all’anno a fronte
di un introito complessivo di 300.000. D’altra parte, le concessioni fatte dai
pontefici, a partire da Eugenio IV, per sconfiggere il movimento conciliare e
14)
Si vedano interessanti considerazioni di M. RUSPANTINI nella introduzione a Gli Statuti della città di Corneto MDXLV, Tarquinia 1982, p. 42.
15)
Rinvio a G. TIZIANI, Le fortificazioni di Tarquinia medievale (Corneto), Tarquinia 1985, pp. 11-16.
16)
POLIDORI, op.cit., p. 265.
17)
Il contratto è in A. THEINER, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, Roma 1862, III, p. 419. Le due
lettere sono conservate nell’Archivio Storico del Comune di Tarquinia e da me pubblicate in Iscrizioni e stemmi
pontifici nella storia di Civitavecchia, Civitavecchia 1984, TAVV. I e II.
124
riunificare la Chiesa avevano comportato una riduzione di circa i due terzi delle
risorse fiscali raccolte in Europa.
Questo dato, che si inserisce nel processo di trasformazione del Patrimonio di San
Pietro in Stato della Chiesa unito territorialmente e sostenuto da un razionale
centralismo amministrativo, limitava fortemente la conservazione di antiche
autonomie, non poteva consentire la sopravvivenza di antiche anarchie. E’ così che
possiamo probabilmente spiegarci il definitivo abbattimento della rocca della Tolfa
nuova - che ancora nel 1460 era stata presa e fortificata da Everso d’Anguillara voluto da Sisto IV nell’agosto del 1471.
FAMIGLIE E STEMMI CORNETANI DALLA SCHEDATURA DI BENI
ARTISTICI A DI TARQUINIA
L’opera di schedatura dei Beni artistici iniziata in collaborazione tra Comune e
Soprintendenza di Roma, a cura di chi scrive, ha permesso di analizzare per la prima
volta con attenzione manufatti che spesso per le piccole dimensioni e, più spesso per
la difficile collocazione, sono passati inosservati e che invece sono assai importanti
per la ricostruzione storico-topografica della città. Quest’opera iniziata fin dal 198182 ha permesso di redigere circa quattrocentocinquanta schede che sono già in
visione presso la Soprintendenza di Palazzo Venezia. L’esposizione non è
ovviamente estesa a tutti i pezzi araldici di Tarquinia, ci si limita ad una piccola
parte di quanto schedato, ai pezzi più interessanti storicamente o a quelli mediante i
quali è possibile correggere errori di datazione degli edifici sui quali compaiono,
alcuni dei quali addirittura grossolani. Una prima identificazione di emblemi
cittadini fu fatta nel precedente bollettino della S.T.A.S. nell’articolo sul Palazzo
Civico di Tarquinia dove, nel salone degli affreschi ne compare una nutrita serie del
1629 1)
125
Un sostegno essenziale in questa ricerca è il manoscritto della Biblioteca
Falzacappa, opera del conte Pietro, morto il 16 aprile 1875, (Memorie di Corneto, 5,
Arme della Città di Corneto) qui più volte citato, l’autore del quale è celebrato dal
Dasti per questa sua enorme impresa 2) .
La presenza dei palazzi di famiglie ora scomparse dall’ambito urbano è a volte
segnalata peraltro da qualche iscrizione nelle finestre come ad esempio per quelli
dei Crochi, famiglia viterbese, di cui restano alcuni edifici nel capoluogo ed in
Tarquinia in Via XX Settembre (DE CROCHI), per quella dei Tyberi in Via Falgari
(PETRUS TIBERYUS) o per il Palazzo (cinquecentesco) dei Bufalini, famiglia
comitale imparentata coi Mazarino di Francia il palazzo dei quali praticamente
sconosciuto è in Piazza del Duomo (10: BATT. BUFALINUS) 3) , o per gli Ziti 4) , in
Piazza Soderini, n. 10 (LAUDIZIO ZITUS). Di una famiglia romana invece, i Nobili,
in cui si estinsero i Vitelleschi di cui presero il nome, Vitelleschi-Nobili e lo stemma
(1624), era un palazzo antistante la chiesa di S. Giuseppe, dove su un cantonale era
posto l’arme della famiglia: un leone rampante che sorregge una torre; il disegno
dello stemma e la sua collocazione sono registrati dal Falzacappa 1) . In questo
manoscritto, redatto in modo amato riale e a volte piuttosto sommario, sono
registrate molte armi delle famiglie locali di cui qui si da l’elenco: Paris, Sperti,
Scarpellotti, Cesarei, Castelleschi, Vitelleschi, Lelii, Tiberj, Consalvi, Rodolfi,
Barbacci, Tiberj (variante), Sperti (variante), Picchi, Falzacappa, Cammilli, Forcella,
Chiocca, Bovi, Nobili, Palluzzi (sic), Franzosi, Fulgenzi, Fani, Polidori, Seppia,
Martellacci, Avolta (sic), Ronca, Raffi, Giglioni (tre esemplari in due varianti),
Lucidi, Crispi, Savelli, Falgario (sic). Gli stemmi n. 1, 2, 14, 15, 44, sono dati senza
alcun nome, e a volte senza descrizione. Il fatto che siano inoltre disegnati
semplicemente a contorno, senza i colori, rende più difficile la loro identificazione.
1)
G. TIZIANI, Ricerche sul palazzo comunale e sugli affreschi della sala del Consiglio, in Bollettino della Società
Tarquiniense d’Arte e Storia, 1984, Tarquinia, 1985, pp. 37-68.
2)
L. DASTI, Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto, - Roma 1878, p. 181.
3)
Per quest’ultimo palazzo, dato al Settecento dal Traversi (cfr. G.C. TRAVERSI, Tarquinia. Relazione di una storia
urbana, Tarquinia 1975, v. pianta allegata), cfr. G. TIZIANI, L’acquedotto, la fontana di Piazza ed altri episodi del
Settecento cornetano, Tarquinia, 19811, p. 41. Il Traversi, ingannato da alcuni rifacimenti dell’edificio, lo data
erratamente al secolo XIX, senza rilevarne la struttura medioevale ed i rifacimenti cinquecenteschi (cfr. G. Traversi,
Tarquinia, cit. Tarquinia 1985, pianta allegata).
4)
Un Pietro di questa famiglia è citato dal Polidori (cfr. M. Polipori Croniche Cornetane a cura di A.R. Moschetti,
Tarquinia, 19711, pp. 299-311) nel 1509 come contestabile della parrocchia di S. Giovanni e come consigliere del
terziere di Castro Nuovo.
1)
M.s. anonimo (Pietro Falzacappa) (Corneto-Tarquinia, ante il 1875) Memorie di Corneto, 5, Arme della città di
Corneto, Soc. Tarquiniense d’Arte e Storia, p. 17, n. 29; per lo stemma dei Nobili cfr. T. HAMAYDEM, La storia delle
126
Quello al n. 5, ad esempio si ritiene che sia lo stemma dei Farnese. La grande
famiglia romana sarebbe stata ascritta secondo il Polidori alla cittadinanza
cornetana. Il suo stemma compare infatti nell’affresco del salone comunale (1629).
In quello riportato nel codice vi sono disegnati soltanto sei gigli senza i colori,
mentre lo stemma anonimo al n. 114 si evince poi dalla didascalia sottoposta a
quello al n. 22 essere un’arme, completamente diversa, delle medesima famiglia
degli Sperti. Il manoscritto del Falzacappa non è affatto completo, manca ad
esempio di tutta l’araldica corporativa, pur rappresentata in città da alcuni emblemi
dei mastri murari e da quelli dei calzolai (questi numerosi esemplari), i molti ancora
oggi conservatisi in S. Francesco, la magnifica serie di quelli sull’arco di Porta Nova,
appartenenti ai Farnesi, ai Bentivoglio, ai Conti di Anagni (neg. Soprint. BB.AA.SS.
Roma nn. 109347, 109346, 109348) 2) , quelli di Giuseppe Renato Imperiali e di papa
Innocenzo XIII sulla fontana di Piazza, di Giovan Battista Rovino, generale del S.
Spirito (neg. Soprint. BB.AA.SS. n. 109288), davanti al palazzo del preposto dello
stesso ente.
Inoltre egli tralasciò quello sul portale laterale della chiesa di Valverde (con il motto:
DE MEDIO FRATRUM MEORUM, neg. Sopr. citata, n. 109266), quello di Luigi
Testaferrata, cui è sovrapposto un bel ritratto ad olio su rame, in S. Francesco (neg.
Soprint. citata n. 109596), quello di Scipione d’Alessandri in Palazzo dei priori (neg.
Soprint. citata, n. 109367), quello di Vincenzo Magliavia (rubato da qualche anno,
già sull’edificio della “Gabelletta”), sicuramente un gabelliere, databile al secolo XVI
(nn. Soprint. citata, n. 109434), i due in Via Mazzini e nel vicolo chiuso adiacente
(nn. 15-16) con tre fasce, finora anonimi (negg. Soprint. citata nn. 109414-109415).
Il Falzacappa dimentica inoltre ancora quelli che tuttora si conservano sulle mura
urbiche nella zona di castello, tra cui quello di Pietro de Carolis e, dello stesso,
quello sul granile del S. Spirito con data ed iscrizione 1) . Inoltre tralasciò quelli di
Pio V, di Clemente XI 2) e di Lazzaro Pallavicini sulla facciata del Convento di S.
Francesco, quelli di Niccolò V sulla torre della Maddalena e sulla facciata
dell’Ospedaletto del S. Spirito, quello dei Sacchetti in Piazza Verdi (Piazza “D’Erba”)
e tutti quelli ora raccolti nella collezione comunale in Palazzo Vitelleschi, molti dei
Famiglie romane, Roma s.d., Vol. II, p. 111; pp. 232-233 (Vitelleschi Nobili) Della famiglia Vitelleschi si tralascia
ogni dato sullo stemma per la sua notorietà e per la diffusione degli esemplari.
2)
G. TIZIANI, Le fortificazioni di Tarquinia medioevale (Corneto), Tarquinia, 1975, p. 27, fig. 20.
1)
Idem, p. 22 n. 17
2)
Sullo stemma di Clemente XI (Albani) cfr. G. TIZIANI, L’acquedotto, la Fontana di Piazza ed altri episodi del
Settecento cornetano, 11981, pp. 22,47 n. 4.
127
quali allora sulla loggia del Palazzo Comunale 3) , oltre a quello ancora oggi visibile,
seppure quasi privo di colore, affrescato su un edificio di Via G. Marconi al n. 22
appartenente ai Principi Borghese e quello ancora anonimo in Via XX Settembre, al
n. 15, Settecentesco che ha una fascia ricurva sormontata da una stella ad otto punte
(neg. n. 109431). Numerose furono, peraltro, le famiglie forestiere, anche di alto
rango che ebbero a lungo residenza e palazzi in Corneto, citate sia dal Polidori che
dal Valesio ma che in questa sede interessano solo marginalmente. Tra queste “la
Savelli e la Manoldeschi, indi la Farnese, la Borghese, l’anno 1618..... e la
Sacchetti” 4) , “Serlupi, Orsini, Castiglioni, Fani, Pacca, Carpegna, Piccolomini,
Simonetti, Odescalchi, Soderini, ed altre”. 5)
Stemmi di Corporazioni
Il primo emblema si trova sulla fronte e su di un fianco di un granile già di proprietà
della Corporazione dei Calzolai che, considerata la diffusione degli emblemi in città,
era ricca di soci e di possedimenti.
Si sottolinea la presenza di questo emblema in Via S. Fortunato perché è l’unico ad
avere incisa la data, in questo caso il 1709. Erratamente il Traversi data i due edifici
di Via S. Fortunato entrambi con i medesimi caratteri architettonici, il secondo
contrassegnato dal numero civico 34, addirittura ad una data non successiva al XII
secolo. Egli non rileva né la tipologia muraria molto tarda, ad opera rustica, né
l’andamento dei portali a sesto ribassato o policentrico, né gli stemmi dei due
edifici 1) . I granili sono purtroppo in via di grave degrado, mentre molti altri sono
stati trasformati in abitazioni in tempi recenti, senza attenzione a mantenere
leggibile la tipologia dell’esterno ed annullando così uno degli elementi che
caratterizzavano l’immagine della città post rinascimentale, quella di città granaio;
che tale si configurò nel tempo; soprattutto dopo che nel 1608 Paolo V vincolò la
produzione granaria di Corneto al rifornimento annonario di Roma, motivo di grave
decadenza economica.
L’emblema con martellina, cazzuola e ascia è invece un emblema corporativo molto
raro, ne rimane solamente un altro nel pavimento della chiesa di S. Maria in
3)
Per tutti questi v. le schede di catalogo presso la soprint. di Palazzo Venezia.
Ms. Falzacappa, cit. Vol. 3° pp. 240-242 (dalle: Memorie istoriche della città di Corneto di Francesco Valesio,
Roma, Archivio Capitolino, inizi del sec. XVIII).
5)
L. DASTI, Notizie Storiche e Archeologiche di Tarquinia e Corneto, Roma, 1878, cit. p. 98.
1)
G.C. TRAVERSI Tarquinia. Cit. Pianta di Tarquinia (allegato).
4)
128
Castello, molto abraso e quasi invisibile. Questo è inserito in una muratura tarda,
rustica, e non è certo nella sua collocazione originaria.
Stemma di Pietro Ancarano, sec. XIV-XV. Peperino, Via degli Archi n. 37 (neg. Sopr.
BB.AA. SS. Roma, n. 109403). Il portale rettangolare, a piattabanda, ha al centro
dell’architrave uno scudo araldico con apice inflesso, accantonato da due fogliami
d’acanto. La figura araldica è una conchiglia. Nei due pennacchi dello scudo sono
scolpite le iniziali di Pietro Ancarano: A P. Il portale è situato sul lato destro
dell’androne del palazzo. Il personaggio cui si riferiscono le due iniziali è il giurista
Pietro Ancarano, vissuto a cavallo dei secoli XIV e XV sul quale si dilunga il
Polidori 1) . L’Ancarano fu per lungo tempo lontano dalla città di nascita, a Bologna,
a Padova, a Ferrara, a Venezia, a Siena, richiesto dalle università e dal doge Antonio
Venier. Morì a Bologna dopo il 1415.
Da parte materna era un Farnese e non, come a volte si trova scritto, per linea
paterna 2) . Secondo il Polidori il suo stemma era costituito da tre conchiglie
d’argento in campo azzurro in triangolo: “di queste imprese, con litere P.A. che
significa Pietro Ancarano, se ne vedono molte nella casa che fu sua habitazione, e
poi della famiglia Cappellescha... che stà in questa città nella Parrocchia di S.
Pancratio” 3) . Lo stemma dei Cappelleschi è infatti alla banda d’oro in campo
azzurro caricato di tre conchiglie d’argento e due stelle d’oro nel I e nel IV come
nell’esemplare dipinto nella Sala del Consiglio del Palazzo Comunale. 4) Uno stemma
che corrisponde esattamente a quello descritto dal Polidori è dipinto su una
brocchetta proveniente da Tarquinia, che si trova attualmente presso il Museo di
Roma (Palazzo Braschi) 5) . La brocchetta (un’olla acquaria), che il Mazzuccato
ritenne essere dipinta con lo stemma dei Romeo, una famiglia genovese, è opera di
produzione laziale “probabilmente viterbese” 6) ; essa ha tre conchiglie d’argento in
campo blu ed è da riferirsi con certezza agli Ancarano.
Stemma del Podestà Sante di Mactutio (Lelli), sec. XV (1458), peperino, Museo
Nazionale, cortile (neg. Soprint. BB.AA.SS. di Roma, n. 109461).
1)
M. POLIDORI, Croniche di Corneto, Tarquinia 1977, pp. 60-61.
Cfr. Dizionario Enciclopedico Treccani, vol. I 1970, p. 632 s.v.
3)
M. POLIPORI, Croniche, Cit., p. 61
4)
Probabile quindi una derivazione, o meglio, l’arrogazione delle tre conchiglie dell’Ancarano nello stemma
Cappelleschi forse a seguito di una qualche unione matrimoniale. Sullo stemma dei Cappelleschi cfr. G. TIZIANI,
Ricerche sul Palazzo Comunale di Tarquinia, Cit., Tarquinia 1985.
5)
O. MAZZUCCATO, Ceramiche medioevali e rinascimentali dell’etruria meridionale, in: Museo Nazionale di Villa
Giulia, Nuove scoperte e acquisizioni nell’Etruria Meridionale, p. 232-233 n. 3 Tav. 65 n. 3
6)
O. MAZZUCCATO, Idem.
2)
129
La lastra, proveniente anch’essa dal Palazzo Comunale, è improntata anch’essa ad
un accentuatissimo gusto del “gotico fiorito”, caratterizzato da un’estrema ricchezza
ornamentale e da un gusto graficizzante. L’iscrizione nella parte inferiore afferma:
ARMA
SPECTABILIS
VIRI
SANCTIS
URBE.HON.POTATIS.CI/VITATIS.CORNETI.CUI
DE
MACTUTIIS
ARMA/COMUNIS
DE
DONATA
FUERUN/NT ANNO DNI MCCCCLIII.
Il rilievo è come il precedente, opera di una bottega locale, ciò per l’uso del peperino
largamente usato nella scultura ornamentale del luogo. I due pezzi sono però unici
in città per gusto e stato di conservazione. L’insegna comunale venne conferita al
podestà benemeriti 1) ; in questo caso un romano. In alto compare lo stemma
comunale seppur privo del “Crognolo”, mentre lo stemma di famiglia è partito
(diviso in due parti verticali), nel 1° al volatile (non ben identificato), al 2° a sei rose
poste 2-1-2-1. Ci sembra di poter ritenere che questo stemma chiarisca coma la
famiglia Lelli, di cui ci restano altri e differenti stemmi, sia giunta in Corneto.
L’Hamayden scrive infatti: “I Lelli, detti Nicoli, portavano un partito nel 1° di rosso
dalla colomba rivolta d’argento, tenente nel becco un ramo di ulivo; nel 2° di
argento a 6 rose di rosso poste 2-1-2-1” 2) , per quanto concerne questa famiglia v.
più avanti nel testo.
Stemma podestarile (Malevicini) sec. XV, (1456) peperino, Museo Nazionale loggia
del 2° piano (neg. Soprint. BB.AA.SS. Roma n. 109490).
La lastra di peperino, scolpita a bassorilievo in caratteri accentuatamente
tardogotici, riporta entro uno scudo a targa l’arma di un nobile viterbese della
famiglia dei MALEVICINI, costituita da un leone rampante, avvolta da
lussureggianti lambrecchini ritorti in volute che scendono dalla celata cavalleresca.
Il cimiero è costituito da un braccio armato di randello nodoso attorno al quale si
attorce il “breve” (cartiglio) con il motto in capitali romane. Tutt’intorno sono
scolpiti a sinistra un gonfalone crociato con terminazione a coda di rondine ed a
destra, sovrapposti, un elmo e lo scudo con l’arma del Comune di Corneto. Sul
margine esterno e nell’esergo, inferiormente, sono poste le iscrizioni relative al
personaggio, certamente uno dei podestà del comune e conte palatino. Nella lista
attorno al cimiero: DOMAT OANIA (sic) VIR/TUS (La Virtù vince tutto) Nel
1)
G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale, cit., p. 57; La Margarita Cornetana, a cura di P. SUPINO, Roma 1969,
doc. n. 579, pp. 425-426. Per l’uso Cfr. M. Polipori, Croniche, cit., pp. 254-255-, 257.
2)
T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie Romane, Roma, s.d., vol. II, p. 6 nota 1.
130
margine
esterno:
D.X
PU.
ORI,M(A)LEVICINI.DE.VIERBIO.IU/RIS
COS.MITIS.PALATINI/OB. IUS. E. PRETURE.BNM. MO... CAVA:
nell’esergo:
DISCITE . QUID. FACIANT. SANCTUM. IUSTUM. Q. PIURO/QUOS. PIA.
PRAETORE.GLORIA TANTA. VOCAT / NON MORITUR. IUSTUS. NULLO.
VEL.VINCITUR. E... VIVIT ET. ETERNO. NOMINE. CLARUS. ADEST.IUSTITIA.
E...CO.DEDIT. FEC. INSIGNIA. CENSU/SOLA... M MUNERA. SOLA.DEDIT.
La lastra proviene dalla loggia del Palazzo Comunale 1)
Stemmi della Famiglia Forcella 1) : alzata di Monumento funerario presso la Chiesa
di S. Francesco (inv. neg. Soprint. BB.AA.SS. Roma n. 109401) 2) , emblema all’inizio
di Via degli Archi (inv. neg. Soprint. BB.AA.SS. Roma n. 109420).
Palazzo Sacchetti, P.za G. Verdi n. 18 (cortile interno), rilievo di puteale con stemma
della famiglia Giglioni, peperino (neg. fot. Soprint. BB.AA.SS. Roma n. 109361).
La decorazione del prospetto è scolpita su un’unica lastra, due paraste con base e
capitello chiudono ai lati una specchiatura rettangolare entro cui è scolpito in
bassorilievo uno scudo a muso di cavallo tra eleganti volute floreali da cui nascono
grandi fiori a cinque petali. Lo stemma è bandato, capo caricato da due crescenti
affrontati e sostenuto da una fascia. Il riferimento alla famiglia Giglioni viene
immediato per vicinanza nello stesso cortile con un portale della stessa epoca in cui
è inscritto in capitali umanistiche: PETRUS DE GIGLIONIBUS FECIT. L’edificio
che nella facciata è opera dell’inoltrato cinquecento, a giudicare dallo stemma di
Facciata dei Sacchetti non dovette passare a questi prima del tardo secolo XVI, e fu
eretto quindi da questa famiglia che, originaria di Tuscania, si era stabilita
successivamente a Siena (1415’-20) al seguito dei condottieri Tartaglia e Ranuccio
Farnese. Il Pietro che si firma nel portale del palazzo oggi Sacchetti sarebbe figlio di
Oddone e fratello di Costanza, moglie del cornetano Aurelio Mezzopane di cui resta
lo splendido monumento funebre in Palazzo Vitelleschi, già nella Chiesa di S. Marco.
Lo stemma scolpito nel puteale appartiene al ramo senese della famiglia, assunto da
tale Loddo 1) .
Il Falzacappa riporta di tre stemmi dei Giglioni, tutti con l’arme di Loddo, di cui:
1)
G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale, cit., p. 58.
Questi emblemi, in rapporto ad uno analogo dipinto nella sala del Consiglio in Palazzo Comunale, erano già citati nel
1985 (cfr. G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale di Tarquinia, cit., pp. 50-51).
2)
Si ringrazia il proprietario Sig. Caldana, per aver gentilmente fornito la foto dell’oggetto.
1)
Si ringrazia il dott. Giuseppe Giontella per aver fornito gli schemi della successione genealogica dei Giglioni e le loro
armi. Per i Giglioni di Tuscania cfr. G. GIONTELLA Tuscania Attraverso i Secoli, Grotte di Castro, 1980, pp. 128130, fig. n. 46.
1)
131
“(A) nel fonte battesimale della cattedrale
(B) Quest’arme è riportata dal cav. Gigli nel suo diario Senese perché annoverato
fra le patrizie di quella città.
(C) Nella sala del Palazzo Sacchetti scolpita nel camino, e nella lapide del sepolcro
gentilizio in S. Francesco esistente tra la balaustra e li primi pilastri della navata
maggiore” 2) .
Di questi esemplari rimane oggi (oltre alla lastra del pozzo) lo splendido fonte
battesimale della cattedrale, mentre sono scomparsi sia il camino, già nel palazzo,
ed il sepolcro di famiglia in S. Francesco.
Via Umberto I n. 43, impresa con breve ed iscrizione, inizi del XVI secolo, calcare
(neg. Soprintendenza BB.AA.SS. Roma n. 109391). Il rilievo, molto piatto occupa
tutto il campo della lastra quadrata su cui è scolpito. L’impresa, cioè le figure
raffiguratevi, sembra adombrare un significato recondito, simbolico, difficile da
interpretare.
Scrive il Neubecker: “I paesi dove ebbe massima fioritura l’uso di impiegare altri
emblemi accanto agli stemmi veri e propri furono l’Inghilterra e l’Italia... figura
enigmatiche suggestive ma raramente decifrabili di primo acchitto, come accade
per le due colonne d’Ercole di Carlo V, alle quali fu aggiunto il motto Plus Ultra.
Era noto che in questo caso si alludeva all’estensione della sovranità spagnola oltre
lo Stretto di Gibilterra 1) .
Questo emblema unisce “all’impresa di corpo” (la raffigurazione) “l’impresa
d’anima”, cioè il motto nella lista svolazzante. La lista ha l’iscrizione: SUB UMBRA
ALARUM TUARUM. Al di sotto dello scudo compare il nome del proprietario dello
stemma: PR. DOMINI / CUS MAZANCAPUS DE VIANO (Priore Domenico
Mazancapo de Viano). L’invocazione, che tale pare quella nella lista, sembrerebbe
riferita a Dio di cui la mano è un simbolo antichissimo; qui in un qualche rapporto
con il drago e con la cometa, forse ambedue raffigurati come elementi apportatori di
malefici e sventure.
La raffigurazione a rebus “attorno alle quali i contemporanei dovettero ammattire
poco meno di coloro che la studiano oggi” 2) , si spiegherebbe forse la conoscenza
“del mondo fiabesco e fantastico e.... dei proverbi di molte epoche” 3) . Molti analoghi
2)
M.S. FALZACAPPA, Memorie di Corneto cit., nn. 41, 42, 43.
O. NEUBECKER, Araldica, Milano, 1981, pp. 212-213.
2)
Idem.
3)
Idem.
1)
132
esempi di imprese si trovano presso la collezione della Biblioteca Trivulziana di
Milano, e giuocano spesso su significati plurimi o simbolici.
Il personaggio che si firma Domenico Mazaincapo era il priore dell’adiacente Chiesa
della Maddalena e Viano corrisponde all’attuale Veiano.
Via delle Torri, n. 9, portale a bugne con stemma dei Roncioni (?). inizi del secolo
XVI, peperino (neg. 109372). Il portale, di tipo fiorenrtino, ispessito, ha sulla chiave
un cavallo inalberato.
Lo stemma è unico in città ed anche la figura araldica non è molto comune.
L’attribuzione ai Roncioni, famiglia di origini pisane, poi romana, è plausibile ma
ipotetica. A Roma sono testimoniati dai primi decenni del Cinquecento, dove furono
iscritti all’albo della nobiltà solamente nel 1746. La probabilità che lo stemma sia il
loro è dato dal fatto che in Pisa, città che ebbe lunghi ed intensi rapporti con
Corneto, i Roncioni si estinsero solo nel XIX secolo ed ebbero tra i loro membri dei
cavalieri di Malta e di Santo Stefano e quindi è molto probabile che avessero
possessi in città. Lo stemma dei Roncioni è d’azzurro al cavallo inalberato
d’argento 1)
Via di Porta Castello n.1, portale a bugne con stemma dei Savelli. Secolo XVI,
peperino (foto personale). Lo stemma si trova nella chiave di un grosso portale
cinquecentesco, unica testimonianza di un palazzo che dovette essere in buona parte
demolito nel Seicento per ingrandire la piazza della cattedrale. L’edificio situato
sull’angolo della Piazza del Duomo, di fronte a Palazzo Bufalini, è sicuramente
quello testimoniato dal Polidori: “il vescovo moderno....ha procurato... che il
pubblico pigliasse, come ha fatto, in emphiteusi il Palazzo del detto Duca di Latera,
che fu prima della signora Portia Savelli, e poi delli Signori Alesandro degli Atti” 1) .
L’edificio prima di passare ai Savelli dovette far parte dell’”isola urbana” dei
Vitelleschi; in un interrato compaiono infatti delle esili tracce di dipinti con croci ed
ornati tra cui appena visibile, lo stemma dei Vitelleschi 2) .
Lo stemma dei Savelli era già registrato dal Falzacappa nel suo manoscritto
sull’araldica cornetana 3) . L’edificio passò quindi ai duchi di Latera, cioè a quel ramo
dei Farnese che nel 1537 fu investito da Paolo II del principato di Latera e Farnese,
1)
T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie Romane, cit., Roma s.d., vol. II, pp. 169-170.
POLIDORI, Croniche, cit. p. 109.
2)
G. TIZIANI, L’acquedotto, cit., p. 55 nota 63.
3)
M.S. FALZACAPPA, Memorie della città di Corneto (Arme della città di Corneto), cit., vol. 5, p. 25 n. 48
“SAVELLI: Nel mausoleo esistente nella cappella di questa famiglia nella chiesa di S. Maria in Aracoeli in Roma”.
1)
133
venduto nel 1658 ai Chigi che ne furono gli ultimi feudatari 4) . La famiglia Datti, cui
passò successivamente l’edificio, appartenne anch’essa alla nobiltà romana 5) .
Il ruolo dei Savelli in città era ancora di tutto rilievo se Papa Leone X nel 1514 fa
eccezione per Luca Savelli “con due o tre compagni” al divieto di portare armi
all’interno della città, mentre ciò avviene espressamente vietato anche per i
“famigli, ministri o commissarij di caccia d’Agostino Ghisi, o guardiani del
Cardinal Farnese” ecc. 6) . Nel 1520 inoltre: “Paolo Savelli, havendo fatto sposalizio
con una Signora, invita la Città di Corneto ad intervenire per mezzo dei suoi
ambasciatori alle sue nozze, et la città... perché era concive, accettò volentieri
l’invito... con il dono di doi tazze d’argento di valore di venticinque scudi” 7) Lo stile
del portale e quello dello scudo sono infatti ancora completamente cinquecenteschi.
Il palazzo del Savelli, lo stesso che il Polidori dà al Duca di Latera, non fu distrutto
completamente come riporta il Traversi per la nuova costruzione del duomo sotto
Bartolomeo Vitelleschi 8) . Come avrebbe potuto accadere ciò se l’ampliamento
avvenne nel XV secolo ed il palazzo del duca è citato dal Polidori ancora nel
Seicento? La distruzione di un palazzo e di una torre antistanti la chiesa è da altri
documentata nel 1672 1) . La proprietà era allora dei Marchesi Serlupi Crescenzi.
Il Traversi quindi dà addirittura al secolo XX quanto resta dell’edificio, non
rilevando il portale cinquecentesco, ed identifica seppure ipoteticamente il “palazzo
del detto duca di Latera” con il gruppo di case-torri antistante la facciata della
cattedrale. 2)
I Savelli, ebbero il loro periodo di massima grandezza nel tardo secolo XII e nel XIII,
quando ebbero in famiglia il pontificato con Onorio III (1216-1227) ed Onorio IV
(1285-1287). La famiglia dominò in Roma e nei Castelli assieme ai Colonna e agli
Orsini e fu portata a grande potenza da Luca, il primo per il quale si trova il titolo di
De Sabello, e dai figli Giacomo (Onorio IV), Giovanni, custode del conclave di
Viterbo (1270) e Pandolfo; insignita del maresciallato della Chiesa e della custodia
del conclave, a capo di una giurisdizione speciale detta Corte Savella.
L’ultimo ramo dei Savelli fu quello di Palombara che si estinse nel 1712.
4)
Sui Savelli cfr. HAMAYDEN, la storia delle famiglie romane, cit. vol. II, pp. 188-189.
HAMAYDEN, La storia cit. vol. I, p. 380.
6)
POLIPORI, Croniche, 1977, cit., p. 315.
7)
Idem, cit., p. 319-320.
8)
G.C. TRAVERSI, 1985, cit. p. 100, nota 20.
1)
M. Corteselli, A. Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983, p. 85.
2)
T. HAMAYDEN, la Storia, cit. pp. 188-189.
5)
134
I beni passarono allora agli Sforza Cesarini ed il Maresciallato ai Chigi. La famiglia
romana intensi contatti con Corneto, tanto da farsi costruire anche un altro palazzo,
più antico, reperito grazie allo stemma murato nella parete Est, in Via Giordano
Bruno n. 18, del secolo XIII (Nog. Soprint. BB.AA.SS. Roma n. 109393).
L’edificio dei Savelli, che non ha particolare rilevanza architettonica, occupara una
superficie rettangolare tra Via Giordano Bruno e la via parallela verso mare (Via
Giacomo Setaccioli) si apre su entrambe ed ha al centro un cortile. L’edificio
conserva soprattutto su Via Giordano Bruno e la via parallela verso mare (Via
Giacomo Setaccioli) si apre su entrambe ed ha al centro un cortile. L’edificio
conserva
soprattutto
su
Via
Giordano
Bruno
gli
elementi
architettonici
duecenteschi, archi di portali e finestre a sesto acuto, ma ebbe importanti modifiche
nel cinquecento. Lo stemma non è in buone condizioni, in parte è scalpellinato.
L’arme familiare Savelli è: Bandato d’oro e di rosso al capo d’argento caricato da
due leoni affrontati di rosso, sostenenti una rosa di rosso sulla quale posa un
uccellino d’oro; il capo è sostenuto da una trangla di verde da una burella ondata
di nero 3) . Esiste anche la variante senza burella, come nel monumento ad Onorio IV
all’Aracoeli dove la rosa non è sostenuta in alto ma si trova tra le zampe dei leoni 4) .
Nello stemma del palazzetto in oggetto i due leoni più che rampanti sono “passanti”
e invece di esserci bande o sbarre è fasciato. In dubbio la presenza della rosa con
l’uccellino. La presenza di un edificio dei Savelli in Corneto fin dal XII secolo è
probabile, sia per l’importanza della città che per il ruolo sostenuto dai Savelli nel
patrimonio di S. Pietro. Luca Savelli era infatti Rettore e Capitano Generale del
patrimonio, proconsole romano e Rettore di Corneto, e analogamente Pandolfo
Savelli, che nel 1296 era creditore del comune di Corneto 1) . Proprio da un
cornetano, il Cardinale Giovanni Vitelleschi “che allora reggeva tutto il fondo della
chiesa” 2) , la famiglia ebbe un colpo terribile. Nel marzo 1436 egli tolse loro il
castello di Borghetto presso Marino, Castel Gandolfo, Albano, Rocca Priora e Castel
Savello.
Via Garibaldi n. 38, Portale con stemma della famiglia Martellacci, sec. XVI.
peperino (neg. fot. 109410). Il portale di proporzioni potenti, con bugne a cuscino
appena ispettito in chiave, ha alla sua sommità uno scudo a targa di fattura molto
3)
Idem.
P. SUPINO, La Margherita Cornetana, cit., doc. nn. 250, 37, 42, 187, 203, 236, 239, 29, 38, 41, 42, 44, 74, 75, 198,
202, 219, 215, 222, 226, 227, 250, 393, 340.
1)
C. PINZI, Storia della città di Viterbo, Vol. IV, Viterbo 1913, p. 6
2)
Idem, pp. 9-10.
4)
135
elegante e ben conservato tranne che nel cimiero. Le figure araldiche sono: un
albero “sradicato al naturale” in palo, abbassato sotto due spade decussate e
accompagnato in capo da due stellle di sei punte.
Sul tutto è posto un elmo da torno cui è sovrapposto un cercine che porta il cimiero
raffigurante un montone. Elegantissimi labrecchini, cioè fogliami in funzione
ornamentale, scendono su due lati terminando in una nappa ciascuno. Il palazzo,
ora ricoperto in tutta la facciata da un anonimo intonaco Ottocentesco che l’ha fatta
datare al secolo XVIII dal Traversi, 1 ha invece al suo interno un piccolo cortile sui
pilastri quadrati coperto da volte a crociere, con portali a cornice continua ancora di
tipo quattrocentesco. Da questo portale ora chiuso si aveva accesso al cortile. Grazie
al manoscritto dell’archivio Falzacappa sappiamo che lo stemma è quello della
famiglia cornetana dei Martellacci, stemma che si ritrovava “in molti luoghi di
Corneto, e fra gli altri nel casamento incontro la chiesa di S. Croce: due spade nude
in acciaio su di un albero verde, capo argenteo” 2) . Un primo accenno alla
pertinenza di questo edificio era già stato dato da chi scrive nel 1985 3) . Un altro
palazzo della stessa famiglia è quello in Via Giordano Bruno, n. 23, che ora privo di
stemma ha però sulle due imposte d’arco l’iscrizione CAP. MARIO / MARTELLACCI
(Capitano Mario Martellacci). Un Giulio Martellacci fu Gonfaloniere nel 1541 4)
mentre Vincenzo Martellacci era consigliere di Castro Novo nel 1509 5) .
Stemmi della famiglia Vipereschi,
Via Garibaldi nn. civici 1-13, 15-19, Località Orti (zona P.E.E.P.), Via di Valverde n. 1
(neg. fot. Soprint. BB.AA.SS. Roma 109411-109412, 109452-109419).
Recentemente sono stati identificati altri due edifici dell’importante famiglia
cornetana, il primo, datato 1533 all’inizio di Via Giordano Bruno, addossato al muro
difensivo altomedioevale che correva lungo Corso Vittorio Emanuele II
1) .
In una
delle due finestre vi compare lo stemma della famiglia: tre draghetti alati su una
banda. 2) Il secondo stemma si trova all’interno del cortile dell’edificio adiacente a
quello dell’Università Agraria.
1
G.C. TRAVERSI, cit., v. Pianta allegata.
Ms. FALZACAPPA, Memorie della città di Corneto, cit., vol. 5, Arme della Città di Corneto, n. 36, p. 19.
3)
G. TIZIANI, Le fortificazioni cit., p. 23.
4)
P. SUPINO, La Margarita, Cit., n. 549 p. 435 (il nome dato esattamente nell’indice (p. 507) nella trascrizione del
documento diviene “Giulio Giacomazzi”.
5)
M. POLIDORI, Croniche, Cit., p. 311.
1)
G. TIZIANI, Le Fortificazioni, cit., p. 23 nota 91.
2)
Secondo l’Hamayden lo stemma dei Vipereschi è “di rosso alla banda d’azzurro e caricata d’argento. Oriundi da
Corneto e trasportati a Roma da un Francesco nel 1536. Valerio Vipereschi fu conservatore di Roma nel 1587 e
2)
136
Questo secondo palazzo ora sede del Consorzio di Bonifica della Maremma Etrusca
è adiacente a quello di Viperesco ed è contraddistinto dai numeri civici 1-13.
L’edificio si presenta attualmente in una veste del tutto anonima, tanto che
recentemente è stata datata al secolo XX dal Traversi che ignora le strutture del
cortile interno, alcune delle quali duecentesche, mentre il Palazzo dell’Università
Agraria è dato dallo stesso addirittura al secolo XIV 3) .
Il Palazzo di Viperesco Vipereschi ancora nei primi decenni del Novecento
conservava degli ornati graffiti in corrispondenza dei numeri civici 3, 5 e 7 4) ,
carattere molto diffuso nell’architettura del Rinascimento e unico esempio locale
documentato, ora completamente perduto.
Altri due stemmi della stessa famiglia si sono reperiti in località Orti, su una lastra,
parte di una vera di pozzo. E qui vi sono numerosi resti, tra cui un’edicola
appartenente alla stessa famiglia. Il portale che dava accesso a questo fondo aveva in
chiave lo stemma di famiglia scolpito a bassorilievo, ora conservato in Tarquinia.
Qui l’emblema Vipereschi è partito nella parte femminile (quella verso destra per
chi osserva) con uno stemma che ha come figura araldica una fiera, forse un drago,
delle fauci fiammeggianti. Anche lo stemma nel bellissimo pozzo del Consorzio di
Bonifica è anch’esso partito, qui la zona destra “femminile” ha lo stemma della
Famiglia Massmo di Roma, famiglia insignita del titolo principesco 1) .
La famiglia romana dei Massimi, che pretendeva di discendere dai Fabi Massimi
dell’Antica Roma, si ritrova nella Città Eterna già prima del Mille. Alla metà del XV
secolo ha inizio la fortuna della famiglia con Pietro. La famiglia si illustrò per il suo
mecenatismo, la magnificenza delle costruzioni e le grandi parentele. Un Lelio fu
comandante di una galera onitifica alla battaglia di Lepanto, Carlo Camillo fu
cardinale nel 1670. La famiglia si divise con Fabio e Tiberio nei principi Massimo
delle Colonne e nei duchi Massimo, estintosi questo nel 1807. Il primo dei due rami,
più tardi arricchitosi di altri titoli, si legò per matrimonio con le più importanti
famiglie europee, i Savoia Carignano, Sassonia, Borbone, Angiò.
Nello stemma Vipereschi l’arme dei Massimo compare per intero seppure occupi
solamente la parte sinistra dello stemma, in esso compaiono a loro volta i “punti”:
Viperesco lo fu nel 1595. Questa famiglia era già estinta quando Benedetto XIV promulgò la bolla “Urbem Romam”.
T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie Romane, cit., Roma s.d., vol. II, pp. 65-69.
3)
G.C.TRAVERSI, Tarquinia, cit., pianta allegata.
4)
Archivio Storico Comunale, cat. 9, classe 8, fasc. I (1923) “Comune di Tarquinia, edifici di importante interesse
artistico e storico”.
1)
Sui Massimi cfr. T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie Romane, cit., vol. II, pp. 65-69; Dizionario
Enciclopedico Italiano, Vol. VII, Roma 1970, p. 482.
137
Astalli (il “fasciato” con banda attraversante) Citarei (la croce caricata di scudetti),
Massimo (il Leone).
L’unione tra un Vipereschi ed una Massimo, da cui il doppio stemma, dovette fare
seguito all’elevazione dei due Vipereschi, Valerio e Viperesco all’alta carica di
Conservatori di Roma. Da notare che anche Camillo Massimo fu conservatore di
Roma nel 1604. 2)
Stemmi Falzacappa
Via Giordano Bruno n. 18; Via Aurelia, ingresso al centro idroponico, Chiesa di S.
Francesco. I primi due scolpiti in marmo bianco, il secondo su una lapide, il terzo
ricamato su una pianeta ottocentesca (neg. fot. Soprint. BB.AA.SS. Roma nn.
109437, 109440, 109642). Tra gli stemmi della famiglia cornetana dei Falzacappa,
oltre a quelli sunnominati, se ne annovera anche un altro piccolo in lamina di ferro,
danneggiato, sulla ringhiera del palazzo cinquecentesco, detto “il Conventaccio”, in
Via XX Settembre. La Famiglia Falzacappa, ancora presente in Tarquinia, è quella
che può vantare le maggiori antichità.
Lo stemma Falgari è: d’azzurro, al leone d’oro accompagnato da tre gigli dello
stesso fra i quattro pendenti di un lambello rosso” 1) , cui vanno aggiunti i tre gigli
disposti due sotto il lambello ed uno al dorso del leone rampante. Secondo lo Spreti,
i Falzacappa avevano residenza in Roma, Acquapendente e Tarquinia di cui erano
originari. “Le prime notizie di questa famiglia si hanno con Angelo che, nel 1422
era consigliere delterziere di Castronovo nella città di Tarquinia. Gode nobiltà in
vari luoghi nel 1803 a Spoleto, nel 1804 a Foligno, nel 1631 a Corneto, nel 1762 ad
Acquapendente e nel 1803 ad Osimo e Cingoli. Serafino fu da papa Benedetto XIV
nominato castellano del forte Urbano. Giovanni Francesco, nato il 7 aprile 1767,
percorse rapidamente la carriera ecclesiastica dopo aver studiato scienze e
giurisprudenza. Pio VII lo delegò a presiedere gli emigrati sacerdoti francesi... Pio
VII lo onorò come canonico vaticano, uditore civile del tribunale e segretario della
congregazione del buon governo. Subì dal giacobinismo francese la deportazione a
Capraia. Nel 1814 tornò a Roma e Pio VII lo nominò arcivescovo in partibus ad
2)
G.C. BESCAPE’ M. Del PIAZZO, Insegne e Sinboli, Roma 1983, p. 515. Per una riassunzione della presenza della
famiglia Vipereschi in Corneto cfr. C. DE PAOLIS, La Pia Casa di Penitenza di Corneto o “Ergastolo”, in: Bollettino
S.T.A.S., 1980, pp. 107-114.
138
Atene e segretario della Congregazione del Concilio. Nel concistoro del 10 marzo
1823 fu creato cardinale prete e vescovo di Ancona e Numana col titolo di S. Marco
e Achilleo. Leone XII il 24 maggio 1824 lo volle prete in S. Maria in Trastevere e
prefetto del supremo tribunale della Segnatura. Gregorio XVI il 5 luglio 1830 lo
elevò a vescovo suburbicario di Albano, presidente del censo e nel novembre 1839
ebbe la sede suburbicaria di Porto, e S. Rufina e Civitavecchia. Morì il 18 novembre
1840 e fu seppellito nella chiesa della SS. Trinità e Concezione dei Cappuccini,
sepolcro di famiglia” 2) . Dei due stemmi Falzacappa in S. Francesco uno appartiene
alla lastra sepolcrale di Giovan Francesco ascritto, come dice l’iscrizione, tra i
beneficiati della basilica vaticana e onorato “dell’aula” dall’eccleso Elettore Palatino,
morto durante il viaggio di ritorno alla città natale nel 1783. L’altro è invece
ricamato su di una splendida pianeta ottocentesca conservata nella sagrestia di S.
Francesco. La pianeta di cotone oro è intessuta con fili d’oro ed è decorata con
galloni a rilievo in forma di rosette. Nella parte posteriore inferiormente, è ricamato
lo stemma entro un “cartoccio”. Sopra si trova una corona nobiliare di tipo
germanico 3) , probabilmente dovuta al conferimento del titolo palatino suddetto. Lo
stemma è peraltro partito; nella parte sinistrra (la destra di chi guarda) ha lo
stemma Falgari, ciò che indica l’ascendente materno 4) .
Una seconda pianeta ricamata con stemma vescovile si trova anch’essa presso S.
Francesco, ha campo azzurro a tre monti d’oro caricati di tre spighe “campagna”
(parte inferiore) d’oro a mura di città e capo (parte superiore) di celeste caricata di
un’aquila nera in maestà a volo spiegato, coronata d’oro. Se ne può ipotizzare
l’appartenenza al vescovo di Corneto e Montefiascone Nicola Mattei (1842-1843) il
cui stemma raffigurato su una epistola pastorale 5) è molto simile a questo, pur se
semplicemente troncato (diviso in due zone sovrapposte) e privo dei tre monti d’oro
(neg. Soprint. BB.AA.SS.).
(1) Via di Porta Tarquinia n. 12, Palazzo Pirotta Rossi Scotti, portale con stemma
della famiglia Lelli, seconda metà del sec. XVI, peperino (neg. Fot. Soprint.
BB.AA.SS. Roma, n. 109430), 2-) cassapanca nel Monastero delle Benedettine.
1)
V. SPRETI, Enciclopedia, cit., vol. II, 1929, s.v.
V. SPRETI, idem.
3)
O. NEUBEKER, Araldica, Milano 1980, p. 179.
4)
Sul Falzacappa cfr. L. DASTI, Notizie Storiche e Archeologiche cit., p. 181-182.
5)
Epistola pastoralis ad clerum et populum, Romae 1842. Conservata presso l’archivio S.T.A.S.
2)
139
In via di rapido degrado ha quasi del tutto perso le figure araldiche. Queste
consistono in una colomba su di un tronco con nel becco un breve con il motto
Tandem. L’identificazione dello stemma è stata possibile grazie al reperimento dello
stesso stemma, con il nome della famiglia, sulla campana maggiore del palazzo
comunale 1) .
Dei Lelli l’Hamayden riporta che, antichi di Roma ne esistevano due rami, di cui
quello dei Nicoli aveva lo stemma “partito nel I di rosso alla colomba rivolta
d’argento, tenente nel becco un ramo di olivo, nel secondo di argento a sei rose di
rosso poste 2-1-2-1” 2) . Lo stemma cornetano corrisponde in parte a quello che
l’Amayden attribuisce al ramo dei Nicoli.
La documentazione sui Lelli in Corneto risale al 1494, quando Paolo Lelio è
gonfaloniere del Comune 3) e al 1509, quando Evangelista Leli era consigliere per il
terziere di Castro Novo 4) e Paolo Leli è uno di coloro che portarono donativi a Papa
Giulio II nello stesso 1509. Uno stemma scolpito su di una cassapanca della prima
metà del Cinquecento presso il Monastero delle Benedettine è partito con lo stemma
dei Leli nella metà femminile, mentre in quella maschile ha due spade decussate e,
in capo, una stella ad otto punte. Lo stemma Lelli in questo caso è diverso da quello
del palazzo ma identico a quello raffigurato nel testo dell’Hamayden. La famiglia in
effetti aveva almeno 4 varianti dello stemma 5) .
Chiesa di S. Giovanni Gerosolomitano, stemma, secolo XVI-XVII, marmo bianco. Lo
stemma unisce a quello dell’ordine cavalleresco di Malta (di rosso alla croce piana
d’argento) quello sottoposto del gran maestro (di rosso alla croce biforcata ad otto
punte d’argento) che è quello più comune 1) . Non è da escludere che lo stemma fu
posto in facciata nel 1609 quando la chiesa, che era stata in commenda, ebbe grandi
restauri ad opera di Pietro Luca Sforza.
Lo stemma sottoposto di gran Maestro riporta lo stemma dei Bolognetti, famiglia
romana che ha come emblema: “una faccia di donzella circondata da una
ghirlanda in campo azzurro e di sopra tre gigli d’oro”, così lo descrive l’Hamayden,
mentre in nota il Bertini corregge: “L’arma dei Bolognetti è di azzurro al busto di
1)
G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale, cit.
T. HAMAYDEN, la Storia, cit., vol. II, pp. 5-6.
3)
P. SUPINO, La Margarita, Cit. n. 581. Un Fortunio Lelli è priore del Comune e Fabio Lelli cancelliere nel 1595.
(Idem, nn. 591-591
4)
M. POLIDORI, Croniche cornetane, 1977, p. 311.
5)
T. HAMAYDEN, La Storia, cit., vol. II, p. 6 nota 1.
1)
G. BESCAPE’, M. DEL PIAZZO, con la collab. di L. BORGIA, Insegne e simboli, Roma 1983, p. 365.
2)
140
donzella di carnagione, vestita di rosso crinita d’oro, circondata da una treccia
d’oro coi capi legati di rosso e decussati, capo d’Angiò - Il ramo di Roma ha
sostituito al capo d’Angiò quello di Francia sopprimendo il lambello” 2) .
Questa descrizione data del Bertini è senz’altro più corretta di quella dell’antico
araldista. La mancanza del lambello al di sopra dei tre gigli fa considerare l’emblema
come appartenente al ramo romano della famiglia.
Un’altra traccia di questo ignoto Bolognetti rimane nelle due acquasantiere disposte
all’interno della chiesa ai lati del portale maggiore, entrambe con lo stesso emblema.
Numerosi gli stemmi dei Bolognetti conservatisi nella Chiesa Romana di Gesù e
Maria sopra i sepolcri di Famiglia 3)
Palazzo del S. Spirito in Sassia, Stemmi dell’Ordine e di Bernardino Cirillo
Zabaldani, sec. XIII-XVI (1573), Via delle Torri nn. 47-45 (neg. Soprint. BB.AA.
Storici Roma n. 109381), travertino e marmo.
Questo edificio, oggi diviso in due quartieri, nord e sud, è di origine medioevale,
databile agli inizi del secolo XIII, e conserva ben visibile il sistema a loggia terrena
con archi a tutto sesto su colonne. Una grande torre “incamiciata”, cioè rivestita, si
colloca sull’angolo nord dell’edificio. Questo, forse già nel Duecento, doveva essere
la sede dell’amministrazione locale dell’Arciospedale del S. Spirito in Sassia di
Roma, padrone fino ai nostri giorni di grandi possedimenti fondiari nel comune
Cornetano 1) . Il complesso delle proprietà edilizie dell’Ordine si estendeva su tutto
l’isolato che orbita sulla parte terminale di Via delle Torri, ancora contrassegnata
dalle numerose croci doppie. Questo edificio nel tardo Cinquecento fu
profondamente trasformato ad opera del commendatore Bernardino Cirillo, il cui
nome compare assieme a quello di papa Pio V (1566-1572) su popoli interni
dell’appartamento sud, per trasformarlo in sede di un fiduciario, incaricato tra
l’altro di accogliere i bambini abbandonati alla pietà pubblica 2) . Da qui il nome
locale di “Bastarderia”. Di questa funzione l’edificio conserva ancora la finestra in
cui era posta la ruota girevole, ora murata. All’interno dell’appartamento sud si
trovano due splendidi soffitti dipinti con emblemi araldici della prima metà del
1400 tra cui sicuramente quello di un governatore; uno scudo partito con un leone
2)
T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie romane, cit., con note aggiunte del cav. Augusto Bertini, Roma s.d., pp.
151-156/
3)
A. Nava Cellini, La Scultura del Seicento, Torino 1982, pp. 100-101.
1)
La Margarita Cornetana, cit., doc. n. 387 (a. 1311), n. 388 (a. 1308), n. 403 (a. 1311).
2)
R. COLAPIETRA, L’Azienda di S. Spirito in Sassia tra Pio V e Gregorio XIII, in: Studi Romani, XX, 11972, 18-33.
141
rampante di rosso e la croce doppia dell’ente, alternato a tavolette con volute
vegetali in bianco e rosso e a stemmi con il solo emblema crociato dell’ordine (neg.
fot. Sopr. BB. AA.SS. Roma, nn. 109378). All’interno del loggiato che si apre al
primo piano, coperto a tetto e aperto da arcate su pilastri quadrati in peperino, si
conserva un portale iscritto con il nome di Giovan Domenico Zoilo, collaboratore del
commendatore; la sua qualifica: “economo”, e lo stemma. La loggia fu anteposta in
questo momento all’edificio medioevale che ne fu in parte coperto. In uno stanzino
adiacente nel 1982 venne in luce un fregio monocromo dipinto in color ocra con
fogliami a grandi girali. Sulla facciata appaiono gli stemmi sovrapposti dell’ordine
(la colomba dello Spirito Santo posata sulla doppia croce dai bracci apicati) e, al di
sotto, lo stemma priorale dello Zabaldani partito con quello dell’ospedale. Sotto una
lapide commemora il restauro: “BERNARDINUS CYRILLUS/PRAECEPTOR
AEDEM/HANC VETUSTATE/COLLABANTEM IN/STAURAVIT. MC.LXXIII.
Il complesso edilizio non è mai stato studiato nonostante il rilievo storico della
figura di Bernardino Cirillo, commendatore dal 1555 al 1575 3) Va rilevato che il
Traversi non rileva che l’edificio in oggetto è, nel suo impianto, medioevale e tranne
la torre lo data in blocco al XVI secolo 4) .
Stemma di Lavinia Maccabei, sec. XVI, Chiesa di S. Francesco (neg. Soprint.
BB.AA.Storici, Roma n. 109616).
La bella lastra marmorea è collocata su uno dei pilastri della navata destra nella
chiesa di S. Francesco, presso il transetto. Raffinatissima l’ornamentazione floreale
tutt’intorno allo stemma così come di elevata qualità è il ritratto della defunta, posto
nella parte superiore, di tre quarti e inciso come un cammeo ancora tutto di gusto
cinquecentesco.
Lavinia Maccabei, morta nel 1630 a 27 anni, era figlia di Francesco Maccabei nobile
toscano e nipote del vescovo di Castro. La madre era una Cordelli, nobile viterbese.
La lapide fu fatta apporre dal marito Capuano Bruni, nobile di Gravina (il tutto si
evince dall’iscrizione).
Stemma dell’Ordine dei Conventuali 1612, marmo bianco. Cella campanaria del
campanile di S. Francesco, lato est,
3)
Idem
142
Lo stemma è di fattura sommaria e alquanto rozza. L’insegna dell’ordine dei Minori
Francescani, due braccia decussate e, tra queste, una croce, è ornata da un cartoccio
di stile “auricolare” cui fa da targa uno scudo ovoidale con incisa in cifre arabe la
data “1612”.
Questo stemma è l’unico elemento che dichiari stilisticamente la propria cronologia,
mentre la struttura della torre campanaria, di grande imponenza e monumentalità,
tenta di intonarsi al complesso monastico assumendo forme neoquattrocentesche
nell’uso delle bifore e nella copertura con un cupolino poligonale di carattere
nettamente rinascimentale 1) .
Monastero di S. Francesco, stemma del vescovo Lazzaro Pallavicino, sec. XVII
(1661). Calcare (Neg. n. 109569). datato inferiormente 1661. Lazzaro Pallavicino
(1603-1608), fu prefetto dell’Annona e grascia, ed in questa sua funzione lo stemma
fu posto sulla facciata del monastero, da cui si accedeva al piano superiore che fin
dal 1753 adibito a granaio della Camera Apostolica 1) . Il Pallacivino fu l’ultimo
maschio della sua famiglia, morendo istituì una primogenitura a favore di Giovanni
Rospigliosi, marito di sua nipote Camilla Pallavicino, con l’obbligo di assumere il
cognome Pallavicini ed il titolo di principe di Gallicano 2) . Lo stemma dei
Rospigliosi ha cinque punti equipollenti e quattro di azzurro. Capo d’oro, caricato di
una fascia scorciata, merlata e contromerlata di tre pezzi.
Stemma della famiglia Cardino e Parma, Chiesa di S. Francesco cappella Cardini
(attualmente Falzacappa), stucco.
Questi stucchi, ordinariamente attribuiti al Settecento, sono invece opera
pienamente seicentesca, databili attorno al 1642, data che appare nel monumento
funebre eretto a fianco della stessa ad Arcangelo Cardini. Gli stemmi Cardini e
Parma si ripetono anche nella volta e nelle basi delle colonne dell’altare. Lo stemma
Cardini è costituito da un cardo al naturale su cui posa un uccellino (un cardellino)
mentre quello della moglie è più complesso; all’aquila al volo abbassato a tre fascie e
scudo accollato dei Cardini. Sullo stemma che compare sull’arcone della cappella le
4)
G. C. TRAVERSI, Tarquinia. Cit., (Pianta di Tarquinia allegata).
Lo stemma, inedito, era già citato dal Romanelli (E. ROMANELLI, S. Francesco, Tarquinia 1967 pp. 78-79), dove
viene citato peraltro anche uno stemma pontificio che non si è rilevato.
1)
G. TIZIANI, L’acquedotto, cit., p. 22 nota 36.
2)
T. HAMAYDEN, La Storia delle Famiglie Romane, cit., vol. II, pp. 133-134. Su Lazzaro pallavicino cfr. G.
MORONI, Dizionario di Erudizione Storico Ecclesiastica, vol. LI, Venezia 1851, p. 51.
1)
143
due armi appaiono unite creando così un’unico stemma partito. La cappella fu
restituita ai Cardini da chi scrive in un recente articolo 1) . Lo stemma del Cardini
riappare anche nella parte inferiore del monumento funebre. Questi, come sostiene
la lapide, era “Centurione e Prefetto generale per l’esportazione del grano dalla
Maremma”, ed addirittura “gioia e speranza della città”. La sua vedova viveva
ancora nel 1656; quarantaseienne abitava in uno dei palazzi dei Vipereschi in
parrocchia S. Giovanni 2) . I Parmia discendevano forse da quel Gerardo (Giudice)
“da Parma”, citato a Corneto nel 1294 e 1300 3) .
Villa Falgari, portale nord, stemma della famiglia Falgari, secolo XVII, marmo
bianco (neg. Sopr. BB.AA.SS. Roma n. 109360). Ora asportato. Lo stemma si
trovava sopra il portale più antico della villa, non in asse con l’edificio principale. Di
bella fattura conserva elementi dello “stile auricolato”, ma può essere attribuito al
pieno Seicento. Questo antico stemma dei Falgari è registrato nel manoscritto
Falzacappa che ne riporta il disegno senza però blasonarlo, cioè senza darne lettura
delle partizioni, dei “colori” e delle figure 1) . Esso è “partito”, cioè diviso in due parti
verticali, al tralcio d’edera sradicato e allo scaglione composto di palo e fascia nel III
quarto. Lo stemma si ritrova identico nei due monumenti sepolcrali nella Chiesa di
S. Francesco, appartenenti a Giovan Francesco Falgari e a Tiberio Falgari entrambi
del Seicento (neg. presso la Sopr. AA.BB. Roma). Un ramo della famiglia Bruschi nel
1774 prese per eredità il nome dei Falgari 2) . Francesco di Luca Bruschi Falgari, la
nuova arma della famiglia era: “Spaccato d’oro e d’azzurro al ceppo di vite
sostenente un falcone ed attraversato da una fascia d’oro. Motto: pazienza vice
scienza 3) . Questo nuovo stemma è visibile nella facciata del palazzo in Via Umberto
I, nel paliotto in tessuto che si conserva al suo interno, dove peraltro si complica
ulteriormente, e nel monumento sepolcrale nella cappella Bruschi Falgari in S.
Francesco. Vittorio Spreti riporta peraltro una diversa blasonatura da quella
dell’Amayden-Bertini e dà lo stemma come “troncato d’oro e d’azzurro al ceppo di
vigna nodrito sulla pianura erbosa, fruttato di due grappoli di uva nera e bianca,
1)
G. TIZIANI, Un dipinto del Mola e due minori “barocchi” inediti, in: Pro Tarquinia, IX, n. 7, Luglio 1975, p. 3
Ms. Falzacappa, cit., p. 343.
3)
P. SUPINO, La Margarita, Cit., nn. 319, 274, 338.
1)
Ms. Falzacappa, cit., n. 49, p. 27.
2)
V. SPRETI e collaboratori, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. II, Milano 1929, s.v.
3)
T. HAMEYDEN, la Storia delle Famiglie romane, cit., vol. II, p. 239.
2)
144
sostenente un falco, alla fascia d’argento attraversante sulla partizione”, che non
corrisponde a quelli ottocenteschi succitati 4)
Palazzo già Falzacappa in via Montana, n. 66. Sec. XVII, calcare, stemma della
famiglia Chiocca (?) (neg. fot. Soprintend. BB.AA.SS. 109396).
Il pezzo si trova all’interno di quello che è ancora chiamato l’Orto del cardinale, cioè
un luogo in cui i Falzacappa tenevano reperti archeologici e di varia antichità in
funzione ornamentale, in un luogo cioè di riposo e di amenità presso il loro palazzo
posto tra Via dello Statuto e Via di S. Leonardo. Il pezzo piuttosto rovinato e di
difficile lettura farebbe pensare in primo momento ad uno stemma della famiglia
papale dei Peretti (Sisto V, 1585-1590); però la mancanza di emblemi di dignità, il
materiale locale (macco) e l’assenza dei monti e del fiore sulla banda lo escludono.
Potrebbe trattarsi invece di uno stemma della famiglia cornetana dei Chiocca,
riportata nel manoscritto del conte Pietro Falzacappa 1) , e noto in questo unico
esemplare.
Stemma e lapide di Pietro de Carolis, sec. XVIII (1735), marmo bianco e piombo.
Granile del S. Spirito in Sassia in Via dei Granari 24.
Lo stemma e l’epigrafe si trovano in asse con il portale Nord del grande edificio che
fino a qualche anno orsono era adibito ancora alla sua funzione originaria. La vista
dello stemma è ora impedita per una modifica dell’accesso che in origine si aveva da
Via della Ripa tramite una rampa, mentre ora vi si accede dalla parte opposta, verso
Sud. Lo stemma sormontato da un “galero” vescovile ha come figure araldiche
l’emblema dell’arciospedale del S. Spirito in Sassia, la croce doppia con lo Spirito
Santo, partita con l’arme di casa De Carolis. La lapide è sagomata come una
pergamena ed iscritta in caratteri lapidari in piombo: PETRUS DE CAROLIS /
ARCHIEPISCOPUS / TRAIANOPOLITANUS / FECIT ANNO / MDCXXXV. Rimane
traccia dell’ornamento del fondo che era costituita da una targa in stucco, con volute
laterali e ornati floreali.
4)
V. SPRETI, Enciclopedia, cit., S.V. Bruschi-Falgari.
1)
Ms. Falzacappa, cit., n. 27, p. 15 (senza descrizione nè collocazione degli esempi).
145
Va annotato per inciso come questo granile, lungo 34 metri x 13, era uno dei tanti
che documentano una fase economico produttiva, caratterizzata quasi dalla
monocultura estensiva del grano, ora sostanzialmente modificata 1)
La committenza e la cronologia dell’edificio sono ignorate dalle fonti e dalla
storiografia anche locale. Pietro De Carolis dei marchesi di Prossedi fu chierico di
camera di Benedetto XIII, governatore e visitatore apostolico della Marca nel 1720,
governatore di Viterbo, già nel 1709 Arcivescovo di Traianopoli e commendatore di
S. Spirito sotto Benedetto XIII e Clemente XII.
Corneto per la costituzione di Innocenzo XII, del 1693, che istituiva Civitavecchia
capoluogo di provincia fu sottoposta al governatore di questa città, il quale era
contemporaneamente “Soprintendente di Corneto” 2) .
Qui risiedeva un commissario. Del Governo di Pietro de Carolis restano anche altre
tracce in Tarquinia; un suo stemma, seppure eroso e quasi illegibile, è stato
identificato all’inizio di Via di Valverde su un tratto delle mura urbane, lungo metri
42,50 circa, costruito in muratura incerta agli inizi del secolo 3)
Stemma del Cardinale Angelo Quaglia Sec. XIX, Palazzo del Convalescentorio
Quaglia, Via del Convalescentorio Quaglia n. 2, marmo bianco.
Lo stemma di forma ovoidale è ricavato in un’unica lastra di marmo assieme ai
larghi e carnosi girali di acanto terminanti in rosette. Il Quaglia, la cui famiglia è
originaria di Tuscania, nacque a Corneto e fu fatto cardinale da Pio IX nel 1861 1) .
L’edificio sulla facciata del quale si trova lo stemma secondo il Dasti fu eretto con un
lascito testamentario dello stesso cardinale ed è quindi posteriore al 1861 2) . La
figura araldica ha in capo tre stelle a dieci punte ed una quaglia posta inferiormente.
Nettamente ottocentesco e di gusto classicista l’intaglio dei girali mentre l’edificio è
improntato ad un gusto rinascimentale ed è forse opera della stessa mano che eresse
il palazzo del Quaglia in Via Vitelleschi. L’edificio conserva al suo interno la lapide
commemorativa del lascito benefico. Il cardinale Angelo Quaglia nacque a Corneto il
28 agosto 1802 ed ebbe per madre la contessa Vittoria Bruschi di Aspra 3) ; con lui si
1)
Un raro riferimento all’edificio si ha in B. BLASI, Chiese, palazzi e torri della città di Tarquinia, s.d., p. 21.
G. TIZIANI, Le fortificazioni, cit., pp. 21-22, nota 74.
3)
Idem, p. 21, fig. 17.
1)
L. DASTI, Notizie, cit., (1878), cit., pp. 183.
2)
Idem, p. 183-184.
3)
Sul cardinale, stranamente non registrato nell’Enciclopedia Cattolica, cfr. G. ROMAGNOLI, Elogio funebre
dell’eminentissimo e reverendissimo cardinale di Corneto Angelo Quaglia del titolo di SS. Andrea e Gregorio al Monte
Celio, prefetto della S. Congregazione de’ vescovi e regolari, Roma 1872.
2)
146
estinse la sua famiglia, la sorella Giustina andata in moglie nella famiglia Bruschi
Falgari ne ereditò tutte le sostanze e ne applicò le volontà 4) .
Giannino Tiziani
4)
L. DASTI, Notizie, cit., Idem.
147
LA SCOPERTA DI TARQUINIA
STORIA ARCHEOLOGICA DAL MEDIOEVO AL 1700
Ricostruire la storia della “scoperta” di Tarquinia etrusca, ripercorrendo dal
Medioevo ad oggi i momenti che hanno reso celebre il nome della nostra città in
campo archeologico, non è impegno da poco, perché nessuno ha ancora dedicato
uno studio organico e completo ad almeno 500 anni di ricerche condotte nel
territorio tarquiniese, ove si escluda la premessa con cui Massimo Pallottino
introduce la sua opera su Tarquinia etrusco-romana.
Esistono sicuramente ancora parecchi documenti che potrebbero aiutarci a tracciare
un quadro più esauriente degli scavi eseguiti nei secoli passati, eseguiti purtroppo
più per impadronirsi di oggetti preziosi che per ricostruire le vicende remote del
territorio tarquiniese..
A questo riguardo ritengo che l’esame dell’Archivio comunale e di quello
dell’Università Agraria potrebbe riservarci qualche notizia inedita.
Questo scritto si limita a passare in rassegna le informazioni che possediamo dal
Medioevo alla fine del 1700, mentre ci ripromettiamo di trattare in altra occasione
sia le ricerche condotte nel 1800 che quelle del secolo attuale.
148
****
Che cosa si sapeva dell’antica Tarquinia nel Medioevo? Considerando il livello
culturale dei pochi dotti vissuti in Corneto tra il 1000 e il 1300, possiamo pensare
che nessuno abbia avuto coscienza della presenza etrusca nella zona, anche se
certamente le tombe dipinte del Calvario e dei Monterozzi erano ben note. Indicate
come “grotte pinte”, in alcune di esse abbiamo trovato la traccia sicura del passaggio
di visitatori medievali, come nel caso della tomba Bartoccini.
Questa ignoranza non deve meravigliarci, se consideriamo quanto siano avare le
fonti storiche e letterarie di notizie sia storiche che topografiche su Tarquinia
etrusca.
Tarquinia è la città fondata da Tarconte, mitico condottiero delle genti tirreniche; a
Tarquinia si manifesta Tages che a Tarconte detta i libri dell’Etrusca disciplina. A
Tarquinia sbarca l’esule Demarato e da Tarquinia trae origine il primo re etrusco di
Roma.
Contro Tarquinia Roma combatte nel IV secolo una delle più difficili guerre antietrusche. Da Tarquinia Scipione riceve le tele necessarie per la velatura delle navi
che lo portano in Africa, all’appuntamento di Zama. Nel territorio tarquiniese, nel
181 a. C., i romani deducono la colonia di Graviscae, citata nell’Itinerario di
Antonino e nel De Reditu di Namaziano.
I riferimenti topografici sono però pressoché inesistenti ed è difficile che qualcuno
abbia saputo collegare la Tarquinia delle fonti con il colle della Civita, anche se i
toponimi di Castel Tarquinio, Tarquene, Turchina erano abbastanza trasparenti.
E’ stata la ricerca archeologica moderna a rilevarci la maggior parte di ciò che oggi
sappiamo sulla Tarquinia etrusca e le nostre cognizioni sono probabilmente
superiori a quanto conoscevano della nostra città gli stessi storici antichi che ce ne
hanno lasciato memoria.
Solo nel 1400 abbiamo notizie più precise sulla considerazione che i cornetani
dedicano alle memorie del loro più remoto passato. Una poesia di Lutio Vitelli - un
Vitelleschi -, dedicata a Francesco Filelfo per magnificare l’antica grandezza di
Corneto, è a questo riguardo rivelatrice:
“Superstiti, stanno, monumenti eccelsi, superiori a quelli di ogni altra terra.
Immensi palazzi scavati nella roccia bianca formavano infinite dimore per una
grande gente. Fonti vive di dentro, sedili tagliati all’intorno. Fenditure assicurano
alla luce l’accesso alle stanze. E in un luogo, certo la reggia di Corito Re, un soffitto
149
cesellato, meraviglioso. Gli occhi vorrebbero ancora fissarsi su quelle memorie
scolpite, ma il tempo, la lunga giornata, ha consumato quell’opera prima. Vi sono,
infatti, effigi e sepolcri d’uomini antichi; statue d’eroi, simulacri di dei. Tuttavia, a
testimonio, lettera scritta non resta. Molto è ancora là sotto; ma sarebbe venuto alla
luce scavando gli accesi con cura.
Il riferimento alle “effigi” e alle “statue di eroi” ricorda evidentemente i dipinti delle
tombe e i sarcofagi dei grandi sepolcri gentilizi di epoca ellenistica, mentre gli
“immensi palazzi, scavati nella roccia bianca” sono forse, come pensa Pallottino, le
maestose cave sotterranee di macco esistenti sotto il colle di Corneto.
La poesia di Lutio Vitelli è interessante anche per il riferimento a Corito, come
mitico fondatore di Corneto, una leggenda che la nostra città coltivò per secoli e che
trovò la sua consacrazione nell’affresco seicentesco della sala consiliare in palazzo
municipale.
Sempre nel XV secolo sappiamo che Annio da Viterbo è a conoscenza di una tomba
tarquiniese con dipinti e iscrizioni, probabilmente quella del Cardinale, ormai
illegibile, una tomba che ha accompagnato tutta la storia degli scavi del nostro
territorio.
Di questo secolo abbiamo infine un testimone d’eccezione: nell’archivio di Firenze si
conserva un disegno di Michelangelo che riproduce una testa di Aita, tratto da una
pittura tombale tarquiniese. Non sembrerebbe però essere stato ispirato dalla
celebre pittura dell’Orco II, a meno che non si tratti di una libera rielaborazione del
grande artista.
Nel 1500 le notizie di scavi e di scoperte si fanno più numerose. Citiamo il
rinvenimento del c.d sepolcro Nicodemio, ritrovato nella zona di Pian di Spille, che
restituì una grande quantità di oggetti d’oro, utilizzato per riparare i ponti sul Marta
e sul Mignone, danneggiati da una piena.
Nel 1544, il cardinale Farnese chiese ed ottenne dal Consiglio di Corneto tutte le
“antichità marmoree” raccolte nella città.
Ben più significativa è però una lettera del 1599 di mons. Zacchia, il quale, avendo
avuta notizia che esisteva “in Corneto una quantità di metallo che ascenderà alla
somma di scudi 6000, e perché se n’ha molto metallo che ascenderà alla somma di
scudi 6000, e perché se n’ha molto bisogno quà, per la fabbrica della Cappella del
SS. Sacramento, che N.S. fa fare in S. Giovanni Laterano”, ne chiede la consegna,
certo che le autorità di Corneto sarebbero state “contente.... per la devotione che
hanno verso la S. Sede”.
150
Non sappiamo se il “metallo” raccolto dai Cornetani fosse destinato alla fusione o
conservato in una civica collezione antiquaria. E’ però evidente che tanto materiale
era frutto di una estesa ricerca e che quindi è databile almeno a questo secolo il
primo saccheggio intensivo della necropoli e dell’area della Civita.
Sempre in questo periodo, un’altra notizia ci viene da Antonio da Sangallo: in uno
schizzo conservato presso l’archivio di Firenze, eseguito dal noto architetto toscano
durante una sua visita all’area della Civita, egli nota l’esistenza di una monumentale
cisterna colonnata di cui ci fornisce anche alcune misure. La struttura non è stata
ancora ritrovata, anche se presumibilmente è localizzabile nell’area compresa tra
l’attuale Casale degli Scavi e la Castellina. Non è escluso che la cisterna sia venuta
alla luce nel 1500 durante le ricerche di antichi materiali (marmi e metalli) nell’area
della città antica.
Per il secolo successivo non disponiamo di molti dati: Le Croniche di Muzio Polidori
sono l’unica nostra fonte. Polidori, anche se mostra di conoscere che la Tarquina
etrusca si trovava nel territorio di Corneto, non fornisce alcuna notizia sulle tombe
dipinte. Come se durante il 1600 si fosse bloccata ogni attività di scavo e le tombe
note nei secoli precedenti fossero andate perdute.
“In quella contrada che hora è detta de Montarozzi o Cocumelleti, contigua alla città
dalla parte d’oriente.... si scorge una bella ordinanza e vaga struttura di Grotticelle,
con collinette ad arte composte, che si credono sepolcri degli antichissimi
progenitori”.
Sempre il Polidori, dopo aver notato che, dopo la requisizione del Cardinale Farnese
e di mons. Zacchia, “di presente altre memorie antiche non si vedono che alcuni
marmi”, ripota tre iscrizioni etrusche, tra cui quella del sarcofago di Ravnthu Felci,
nella chiesa di S. Martino, che il Pallottino assegna alla tomba del Cardinale.
Anche se agli inizi del 1600 Thomas Dempster scrive il De Etruria Regali, spinto
dalle scoperte che sin dal 1500 hanno colpito la fantasia di cultori toscani di cose
antiche, dobbiamo attendere oltre un secolo (1723) perché il suo manoscritto sia
pubblicato. Con questo avvenimento editoriale si apre la ricerca antiquaria in
Etruria, affermandosi nello spazio di circa 15 anni.
Per quanto riguarda Tarquinia, sarebbe interessante indagare il mondo di
quell’Accademia Etrusca, nata a Corneto nel 1726 per iniziativa di Ridolfino e
Marcello Venuti. Innanzitutto perché fu grazie a questa istituzione che si ritenne e si
ritiene ancor oggi risolto il problema dell’identificazione della Cortona Etrusca in
favore della cittadina toscana, piuttosto che di Corneto, e in secondo luogo perché è
151
molto probabile che alcune “anticaglie” affluite a Cortona in questo periodo possano
essere di provenienza tarquiniese. Basti pensare che il primo nucleo della collezione
cortonese apparteneva a quell’Onofrio Baldelli che a Roma aveva messo insieme una
cospicua collezione di antichità e che Ridolfino Venuti, trasferitosi a Roma, fu dal
1744 “antiquario e commissario apostolico sopra tutti gli scavi di antichità”.
Che a Corneto si sia rivolta l’attenzione dei ricercatori-collezionisti dell’epoca Maffei, Gori, Peruzzi, Antinori - è possibile, se si considera che la “scoperta”
settecentesca degli etruschi nel nostro territorio risale al 1736. In quest’anno, infatti,
il domenicano Gian Nicola Forlivesi segnalava ad alcuni studiosi l’esistenza delle
tombe dipinte e nel 1739 Scipione Maffei è che a Corneto dove visita almeno la
tomba della Mercareccia, quella dei Ceisinie e quella del Biclinio, quest’ultime due
perdute.
“Raro è di goder tanto - scrive il Maffei - perché le pitture appaiono belle e fresche al
primo apparire delle grotte, ma dopo che l’aria c’entra liberamente, in pochi anni
tutto si smarrisce e la malta, sopra cui sono, s’inumidisce e va cadendo”.
Anche il Gori ebbe una corrispondenza con il Forlivesi, dal quale ricevette alcune
fantasiose riproduzioni di pitture etrusche che utilizzò per notizie e incisioni
pubblicate nella sua opera Museum Etruscum.
Nel 1758 il Winckelmann visitò Corneto: nel suo resoconto cita la tomba del
Cardinale - riscoperta poco prima del suo arrivo - nella quale conta 200 figure.
Sarà però un inglese, Thomas Jenkins, mercante di antichità operante a Roma, che
ci lascerà la prima descrizione esauriente delle tombe tarquiniesi.
Il 17 marzo 1763 egli pubblica infatti sul Philosophical Transactions of the Royal
Society di Londra un’ampia corrispondenza e alcuni schizzi tratti dalla tomba del
Cardinale.
Con Jenkins erano venuti a Corneto anche alcuni disegnatori, incaricati di
riprodurre le pitture allora note: l’inglese John Byres e il polacco Franciszek
Smugliewicz che, tra il 1763 e il 1766 eseguono le incisioni delle tombe dei Ceisinie,
della Mercareccia, del Cardinale, della Tappezzeria e del Biclinio con parecchie
libertà di esecuzione.
Dopo di loro si interesserà alla pittura tarquiniese anche G.B. Piranesi, traendone
alcuni motivi per le sue fantasiose composizioni.
Furono i disegni di Byres e di Smugliewicz che, circolando tra i collezionisti e i
cultori di cose antiche, suscitarono l’attenzione del mondo scientifico e di quello
antiquario sulla necropoli di Tarquinia.
152
Solo nel 1800, però, si scatenerà la ricerca forsennata che porterà al secondo
metodico saccheggio delle tombe e della Civita, dopo quello perpetrato nel 1500.
Ludovico Magrini
MONS. BONAVENTURA GAZOLA O.F.M.
Amministratore Apostolico prima e poi Vescovo delle diocesi unite di
Montefiascone e Corneto 1)
L’occasione a questa difesa postuma di Mons. Gazola, già vescovo di
Montefiascone-Corneto, mi viene data da uno scritto di Pietro Falzacappa
pubblicato su questa rivista dall’amico Corteselli 2) , scritto infarcito di giudizi
irriguardosi e addirittura offensivi.
Premetto però che passando alla difesa del benemerito Pastore delle Diocesi
unite, non intendo affatto denigrare l’accusatore (il giudizio a Dio, giusto giudice che
scruta mente e cuore), ma solo esporre i fatti così come mi sono parsi, studianto le
fonti 3) .
Ecco questi giudizi, che prendo sempre dal medesimo fascicolo:
16-2-1831: molto liscio è stato questo carnevale, primo per la sede vacante (Papa) e
finalmente per le solite opposizioni tiranniche del Vescovo a tutto quello che si
brama dagli altri. E’ stato fatto qualche festino al teatro, riuscito molto
meschinamente.
29-1-1832:
finalmente
abbiamo
un
birbante
in
meno!
1)
Nel 1854 la Diocesi di Tarquinia o Corneto fu distaccata da Montefiascone e unita a quella di Civitavecchia,
distaccata a sua volta da quella di Porto e S. Rufina.
2)
Cfr. Bollettino dell’anno 1984 (Soc. Tarquiniense di Arte e Storia) pag. 69 e segg.
3)
Riporto le principali fonti di cui mi sono servito per la stesura di questo scritto:
Archivio della Cattedrale, fascicolo 68-Archivio (n.3) della Curia Vescovile di Tarquinia (manoscritto) - Archivio della
medesima Curia: due volumi manoscritti che contengono le relazioni delle Visite Pastorali di Mons. Gazola-Archivio
153
Bonaventura Gazola di Piacenza, nostro vescovo e già frate zoccolante, nell’età di
88 anni sebbene tardi, pur ci ha levato l’incomodo. Costui si era saputo
mascherare finché fu vescovo prelato, ma, fatto cardinale non si tenne più
obbligato a simulare e dette tutto il suo corso al suo infame carattere. Finto,
soverchiatore, vendicativo erano i suoi attributi. E’ stato il primo promotore del
celebre processo medico 4) e, per sua parte, ha cercato di farvi inviluppare tutti
quelli che non incensavano la sua pretesa divinità e di eccitare odi eterni tra
famiglia e famiglia. Potrei dire tante cose su questo scellerato, ma mi diffonderei
troppo se tutto volessi dire e a me basta farlo conoscere. Iddio ci liberi da un
successore che lo somigli di un decimo.
2-VII-1832, Nuovo Vescovo... Mons. Giuseppe-Maria Venzi, nato in Como l’8-31787. Vedremo cosa ne sarà: molti dicono che sia un bravo uomo e forse lo sarà
ma, essendo frate come il suo predecessore (era domenicano), ci fa temere una
seconda caduta. In qualunque modo sarà per lui un buon succedere al detestato
Gazola. 7-12-1832, prende possesso di Corneto il nuovo Vescovo (già nominato il 2VII-1832)... lo precede un buon nome ed io faccio un solo voto ed è che non
rassomigli al suo antecessore (Gazola).
Nell’archivio Falzacappa di Tarquinia (presso la S.T.A.S.) ci sono altri fogli sparsi,
piccoli e grandi, senza firma, poco leggibili, con frasario poco chiaro che esprimono
anch’essi giudizi sinistri su Mons. Gazola 5) .
Ho letto tutto il contenuto giuridico, morale e pastorale delle tre visite pastorali fatte
a suo tempo dal Gazola e qualche lettera che contiene il fascicolo su Gazola, ma non
vi ho trovato nulla che possa aver causato questo severo giudizio del Falzacappa.
Quale quindi possono essere stati i motivi? Il rigorismo del Pastore diocesano per
non aver concesso cose che, a quei tempi, non si potevano concedere o permettersi:
festini, balli, teatri nei giorni festivi? La sua insistenza nel voler togliere certi abusi?
Certe ordinanze seguite alle visite pastorali, ordinanze che allora e sempre hanno il
loro valore liturgico ed educativo? 6) . Non mi sembra.
Falzacappa fascicolo 37, vol. VII-Fascicolo 37, vol. VIII presso S.T.A.S. di Tarquinia-Moroni, Dizionario di
erudizione, vol. XXVIII, pag. 196.
4)
Di questo fatto si ha una ampia relazione del medesimo Gazola in un suo lungo e documentato manoscritto (a cui ho
fato un numero che non aveva, n. 3) (Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia).
5)
Cfr. Archivio Falzacappa, fascicolo 38, vol. VIII, presso S.T.A.S.
6)
Per es. Visitando la chiesa dell’Assunta di Maria Vergine comanda che sia allontanata l’umidità, di fare i vetri alle
finestre; visitando la chiesa parrocchiale di S. Antonio Ab., comanda di vestiree di assi di legno tutto il piccolo armadio
in cui si conservano gli Oli Santi ecc.; visitando l’Oratorio del Palazzo dell’Ill.ma Comunità comanda di rinnovare le
finestre di legno con i suoi necessari serramenti e vetri, di fermare la predella dell’altare perché non cada più ecc.;
154
Credo invece che il vero motivo debba essere ricercato in un intervento energico del
Pastore contro la condotta poco leale e abbastanza invadente di Casimiro
Falzacappa, fratello di Pietro, per quanto riguardava la cura morale, materiale e
sociale dell’ergastolo di Corneto. Ciò emerge molto chiaramente da una lunga e
documentata relazione che il Gazola fu costretto a inviare in data 23-VII-1828 ai
suoi superiori di Roma.
Si sapeva che, in base alla Bolla di Clemente XIII, il Vescovo di Corneto aveva
l’assoluto diritto di provvedere lui al buon andamento religioso, umanitario e sociale
dei penitenti e detenuti dell’ergastolo, alla scelta del medico ecc. Il medico cioè
doveva essere “di buona moralità, di sana dottrina, cattolico, apostolico, romano.
Oggi specialmente (dice il Vescovo) giacchè per avvertimento ai Vescovi di Leone
XII di b.m. vi è una setta di medici che al letto degli infermi corrompono la loro
fede e morale al cui Pontefice furono fatti ricorsi dai Parroci e da qualche Vescovo
della Marca.”
“Invece i signori Casimiro Falzacappa, Egidio Querciola e Carlo Avvolta,
perturbatori di ogni buon ordine, della pace pubblica e privata di questa buona
città di Corneto, progettarono di far da sé, indipendentemente dal Vescovo,
cambiando a loro modo i medici dall’ergastolo. Furono loro i veri progettisti del
cambiamento delle cose in tal luogo di pena. Essi sapevano, come lo sa ogni
Cornetano, che la scelta del medico per l’ergastolo, dipende dai soli vescovi di
Montefiascone e Corneto, oltre tutto furono saggiamente avvertiti da buoni
Consiglieri, che il loro progetto prima doveva avere l’assenso del Vescovo, sentire il
suo parere e avere il suo assenso.
Loro però, vantandosi del favore e dell’appoggio dei Monsignori Sisti Delegato e
Grimaldi Segretario di Consulta, vollero tentare l’approvazione, recare nuovi
dispiaceri al loro Vescovo (da cui non hanno che buone grazie) e far conoscere ai
loro concittadini che senza il loro Vescovo e a suo dispetto, con la protezione sotto
cui vivono, potessero essi ottenere ciò che domandano e vogliono: cacciar via i
governatori, gli impiegati governativi, i marescialli, come è avvenuto... Se gli
intriganti progettisti, intenti sempre a procurare disgusti al proprio Vescovo,
avessero fatto conoscere a V. Em. che l’ergastolo di Corneto rimane sotto l’intero
regime, autorità, giurisdizione, regolamento spirituale e temporale del Vescovo e
visitando la chiesa di S. Maria del Suffragio comanda di mettere nel confessionale la stola violacea per uso del
confessore ecc.
155
ciò in forza della suddetta Bolla di Clemente XIII, quanto sarebbe stato giusto;
invece non si fece conoscere a V.E. e avvedutamente si ricorre al S. Padre...”
Ho fatto un brevissimo cenno della lunga lettera.
Ora tenendo presente che Casimiro Falzacappa era fratello di Pietro, il Querciola
parente da parte della madre e Avvolta parente da parte della sua prima moglie, si
spiega la sua acredine contro il Gazola 7) . E penso che non possa essere altrimenti.
Mi viene anche il dubbio che questo Signor Pietro Falzacappa non abbia avuta
troppa familiarità, come si suol dire, con l’acqua santa, poiché in tutta la cronaca
riportata dal Corteselli vi sono altri giudizi poco lusinghieri o inficiati di sarcasmo o
di burla o di commiserazione su cose e persone religiose.
Leggendo questa cronaca attentamente, ma più che altro, tra le righe come si suol
dire, si osservano sarcasmo e giudizi affrettati, carichi di burle e frasi simili:
1) se il Dott. Giovannini non ebbe più voti, fu perchè l’Arciprete Lastrai insorse
contro con calunnie (2-2-1829);
2) se la Suora M. Vincenza di S. Caterina morì da santa, le sue consorelle l’avevano
conosciuta per buona ma non per una suora straordinaria (4-3-1829);
3) se di venerdì si condisce con lo strutto, ciò è un caso straordinario ( 4-3-1829);
4) se Arcangela Petrighi, già monaca di S. Lucia, fu incarcerata, ciò lo fu per avere
impostate lettere al Delegato, relative al gran processo incendi e satire (8-3-1829);
5) se la sera del 1 maggio 1829 fu carcerato il canonico Sebastiano Forcelli, lo fu
perché complice delle satire mentre altri lo attribuiscono al Card. Vescovo... contro
un canonico capitolare, curato di due chiese e uomo senza macchia (bontà sua!)
6) Se il canonico Domenico Sensi abbracciò lo stato ecclesiastico fu per la prebenda
dovuta al suo canonicato;
7) Pietro-Domenico Lucidi fu sì di carattere ardente ma senza cuore (2-7-1829);
156
8) e quelle campane suonate per la festa di S. Agapito che hanno rotto il timpano di
ogni fedele (20-8-1829);
9) Se la festa della Madonna di Guadalupe è stata accompagnata da musiche,
giostre, fuochi d’artificio ecc. ciò però ha dato dispiacere a quelli che per
professione o per cortigianeria avrebbero voluto che la gente stesse meglio alle
bettole che al teatro (18-10-1829);
10) i cornetani amano i divertimenti ma sono tenuti lontani dal dispotismo pretino
(26-10-1829);
11) il predicatore P. Reginaldo da Caprarola ha sì predicato con applausi ma si
desidera che le sue mosse siano meno mimiche per cui faccia distinzione dal pulpito
di una chiesa dal palco di un teatro (26-12-1829);
12) se il Canonico Giulio Celli la vinse su Maneschi ciò si sapeva ancora prima, ché
i superiori volevano che egli e non altri fosse il teologo (24-1-1830);
13) il P. Luigi di S. Anatolia ha predicato sì la Quaresima ma è difficile trovare una
bestia più rara; però il frate ha guadagnato un mezzo centinaio di scudi mentre
aveva una voce da energumeno e un periodare disordinato (12-4-1830);
14) Candido Mastelloni si sbarazzò di cose pubbliche ma fu di scarso talento (10-51830);
15) i soli zoccolanti hanno goduto della festa di S. Agapito perché non gli è mancato
il solito pranzo della buona città di Corneto e con la solita messa strillata (18-81830);
16) lo stesso sanitario della città è sufficiente ma se hanno guadagnato li speziali,
non hanno molto guadagnato i curati (30-9-1830);
7)
Ranieri Falzacappa (17523-1824) sposato con Margherita Querciola. Ebbe tre figli: Casimiro (1785-1856) - Egidio
(1793-1863) - Pietro (1788-1875) sposato con Vittoria Avvolta prima e poi con Caterina Vitelli.
157
17) se il canonico D. Ferdinando Bovi curò poco di consumare libri, studiò però
molto della cucina e forse sarebbe vissuto qualche anno di più se non avesse fatto
continue indigestioni (14-1-1831);
18) la festa di S. Agapito (23 agosto 1831) è stata molto limitata ma non è mancato
il suono delle campane di S. Francesco fatto dai Frati per il pranzo e non per
devozione;
19) Francesco-Maria Bruschi ha preso il posto di confaloniere... e sarebbe un buon
confaloniere se... non si vendesse interamente al partito pretino per essere
all’occasione spalleggiato ( 8-1-1832);
20) il predicatore della Quaresima è stato una bestia... ( 24-4-1832);
21) la festa di S. Agapito è stata zero per i divertimenti ma non per i frati con un
buon pranzo pagato dal nostro Comune (18-8-1832);
22) Margherita Bruschi è passata all’altra vita, ma era stata una donna altera e
maldicente onde avrebbe avuto molto fumo se fosse stata provvista di arrosto (2211-1832).
Dopo tutto questo non c’è da meravigliarsi se il Sig. Pietro Falzacappa sia stato
molto duro e severo contro il suo Vescovo. Un vescovo, suo superiore, anche se non
accettato, scrupoloso nell’osservanza dei sacri canoni della chiesa, attaccato alle
disposizioni liturgiche e sinodali in vigore a quei tempi, non andava giù.
Quanti bocconi amari ha dovuto perciò digerire questo Falzacappa!!
Ma erano amari perché aveva uno stomaco incapace a digerire, aveva un animo
torvo e scontroso: gli faceva ombra tutto quello che sapeva di pretino, di
ecclesiastico perché tutto gli sembrava oppressione e imposizione.
****
Mons. Gazola Bonaventura nacque a Piacenza il 21 aprile 1744.
Il 7 gennaio 1761 vestì l’abito dei Frati Minori, detti allora Riformati, e cominciò il
noviziato nel convento di Borgonovo (Piacenza); poi passò a Piacenza per iniziare il
158
corso di Filosofia: sia il noviziato che gli studi li compì con sommo onore. Poi passò
a Parma per gli studi teologici. Si laureò nell’università di Urbino. Il 15 maggio 1792
venne promosso Commissario Generale della famiglia Cismontana cioè, a nome del
Generale, curava gli interessi delle province religiose di questa zona: era equiparato
quasi al Ministro Generale.
Fu ben accetto a Pio VI il quale spesso lo consultava negli affarri di maggiore e più
difficile soluzione. Fu fermo difensore dei diritti della chiesa e riscosse applausi
nella famosa assemblea di Parigi. Fu membro della congregazione del S. Ufficio,
dell’Indice, della disciplina regolare ecc. visitatore e riformatore apostolico.
Nel Concistoro del 1 Giugno 1795 Pio VI lo promosse alla chiesa vescovile di Cervia
(Ravenna) ove diede prova luminosa di zelo e vigilanza pastorale. Fu di animo forte,
soffrì con cristiana rassegnazione forti travaglia e duro carcere. Chiamato alla
consulta straordinaria di Lione per l’organizzazione civile-ecclesiastica delle
province italiane, si adoperò con onore e plauso: in questo congresso ottenne la
restituzione dei beni del suo vescovato che il governo percepì durante il periodo
della sua lontananza. Il 3 Maggio 1814 fu eletto Amministratore Apostolico delle
diocesi unite di Montefiascone e Corneto (Tarquinia). Il 21 febbraio 1820, dopo la
quasi ribellione del Card. Maury, fu eletto Vescovo delle medesime diocesi unite 8) .
Nel Concistoro del 3 Maggio 1824 fu creato cardinale. Morì a Montefiascone il 29
gennaio 1832. Con zelo indefesso fu attaccato al governo pontifico nella circostanze
più avverse e difficili. Al ritorno dei francesi dopo la battaglia di Marengo (1800)
dovette fuggire a Roma presso il S. Padre.
“Presso la corte romana si decantò continuamente Gazola per il suo ingegno e la sua
prudenza”.
Cerco ora di conoscere più da vicino e più da dentro il Gazola, pastore e guida della
Diocesi di Tarquinia e accertare se veramente si meritava gli insulti del Falzacappa.
E’ nominato Amministratore Apostolico delle diocesi unite di Montefiascone e
Corneto il 3 Maggio 1814.
8)
Questo Cardinale non ricuserà di farsi nominare Vicario-Capitolare e di governare la Diocesi di Parigi non avendo
ascoltato gli inviti e gli ordini di Pio VI. Si mostrò ardente e fanatico fautore e sostenitore di tutte le pretese
dell’Imperatore con scandalo di buoni e nausea di altri vescovi anch’essi corteggian ma non ugualmente temerari e
arroganti.
159
Tralascio il biglietto di nomina inviatogli da Cesena da Mons. Bertazzoli,
elemosiniere di S.S., tralascio di riportare la lettera autografa di Pio VII, la bolla di
nomina, e vengo subito al suo ministero episcopale nelle due diocesi a iniziare dalla
sua prima lettera pastorale inviata alle dette diocesi in data 27 Maggio 1814 9) .
Assai ben presto avrebbe voluto eseguire l’ubbidienza al Papa, ma le difficoltà del
viaggio a cui andò incontro per venire in diocesi, difficoltà dovute alla lontananza e
ai mezzi allora disponibili, non glielo permisero.
Ora però per adempiere al compito impostogli dal S. Padre, gli fu d’uopo conoscere
chiaramente e distintamente lo stato delle due diocesi, le virtù che vi fiorivano, i vizi
che vi serpeggiavano, il buon costume cristiano che le onorava, il perverso e lo
scandaloso che le disonorava. Si riservò di ricevere nella Visita Pastorale notizie più
precise sull’andamento spirituale e temporale di tutti i luoghi pii e soggetti a queste
due città ecc.
Furono troppo necessarie queste notizie per far sì che detta visita pastorale portasse
frutti copiosi: si appellò alla bravura delle sue pecorelle, alla loro fortezza, alla loro
fedeltà alla dottrina di Cristo e della Chiesa. Si rivolse poi al Capitolo, ai Parroci e
loro coadiutori perché fossero loro ad aiutarlo in questa impresa. E seguitò: “Non è
possibile, lo sappiamo, lo vediamo, lo confessiamo, non è possibile senza i vostri
lumi, i vostri consigli, i vostri suggerimenti, previe le richieste notizie e conoscenze,
poter condurre a buon fine e allo spirituale profitto di queste due chiese e diocesi,
l’apostolica nostra amministrazione.” E nel chiedere ciò egli non intese affatto, per
nessuna ragione, intentare un processo contro chi profanava il santo tempio del
Signore, chi violava le feste comandate, contro i bestemmiatori, contro gli erranti
nella fede o chi professava dottrine erronee o scandalose o scismatiche, chi
disprezzava i precetti della Chiesa: precetto pasquale, digiuno ecc.; contro gli
usurpatori dei beni ecclesiastici, contro chi scriveva cose erronee a riguardo del
Papa da poco ritornato al suo Soglio Pontificio dopo 5 anni di esilio 10) .
9)
Quanto andrò dicendo, lo ricavo dai libri delle tre visite pastorali giacenti nell’archivio della Curia Vescovile di
Tarquinia.
10)
Si riferisce all’arresto di Pio VII (ottobre 1809) fatto ad opera di Napoleone. Fu portato a Savona. Nel 1813 a
Fontainebleau il Papa è costretto a firmare il nuovo concordato che stabilisce la fine del potere temporale. Subito dopo
però revocò. Qui il Gazola si riferisce a idee e principi che serpeggiavano ora clandestinamente ora apertamente a
riguardo del Papa, della chiesa: diritti assoluti del Sovrano contro le ingerenze della Chiesa, dipendenza del Papa,
libertà assoluta di coscienza e di culto, ingerenza dello Stato nelle cose di diretta dipendenza della Chiesa, volontà di
controllare la vita ecclesiastica, riduzione dei poteri del clero nella vita sociale ecc.
160
“Queste notizie che chiediamo e vogliamo da voi è per sollevare gli oppressi e per
premiare i santi confessori della fede, per animare i veri cristiani e seguaci di
Cristo e a perseverare nel bene... Vogliamo abbracciare e stringere al nostro seno
quanti da voi denunziati o venuti a nostra conoscenza durante la visita... Noi li
correggeremo privatamente secondo il consiglio di S. Paolo a Timoteo, e se ciò non
bastasse, lo faremo con i testimoni e solo dopo questo rifiuto li denunzieremo alla
Chiesa. Tenere presente sempre quel detto di S. Paolo: “insta... increpa in omni
patientia et doctrina 11) In una parola: le notizie che vi chiediamo sul male dei
vostri fratelli, ci faranno tentare ogni via, mettere in pratica ogni mezzo per il loro
ravvedimento e per riparare “lo scandalo dato agli innocenti” seguendo
pazzamente le empie dottrine rivoluzionarie che riguardano il supremo magistero
del Papa, Vicario di Cristo, re e sovrano temporale, rubando e dilapidando lo stato
pontificio. Aborrisco e detesto lettere anonime piene di odio, falsità e calunnie...
Tanto aborrisco queste lettere e questi memoriali ciechi che se mai qualcuno, sia
ecclesiastico, sia secolare, azzardasse d’inviarci tali lettere e simili memoriali,
sappia che, scoperta la verità e le calunnie da lui descritte, andremo alla ricerca
degli autori di tali lettere e, scoperti, li puniremo severamente e anche con la pena
degl taglione: pena che è stata sempre ed è il fondamento e sostegno d’ogni legge e
della giustizia. Le notizie che vi abbiamo chiesto e torniamo a chiedervi sui vizi e
sulle virtù, sul buono e santo costume e sul perverso e scandaloso e su tutti i
disordini che veramente regnano... le vogliamo solo da voi “os ad os” o con foglio
sottoscritto col proprio nome, cognome e patria assicurandovi di non palesare a
veruno la persona denunziata.”
La lettera pastorale termina ordinando preghiere e benedicendo.
****
Il 22 Giugno 1814 iniziò la Visita Pastorale vera e propria, dopo aver eletto i
convisitatori, i revisori, il segretario ecc. 12) Iniziò dalla Cattedrale e subito,
osservando uno sconcio dovuto al governo passato, pregò il Parroco della Cattedrale
Mons. Gian-Battista Falzacappa, di scrivere al Magistrato della città perché
rimuovesse subito i banchi o gli scanni dai quali soleva assistere alle sacre funzioni e
11)
Cfr. II Tim. 2, 24-4, 2
161
si ritornasse alla prassi usata prima del governo francese. Tale lettera difatti fu
inviata al Magistrato il 5 luglio successivo.
Visitò la chiesa, gli altari, le cappelle, la sacrestia ecc. e fece delle osservazioni più
che giuste per un decoroso servizio liturgico, per un buon ornamento e andamento
della chiesa intesa come luogo di culto.
Intanto il 20 giugno precedente aveva invitao una lettera ai parroci della città di
Corneto dicendo: “Appena qua giunto ci sono state riferite alcune inosservanze
delle leggi canoniche e sinodali relativamente alle persone che vogliono contrarre
matrimonio, introdottesi sotto il cessato governo.
Non ci è stato difficile il notificarli; quindi ordiniamo... a non ammettere al così
detto consenso qualsiasi persona che fosse ignorante della dottrina cattolica
necessaria a sapersi da chi vuol salvarsi e ammogliarsi; e finché non sia ben
istruito non si ammetta al richiesto consenso, né si faccia veruna pubblicazione
ecc. ecc.”
Il 24 giugno visitò la Chiesa del Suffragio ed ebbe la gioia di sapere che in quella
Chiesa vi era una confraternita che pensava a suffragare le anime dei defunti con
opere pie, Sante Messe, preghiere ed Esposizione solenne del SS.mo Sacramento.
Invece visitando l’Ospedale che era unito alla Chiesa di S. Croce (28-VI) seppe dal
Priore, Fr. Pio Berti di Roma, quanto segue 13) :
“Le salme dei morti che avvengono nell’ospedale, vengono portate al cimitero da
solo n.4 vespilloni, con scarpe di pezza, senza sacco. Cosicchè per le vie e per le
piazze, con questo indecente trasloco col feretro, sono oggetto di vituperio e di
ludibrio. Per questo motivo il cappellano dell’ospedale vestito di amitto, camice e
stola nera accompagna recitando le solite preci, precedendo la salma. Però da
qualche tempo è cessata anche questa pia opera di pietà: onde senza
accompagnamento e sacerdote orante, senza le consuete preci prescritte, vengono
portati a seppellire i cadaveri come se si portassero delle bestie e senza altra
diligenza e canti, vengono lasciate le salme all’’ingresso del sepolcro finalmente
liberi dal peso, ma senza orrore dei presenti. Pertanto per togliere di mezzo questo
12)
I convisitatori furono l’Arcidiacono Gian-Battista Falzacappa e il canonico Ferdinando Bovi; revisori il Rev.
Canonico Gaspare Erasmi, il M.R. Sig. Beneficiato Angelo Galassi, il Rev.mo canonico Giovanni Ronca e Francesco
Ponzani, segretario il Rev.mo P. Gaudenzio Petrignani consultore del S. Ufficio e Teologo del Vescovo.
13)
La cura di questo ospedale fino al 1585 apparteneva a una confraternita che gestiva pure la chiesa. Questa
confraternita che faceva uso di sacco e cingolo di colore bianchi, fu aggregata all’Arciconfraternita del Gonfalone di
Roma. Da quell’anno passò ai religiosi di S. Giovanni di Dio con uno strumento stipulato nel 1592.
162
scandalo, sarebbe cosa opportuna che quelle persone addette a questo ufficio,
fossero chiamate presso il Vescovo per una riunione.
Difatti questa riunione avvenne il 18 luglio 1814: il Vescovo con gravissime parole
parlò del predetto scandalo che gli stessi presenti non poterono non condividere,
riprovando e dicendo che per l’avvenire non poteva più permettersi. Fu pensato a
quali mezzi ricorrere per conseguire il fine, mezzi facili ed efficaci.
Da alcuni, massimamente il vessillifero, fu suggerito che questo dovere di portare le
salme al cimitero convenisse alla Confraternita e questo sia per i morti nominati
cioè quelli dell’ospedale e sia per quelli che venivano trovati per la campagna:
trasportarli nella propria Chiesa e poi alla sepoltura: 4 vespilloni avrebbero pensato
a ciò, dietro giusta ricompensa annuale.
Il camerario e il governatore della confraternita si opposero a questa proposta. Dopo
ampia discussione si convenne:
1) quattro vespilloni, timorati e adatti a questo ufficio, vestiti di sacco decente
avrebbero trasportato la salma dell’ospedale al cimitero; gli altri confratelli,
similmente vestiti di sacco e con la croce, l’avrebbero accompagnata con almeno due
candele accanto al feretro.
2) gli stessi vespilloni avrebbero pensato a seppellire il morto con grande pietà e
diligenza; prima però il cappellano avrebbe dovuto benedire la salma.
3) la mercede per tale lavoro doveva essere erogata ogni tre mesi dalla Comunità,
per cui si sarebbero interessati il vessillifero e il decurione. Il resto della spesa
doveva essere elargita ogni anno dalle 5 confraternite della città e cioè della Morte o
del SS. Sacramento, della Croce, della Trinità, di S. Giuseppe e del Suffragio.
4) per questa prima volta, a posto delle 5 Confraternite nominate, i 5 sacchi per i 5
uomini saranno fatti a spese proprie.
5) il Priore dell’Ospedale penserà a custodire con diligenza i sacchi con le funi, gli
arnesi che serviranno per seppellire i morti, le chiavi del cimitero ecc.
Il Vescovo volle che tali decisioni non rimanessero lettera morta e che ogni
confraternita se ne rendesse consapevole con lettera spedita precisamente il 27
luglio 1814 dalla sede vescovile di Corneto.
Furono subito eletti e chiamati in congregazione cinque uomini che per l’avvenire
avrebbero dovuto trasportare e seppellire i morti, come si è detto di sopra. I
medesimi poi stipularono una convenzione che è di questo tenore:
163
a) gli infrascritti individui sono obbligati a trasportare al cimitero di S. Giacomo
tutti i cadaveri del suddetto ospedale, vestiti di cappa che somministerà il Priore a
cui debbono restituirla dopo l’associazione, per lo spazio di tre anni.
b) i medesimi infrascritti sono obbligati a tumulare i suddetti cadaveri con tutta la
massima decenza e cristiana carità...
c) la Camera è obbligata a pagare la somma di scudi 20, ripartiti di tre mesi in tre
mesi posticipatamente, perché così e non altrimenti. Per la piena osservanza di tutte
le suddette cose, gli infrascritti obbligano se stessi... e si firmano.
Poi visitò la chiesa di S. Maria della Misericordia, posta sulla Piazza del Paese, che
aveva una società aggregata all’Arciconfraternita del SS. Sacramento e della Morte
di Roma onde si chiama con questi nomi.
Usa sacco di colore nero, e tra le opere spirituali che compie vi è quella di
trasportare a proprie spese nella loro Chiesa e poi alla sepoltura i cadaveri dei morti
che muoiono nelle campagne.
Proseguendo nella sua visita pastorale, il Gazola intervenne in molte altre cose di
fondamentale importanza: la recita dell’Ufficio Divino da parte del Clero, lo sforzo
per debellare i vizi inveterati della bestemmia e della dissacrazione del giorno
festivo e della frequenza delle bettole dovuta all’ozio (pag. 102) ecc.
Intervenne per il funzionamento a pro dei fedeli della zona della chiesuola di S.
Firmina sulla spiaggia al Porto Clementino (pag. 107, 217, 249, 253); si interessò
paternamente dei sacerdoti e religiosi carcerati nella casa di correzione (pag. 92),
dei seminaristi fuori seminario, onde per questi il 31 agosto 1814 incaricò il Rev.mo
Canonico Benedetti e il Beneficiario Angelo Galessi perché pensassero alla loro
educazione (pag. 151).
Intevenne anche sul modo di vestire il clero (pag. 263).
Il 22 agosto fece scrivere ai Parroci una lettera in cui si richiamava il dovere della
spiegazione della Parola di Dio, l’istruzione religiosa (pag. 130).
Nei giorni 1, 24 e 30 ci furono adunanze per risolvere alcuni inconvenienti
dell’Università dei Calzolai, della Confraternita del SS. Sacramento, (pag. 114) della
Confraternita del Gonfalone (pag. 60), della Confraternita degli Umili (pag. 48).
Il 31 agosto scrisse una lettera ai parroci sul modo di vestire delle donne in chiesa
(pag. 137). Il 1 Settembre pubblicò un rescritto della S. Sede con l’elenco degli
esaminatori pro-sinodali (pag. 138).
164
A togliere i gravi disordini e le molte mancanze dell’adempimento dei Legati pii ed
obblighi di Sante Messe, il 30 agosto 1814 istituì una congregazione di scelti e capaci
ecclesiastici (pag. 140).
Si diede da fare per sistemare alcuni inconvenienti che avvenivano nella chiesa di S.
Giuseppe (incomprensione tra l’arciprete e i confratelli) e non disdegnò di chiamare
a dovere l’arciprete e il suo collaboratore (pag. 119) ecc.
* * * *
L’11 settembre 1815 inviò una relazione dettagliata di questa sua prima visita
pastorale alla Congregazione competente: dopo aver accennato al lungo e periglioso
viaggio per fare il suo ingresso in Corneto e alla cattedrale non tanto grande ma in
buono stato, parlò del suo clero. Traduco dal latino: “Accennerò brevemente a tutto
il clero secolare degno di onore e di grande stima, nonché dei grandi e molti motivi
di amore, di ossequio, di obbedienza a me prestati; parlerò anche se con poche
parole, della loro profonda e seria dottrina, della loro pietà, delle loro doti di
religione che lo onorano brillantemente. Primo: tra gli altri ministri hanno luogo i
canonici della cattedrale i quali quanto più eccellono nella dignità, tanto più si
vedono forniti delle doti di scienza, di pietà e di zelo 14) .
Dopo questa introduzione, che potrebbe sembrare come la così detta “captatio
benevolentiae”, ma in realtà non lo è, passa subito a dire quello che ha fatto per il
bene del clero e della diocesi. Fa certamente rivelare il bene perché fosse seguitato e
incrementato, ma fa notare anche cose che non andavano, perché fossero corrette o
raddrizzate: l’Ufficio Divino da parte del Clero, il ripristino della soluzione dei casi
morali, la spiegazione della parola di Dio nei giorni festivi, il catechismo, la
preparazione al matrimonio, gli abusi riscontrati nel clero per quanto riguarda
l’abito talare, i suoi vari interventi per il buon funzionamento delle Confraternite,
l’assistenza alle famiglie degli agricoltori per le quali aveva chiesto luoghi per
alloggiare (per es. il cenobio dei Minori Conventuali e la Chiesa dei Serviti); la casa
di correzione per ecclesiastici sia secolari che regolari, del celeberrimo seminario di
Montefiascone costruito dal Card. Antonio Barbarigo. Verso la fine dice: “quanto il
clero spende per l’esempio anche il popolo è morigerato ed è incline alla pietà. E’
14)
Nel Diario della Deportazione in Corsica del Canonico di Albano G. Loberti, a cura di Spina, Albano Laziale 1985,
risulta che ben 5 sacerdoti del clero di Corneto erano deportati a Bastia in Corsica. Erano: Garigas Francesco, Erasmi
165
rivolto con tutto l’animo verso i ministri della chiesa... Quantunque il campo sia
ottimo, pingue, feracissimo non mancano le erbe cattive: bestemmia, libidine
sfrenata, violazione del riposo festivo ecc.
Il 13 novembre 1815 fu ricevuta la lunga relazione della visita pastorale e la lettera di
recezione portava la firma del Card. Gabrielli, Prefetto della S. Congregazione del
Concilio. Quasi a conclusione di questa visita pastorale, il 30-12-1815 dal Palazzo
Vescovile di Corneto indisse una missione al popolo che doveva aver inizio il 5-11816; pertanto pregava i genitori che vi conducessero i propri figli, i padroni che
mandassero i loro servi, gli agricoltori i loro operari della campagna. E perché tutti
potessero partecipare al catechismo e alle prediche, volle che venissero chiuse tutte
le osterie, le bettole, i macelli, i forni, le officine, i caffé, le spezierie e tutte le altre
botteghe.
SECONDA VISITA PASTORALE (1818)
Il 26 febbraio 1818, indisse una seconda visita pastorale 15) . Nel documento di tale
indizione vi si legge: “Il 22 maggio 1814, con l’aiuto di Dio, la sua guida e col favore
dei Santi Patroni delle due Diocesi di Corneto e Montefiascone, cominciammo la
prima Visita pastorale della nostra Amministrazione Apostolica, oggi 26 febbraio
la dichiariamo chiusa.... Con gioia ho appreso sia dal Vicario Generale che dai
Vicari Foranei che è stato adempiuto a tutti gli obblighi riguardanti la
celebrazione delle Sante Messe, ai Legati, ai Benefici, che si è soddisfatto o si ha
intenzione
di
soddisfare
subito
a
tutti
i
decreti
riguardanti
la
retta
amministrazione dei luoghi pii”.
Difatti moltissimo di quanto ordinato nella prima visita era stato eseguito e
pochissime altre cose si stavano eseguendo. Nel corso di tale lettera accennò alle
angustie e alle iniquità dei tempi: per questo si sforzò di dominare i vizi, che non
insolentiscano i corrotti e depravati costumi e perché non mettessero più profonde
Giuseppe, Benedetti Filippo, De Cesaris Cristoforo, mentre De Dominis Michele era deportato a Parma (Cfr. appendice
pag. 115).
15)
I convisitatori di questa seconda visita pastorale e gli altri ufficiali sono: l’arciprete D. Domenico Lastrai, il
Canonico D. Domenico Ferrand, l’arcidiacono Giovanni Battista Falzacappa e il Rev.mo Canonico D. Ferdinando
Bovi; revisori delle messe il suddetto Falzacappa e il canonico D. Michele De Dominis ecc. Segretario della visita D.
Giacomo Boccanera.
166
radici gli scandali. Come Paolo, con pazienza, dottrina ecc. ora riprendendo, ora
redarguendo, cercò di far rifiorire l’osservanza dei Sacri Canoni, affinché ritornasse
in vigore l’integrità dei costumi; e la religione, disprezzata, ritornasse al vecchio
splendore. Conclude “le poche o molte leggi a nulla valgono quando non si ha
l’animo di osservarle.
Questa seconda visita canonica cominciò la feria 5ª dopo la terza domenica di
Pasqua. Visitò per primo la Cattedrale con pontificale e altro che è si è solito fare per
tale avvenimento. Dalla Cattedrale il 2-3-1818 passò alla chiesa di S. Antonio Abate:
sull’altare maggiore vi era l’immagine della B.V. detta Stella del Mare che da
parecchi anni era stata trasferita in questa chiesa assieme alla Confraternita degli
Umili, dalla Chiesa di S. Maria del Mare. I confratelli, volgarmente chiamati
“Sacconi” (perché usano sacco e corda ruvidi) fra gli altri obblighi che avevano, vi
era quello che a turno, nei giorni di festa, gli iscritti andassero per il paese per
impedire la bestemmia e correggere i bestemmiatori. Tuttavia tale ottima missione
era stata abbandonata onde il Pastore volle che si ripristinasse l’uso. Difatti il 18
agosto quei confratelli scrissero al Vescovo e rinnovarono l’obbligo di ritornare a
questo dovere sì proficuo e sì ricco di frutti.
Il 2 marzo visitò pure la casa di correzione ove volle ascoltare tutti e singoli i
penitenti in distinti giorni: erano 12. Intanto seppe che il Rettore, l’Arcidiacono
Giovanni-Battista Falzacappa, raramente andava a visitare i reclusi onde ordinò che
almeno una volta la settimana andasse a fare tale visita per confortarli e aiutarli.
Passò poi all’ospedale: qui trovò i Religiosi Fatebenefratelli che si appellarono al
diritto di esenzione, ma avevano dimenticato una clausola del contratto di cessione
del 1592 in cui si diceva che i frati sarebbero stati soggetti all’obbedienza di
Monsignore Vescovo Pastore della Diocesi il quale può e ha autorità di visitarli tutte
le volte che gli parrà necessario ed a proposito. Fu fatta perciò la visita canonica
come per il passato: visitando interrogò il medico Dott. Luigi De Bernardinis circa la
cura dei malati, la composizione dei medicinali ecc. Tutto fu trovato in regola.
L’8 aprile visitò la scuola pubblica dei fanciulli composta di due aule: vi interrogò
alcuni sulla dottrina cristiana, sulla grammatica e sull’aritmetica.
Il giorno successivo visitò la Pia Scuola delle fanciulle esistenti avanti la chiesa di S.
Croce: era tenuta da due maestre. I fanciulli erano molti, ne interrogò alcuni sulla
dottrina cristiana secondo le diverse età.
Il 14 e 17 aprile visitò il Monastero delle Passioniste e qui volle ascoltare tutte le
Suore. Il 7 maggio vi ritornò per presiedere allo scrutinio per l’elezione della nuova
167
Presidente; venne eletta a maggioranza di voti la Madre Maria-Margherita del Cuore
di Gesù.
Il 16 maggio visitò il Monastero di S. Lucia e anche qui volle ascoltare tutte le suore.
Al termine di questa seconda visita pastorale, il 14 aprile emanò una notificazione da
cui risultava che si dovesse presto rimediare ad alcune inadempienze quali l’esatta
nota dei censi pericolanti di tutti i luoghi pii e alcune prebende ecclesiastiche; si
dovessero poi portare i libri delle messe e delle amministrazioni delle Confraternite
e di alcuni sacerdoti.
In data 21-1, 9-2-1818 e 9-2-1819 inviò un editto in cui si auspicava la presenza dei
fedeli alle funzioni della Quaresima. E’ vero che il Papa Pio VII aveva concesso
qualche dispensa per la Quaresima ma aveva fatto obbligo nel contempo di
attenderre a opere pie, ascoltare le prediche quaresimali ecc. ecc. Egli però dovè
constatare che molti, al tempo della predica, si ritiravano chi nei caffé e spezierie,
chi in botteghe, chi in bettole e osterie ove si mangia e si beve allegramente e si
rompe il digiuno. Pertanto, perché si potesse ascoltare la predica, proibiva a tenere
aperte nel tempo di Avvento e di Quaresima detti locali: ai primi segni, ossia ai
primi tocchi della predica, tutti i responsabili di detti luoghi pubblici dovevano
chiudere e mandar via i presenti. La stessa proibizione valeva per l’ora del
catechismo, 10 giorni dopo la 4ª Domenica di Quaresima. La lettera seguita
appellandosi alle premure, allo zelo che la Chiesa ha per i suoi figli.
L’8-11-1818 dal Palazzo Vescovile di Montefiascone mandò una lettera esortando a
frequentare il Sacramento dell’Eucarestia da cui molti erano lontani, chi due e chi
tre anni; annunciava di applicare le pene ai trasgressori di tale precetto, ricordava il
precetto di non mangiar carne nei giorni vietati dalle leggi ecclesiastiche ecc.
Il 31 maggio 1819 indisse un pubblico atto di penitenza: una processione per il
giorno della SS. Trinità, con preghiere e altro, per scongiurare l’ira di Dio
manifestatasi con scosse telluriche, folgori, grandine ecc.
Il 23-12-1819 inviò una circolare da cui si sa che dovette andare a Cervia “per dare
alla nostra prima sposa l’ultima prova di quell’amore che ci unì alla medesima e
che ci rende tanto tormentato il distacco da lei”. Difatti il 21-2-1820 veniva eletto
Vescovo di Montefiascone e Corneto comunicando tale notizia a queste due diocesi
il 18 maggio 1820, e contemporaneamente esortava a fare quanto era stato detto e
ordinato in precedenza mentre era Amministratore Apostolico.
Volle poi che ogni anno all’apertura della congregazione dei Casi Morali, si
promettesse la lettura delle sue disposizioni precedenti e cioè che il clero non
168
comunicasse con i secolari né con opere e né con divertimenti, che sempre il clero
portasse l’abito talare con decoro. Raccomandava ancora la santificazione dei giorni
festivi che spesso sono per la chiesa giorni di lutto.
TERZA VISITA PASTORALE (1823, 1825, 1830)
Su questa visita pastorale non vi è nulla di nuovo da dire o da aggiungere: si svolse
regolarmente ma fu sospesa per varie cause dopo la visita dell’Orfanotrofio (7-71823) e fu ripresa il 21-6-1825.
Di nuovo interrotta, volle però che fosse seguitata dai suoi delegati con a capo
l’Arcidiacono Falzacappa come delegato.
Costoro iniziarono il 21-XI-1825, senonché il 15-12, essendo inverno, fu sospesa tale
visita e tutto fu rimandato a dopo tale stagione.
Tuttavia, aggiunge il cronista, le chiese fuori Corneto non furono mai visitate. Il 29
giugno 1830 fu ripresa dal Cardinale. Qui però finisce il cronista: i documenti o
tacciono o sono andati smarriti.
CONCLUSIONE: da quanto è stato fin qui detto, il lettore si sarà perfettamente reso
conto che il Gazola non meritava ingiurie e invettive da parte di un uomo che si
chiamava Pietro Falzacappa.
P. Adolfo Porfido
“IL DEMONE INDIANO”
A CIVITAVECCHIA NEL 1854 (1)
(1)
Le notizie riportate nel presente articolo sono state desunte da “Sul colera di Civitavecchia e sulle quarantene” di
Serafino Belli. L’opuscolo è dedicato “al chiarissimo Camillo Franceschi, dotto, gentile e sagacissimo” e reca la data
del 3 gennaio 1855. E’ stato stampato in Roma, nel mese di marzo dello stesso anno, presso i Fratelli Pallotta tipografi. E’ conservato presso l’archivio della S.T.A.S. di Tarquinia ed è catalogato con il n°860. L’autore Serafino
Belli - medico romano, svolse la propria attività in Civitavecchia nella seconda metà del 19° secolo. Fu professore di
medicina teorico-pratica e Membro del Collegio medico-chirurgico dell’Università di Camerino.
169
Il morbo non giunse del tutto inatteso e si diffuse con una virulenza eccezionale.
C’erano stati, è vero, alcuni sintomi che, a ben guardare, avevano preannunciato il
giungere del contagio. Già dal 1851 l’andamento delle stagioni non era stato
regolare. I venti meridionali avevano portato condizioni atmosferiche sfavorevoli ed
il 1853 era stato un anno eccezionalmente piovoso, tanto che il raccolto del grano,
dell’uva e delle patate risultò piuttosto scadente. La produzione di frutta ebbe un
calo nella qualità: le pesche, ad esempio, apparvero di pessimo colore, insipide, non
mature, coperte di muffa.
Lo stato di salute dei cittadini civitavecchiesi nel periodo invernale di quello stesso
anno presentò un gran numero di “malanni gastrici-nervosi, di febbri aftose,
diarrea, emorragie venose e, frequentissime, furono le epilessie infantili”.
Agli inizi dell’estate apparvero coliche biliose sempre più frequenti e più gravi, con
crampi, abbassamento della temperatura e vomito.
Il mese di agosto portò un caldo soffocante, umido, sciroccoso e, proprio in questo
periodo si manifestarono i primi casi di colera.
Ci furono anche alcuni fatti inspiegabili, che - notati di tutta la cittadinanza - non
ebbero alcuna spiegazione logica: la scomparsa delle mosche e delle rondini. Furono
proprio questi fenomeni, uniti ai primi sporadici casi di contagio, che provocarono
forti timori, anche per il giungere in porto di funeste notizie di casi di colera a
Marsiglia, Genova, Livorno, Napoli.
Da parte dell’Autorità si cercò di minimizzare le notizie per non seminare il panico.
Poteva trattarsi - si disse - di casi sporadici di dissenteria: casi incerti e non letali.
La popolazione di Civitavecchia non si lasciò ingannare, anche perché ricordava
ancora molto bene la precedente pestilenza del 1835, che aveva seminato tanto
sbigottimento, agghiacciante paura e numerosissimi lutti.
Un altro motivo di paura era originato dalla miseria che cominciava ad apparire tra
la popolazione per la paventata chiusura del porto, al fine di approntare un cordone
sanitario e relativa quarantena.
Già in precedenza la Guerra di Crimea aveva fatto diminuire notevolmente “il flusso
commerciale e turistico del porto: nessuno sbarcava, nessuno scaricava. La
successiva quarantena paralizzò ogni commercio ed ogni industria. Quindi
mercaioli, locandieri, spacciatori di liquori, di vino e di commestibili, marinari,
barcaroli, facchini, postiglioni, vetturini, carrettieri se ne rimasero oziosi ed avviliti,
nelle più angustissime ristrettezze”.
170
E’ facile immaginare la tristezza e lo squallore che assalirono gli abitanti di
Civitavecchia, i quali - dopo un pessimo inverno - avevano atteso la buona stagione
per incrementare i propri guadagni. Ora si prospettavano malattia e quarantene!
La prima reazione fu quella di opporsi violentemente agli editti, alle leggi sanitarie,
ai proclami. I cittadini iniziarono a mugugnare prima ed a inveire poi contro coloro
che parlavano di leggi sanitarie, di pulizia personale, di disinfezioni, di medicine.
I medici furono i primi ad essere contestati, anche perché si diffuse la voce che il
colera era stato provocato dai sanitari, i quali avrebbero contagiato espressamente
gli abitanti di Civitavecchia per limitare la crescita eccessiva della popolazione e
perché - per ogni decesso - avrebbero ricevuto un compenso di dieci scudi. 1)
Così la paura, la miseria, la superstizione, la testardaggine crearono i primi danni in
città. Da parte “dell’Autorità costituita” si intervenne con la massima celerità e gli
interventi furono saggi, tempestivi ed i provvedimenti oculati e rapidi.
Il Delegato Apostolico, Mons. Pietro Gramiccia, comprese che la malattia si sarebbe
potuta fronteggiare nell’ordine, senza perdere la testa, elargendo pane, vino, viveri
di prima necessità al fine di tranquillizzare gli anini, “ben sapendo che l’ordine, il
buon nutrimento, la nettezza personale sono i mezzi sovrani a rendere inefficace
ogni maligna efficienza, fornendo l’individuo di bastevole nutrimento”.
Anche il Magistrato Comunale intervenne in soccorso dei concittadini, elargendo le
somme spettanti alla “Inclita Camera di Commercio”.
Così giornalmente oltre cento famiglie furono approvvigionate di pane nella misura
di una libbra e mezzo per gli adulti ed una libbra per i minori 1) . Chiunque poi si
fosse ammalato - di qualsiasi malattia - avrebbe ricevuto carne, olio, pane, limoni
e... neve 2) e con lui tutta la famiglia avrebbe ricevuto vitto e soccorsi.
Per tre mesi furono distribuiti gratuitamente medicinali a tutti gli infermi; anche i
cittadini più abbienti provvidero a sostenere di tasca loro i bisogni dei più poveri
con laute sovvenzioni.
1)
Scudo = Moneta d’oro o d’argento, di valore mutante nei vari secoli, portante lo scudo del Principe o dello Stato
emittente, effigiato su una delle facce.
1)
Libbra - Antica unità di misura di peso con diversi valori, di poco inferiore al mezzo chilo.
Neve - Trattavasi di ghiaccio conservato in grotte, tra paglia e terra. Alcune volte si ricorse alla vera neve fatta
giungere dai monti più vicini e conservata in grotte, come per il ghiaccio.
2)
171
Queste misure ebbero il potere di riavvicinare il popolino all’Autorità Tutoria, che a mezzo di tre Deputati Comunali e dei parroci delle tre Parrocchie 3) ebbero ogni
sovvenzione in cibo e denari.
Ma l’intervento più oculato fu quello che impose la pulizia delle strade e delle
abitazioni. Il maggior contagio si era avuto “in Piazza Leandra, nel Borgo S. Antonio,
nella Via Tiberina, le quali strade sono le meno ariose, le più ottuse ed anguste della
città”. Una lettera d’ufficio del Deputato Apostolico richiese 4) ai proprietari di
immobili che “tutte le loro case fossero immediatamente purgate d’ogni sorgente
d’impure esalazioni; che le più sudicie venissero imbiancate nel miglior modo
possibile e, se mancassero di farlo subito, la stessa Polizia avrebbe proceduto
d’ufficio all’esecuzione dei lavori occorrenti, a tutto carico degli stessi proprietari. E
così facendosi appunto con i più indolenti, e le multe alle quali soggiacquero pagate
le spese dei lavori - nel di più furono ai poveri in tanto pane distribuite”.
Vennero potenziati anche gli Ospedali della città e furono dotati di ogni medicinale
necessario. I posti-letto vennero raddoppiati, “perché di ciascuno se ne fecero due”:
uno per i malati ordinari e l’altro per i colerici, cosicché in città si contarono:
- L’Ospedale Militare, occupato dall’Armata Francese;
- due reparti per gli uomini, nell’Ospedale di S. Giovanni di Dio;
- due, per le donne, nell’Ospedale Comunale;
- due, per i forzati nel Bagno Penale.
Si organizzarono quattro infermerie presso le Saline, “sia per i forzati che per i
guardiaciurma”.
Quello dei forzati fu il primo problema in quanto il colera si verificò nella Darsena
ove la sovrappopolazione, le condizioni igieniche precarie e l’insalubrità del vitto
provocarono le maggiori perdite e “un centinaio e più di forzati vedevasi preso dalla
diarrea. In pochi giorni i casi ascesero a trentanove e ventinove furono i morti”. Per
porre un argine al contagio si provvide “istantaneamente alla mutazione de’cibi, tolti
i legumi, proibita l’introduzione di frutta e salumi”.
Si provvide anche a separare i forzati malati dei sani, trasportando quest’ultimi - via
mare - a Palo. Le misure sanitarie ed igieniche e la riduzione della popolazione
carceraria fecero sì che tra i millecinquecento “ospiti” i casi di effettivo colera di
riducessero soltanto a nove.
3)
Parrocchie Civitavecchiesi nel 1850 - Cattedrale (o di S. Francesco), officiata dai canonici della Cattedrale; di S.
Antonio del Ghetto, officiata dai Frati Minori Conventuali; di S. Maria e S. Fermina, officiata dai domenicani.
172
Ma come si manifestò il colera? Quali furono i sintomi?
“Grave abbattimento di forze con alternative di caldo o di freddo, malessere
generale, vertigini, peso e dolore di capo, mormorio tintinnante agli orecchi,
offuscamento di vista, senso di pienezza dello stomaco ed al ventre. I polsi intanto
facevansi frequenti ed irregolari, il volto pallidissimo ed un cerchio livido si formava
attorno agli occhi, onde il guardo facevasi lento, profondo, doloroso. Sorgeva un
senso di angoscia e con esso uno struggimento di cuore, dai quali nasceva un sudore
freddo simile per poco a quello dell’estrema agonia, onde in mezzo all’estremo
freddo del di fuori, soffrivano fuoco al di dentro, e sete inestinguibile, per cui
pregavano di continuo e scongiuravano pietosamente che venisse apprestata loro
acqua, neve e ghiaccio”.
Per fronteggiare il colera si ricorse subito a metodi empirici, assegnando pozioni di
olio d’oliva con succo di limone, tamarindo, cremor di tartaro, clisteri di orzo o di
malva ed altri purganti. Proprio quest’ultimi furono ritenuti in questa occasione i
rimedi di cui fare più affidamento all’inizio della malattia. Vennero perciò prescritti
“tartaro stibiato, polvere d’ipecacuana (1) , la manna (2) , la cassia (3) .
Si ritenne che il vino - usato moderatamente ed allungato nell’acqua ridonasse
vigore e forze “ o rimuovesse - donando euforia - tristezza ed apprensione. I poveri
condannati di questo Bagno, addetti ai lavori delle Saline, non appena ebbero dalla
pietà di Sua Eccellenza, il Signor Principe di Torlonia, sufficiente quantità di buon
vino, incominciarono a riaversi dallo spavento e ripresero cuore e volontà, più
dolcemente e alacremente tornarono ai loro penosi travagli”.
Ma il vero toccasana del caso fu ritenuta la “china” sia in infusione acquosa o vinosa
che si prendeva a cucchiaiate, sia in decotti ben saturati con i quali si facevano
praticare non infrequenti clisteri. La china dava una specie di “ebbrezza, i polsi più
alti, le orine colorate, l’estro afrodisiaco, un fischio agli orecchi”.
Vengono infine riportati i nomi delle vittime in cura dal nostro Autore:
1) Maria Giannini Fraticelli. Sessagenaria, fu una delle prime vittime del colera.
Dopo grave disordine dietetico, fu colpita sul far della sera nel modo più violento dal
morbo. Fui chiamato a soccorrerla verso la mezzanotte, quando era già agonizzante.
4)
E’ da tener presente che, per non allarmare il popolo, nel periodo del morbo, non vennero emanati editti, proclami o
“grida” (Grido = Bando, proclama annunziato dal banditore).
(1)
Ipecacuana = Pianta arbustiva del Brasile, della Famiglia delle Rubiali, con radici ramificate e provviste di
rigonfiamenti, da cui si estraeva una droga ad azione espettorante.
(2)
Manna = Sostanza zuccherina ottenuta dall’incisione della corteccia del frassino del Meridione italiano, con proprietà
purgative.
(3)
Cassia = Sostanza zuccherina ottenuta dal Futuro della Famiglia delle Rosali, con proprietà medicinali purgative.
173
Ebbe a prender poco olio d’oliva con succo di limone, apprestatole dagli atterriti
congiunti. Le si praticarono solo fomenti e clisteri. All’alba era morta!
2) Nicolino Fraticelli. Fanciullo di tre anni e nipote della predetta. Dormiva nella
stessa camera e fu presso in modo fulminante dal morbo nella notte medesima.
Senza potergli fare prendere alcun rimedio, moriva pochi momenti appresso la sua
parente.
3) Fermina Fraticelli. Ventenne e figlia della detta Maria. Dopo aver prestato
soccorso per poche ore alla madre, venne anch’ella ad infermarsi della stessa
malattia. Fattala trasportare in un’altra camera, da dove non potesse avvedersi della
morte della madre, presi a curarla. Lottò lungamente col morbo. Era già senza
febbre, convalescente, quando nel giorno quattordicesimo le tornarono a fluire i
beneficij mensili. Poteva dirsi guarita, quando, comparendole innanzi il fratello
vestito a bruno e comprendendo da ciò essere morta sua madre, fu presa da così
veemente disperato dolore, che le si arrestò la mestruazione e sopravvenne
minacciosa mancanza d’aria e, dopo sedici ore di mortale angoscia e congestione
polmonare, spirava.
4) Francesco Romani. Vecchio barcaiolo. Mi chiamava dodici ore dopo essere stato
colpito dal colera ed io lo trovai già all’estremo di vita. Egli moriva poche ore dopo la
mia visita senza prendere alcuna medicina.
5) Giosafat Oliva. Militare di marina, di circa quarant’anni. Dedito eccessivamente
al vino ed ai liquori spiritosi, fu preso da violentissimo colera. Lo vidi una sola volta
e gli prescrissi una dose di olio di ricino. Non avendo chi l’assistesse, fu condotto in
Ospedale, ove due giorni appresso morì, assistito da altro medico.
6) Francesco Pierucci. Facchino della stessa età del precedente. Fu attaccato dal
morbo in sì violenta guisa, che ne morì dopo sei ore. Non volle rimedio alcuno, in
quanto si affidava ad una dose di rosmarino (sic) datagli come specifico da un
infermiere dei Frati Cappuccini.
7) Domenico Squaglia. Fanciullo di otto anni. Fu da me visitato quando era già
boccheggiante. Moriva un’ora appresso.
8) Apollonia Giganti. Sessagenaria e donna di servizio. Questa infelice fu invasa da
tanto spavento che non ne ebbe mai pace ed attese a medicarsi da per se stessa.
9) Chiara De Martini. Fu la sventurata vecchia settantenne che, colpita dal colera
fulminante, fu portata dalla Piazza, dove era caduta, all’Ospedale, senza che le si
potesse apprestar alcun rimedio. Appresso tre ore moriva.
174
10) Lucia Marzocci Bonomo. Sessagenaria, egualmente periva nello spazio di un
solo giorno e senza voler assaggiare neanche un solo de’ prescritti rimedi. I suoi
assistenti (parenti) erano tali che, appresso la sua morte, non volevano che il
cadavere si estraesse dalla propria abitazione, facendo resistenza anco alla forza
pubblica.
11) Fermina Santocchi. Vecchia infermiera pensionata di questo Ospedale. Pensava
di saperne più dei medici per la lunga sua esperienza: volle curarsi da sè stessa,
sospettando di veleno e di altre mille fantasticherie. Morì dopo tre giorni di
malattia.
12) Laura De Deo. Di oltre settant’anni. Guarita dal colera, moriva di antica malattia
all’utero.
13) Pietro Gasparini. Giovane e rubostissimo pescatore, venne fulminato da colera
in sole quattro ore.
14) Marco Pernici. Fanciullo pescatore, periva egualmente in pochissime ore.
15) Sante Palomba. In poco più di una notte si moriva insieme ai predetti due suoi
compagni, coi quali era tornato dalla pesca sulla stessa barca.
16) Fermina Di Marco. Di condizione civile possidente. Su i trentacinque anni, assai
gracile, inferma ed incinta da otto mesi. Fu di repente presa dal colera, che in meno
di ventiquattr’ore la estinse, sebbene le si praticassero tutte le cure.
17) Carolina Perez. Sessagenaria guarita dal colera. Morì per le parotidi e successiva
congestione cerebrale.
18) Giorgio De Berto. Giovane falegname. Sorpreso da colera ferocissimo mentre
lavorava in un bastimento ancorato in questo porto, rifiutò qualsiasi cura.
Trasportato dal bastimento ad uno dei baluardi dell’antemurale quando lo visitai
non potei far altro che prescrivergli l’assistenza di un sacerdote.
19) Felice Cacioli. Mandato a Roma quale medico dei forzati, non vide il colera che
sopra sè stesso, per esserne morto in poche ore.
20) Pietro Petacci. Chirurgo romano, reduce da Napoli e perciò costretto a subire
stretta quarantena. Cadde infermo entro lo stesso Lazzaretto di gravissimo colera
gastrico, che in breve tempo lo tolse di vita.
Questo è il racconto agghiacciante di una pestilenza di oltre cento anni fa! E’ un
racconto agghiacciante anche perché l’uomo è privo di ogni difesa. Si cercano rimedi
miracolosi, toccasana assurdi quali la china, il vino, il rosmarino. Si giunge a
pensare che la malattia non sia altro che una reazione benigna e salutare
dell’intestino ad una affezione intestinale. Si giunge a pensare che la malattia non si
175
trasmetta per contagio - ergo - ogni quarantena è inutile. Si trae coraggio dalla
costatazione che il colera esistente è “la 130ª epidemia a partire dal XIV°secolo”.
Cerchiamo di immaginare lo sgomento dei cittadini di Civitavecchia nell’apprendere
che il morbo si è diffuso soltanto nella loro città, “restandone immuni Tolfa,
Corneto, Viterbo, dove nella circostanza delle fiere di settembre (S. Rosa) si
affollarono in copia forestieri e romani”.
E, fra tanti tentativi, vi furono alcune intuizioni che vennero ribadite e, cioè, “le
persone che si tennero assegnate (morigerate) nel cibo, che usarono alimenti
salubri, che abitarono in case ben ventilate e ben nette d’ogni immondezza non
furono attaccate dal male”.
A questo punto sorge spontanea una domanda: chissà se tra cento anni i nostri
progenitori sorrideranno benevoli delle morti di cancro dei nostri giorni?
Speriamo!
Mario Corteselli
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LA CASA E I TRE DIPINTI DELLA FAMIGLIA COSTANTINI IN
TARQUINIA
Una casa grandissima, con tutti i “conforts”, quella che Antonio Costantini e
Girolama Falcioni, genitori di sette figli, tra cui Maria Crocifissa, Confondatrice del
Monastero delle Passioniste, avevano acquistato nel 1725, dopo aver abitato varie
case in affitto fin dal 1715.
I Costantini, grazie all’operosità del Capo famiglia Antonio, che “incominciava ad
industriarsi anche con i piccoli acquisti di prodotti agricoli”, poterono finalmente
comprare una casa signorile in Corneto, Piazza S. Giovanni. Con questo palazzo al
centro della città e molto vicino a quello dei Vitelleschi, forse abitato in quei tempi
dai Conti Soderini, e per i molti beni accumulati nel tempo, essi divennero una delle
più ragguardevoli famiglie della Corneto del XVIII secolo.
177
Il palazzo, secondo la “Relazione per una Storia urbana su Tarquinia” è annotato in
una pianta: “Corneto città barocca, Sec. XVII-XVIII” e domina ancora oggi la Piazza
S. Giovanni, mentre per un lato si affaccia anche su altra via e, secondo uno
“Strumento di Donazione di beni di Casa Costantini al Monastero”, esso era
composto di “35 stanze superiori, sotterranei, cortili, pozzo e tre magazzeni contigui
della capacità di rubbia 1200 di grano...”.
In seguito la casa, secondo una “Descrizione dei Beni” fu “un po' riattata, ridotta a
miglior stato ed accresciuta”, mentre ci è dato pensare che essa avesse già avuto il
suo secondo ingresso dall’attuale Via Umberto, un tempo passaggio in comune con
la famiglia Sbrinchetti.
All’interno di questo palazzo, in una stanza d’angolo del primo piano, vi sono ancora
alcune decorazioni a tempera nel soffitto: vi si vedono raffigurati vari motivi floreali
misti ad ornati e nel mezzo della volta, un elegante ed elaborato centro dipinto con
asimmetriche figurine monocolori, inserite nella decorazione. Peccato, però, che il
tutto sia stato reso mutilo da una recente e sciagurata tramezzatura dell’ambiente.
E’ probabile che, specie per la pittura del centro, con queste decorazioni, forse opera
di qualche maestranza locale, siano insieme ad altre decorazioni di minor valore in
altro vano del fabbricato, e con alcuni quadri ubicati nel Monastero delle
Passioniste, le uniche e rare testimonianze rimaste degli arredi di quel sontuoso
palazzo che era della famiglia Costantini.
Da quanto fu tramandato, attraverso generazioni, a persona anziana, che ancora
abita nel palazzo Costantini, si è venuto a sapere che un tempo le volte di questa
ricca abitazione erano tutte dipinte con motivi floreali, figure ed ornati.
Possiamo supporre che S. Paolo della Croce, quando si recava o era di passaggio
nella “Bassa Maremma”, per “corsi di preparazione o per affari del suo Istituto”,
certamente sarà salito più volte a Corneto, ospite dei Costantini, nel loro palazzo di
Piazza S. Giovanni, dove, oltre che con il Sacerdote Don Nicola Costantini, egli
teneva stretti legami “specialmente” con il fratello Domenico e la consorte Lucia
Casciola, fratelli e cognata di Maria Crocifissa.
In questa casa, dopo che la sera avanti (2 maggio 1771) era stata fatta una piacevole
illuminazione “con torce per un dilettevole divertimento ad ogni ceto di persone”,
tanto di Corneto che di fuori, che convennero “li Signori e le Signore di questa città”,
per accompagnare le giovani - già in precedenza ospitate nella casa Costantini - che
dovevano nella Cattedrale di Corneto vestire “il Santo Abito della SS.ma Passione”.
178
Lucia e Don Nicola non condivisero mai e non si piegarono mai al volere di
Domenico che “aveva idea di fare il Monastero nella propria casa”; fu però per
volere di tutti i Signori Costantini se, nel 1759, si pose in venerazione nella propria
casa di Piazza S. Giovanni, l’Immagine di Maria SS.ma, “dipinta accidentalmente, (o
per meglio dire per divino volere), dal pittore in un sasso quadro”, ritrovata sotto le
macerie durante le demolizioni che si andavano facendo per far posto all’erezione
del Monastero da costruirsi in Corneto. Dopo dodici anni, e precisamente il 6 aprile
1771, la stessa Immagine fu definitivamente posta alla pubblica venerazione sopra
l’altare della chiesa della Presentazione (Chiesa delle Passioniste), dove attualmente
si trova.
Da una “Stima delli mobbili esistenti nella casa Costantini” eseguita il 14 maggio
1787, dal pittore cornetano Lazzaro Nardeschi (1716-?), un mese dopo la morte del
Can. Nicola Costantini, risultano annotati alcuni quadri; nella descrizione, però,
nessuno di questi ha riferimenti con quelli che raffigurano i Costantini “Fondatori”
esistenti nel Monastero delle Passioniste.
Non si è potuta reperire alcuna notizia di questi quadri: né la loro provenienza, né
l’autore, né la data di esecuzione. Si suppone che essi siano stati portati
direttamente al Monastero da casa Costantini, nello stesso periodo di quelli annotati
nella “Stima”, però, senza essere trascritti, in quanto le cose elencate furono in quel
tempo quasi tutte vendute.
Questi quadri, dipinti su tela della misura di cm. 61 x 75 e racchiusi in modesta
cornice di legno argentata a “mecca”, raffigurano i fondatori del Monastero:
DOMENICO COSTANINI, LUCIA CASCIOLA e DON NICOLA COSTANTINI. I tre,
ed altre tele di buon pennello (raffiguranti SUA SANTITA’ CLEMENTE XIV, il
CARD. DE ZELADA, il CARD. FESCH, il CANONICO SALERNO, SAN PAOLO
DELLA CROCE, il VEN.le P. GIAMBATTISTA DI S. MICHELE ARCANGELO,
fratello di S. Paolo della Croce, MADRE CROCIFISSA), vennero esposti al pubblico
di Tarquinia nel cortile del Monastero delle “Monichelle”, in occasione del II
Centenario della Fondazione del Monastero di Tarquinia, 1771-1971.
DOMENICO COSTANTINI
(Corneto 1709-1780), il suo corpo
riposa nella chiesa del Monastero delle
Passioniste in Tarquinia. L’atto di
morte registrato nella Parrocchiale di
S. Giovanni Battista, porta la firma di
179
Secondiano Querciola, Rettore della
chiesa.
Nel quadro l’uomo, raffigurato a mezzo busto, veste un distinto abito; tiene nella
mano destra un libro aperto e, sopra un piano dove appoggia l’altra mano, si vede
un crocifisso elevato su una base a triangolo e vicino alcune carte. Del quadro, di
piacevole cromatismo e di buon pennello, sono state alterate alcune parti chiare,
dopo il recente restauro eseguito nel 1974. Attualmente il dipinto, che avrebbe
bisogno di una buona foderatura e della saldatura della mestica alla tela, è esposto
insieme agli altri all’interno di una sala del Monastero. In fondo alla cornice del
quadro e poco staccata, c’è una targhetta incisa nei contorni da volute a foglie di
acanto ed argentata a “mecca”, simile alla cornice. In essa si può leggere la seguente
scritta: “DOMENICO COSTANTINI CITTADINO DI CORNETO. ASSIDUO
CULTORE DELLA PIETA’VERSO DIO E DELLA MISERICORDIA VERSO I
POVERI. CARO A TUTTI PER RETTITUDINE E DOLCEZZA DI COSTUMI.
AFFEZIONATISSIMO ALLA CONGREGAZIONE DELLA PASSIONE DI N.S.G.C.
FIN DAL SUO PRINCIPIO CON OGNI CARITA’ VERSO LO STESSO ISTITUTO.
FONDATORE MUNIFICEN TISSIMO DEL MONASTERO.”
Considerando all’incirca la presunta età che si rileva dalle effigi dei “Fondatori”
raffigurati nei quadri, in rapporto con la loro data di nascita, è probabile che le tele
dei Costantini siano state dipinte verso la seconda metà del XVIII secolo.
LUCIA CASCIOLA COSTANTINI
(Corneto 1721-1782), anche le sue
spoglie riposano nella chiesa
del
Monastero delle Passioniste in
Tarquinia.
L’atto di morte registrato nella
Parrocchia di S. Giovanni
Battista porta la firma di
Secondiano Querciola, Rettore
della chiesa.
Nel dipinto, la moglie di Domenico Costantini è raffigurata in una bella e studiata
composizione: indossa fini abiti che si addicono ad una signora dell’epoca. Dal
180
soprabito scuro escono candidi ed elaborati merletti misti a veli. Un gioiellofermaglio è appuntato sugli abiti della donna; questa tiene nella mano destra un
libro chiuso appoggiato sopra un piano, dove è in bella mostra un artistico scrigno.
Il quadro è stato fatto dallo stesso artista che ha dipinto la tela di suo marito
Domenico ed è da ritenersi il migliore del ciclo dei “Fondatori”; per il suo delicato
cromatismo, per il deciso carattere e la grande distinzione che il pittore è riuscito ad
infondere nella figura di questa insigne benefattrice di Corneto.
Il dipinto ha subìto di recente un restauro, lasciando però sul quadro le stesse
alterazioni come per l’altro; pertanto anch’esso necessita di altro restauro. Anche in
questa cornice si trova la medesima targhetta simile all’altra e recante questa scritta:
“LUCIA CASCIOLA CITTADINA DI CORNETO CONSORTE DI DOMENICO
COSTANTINI E DILIGENTISSIMA DI LUI COMPAGNA NELLA FONDAZIONE DI
QUESTO MONASTERO. NEI PRIMI ANNI DELLA SUA ETA’ ENTRATA
SECONDO IL SUO DESIDERIO A CONVIVERE CON LE MONACHE DEL VEN.
MONASTERO DI VETRALLA, ACQUISTO’ COLL’OTTIMA EDUCAZIONE QUEL
CORREDO
DI
VIRTU’
DELLE
QUALI
DIEDE
POI
CONTINUAMENTE
ECCELLENTI ESEMPI”.
CANONICO DON NICOLA COSTANTINI
(Corneto 1726-1787),
è sepolto nella chiesa delle Passioniste
in Tarquinia.
L’atto di morte è registrato nel
Duomo e porta la firma dell’Arcidiacono
P. Serena.
Nel dipinto il Prelato, eseguito a mezzo busto e raffigurato in abiti ecclesiastici, è
intento alla lettura di un libro, aperto nella mano sinistra che vien fuori da sotto una
pesante mantellina di ermellino, dipinta con luminoso e prezioso cromatismo.
La pittura ha gli stessi valori degli altri due quadri descritti; questa, però, a
differenza degli altri, non ha subito restauri; si presenta agli occhi dell’osservatore
molto più integra e più giustificata nei rapporti tonali. Per quanto riguarda i
restauri, la tela, eseguita dallo stesso anonimo che ha fatto gli altri due dipinti, ha gli
stessi problemi che si riscontrano nelle altre tele.
Staccata dalla cornice la targhetta porta annotata questa scritta:
181
“CANONICO
NICOLAO,
FRATELLO
DI
DOMENICO
COSTANTINI
E
PREMUROSISSIMO DI LUI COMPAGNO PER LA FONDAZIONE DI QUESTO
MONASTERO. VERO MINISTRO DI DIO E DELLA CHIESA DEVOTISSIMO. IL DI
LUI CORPO ASPETTA NELLA CHIESA DEL MEDESIMO MONASTERO LA
RISURREZIONE DEI MORTI.”
I quadri dei “Fondatori”, per le Monache della Passione e per le memorie storiche
della nostra città, rappresentano le uniche testimonianze rimaste di questa illustre
famiglia di benefattori cornetani, che oltre duecento anni fa, rinunciando a molti
loro beni, vollero insistentemente la costruzione del Monastero delle Passioniste in
Corneto.
Oggi è compito esclusivamente nostro interessarsi che queste “sacre reliquie
cornetane” non vadano a distruggersi nel tempo. Sento impellente il dovere di
segnalare alla Società Tarquiniense d’Arte e Storia lo stato fatiscente delle tre tele
dei “Fondatori”, perché sono certo che il Sodalizio Tarquiniense, al quale mi onoro
di appartenere, sempre sensibile ai problemi della nostra città, potrà disporre per
l’esecuzione di questo non trascurabile intervento conservativo.
Solo così, operando in questo modo, ci sentiremo tranquilli di fronte alle future
generazioni, per aver fatto in fondo il nostro dovere, perché mai si possa dire di aver
dimostrato incuria e disinteresse verso questi problemi artistici che sono parte
essenziale del patrimonio culturale della nostra città.
Lorenzo Balduini
BIBLIOGRAFIA
- “LIBRO DEI MORTI”, dall’anno 1709 al 1783-1784 al 11835, della chiesa di S.
Giovanni Battista (Archivio della chiesa).
- “LIBRO DEI MORTI IN CORNETO”, cominciato nel tempo dell’Arcidiacono
Angelo Martellacci (1736) (Archivio della Cattedrale).
- “INDICE DEI BATTEZZATI IN CORNETO” dal 1600 al 1912, a cura del Can.co
Francesco Maria Calvigioni (1862). (Archivio della Cattedrale).
182
- L. NARDESCHI, “Stima delli Mobbili esistenti in casa Costantini”, fatta da Lazzaro
Nardeschi il 14 maggio 1787 ms. dell’Archivio del Monastero.
- P.E. ZOFFOLI, “S. Paolo della Croce”, Roma, 1967.
- P.E. ZOFFOLI, “Le Monache Passioniste”, Tarquinia, 1970.
- P.A. DAGA, “In Tarquinia il Testamento di S. Paolo della Croce” in “Il Temporale”
I e II parte, Tarquinia, 1970.
- ANONIMO, “Tarquinia-Monastero delle Monache Passioniste nel II Centenario
della Fondazione delle Passioniste”, Tarquinia, 1971.
- P.E. ZOFFOLI, “Tarquinia e il Monastero delle Passioniste”, in “Bollettino S.T.A.S.
1975”, Tarquinia, 1976.
- F. GIORGINI, “Storia della Congregazione della Passione di Gesù Cristo”,
Pescara, 1981.
- P.A. SPINA, “Venerabile M. Maria Crocifissa Costantini”, Roma, 11983.
- G.C. TRAVERSI, “Tarquinia-Relazione per una Storia Urbana”, Tarquinia, 1985.
183
LOTTE
E
CONTRASTI
INTORNO
ALLE
LESTRE
DELL’UNIVERSITA’AGRARIA DI CORNETO E TARQUINIA.
L’università Agraria di Corneto - dal 1872 Corneto Tarquinia - a giusto titolo può
vantarsi di essere se non la più antica, una certamente delle più antiche congeneri
istituzioni che esistessero nello Stato Pontificio.
Essa per più secoli rimaneva effettivamente composta da tre distinti ceti cittadini
possessori di determinate qualità e quantità di bestiami, ed in potenza restava
costituita dai cittadini tutti di Corneto che avessero a possedere del bestiame.
Ciascun ceto aveva il rispettivo caporettore.
I tre nominati ceti cittadini, poi, furono quelli dei possessori di buoi, giovenchi,
vacche dome e cavalli da trita 1) , che furono appellati Agricoltori; dei proprietari di
vacche e cavalle da corpo che vennero detti Mosciaroli; e degli altri possessori di
masserie di pecore e che si chiamarono Partecipanti.
Ai primi nominati due ceti - a quelli degli Agricoltori e dei Mosciaroli che, col
decorrer degli anni, vennero a formare un solo ceto - venivano rispettivamente
assegnate dal Comune la Bandita di S. Pantaleo e la tenuta dei Monterozzi ai primi;
la così detta Moscieria - costituita in maggioranza dalle terre dette di S. Pietro - le
parti a queste aggiunte ai secondi, ossia ai Mosciaroli, i quali s’ebbero pure le due
bandite comunali di Selvaccia e Roccaccia, corrispondendo annualmente al Comune
scudi 450 per l’affitto delle parti aggiunte e scudi 500 per l’erbatico delle bandite di
Selvaccia e Roccaccia.
Ai partecipanti, poi, dietro il pagamento di determinata annua corrisposta, veniva
riservato l’affitto - che nel 1777 addiveniva perpetuo - dei così detti pasciticci ossia
erba sfuggita al dente del grosso bestiame, di circa 7 mila rubbia di terreno sopra del
184
quale, fino al 1853, si svolgeva, sebben di molta ristretta, l’abolita servitù del pascolo
civico comunale e su larga scala si eseguiva dai terrieri, detti anche Mercanti, la
seminagione del frumento. L’affrancazione delle predette 7 mila rubbia di terreno
gradatamente avveniva fra il 1747 e il 1853, in forza di chirografi pontifici, dello
Statuto agrario locale del 1818 e della notificazione pontificia del 25 decembre 1849,
mercè pubblici istromenti e semplici verbali di affrancazione redatti a forma di legge
innanzi la Delegazione Apostolica di Civitavecchia.
****
Abbondante, oltre ogni dire, era la produzione granaria nel territorio di Corneto che
nel XVI secolo meritò di essere chiamato il Granaro di Roma.
Al sopraggiungere però del secolo XVII l’industria del bestiame vaccino sorpassava
quella del grano. Il Sommo Pontefice Paolo V tentava invano di arrestarne il
progresso a discapito dell’arte del campo, emanando, nel 1608, apposito motu
proprio, mercè il quale, per il retto andamento delle cose agrarie cornetane, istituiva
il tribunale dell’Arte Agraria di Corneto, chiamandovi a presiederlo - con una pena
giurisdizione civile e criminale - il Prefetto dell’Annona di Roma, quale
Sovrintendente dell’Arte Agraria di Corneto.
Detto tribunale veniva soppresso nel 1818, cessando eziandio in quell’anno la
conseguente giurisdizione del suo sovrintendente in Corneto.
Ad onta del motu proprio paolino e dei successivi bandi dei Prefetti dell’Annona, la
produzione vaccina, in luogo di arrestarsi seguitava ad accrescersi incessantemente,
tanto che i macellari prima e i Mosciaroli dappoi, sentivano il bisogno di formare,
nelle bandite di Selvaccia e Roccaccia, nonostante l’esplicito divieto del Prefetto
dell’Annona, delle rinserrate o Lestre ove rinchiudere i rispettivi capi vaccini
durante la notte.
Queste Lestre però - che non eccedevano le tre o le sei rubbia - vietate, siccome si
disse da principio, furono dovute riconoscere e, per necessità di cose se ne dovette,
in progresso di tempo, regolare il godimento da parte dei ristrettari Mosciaroli dai
Prefetti dell’Annona che l’uno all’altro si succedettero dal 1608 al 1818; i quali
all’effetto emanarono in proposito le opportune disposizioni mercè pubblici bandi in
cui si prescrivevano i requisiti necessari per usufruirne, portando l’estensione
1)
Cavalli utilizzati per calpestare e tritare le messi al fine di separare poi, grazie al ventilabro, il frumento dalla pula.
185
superficiale delle Lestre stesse ad otto o dieci rubbia a seconda della qualifica del
possessore, accordandone le investiture e tollerando e sanzionando anche da ultimo,
a quanto si crede, che il godimento di esse s’incardinasse nelle famiglie degli
investiti, succedendo nel possesso della Lestra il figlio al padre agricoltore, il figlio
del figlio, Mosciarolo, al figlio fornito di requisiti, e così di seguito.
****
Nel 1818, siccome si disse, il tribunale e la giurisdizione dei Prefetti dell’Annona in
Corneto restavano soppressi. A questa soppressione teneva dietro la nomina di
apposita Congregazione, ovvero sia, Commissione amministrativa agraria, formata
dal Gonfaloniere, dagli Anziani e dai due Caporettori dell’Università Agraria. Questa
stessa commissione, al sopraggiungere dei cambiamenti politici del 1870, restava
inalterata in quanto alla sostanza; solamente al Gonfaloniere veniva a sostituirsi il
Sindaco quale presidente dell’Arte Agraria od Amministrazione Agraria, ed agli
anziani succedeva la giunta comunale, restando a far parte di quella
amministrazione i due caporettori.
****
Non appena insediata, nel 1818, nel proprio ufficio, la Congregazione Agraria
procedeva subito alla compilazione degli Statuti e regole per l’Arte Agraria di
Corneto. Tal provvedimento legislativo, dall’anno della sua emanazione ed
approvazione da parte del Consiglo comunale e da parte della S. Congregazione del
Buon Governo, prendeva la denominazione di Statuto Agrario del 1818.
Il capo 7°di questo Statuto che restò formato dagli articoli 69 all’80, si occupa delle
Lestre che fissa nel numero di 60 di cui 21 alla Selvaccia e 39 alla Roccaccia, e ne
stabilisce l’estensione in 10 rubbia per i Consiglieri e per i provenienti da famiglie
che ebbero Consiglieri, e in 8 rubbia per tutti gli altri; e determina i requisiti per
possederle e mantenervisi il possesso.
Questi sono riportati nell’Art. 70 siccome appresso:
art. 70 -
I requisiti necessari per concorrere ad una lestra mancante sono i
seguenti:
1° - Non avere altra Lestra
2° - Essere cittadino agricoltore abitante
186
3° - Contare un domicilio almeno di dieci anni, con l’avere tenuto
sempre casa aperta in Corneto e col pagamento annuale della
decima al Parroco
4° - Il cittadino originario è sempre preferito all’avventizio
domiciliato.
5° - Tanto fra gli originari che tra gli avventizi domiciliati, è
sempre preferito il più antico.
6° - Fare non meno di sei rubbia di sementa nel territorio di Corneto
7° - Avere del proprio non meno di venticinque bestie grosse, fra
vacche e cavalli da corpo.
La trasmissione maschile di padre utente in figlio o figli forniti di requisiti, di
fratello in fratello ecc. si presuppone nello Statuto del 1818.
Quindi nell’art. 79 si regola solo la successione delle femmine che siano per
prendere stato di mancanza di maschi.
****
In base poi agli ordinamenti del 1818 il Consiglio comunale cominciava e proseguiva
a concedere le investiture e le permute alle Lestre agli utenti Mosciaroli-Agricoltori
che gliene avanzavano regolare domanda, succedendo ai padri i figli forniti di
requisiti, i fratelli ed, in mancanza, le sorelle, innuptae o maritate, giusta i dettami
dell’art. 79 dello Statuto.
****
Le singole Lestre di Selvaccia e Roccaccia vennero in origine formate e
costantemente mantenute disgiunte l’una dall’altra e gli spazi, che le separarono
tuttora, vennero chiamati corridori il cui pascolo rimase a vantaggio dei circonvicini
possessori di Lestre.
****
Lestre e corridori, alla incatastazione del terratico per la formazione del catasto
piano che andò in vigore, nell’ex-Stato Pontificio, nel 1780 e restò ivi vigente fino al
187
1835 - in seguito ad assegni giurati dati dal Comune e dai caporettori agrari rimasero accatastati a nome della Mosceria, ossia a nome dei possessori delle
mandre dette Lestre, come gravati del canone di scudi 500 a vantaggio della
Comunità di Corneto.
****
Tanto quest’annua corrisposta o canone di scudi 500 dovuta dai Mosciaroli al
Comune per il godimento dell’erbatico delle lestre e dei corridori, come la
corrisposta dell’affitto perpetuo dei partecipanti in scudi 4,560 annui, non che
quella dell’affitto delle parti aggiunte in scudi 430, di cui in principio, venivano, nel
1801, incamerate dal Governo Pontificio, e nel 1827, dalla Commissione deputata
per l’estinzione del debito ex-comunitativo, venivano posti in vendita ai pubblici
incanti.
La corrisposta dei Mosciaroli di 500 scudi veniva acquistata dal sig. Benedetto
Sbrinchetti, che a sua volta, la retrocedeva al ceto degli Agricoltori Mosciaroli per lo
stesso prezzo che gli era stata aggiudicata.
Della corrisposta, invece, dei Partecipanti non ne fu alienata che la sola rata di scudi
3255,12 ripartita in 11 differenti lotti, mentre l’altra resta di scudi 1304,88 veniva
retroceduta al Comune. Otto undicesimi della alienata rata di scudi 3255,12
rimanevano in origine aggiudicati a più persone e quindi venivano a riunirsi nel solo
Acquirente cav. Feoli, e 3/11 restavano parimenti aggiudicati al Cav. Rempicci e per
esso ai Marchesi Pallavicino di Genova.
La corrisposta poi delle parti aggiunte, dal Buon Governo, succeduto alla
Commissione espropriatrice detta di sopra, veniva data in compenso al Comune,
insieme ad altri canoni ex-comunitativi, per l’obbligo che esso si era assunto del
pagamento proporzionalmente all’imposta sull’estimo del pascolo dei terreni
compresi nell’affitto perpetuo dei Partecipanti, conforme simile compenso, in
canoni ex-comunitativi, lo stesso Buon Governo aveva precedentemente accordato,
per le loro quote proporzionali di dette tasse, agli Acquirenti Feoli e Pallavicino o
meglio a chi per essi.
****
188
Al sopraggiungere poi, nel 1835, dell’attuazione - nel predetto Stato ex-Pontificio,
del catasto rustico topografico Gregoriano, l’estimo censuario delle Lestre e l’altro
della bandita S. Pantaleo venivano prima amalgamati con quello pascolivo dei
pasciticci, ritenuti in affitto perpetuo dai Partecipanti, soggetti allora alla servitù del
pascolo civico comunale, e sopra del quale Acquirenti e Comune si erano obbligati
per il pagamento proporzionale delle imposte e tutti assieme detti estimi venivano
allibrati al Comune. Poscia, in seguito a reclamo, gli anzidetti estimi tutti quanti
venivano tolti dalla intestazione del Comune ed attribuiti, invece, gli estimi dei
corridori e della bandita di S. Pantaleo, agli Agricoltori, quello pascolivo dei
pasciticci in scudi 2.... ai tenementari del bestiame, e gli altri di ciascheduna Lestra,
singolarmente a ciascun Mosciarolo che se ne trovasse investito. Nel 1863, per
benigna concessione del Sommo Pontefice Pio IX, le Lestre tutte indistintamente
venivano portate all’estensione superficiale di 10 rubbia ciascuna, ordinandone in
pari tempo la verifica e restrizione della eccedente detta quantità al giusto limite da
eseguirsi a cura e spesa degli interessati non oltre il mese di ottobre del 1864.
Tale restrizione però non ebbe luogo che nel 1873 ed anni successivi siccome
vedremo, indipendentemente però dalle ricordate disposizioni pontificie.
****
Quindi, nel 1872, in cui andò in vigore nella provincia romana, di cui Corneto fa
parte, il nuovo catasto rustico riveduto che vige tuttora, a ciascun Lestriere venne
attribuito in quel catasto l’estimo della Lestra di cui si trovava al godimento,
restando fermi sotto la ditta degli Agricoltori, ossia Università Agraria di Corneto,
gli estimi della bandita di S. Pantaleo e quello dei Corridori.
Per quello poi che riguarda l’allibrazione nel prefato catasto dell’estimo del pascolo
dei pasciticci, che sebbene fossero stati resi liberi i corrispondenti terreni dalla
servitù di pascere che già li opprimeva, purtuttavia il predetto estimo pascolivo
proseguir doveva sempre a figurare a carico degli Acquirenti, Feoli e Pallavicino, e
del Comune onde in base ad esso, soddisfare potessero questi l’obbligo di
corrispondervi proporzionatamente le imposte siccome più sopra si espose, per
quello che riguarda l’allibrazione del pascolo nel vigente catasto rustico del 1872
avveniva un funesto errore che grave disguido arrecava ai proprietari tutti dei
terreni in Corneto. Poiché il predetto estimo pascolivo, che nel precedente catasto
del 1835 figurava intestato, siccome vedemmo, ai Tenementari dei bestiami per un
189
estimo complessivo di scudi 192.237,52, senza che fosse avvenuta voltura alcuna in
catasto o cangiamento di coltivazione nell’angro cornetano, ma per semplici errori
dei periti aggiornatori del catasto stesso veniva a ridursi a soli scudi 192.956,24,
rimanendo l’enorme differenza allibrata a carico dei proprietari intestati per la
semina e proprietà.
A dirimere il lamentato errore dava opera il Comune col commetterne che fece la
correzione al Cav. Giovanni Urbani, ingegnere catastale, il quale redasse all’uopo
nuovo catasto corretto dell’intero territorio. L’originale catasto Urbano conservasi
presso gli uffici municipali a disposizione degli interessati.
Al disguido poi che l’errore stesso aveva arrecato ai liberatori proprietari veniva in
seguito posto riparo sia mediante appositi istromenti di transazione e concordia
intercedenti fra i ripetuti liberatori-proprietari, tanto con gli Acquirenti, Feoli e
Pallavicini, quanto con il Comune di Corneto Tarquinia, come mercè la riunione
d’ufficio delle restanti quote pascolive Feoli all’estimo della semina mediante
ordinanza ministeriale del 18 luglio 1895, n°3974.
Mercè gli accennati istromenti i Liberatori-proprietari, col volturare che fecero a
loro nome gli estimi pascolivi corrispondenti ai rispettivi loro terreni, vennero ad
accollarsi il pagamento delle relative imposte, delle quali rimasero, perciò, sgravati
Acquirenti e Comune. Questi, in corrispettivo dell’ottenuto sgravio, rinunziarono
estensivamente ed in perpetuo a favore dei più volte ripetuti Liberatori-proprietari
le quote che essi loro dovevano dei così detti compensi per i terreni ristretti, ossia
affrancati dalla servitù del pascolo civico comunale. Mediante poi il congiungimento
delle rimanenti quote pascolive Feoli a quelle della semina, le eredi beneficiate
Feoli, dopo essere state riconosciute insolventi, rimanevano esonerate dal
pagamento delle imposte che relativamente andavano a colpire i diversi interessati
per la semina fra i quali gli Agricoltori cornetani, siccome a suo luogo si farà
rilevare.
****
Nello stesso anno 1872 veniva nominata apposita Commissione perché, attenendosi
in genere allo Statuto del 1818, ne modificasse in specie, mediante nuovo Statuto, le
diverse prescrizioni non più confacenti ai tempi che allora correvano.
Detto nuovo Statuto agrario veniva redatto ed approvato nel seguente anno 1873
coll’intesa di lasciare integrri i diritti di ognuno e di provvedere insieme allo
190
sviluppo della piccola agricoltura ed ai veri bisogni della città. Ciò nonostante, col
non aver voluto tener conto dei differenti ceti di cittadini, che in origine erano
venuti a costituire l’Università Agraria di Corneto, come dei singoli terreni a
ciascheduno di detti ceti originariamente attribuito in godimento, e coll’avere da
ultimo confuso l’Arte Agraria coll’Università Agraria, l’una e l’altra definendo “una
riunione di persone chiamate a godere di certi determinati beni o diritti sotto le
condizioni prescritte in quel novello statuto”, venne esso ad arrecare confusione e
danno non lieve agli odierni Lestrieri, siccome a suo luogo si farà rimarcare.
****
Il titolo stesso dello statuto del 1873 s’intitola “Delle Lestre” e abbraccia 24 articoli quelli cioè dal 35 al 59 - e disciplina requisiti e godimento delle Lestre stesse con
alcune varianti da quanto veniva stabilito in proposito dallo Statuto del 1818.
Le Lestre poi, coll’art. 36, da 60 venivano portate a 70 con facoltà di accrescerle di
altre 10 quante volte in progresso di tempo se ne fosse venuto a manifestare il
bisogno (art. 37). Nell’art. 38 si enunciano i requisiti necessari per concorrere
nell’investitura di una Lestra che sono:
1° - Non aver altra Lestra
2° - Domicilio civile e residenza in Corneto.
Ad onta che in nessun dei 24 articoli cui sopra si accenni alla trasmissione
successoria delle Lestre nelle famiglie degli investiti e che nell’art. 41 solamente si
dica che non possa essere conferita più di una Lestra a famiglia, il Consiglio
Comunale seguitava, come per lo innanzi, ad accordare le investiture delle Lestre e
queste proseguivano ad incardinarsi nelle famiglie degli investiti, seguendo l’ordine
successorio detto di sopra.
3° - Anzianità di cittadinanza non minore di dieci anni
4° - Fare non meno di due rubbia di sementa sul territorio di Corneto Tarquinia
5° - Avere del proprio 10 bestie grosse da corpo fra vacche e cavalli.
****
Redatto che fu lo Statuto, ciascuna Lestra veniva riportata alla regolamentare
quantità superficiale di Rubbia 10 (Ettari 18,84) ed insieme alcune Lestre fino allora
191
godute da enti ecclesiastici soppressi e da famiglie residenti fuori di Corneto, quali
quella del Marchese Sacchetti ed altre, tornavano in possesso dell’Agraria
Amministrazione che ad altri le concedeva.
Con gli smembramenti delle ristrette Lestre e con porzioni dei circostanti Corridori
si procurava quindi dalla Amministrazione Agraria stessa di sopperire alla
formazione delle 10 nuove Lestre volute dal nuovo Statuto e se ne affidava il
laborioso compito al sig. Agronomo Giuseppe Grispini, il quale, utilizzando
smembramenti e Corridori, effettivamente accresceva di altre 3 le Lestre esistenti
alla Selvaccia, che da 21 venivano così portate a 24 e di 7 quelle altre che si trovano
esistere alla Roccaccia che in tal guisa da 39 che erano venivano ad ammontare
invece a 46.
Siccome poi non era stato possibile al Grispini né di rafforzare le vecchie Lestre
falcidiate nè di ricavare le 10 nuove Lestre dai soli smembramenti e dai soli
Corridori, così dovette esso ricorrere, tanto per il completamento delle preesistenti e
delle 3 nuove Lestre alla Selvaccia, come per il completamento delle antiche e delle
nuove 7 Lestre alla Roccaccia, alle confinanti terre che l’Università Agraria riteneva
e ritiene tuttora in enfiteusi perpetua dal Capitolo di S. Pietro in Vaticano e che
perciò si appellano le terre di S. Pietro.
Alquanti numeri di mappa che determinano in catasto le prefate terre di S. Pietro, e
fra essi alcuni di quelli che vi rimasero a denotar le vecchie e le nuove Lestre, tanto
di Selvaccia come di Roccaccia, si trovavano di avere allora il doppio estimo: della
proprietà o semina allibrato agli Agricoltori, ossia alla Università e del pascolo
intestato invece al solo Comune e poscia al Comune stesso, a Feoli e a Pallavicino.
In conseguenza di speciale istromento di transazione interceduto nel 1896 fra
Comune ed Università Agraria di cui si avrà ragione in appresso, del
congiungimento delle quote pascolive Feoli, eseguito d’ufficio, siccome si fece notare
più innanzi, agli estimi delle semine e proprietà, e di altro istromento di transazione
e concordia stipulato poscia fra l’Università stessa e gli Acquirenti Pallavicino; le
differenti quote d’estimo pascolivo catastale dei più volte nominati mappali
venivano a ricongiungersi all’estimo della proprietà o semina allibrato, siccome si
spiegò agli Agricoltori, restando in tal guisa l’Università Agraria l’unica intestataria
dei mappali stessi. Il primitivo doppio estimo dei prefati numeri di mappa fu causa
che in alcune allibrazioni catastali delle nuove e delle vecchie Lestre non figurino
affatto compresi sotto la ditta del possessore gli estimi pascolivi dei ripetuti numeri
delle mappe e che questi estimi stessi si trovino, perciò, intestati sempre
192
all’Università che ne deve di conseguenza subire l’aggravio delle corrispondenti
tasse siccome a suo luogo faremo rilevare con maggiore precisione, bastando di
averne fatto qui un semplice accenno.
****
Stabilita in tal guisa la sistemazione delle Lestre tutte quante di Selvaccia e
Roccaccia, di ognuna delle quali venivano in apposito volume conservate le relative
piante topografiche controfirmate dall’Agronomo Grispini che le aveva rilevate e
aggiunte in calce di ciascuna di dette piante, le semplici indicazioni dei mappali che
stavano a rappresentarla in catasto, la superficie complessiva e l’estimo parimenti
complessivo che figurava allibrato al possessore, senza curarsi però affatto degli
estimi pascolivi che si trovavano intestati invece al Comune, a Feoli e a Pallavicino e
che, dopo gli avvenuti congiungimenti e transazione, vennero allibrati invece
all’Agraria Università; sorgeva vivissimo il desiderio in Corneto di riconoscere il
diritto chd Comune ed Università Agraria reciprocamente potessero vantare l’uno
sui terreni dell’altra e viceversa.
A ciò determinare giungeva propizio un voto per la verità arricchito di molteplici
documenti, che veniva espresso dall’avv. Filippo Pacelli di Roma e che dal Sindaco
Dasti veniva fatto dare alle stampe.
****
Frattanto col decorrere degli anni, l’anacronismo della doppia gestione
amministrativa del Sindaco di Corneto che stava a rappresentare il Comune come
capo dell’Amministrazione municipale e che rappresentava pure l’Università Agraria
come presidente della Commissione ed Amministrazione Agraria che, fino dal 1818,
si era sostituita al soppresso Tribunale dell’Arte Agraria ed alla illimitata
giurisdizione dei prefetti dell’Annona sulle cose agrarie di Corneto.
Il conflitto d’interessi e di attribuzioni nella persona del Sindaco era troppo evidente
di per se stesso perché potesse durare più a lungo quella duplice gestione, senza
grave discapito dell’una e dell’altra Amministrazione da lui presieduta, massimo di
quella agraria i cui interessi, per necessità di cose, rimanevano sopraffatti da quelli
del Comune.
193
Giungevano quindi opportuni i provvedimenti legislativi del 1888, 89 e 91 che
coll’abolire che fecero le servitù di pascere e di legnare nelle provincie ex-pontificie
venivano a spianare la strada alla Università Agraria di Corneto di riconoscere il
proprio patrimonio e di affrancarsi definitivamente dalla tutela del Comune,
rivendicano la gestione dei propri beni sociali.
****
Nel giugno del 1888 avveniva la pubblicazione della prima legge abolitiva detta di
sopra e nel seguente anno 1889 l’Amministrazione Agraria prendeva la
determinazione di non accordare per l’avvenire nuove Lestre e che le Lestre che si
sarebbero rese vacanti sarebbero rimaste a vantaggio dell’Amministrazione Agraria
per ritrarne quell’utile che avrebbe stimato più conveniente agli interessati
dell’Università.
****
La pubblicazione poi delle leggi eversive del 1888, 89 e 91 più sopra accennate,
faceva sorgere il dubbio se le Lestre fossero o non affrancabili in forza di dette leggi
e se l’affrancazione dovesse effettuarsi tra il Comune proprietario del terreno e
l’Università Agrario utente del pascolo, ovvero se questa stessa affrancazione avesse
dovuto aver luogo direttamente fra il Comune e gli Utenti di Lestre, tanto per
queste, come per i circostanti Corridori.
Il responso a tali quesiti veniva dal Sindaco deferito al parere di un giureconsulto
romano, estraneo alle faccendo comunali ed agrarie, vale a dire all’avv. Antonio
Giordani ed ai legali del Comune: avv. Filippo Pacelli più sopra nominato ed avv.
Angelo D’Eramo, procuratore del Comune in Civitavecchia.
I tre nominati avvocati non riuscivano a porsi d’accordo sui responsi da darsi al
Sindaco come sopra; mentre l’avv. Giordani era di parere che l’affrancazione delle
Lestre avesse dovuto esperirsi fra gli Utenti di Lestra e l’Università Agraria,
addivenuta proprietaria del suolo in forza della rivendicazione dallo Sbrinchetti
detta corrisposta annua degli scudi 500 che la stessa Università (o meglio il ceto dei
Mosciaroli) pagava già al Comune per il pascolo (erbatico) delle Bandite di Selvaccia
e Roccaccia; gli avv. Pacelli e D’Eramo, opinavano, invece, che l’affrancazione
dovesse aver luogo fra il Comune, quale proprietario delle Bandite e l’Università
194
Agraria, utente della servitù, non avendo la rivendicazione dallo Sbrinchetti
attribuita all’Università altra proprietà all’infuori di quella della corrisposta di scudi
500.
Questo diverso modo di vedere fece sì che i legali prescelti dal Sindaco a definire la
vertenza intorno all’affrancazione delle Lestre emettessero due distinti voti legali di
cui il primo dell’avv. Giordani favorevole ai Lestrieri, ed il secondo ad essi contrario
degli avv. Pacelli e D’Eramo.
Avuto che ebbe il Sindaco l’uno e l’altro voto senza curarsi affatto del parere emesso
dal Giordani a favore dei Lestrieri e senza portare a cognizione dei medesimi
nessuno dei due sopraddetti voti, pagò all’avv. Giordani gli onorari che gli
spettavano, ringraziandolo dell’opera sua e commise senza altro agli avv. Pacelli e
D’Eramo di rispondere al parere emesso da lui, siccome essi crederono di aver
esaurientemente e vittoriosamente compiuto coll’esibire che fecero al Sindaco
committente nuovo voto legale del tutto consono al precedente loro parere.
****
Dopo di ciò il Sindaco commetteva al Segretario comunale, dott. Pietro Pampersi che era la mente direttiva degli affari comunali ed agrari - di espletare tutti gli atti
voluti dalle leggi eversive sopraccennate, affinché potessero aver luogo le reciproche
affrancazioni di servitù civiche fra Comune ed Università Agraria, compresa quella
delle Lestre, da esperimentarsi, senza il concorso dei Lestrieri, dalla Università in
confronto del Comune. Fu allora che il Segretario Pampersi, insieme alla descrizione
dei terreni tutti, comunali ed agrari, redigeva altresì la nota esatta di tutte le Lestre
di Selvaccia e Roccaccia in cui riportava il nome e cognome di ciascun utente, la
Lestra da esso goduta con i relativi confini e confinanti ed estimi catastali. Delle
anzidette descrizioni e note effettuò poscia le volute affissioni all’albo pretorio a
forma di legge senza che Lestriere alcuno vi facesse osservazioni od opposizioni di
sorta.
****
Esaurita la formalità d’affissione all’albo pretorio, lo stesso segretario Pampersi
dava opera affinché si procedesse dal Sindaco alle operazioni preliminari di
affrancazione dei predetti terreni e Lestre innanzi la competente Giunta d’arbitri
195
espressamente creata presso il giurisdizionale tribunale dalle leggi eversive più volte
richiamate.
Quivi - cioè a dire innanzi la Giunta arbitrale di Civitavecchia - in confronto del
Capitolo Vaticano, che rimase contumace, per le terre di S. Pietro, comparve il
Sindaco,
cav.
Angelo
Falzacappa,
nella
doppia
sua
qualifica
di
capo
dell’Amministrazione comunale e di presidente dell’Università Agraria assistito
all’uopo da due distinti legali: dall’avv. Pacelli cioè per il Comune e dall’avv.
D’Eramo per l’Università Agraria e quivi ancora le operazioni preliminari di affranco
di tutte le proprietà rustiche, comunali ed agrarie, le Lestre comprese, ottenevano la
loro piena evasione.
****
Seguiva la pubblicazione della legge del 4 agosto 1894, n° 397 portante
l’ordinamento dei domini collettivi nelle province ex-pontificie e, in base ad essa,
dal
Commissario
prefettizio,
conte
Angelo
Blanchi,di
Roascio,
mandato
espressamente da Roma col determinato incarico di procedere al riconoscimento dei
diritti reciproci del Comune e della Università Agraria sulle tenute e bandite
comunali e sugli altri terreni comunali ed agrari, determinare in analogia ad esso
riconoscimento la proprietà libera del Comune e quella della Università, che a forma
di legge doveva costituirsi in ente autonomo col creare all’uopo una provvisoria
amministrazione che formulasse il regolamento o statuto fondamentale dell’Ente,
ed eleggesse, da ultimo, nel proprio seno il suo presidente; dal conte Blanchi di
Roascio, ripetesi, coadiuvato dall’avv. Filippo Pacelli, da consiglieri comunali ed
utenti agricoltori - senza andar troppo pel sottile adoperando anzi l’accettazione
addirittura - si proponeva che, in via di transazione, si accordassero in proprietà al
Comune la Bandita di S. Pantaleo, la tenuta dei Montarozzi e le così dette
spezzature di S. Spirito. Alla Università Agraria poi, oltre le terre di S. Pietro e del
Bufalino del Vescovo, venissero assegnate similmente in proprietà le due Bandite di
Selvaccia e Roccaccia, ove esistevano ed ove esistono tuttora Lestre e Corridori che
a buon diritto avrebbero dovuto le une e gli altri appartenere al solo ceto dei
Mosciaroli Agricoltori e non venire già a far parte dominio collettivo dell’Agraria
Università siccome fecero.
****
196
La proposta transazione veniva accettata all’unanimità dagli incaricati comunali ed
agrari, otteneva l’approvazione dell’Assemblea degli Agricoltori e dal Consiglio
comunale, restava sanzionata dal collegio arbitrale di Civitavecchia e dalla Giunta
provinciale amministrativa; l’Università Agraria, dopo di aver ottenuto il peculiare
suo dominio collettivo del quale vennero a far parte le bandite di Roccaccia e
Selvaccia, Lestre e Corridori compresi, sistemata col Comune la vertenza anche del
doppio estimo dei pasciticci, veniva costituita in ente autonomo, eleggeva il
consiglio provvisorio di Amministrazione e quindi il definitivo, otteneva il proprio
presidente nella persona del cav. Pietro Benedetti; dal consiglio si formulava la
prima parte soltanto del regolamento universitario e si procedeva alla verifica dei
titoli dei vecchi utenti ed alla iscrizione dei nuovi, formando così la lista definitiva
degli utenti della Università dalla quale rimanevano esclusi alquanti Lestrieri perché
ritenuti mancanti di titoli o perché trascuravano di farvisi iscrivere: i poveri
Lestrieri, invece, sebbene venissero lasciati al possesso - se non precario, ibrido
certamente - delle loro Lestre, finivano col perdere il pascolo dei Corridori che
rimase assorbito dal dominio collettivo ed usufruito indistintamente dai loro
bestiami e da quelli degli altri utenti universitari.
****
L’Amministrazione Benedetti veniva rovesciata sulla fine del 1899 e la gestione
universitaria temporaneamente veniva retta dal Commissario Regio poscia
Prefettizio, cav. Augusto D’Andrea.
Questi, in sul principio del 1900, formulava nuovo regolamento per l’Università che
sottoponeva alla approvazione dell’assemblea generale degli utenti, da lui
esuberantemente accresciuti di numero. In questo regolamento - che non venne
giammai stampato e che ottenne anche l’approvazione della Giunta provinciale
Amministrativa - il capitolo che tratta esclusivamente delle Lestre abbraccia gli
articoli dal 133 al 148. Gli articoli poi 1° e 2° delle disposizioni trransitorie si
occupano ancor essi delle Lestre.
Riguardo ai requisiti necessari per rimanere nel godimento della Lestra, l’art. 135 li
enumera siccome appresso:
1° - Non aver altra Lestra
2° - Domicilio civile e residenza in Corneto Tarquinia
197
3° - Anzianità di cittadinanza non minore di dieci anni
4° - Fare non meno di due rubbia di sementa nel territorio di Corneto Tarquinia
5° - Avere del proprio non meno di sei bestie grosse da corpo fra vacche e cavalle.
L’art. 137, ove è detto che viene accordata facoltà agli utenti di Lestra di affittarla
esclusivamente ai cittadini che esercitano l’agricoltura in Corneto, prosegue collo
stabilire che “il contratto di affitto dovrà contenere il patto che l’affittuario debba
per prima cosa pagare le imposte e sovraimposte che gravano la Lestra ed il
contributo dovuto dall’Utente, mediante esplicita cessione per parte di questi, senza
che cessi l’obbligazione per parte dell’Utente”. In mancanza di questo patto,
l’Amministrazione dichiarerà nullo il contratto d’affitto e decaduto l’Utente dal
godimento della Lestra.
L’art. 141 regola il taglio novennale a carbone della parte ceduta delle Lestre e
prescrive che non possa questo effettuarsi dall’utente senza esplicito permesso del
Presidente Universitario e che il carbone debba esser venduto in Corneto al prezzo
di 5 lire per ogni soma alla Magona, e servire per uso domestico dei cittadini
restandone proibita l’esportazione.
L’art. 145 prescrive la verifica annuale dei requisiti.
Negli articoli 1 e 7 delle disposizioni transitorie si dice:
“art. 1° - Tutti coloro che, reso esecutivo il presente regolamento, non hanno i
requisiti voluti dall’art. 135 ai sensi dell’art. 136 sono decaduti dal godimento della
Lestra. Il Consiglio di Amministrazione analogamente agli art. 143, 144 e 145, in via
straordinaria, senza pregiudizio delle verifiche annuali, dovrà, immediatamente alla
esecutorietà delle presenti disposizioni, procedere alla verifica dei requisiti,
accordando 15 giorni per la presentazione dei documenti, scorsi i quali redigerà la
lista degli utenti di Lestra per l’anno corrente che si trovano in regola.
Art. 2° - Coloro che non risultassero in regola e fossero mancati di qualche requisito,
in via eccezionale avranno il tempo di cinque anni dal giorno che sarà reso esecutivo
il presente regolamento per procurarsi i requisiti e darne partecipazione al Consiglio
di Amministrazione. Così pure gli attuali possessori di Lestre che si troveranno in
requisiti alla prima verifica, qualora
venissero a mancarne, avranno per una sola volta il beneficio di 5 anni di tempo per
mettersi in regola, dal giorno in cui ha constatato la mancanza dei requisiti. Decorsi
inutilmente i 5 anni, dovranno anch’essi irrevocabilmente riconsegnare la Lestra.”
198
****
Sottoposto che ebbe alle dovute approvazioni il riassunto regolamento, il
Commissario D’Andrea ricostituiva l’Amministrazione dell’Ente che eleggeva a
proprio presidente il sig. Telesforo Calvigioni del fu Alessandro. Il D’Andrea lasciava
Corneto senza avere affatto molestato i possessori di Lestre.
Nè tampoco li molestava l’Amministrazione Calvigioni che punto ebbe ad occuparsi
delle Lestre e dei Lestrieri.
****
Alla Amministrazione Calvigioni teneva dietro l’altra presieduta dal sig. Luigi Cialdi:
uno dei nuovi utenti del D’Andrea.
Questi, seguendo l’esempio del Comune che andava quotizzando le sue proprietà
rustiche e concedendole ai non abbienti cittadini, propose e fece approvare da chi di
ragione la quotizzazione dei terreni universitari non facenti parte delle Lestre.
Ciascuna quota, da ridursi a migliore coltura, restar doveva composta di tre rubbia
di terreno, e doveva concedersi in affitto per un ventisettennio agli Utenti non
Lestrieri che ne avessero fatto gradatamente richiesta.
Grandissima parte delle anzidette quote, costituite di terreni seminativi o boschivi,
disboscati espressamente, venivano effettivamente concesse ai richiedenti, il
rimanente, che non poté venire disboscato perché il Comitato forestale di Roma e
provincia opponeva il suo veto, rimaneva inquotato.
****
L’Amministrazione Cialdi andava a rotoli nel 1903 e le succedeva l’Amministrazione
che ebbe a capo il cav. Antonio Perrini.
Anche questa non potè a lungo durare. S’ebbe il Commissario Prefettizio, avv.
Salvatore Pulleo e finì col Commissario Regio cav. Ettore Spinaci.
****
Il lodato Regio Commissario, non trovando necessario di modificare il regolamento
universitario, non si occupò affatto delle Lestre: come ben poco se ne occupò la
199
successiva Amministrazione presieduta dal cav. Paolo Ricci che, sebbene
continuamente pressata dal sottoprefetto di Civitavecchia e dalla Prefettura di Roma
ad istigazione degli Utenti non Lestrieri che null’altro bramavano di meglio che
vedere quotizzabili le Lestre, limitava pur tuttavia la propria azione ai soli investiti,
mancanti di requisiti, molti dei quali radiava dal ruolo degli Utenti.
Del resto la gestione Ricci provvedeva all’assestamento finanziario dell’Ente e alle
esigenze economiche degli Agricoltori non ritenendo affatto opportuno e necessario
sollevare la questione delle Lestre.
****
E bene avrebbe fatto la successiva Amministrazione Grispini dr. Crispino di seguire
le orme della precedente amministrazione, rammentandosi che la migliore
deliberazione riguardante le Lestre era stata quella presa dall’Amministrazione
Agraria fino dal 1889 di abolire il conferimento delle medesime che, mano mano,
ritornar dovranno definitivamente e senza spesa di sorta alla Università.
Pertanto l’Amministrazione Grispini - che a riguardo delle Lestre e dei Lestrieri
altro non fece di rimarchevole che decretare l’inizio degli atti legali avverso cinque
possessori di Lestra che abbandonato avevano definitivamente Corneto e altrove
avevano fissato dimora e domicilio - non sorretta da un unico indirizzo, cadde, ed
alla sua caduta tenne dietro la venuta in Corneto del Regio Commissario, cav. avv.
Niccolò Piredda, addetto alla Sezione legislativa agraria presso il Ministero di
Agricoltura, industria e commercio, già pretore e poscia giudice presso il Tribunale
civile di Roma, il quale volle interpretare l’Amministrazione della Università a suo
modo e credendo di fare delle sentenze, prendeva delle deliberazioni la cui
esecuzione sarebbe valsa a sovvertire l’ordinamento esistente ed a distruggere il
patrimonio dell’Ente imbarcandolo in una quantità di liti senza fine.
Esso infatti, a proposito delle Lestre e dei Lestrieri, emanava sei differenti
deliberazioni avverso i possessori di Lestra, meno gli espatriati e meno due che, per
essere fratelli, usufruivano di una Lestra soltanto la cui corposità d’affitto si trovava
di già ceduta per un novennio, alla Università in decurtazione di un debito del
defunto loro genitore. Di più fra i due fratelli stessi e il Commissario pendevano
delle trattative per la retrocessione della Lestra stessa.
Mercè le predette sei deliberazioni, il cav. Piredda, per determinate mancanze di
requisiti e per la ragione del generale illegale godimento di porzione del dominio
200
collettivo da parte dei Lestrieri, veniva a dichiarare i Lestrieri tutti - meno gli
espatriati contro dei quali faceva dar corso agli atti convenendoli davanti al
tribunale civile di Civitavecchia, e meno i due fratelli cessionari - decaduti dal
godimento delle rispettive Lestra dichiarando insieme di revocare le concessioni ad
ognuno di essi fatte od ai loro autori e d’iniziare contro di essi tutti quanti gli
opportuni atti giudiziari onde ottenere coattivamente da loro il rilascio delle Lestre
di cui indebitamente erano al possesso.
Di più, non contento di lusingare gli aspiranti alle quote universitarie col miraggio
della quotizzazione delle Lestre, s’inframetteva pure con gli aspiranti alle quote,
promesse e non potute concedere dal Comune a causa del decretato e poscia
revocato consenso del disboscamento della Bandita di S. Pantaleo, per impedire il
quale disboscamento inconsultamente conveniva in giudizio senza le debite
autorizzazioni innanzi il Collegio arbitrale di Civitavecchia il Sindaco onde far
dichiarare dal quel consesso nulla e come non avvenuta la transazione che aveva
avuto luogo fra Comune ed Università Agraria in merito al riconoscimento
reciproco, dei beni patrimoniali assegnati a ciascuno dei predetti enti in occasione
delle generali affrancazioni delle servitù civiche che avvennero - siccome si espose in forza delle leggi eversive 188, 89 e 91.
Le sue inframettenze, poi, che non potevano fare a meno di eccitare gli animi degli
aspiranti quotisti e loro aderenti, cagionavano rimostranze e pubbliche
dimostrazioni, favorevoli al Sindaco e contrarie al Commissario, alle quale volle
darsi dal Governo un’importanza che certamente non meritavano. Infatti, a
mantenere l’ordine pubblico, giammai turbato, in città ed impedire devastazioni in
campagna, giungevano improvvisamente da Roma delegati, guardie, carabinieri e
soldati di fanteria e cavalleria.
Di più un bello spirito, rimasto sconosciuto, aveva la luminosa idea di far trovare,
una mattina di festa, impiccato in luogo eminente della pubblica piazza, un
fantoccio di grandezza naturale, che molto rassomigliava al Commissario, in petto
aveva una croce da cavaliere, con la mano destra reggeva un cartello in cui era
scritto: “Avv. Piredda Regio Commissario Università Agraria, mi sono ravveduto”,
nella sinistra teneva un pezzo di sapone.
****
201
In queste tramestio di cose poco piacevoli, tornata che fu la calma, i possessori di
Lestre, i quali avevano di già tenuto delle riunioni onde provvedere in tempo ai casi
loro, procedevano alla nomina di una Commissione che li rappresentasse e prestasse
loro assistenza nell’interesse di tutti e di ciascuno. Detta Commissione risultava
composta dei sig.ri Ajelli Angelo, presidente, Perrini cav. Antonio, Benedetti
Lorenzo fu Pietro, Falzacappa Vincenzo, Ricci cav. Paolo e Draghi D..... segretario.
A questi si aggiungevano il sig. Cesare Calamia perché funzionasse da usciere,
essendosi convenuto un primo versamento sociale onde far fronte alle inevitabili
spese, il lestriere Fraticelli Francesco poi veniva nominato camminatore.
****
Nonostante che il Commissario Piredda avesse formulato, all’insaputa di tutti, le sei
deliberazioni avverso i Lestrieri di cui si è tenuto parola più sopra, e che queste
deliberazioni stesse avesse fatto pervenire al Ministero di Agricoltura e sottoporre
alla approvazione della Giunta Provinciale Amministrativa; purtuttavia esso si
addimostrava proclive verso i possessori di Lestra di venire seco loro ad
un’amichevole composizione a termine fisso.
Esso dunque, dopo di avere a detto scopo diramato delle circolari agli investiti di
Lestre che riteneva mancanti di requisiti e di avere accettato la rinuncia che
incondizionatamente gli faceva della propria Lestra l’ottantenne arciprete Don
Angelo Marzi, mostrava desiderio di conferire con la Commissione dei Lestrieri
onde seco loro discutere le modalità di una possibile transazione relativa alla
questione delle Lestre.
Tale desiderio del Commissario veniva ben presto appagato, poiché il bramato
convegno aveva luogo il 13 febbraio del corrente anno 1910 senza portare però a
nessun pratico risultato salvo quello di ottenere dilazione al giudizio cumulativo
iniziato il precedente giorno a Civitavecchia, contro i cinque espatriati, nè con i
mancanti di requisiti ai quali propose di rimanere ciascuno al possesso della propria
Lestra a tutto settembre 1911 senza pagamento di canone e di distaccare poscia tre
rubbia di terreno a loro scelta ciascuno dalla Lestra che usufruiva per poi ritenersi
dette tre rubbia in affitto per 27 anni, senza bisogno di alcun requisito alle stesse
condizioni che altrettante quantità di terra erano state concesse in affitto dalla
Università agli utenti quotisti: nè molto con i forniti di requisiti ai quali il Piredda
proponeva il godimento della Lestra loro vita naturale durante, erroneamente
202
sostenendo l’abrogazione dello Statuto del 1818 che solo parlava di trasmissione del
sangue e che il tacere di quello del 1873 e le tassative disposizioni del regolamento
del 1900 intorno alla cessazione del conferimento di nuove Lestre, avvalorano le sue
tesi e le sue proposte.
****
Rimasto senza effetto l’abboccamento della Commissione con il Regio Commissario
Piredda, e conoscendosi d’altronde dai Lestrieri il continuo armeggio che contro di
loro si andavano dando il Commissario stesso da una parte e i quotisti tutti quanti universitari ed agrari, effettivi od in specie coloro che portavano al cielo le gesta di
lui dall’altra; i possessori di Lestra non potevano fare a meno di porsi maggiormente
in guardia onde scongiurare poco piacevoli sorprese. I Lestrieri quindi in apposita
riunione deliberavano di nominare procuratore della causa contro gli espatriati
l’avv. Domenico Bonizi di Civitavecchia; di scegliere a comune loro difensore per la
causa di merito - quante volte dovesse questa aver luogo - l’avv. comm. Scipione
Lupacchioli, Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma; di
commettere allo scrivente di riunire documenti e memorie relativi alle differenti
questioni delle Lestre e d’inviare, da ultimo, in Roma una rappresentanza della
Commissione precedentemente da loro nominata, perché cercasse di essere ricevuta
dal Ministro o dal sottosegretario di Stato di Agricoltura, industria e commercio e ad
essi esponesse il vero stato delle cose, procurando di ottenere, se possibile,
l’allontanamento del Commissario Piredda. Vedesse pure di abboccarsi coll’avv.
Lupacchioli e di assicurarsi se esso accettava o meno la comune loro clientela.
****
Frattanto il 9 marzo aveva luogo altra riunione degli Utenti agrari sprovvisti di
quote a cui partecipavano anche i non pochi utenti quotisti. Anche essi, dopo un
breve scambio di idee, decisero l’invio di una Commissione dei loro a Roma per
esprimere al Ministero di Agricoltura i desideri dei quotisti ed aspiranti tutti quanti
in ordine alla questione delle Lestre ed alla conferma del Commissario Piredda.
203
****
La Commissione dei quotisti partiva alla volta di Roma la mattina dell’11 marzo e la
sera precedente veniva pure chiamato telegraficamente in Roma dal Ministero il
cav. Piredda per conferire.
Detta Commissione veniva accompagnata al Ministero dall’on. Camillo Mancini,
deputato di Ceccano e quivi poteva intrattenersi con il sottosegretario di Stato, on.
Codacci Pisanelli.
****
Lo stesso giorno 11 marzo a mattina si recava anche a Roma la speciale
Commissione dei Lestrieri che era rimasta composta dei sig.ri Ajelli, Ricci e
Falzacappa.
Ad essi si univa il Consigliere provinciale del mandamento, Conte Luca BruschiFalgari, e tutti insieme dovevano venire presentati dall’on. Calisse, Deputato del
Collegio di Civitavecchia, all’on. Codacci Pisanelli, sottosegretario di Stato, essendo
assente il Ministro, on. Luzzatti, onde esporgli lo scopo della loro missione. Però,
all’ultimo momento non poterono conferire solo che col Direttore generale della
Divisione VI (legislazione agraria) Comm. Colaci che trovarono pienamente
informato dal Commissario Piredda della questione delle Lestre e delle differenti
posizioni dei Lestrieri. L’on. Calisse intervenne solo alla fine del colloquio. Il comm.
Colaci disse che i possessori di Lestre dovevano suddividersi in più classi e che
perciò non potevano pretendere tutti un identico trattamento, invocando in
soccorso della sua tesi il discerne causam meam che si recita dal sacerdote
nell’introito della Messa.
Riferendosi agli erronei apprezzamenti del Piredda, a riguardo della pretesa
abrogazione dello Statuto del 1818, esclusa assolutamente la trasmissione per
sangue delle Lestre il cui godimento, soggiunse, andava a risolversi, nei forniti di
requisito, in un diritto personale ad vitam.
Parlato poi delle differenti classi di Lestrieri mancanti di tutti o di qualche requisito
solamente soggiungeva che cosa, per esempio, possono pretendere quei possessori
di Lestre che le avessero affittate senza esprimere il patto contenuto nell’art. 137 del
regolamento (vale a dire la cessione esplicita per il pagamento delle imposte e
204
contributo) in mancanza del quale l’amministrazione deve dichiarare nullo il
contratto di locazione?
A questa inaspettata domanda non seppe lì per lì che rispondere la Commissione;
quando sopravvenne l’on. Calisse che si trovò facilmente d’intesa col Direttore
Colaci, e colla Commissione per dare alle differenti questioni delle Lestre una
soluzione equa e tale da garantire gl’interessi comuni dei Lestrieri e dell’Università e
di accordare intanto un tempo congruo ai mancanti per rifornirsi di requisiti.
Infatti il Comm. Colaci, d’intesa con il sottosegretario di Stato, on. Codacci Pisanelli,
faceva pervenire agli on. Mancini e Calisse perché li comunicassero ciascuno alla
rispettiva Commissione che aveva inteso di presentare al Ministro di agricoltura, dei
fogli volanti, senza data e senza firma alcuna, in cui erano scritte in dattilografia le
seguenti linee:
“Condizioni per una transazione con i possessori delle Lestre
1° - Continuazione del godimento per i provvisti di requisiti vita natural durante.
2° - Rilascio di una Lestra da quelle famiglie che ne hanno due.
3° - Per gli sforniti di requisiti, concessione di un periodo improrogabile, sino al 30
novembre p.v. per acquistarli.
4° - Rilascio della Lestra da tutti coloro che l’hanno affittata senza il patto di cui
all’art. 137 del regolamento.
Rimane in facoltà del Regio Commissario di conchiudere accordo con i possessori di
Lestre per il rilascio anticipato, mediante equo corrispettivo”.
****
Dopo il colloquio con il comm. Colaci, la Commissione dei Lestrieri - in unione
sempre del Conte Bruschi-Falgari - si recava dall’avv. Lupacchioli e da esso, che
sommariamente volle essere informato della questione delle Lestre, otteneva
l’assenso di accettare la clientela dei Lestrieri cornetani, quante volte però la loro
causa non fosse in conflitto coll’altra promossa dal Commissario Piredda - siccome
più sopra si disse - contro il Comune - di cui sosteneva egli la difesa - innanzi la
Giunta arbitrale di Civitavecchia.
****
205
Dopo ciò, coll’assentimento dell’avv. Lupacchioli, si avanzava generico reclamo alla
Giunta provinciale Amministrativa avverso l’operato del regio Commissario,
conoscendosi che le più sopra accennate sei deliberazioni riguardanti i Lestrieri, si
trovavano sottoposte alla sanzione della Giunta stessa, e stante i buoni uffici dell’on.
Calisse e del Conte Bruschi-Falgari, la Commissione poteva avere assicurazione che
a quelle deliberazioni non si sarebbe dato corso durante le pratiche conciliative tra
Ministero e Commissione.
****
Esaurito in tal guisa il suo programma, la Commissione speciale dei Lestrieri faceva
ritorno in Corneto. Quivi riuniva a convengo i possessori di Lestre e ad essi dava
discarico di quanto aveva potuto fare in Roma nell’interesse reciproco di tutta la
classe.
Tornava poi a conferire col Commissario al quale comunicava il foglio del Ministero
ed insisteva per una dilazione almeno fino al Maggio 1911 da accordarsi ai mancanti
di requisiti per rifornirsene.
Il Regio Commissario poi, il quale aveva intavolato delle trattative col Sindaco per la
retrocessione
delle
Lestre
godute
dall’Ospedale
Municipale
Maschile
e
dall’Orfanotrofio femminile, senza sbilanciarsi con la Commissione, tornava ad
insistere presso il Sindaco per la definizione delle accennate trattative.
Si rivolgeva quindi ai Falzacappa ed al Conte Bruschi-Falgari per ottenere da essi la
retrocessione di una delle due Lestre che, secondo lui, gli uni e l’altro illegalmente
possedevano.
Il Conte Bruschi-Falgari manifestava che ragioni che militavano a suo favore per
quel doppio possesso e Vincenzo Falzacappa faceva noto al Commissario Piredda
come fino dal 1880, s.e., egli ed il defunto suo fratello Ranieri, a cui era succeduto il
figlio Pietro, avessero ciascuno goduto una delle due Lestre di famiglia e ciò col
consenso tacito delle Amministrazioni Universitarie che l’una e l’altra si successero
dal 1880 in poi.
Il cav. Piredda non insistette d’avvantaggio nè con il Conte Bruschi-Falgari, il quale
in occasione delle elezioni amministrative del giugno rinunciava al possesso di una
delle due Lestre, nè con i Falzacappa. In tal guisa il secondo comma delle condizioni
contenute nel foglio del Ministero per una transazione con i possessori delle Lestre,
otteneva un suo primo svolgimento. La Commissione dei Quotisti poi faceva ritorno
206
ancor essa in Corneto e, nell’adunanza degli interessati, che aveva luogo il 14 o 19
marzo, esponeva quanto aveva detto loro l’on. Sottosegretario di Stato
all’agricoltura.
Si approvava quindi dagli intervenuti un lunghissimo ordine del giorno laudativo
del Commissario Piredda che, nell’intesa di dargli la maggiore possibile diffusione,
sia per mezzo della stampa, sia col comunicarlo a quei deputati che erano al corrente
delle questioni agrarie locali, lo facevano pervenire all’on. Viazzi a Grosseto perché
volesse assumere il patrocinio degli utenti quotisti, tutelando i loro interessi alla
Camera. L’on. Viazzi però, mentre si scusava di non poter assumere, per le
molteplici sue occupazioni, il patrocinio degli utenti cornetani, inviava al Presidente
della Camera una interrogazione al Ministero di Agricoltura, industria e commercio
per sapere quali ragioni avessero mosso il Governo a richiamare il Cav. Piredda da
Commissario dell’Università Agraria di Corneto-Tarquinia e se non fosse il caso di
ristabilire energicamente lo stato di diritto violato in quella Università nei rapporti
dei possessori delle Lestre.
****
Ad onta, però di tutto l’arrabbattarsi dei suoi amici e dei suoi sostenitori, il
Commissario Piredda nel tempo stesso che veniva richiamato al suo posto di
magistrato, non poteva fare a meno di richiedere di essere esonerato dal difficile
compito che gli era stato addossato.
****
Le sue dimissioni venivano accettate e in aprile, a Commissario Regio
dell’Università Agraria di Corneto, veniva nominato il dr. Arnaldo Sessi, segretario
ancor esso presso il Ministero di Agricoltura.
Esso veniva bene accolto, tanto dai Lestrieri, come dai Quotisti ed aspiranti alle
quote.
Questi ultimi, poi, il 3 aprile, dopo essersi riuniti in assemblea, si recavano, in circa
un centinaio, alla sede della Università per esporre al nuovo Commissario i loro
desiderata, insistendo sulla necessità di una riforma radicale del regolamento
dell’Ente e sulla trasformazione del dominio collettivo.
207
****
Frattanto il Commissario Sessi, nell’assumere che faceva la gestione della
Università, non si discostava affatto dal programma tracciato dal suo predecessore
fatto proprio dal Ministero e, sebbene si addimostrasse conciliativo colla
Commissione del Lestrieri, ed avesse fatto abbandonare il giudizio iniziato a
Civitavecchia col cav. Piredda contro i cinque possessori di lestra che si riteneva
avessero perduto il requisito del domicilio, ciononostante volle verificare se nei
contratti di affitto in corso era stato incluso il patto di cui all’art. 137 del
regolamento, accordando il termine perentorio di cinque giorni, prorogato poi di
altri cinque giorni, ad esibire ciascun interessato copia del rispettivo contratto
locatizio.
Entro il prefisso spazio di tempo i contratti tutti di Lestra che non lo erano,
venivano a cura della Commissione posti in regola col registro e col regolamento
coll’aggiungere un articolo addizionale contenente il patto voluto dall’art. 137 a tutti
i contratti registrati e rinnovando di pianta tutti gli altri che non erano tali,
introducendovi, beninteso, il patto cui sopra e registrandoli.
Dopo ciò i regolarizzati contratti tutti quanti venivano rimessi al Commissario che
ne riteneva copia. In tal guisa il terzo comma del foglio del Ministero fu esaurito
ancor esso.
****
Durante lo svolgersi delle accennate verifiche contrattuali con i possessori di Lestre,
il Commissario Sessi procedeva altresì alla verifica del regolamentare bestiame
tanto con gli utenti di quote - in due capi vaccini od equini - come con i Lestrieri
nelle sei bestie grosse da corpo.
La grandissima maggioranza di questi ultimi si trovava in grado di esibire le
prescritte sei bestie; ben pochi quindi, e solo per eccezione erano i lestrieri che
rimanevano sforniti del requisito del bestiame.
****
208
Espletata la verifica del bestiame, il Commissario dava opera a portare a
compimento la bramata riforma del Regolamento universitario al quale aveva
accudito fino dal primo momento della sua venuta in Corneto.
Diramava dopo ciò gli avvisi agli utenti per la convocazione dell’Assemblea generale
che fissava per il 26 maggio allo scopo di discutere la riforma del regolamento che
esso aveva elaborato siccome sopra.
All’Assemblea, alla quale il Commissario rendeva conto del suo operato ed esponeva
i suoi intendimenti circa la questione delle Lestre e la riforma del regolamento,
prendevano parte circa 120 utenti quasi tutti quotisti od aspiranti senza nulla
deliberare, essendosi proposta ed accettata, alla quasi unanimità, la sospensiva.
****
Successivamente, il 10 giugno, la Giunta Provinciale Amministrativa all’improvviso
e senza che nulla si sapesse o si sospettasse dai componenti la Commissione dei
lestrieri - approvava in globo le sei deliberazioni emesse come sopra dal Regio
Commissario Piredda fino dal precedente mese di febbraio avverso i possessori di
Lestre tutti quanti, formulando la relativa deliberazione nella laconica maniera
seguente:
“Viste le deliberazioni del Regio Commissario dell’Università Agraria di CornetoTarquinia in data 11 novembre 1909 (?) - Ritenuto che la grave questione relativa
alle Lestre dovrà esser definita avanti ai competenti tribunali, qualora il Regio
Commissario non riesca a venire con i vari possessori a convenienti transazioni o ad
amichevole componimento; approva.”
****
Lo stesso giorno poi, 10 giugno 1910, la Giunta stessa, ritenuta la convenienza della
transazione, approvava altra deliberazione emessa dallo stesso ex-Commissario
Piredda a vantaggio dei sig.ri Galeazzo ed Eugenio Lucidi relativa al rilascio della
Lestra, già paterna, dietro il compenso di £. 1.500.
209
****
Quindi nella seduta del giorno.... dello stesso mese di giugno, la Giunta provinciale
Amministrativa dava il suo bene stare alla transazione conclusa dal Commissario
Sessi con il sig. Agapito Calvigioni per la restituzione, dietro il compenso per una
sola volta di £. 3.500, della Lestra da lui goduto alla Roccaccia.
****
In analogia poi delle approvazioni dalla ripetuta Giunta provinciale Amministrativa
emesse a favore dei sig.ri Marzi, Lucidi e Calvigioni mediante le deliberazioni dette
di sopra, il Commissario Sessi stipulava con gli interessati in atti Leonelli di
Corneto, gli opportuni istromenti di transazione e concordia per la retrocessione
delle rispettive Lestre; il 30 giugno con i fratelli Lucidi, successivamente con il sig.
Agapito Calvigioni e il 17 luglio con Don Angelo Marzi.
Avevano luogo dopo ciò le regolari volture in catasto delle retrocesse Lestre agli
Agricoltori, restando in tal guisa esonerati dalle corrispondenti imposte i cedenti
Lucidi, Marzi e Calvigioni.
****
Siccome poi con il giorno 17 luglio andavano a scadere i poteri del Regio
Commissario Arnaldo Sessi, così con decreto di pari data veniva questi nominato
Commissario prefettizio.
****
La domenica 19 giugno susseguente aveva quindi luogo di bel nuovo l’Assemblea
degli Utenti agrari onde discutere il novello regolamento proposto dal Commissario
Sessi.
V’intervenivano 87 utenti, tutti quotisti od aspiranti.
La discussione procedeva alquanto animata ma senza incidenti e le proposte del
Regio Commissario, in arte modificate dall’Assemblea, venivano tutte approvate.
210
Il Commissario, poi, comunicava all’Assemblea come la Giunta Provinciale
Amministrativa avesse approvato tutte le deliberazioni adottate dal suo
predecessore cav. Niccolò Piredda.
****
Lo schema del regolamento che come si disse, veniva presentato a questa seconda
Assemblea degli utenti e da essa veniva approvato con alcune leggere modificazioni,
restava formato di XVI capi con 126 articoli
suddivisi in due parti più le
disposizioni transitorie che comprendevano altri tre articoli.
Il capo XVI, composto degli art. 114 e 115, si occupa delle Lestre. In detti articoli non
si parla degli speciali requisiti per rimanerne al possesso oltre quelli indicati nell’art.
1 e meglio determinati nel secondo, indispensabili per addivenire e conservarsi
utente agricoltore. L’articolo primo e secondo sono concepiti siccome appresso:
“ art. 1 -
Possono essere utenti soltanto gli agricoltori che abbiano i seguenti
requisiti:
a) siano capi di famiglia
b) abbiano almeno 10 anni di domicilio legale nel Comune e vi
risiedano abitualmente
art. 2 -
Sono considerati Agricoltori agli effetti dell’art. 1 tutti coloro i quali
esercitano una qualsiasi industria od occupazione agricola,
ricavando
da questa i mezzi di sussistenza”.
Gli articoli poi 114 e 115 stabiliscono quanto appresso:
“art. 114 -
Le Lestre rese vacanti ove non ne sia indispensabile la quotizzazione,
ovvero non debbano per esigenza di bilancio essere affittate con
preferenza agli utenti, saranno rimboschite.
art. 115 -
In caso di quotizzazione di una Lestra, la parte boschiva di essa dovrà
rimanere inalterata od essere riunita al corpo del bosco. La parte
prativa seminativa da ripartirsi in quote, potrà essere integrata colle
211
eventuali radure immediatamente circostanti la cui coltivazione non
implichi un qualsiasi disboschimento”.
Nella seconda parte del regolamento che tratta “Della Amministrazione dei beni
dell’Ente” si dice quindi che la proprietà dell’Ente è composta di fondi urbani e
rustici e che la proprietà rustica che complessivamente è di ettari 3341.16 è divisa
come appreso:
1° Roccaccia
2° Selvaccia
3° Poggio Canino
(Da questi terreni ettari 1427.13 macchiosi e a taglio ceduo sono adibiti a pascolo
comune, Ettari 1293.60 in parte prativi-seminativi, sono rappresentate dalle
Lestre).
4° Valfragida
5° Boligname
6° Mandrioncino dell’Omomorto
(questi ultimi terreni sono stati quotizzati e concessi a miglior coltura).
Da ultimo nelle disposizioni transitorie si viene a stabilire:
1° che il regolamento andrà in vigore appena avrà riportato l’approvazione della
competente autorità;
2° che immediatamente dopo l’approvazione dovrà procedersi alla revisione delle
Lestre degli Utenti, cancellando quelli che non abbiano i requisiti di cui all’art. 1 ed
ammettendo tutti coloro che abbiano fatta domanda prima del 31 marzo 1910.
3° (art. 2 bis) - che gli Utenti non agricoltori attualmente inscritti, conserveranno
tale qualifica e saranno ammessi al godimento del patrimonio collettivo cogli stessi
diritti e gli stessi doveri degli Utenti Agricoltori.
4° (art. 3) - Tutte le disposizioni contrarie al regolamento si dichiarano abrogate.
****
Nel mentre si andavano svolgendo le narrate cose fra la Commissione dei Lestrieri e
il Commissario avevano luogo, se non delle formali trattative di conciliazione, degli
accenni almeno allo scambievole desiderio che l’una e l’altro avevano di giungere a
212
reciproco generale accomodamento rispetto alla definizione delle molteplici e
svariate questioni delle Lestre e dei singoli Utenti di esse.
Dallo studio della questione principale, vale a dire del possesso e trasmissibilità
delle Lestre, si era giunti a conoscere che, mentre la porzione di dominio collettivo
da queste occupato ed usufruito dai rispettivi possessori, discordava colla legge
Tittoni del 1894 e ne aveva perciò reso il godimento da parte dei Lestrieri ibrido ed
illegale addirittura.
D’altronde il buon diritto di quest’ultimi, che si trovassero in requisiti, a proseguire
in quel godimento stesso, era troppo evidente e non poteva venire disconosciuto in
nessuna maniera. Occorreva, quindi, valutare l’entità di quel diritto acquisito ed alla
stregua delle espropriazioni per ragioni di pubblica utilità, conguagliare il
compenso, avuto riguardo alla feracità ed ad altri estremi di ciascuna Lestra e di
ciascun Lestriere.
In una parola la questione principale delle Lestre, allo stato di fatto, veniva a
risolversi nel ricupero della corrispondente porzione del dominio collettivo da parte
dell’Università, maggiore o minore a seconda dei casi, a vantaggio di ciascun Utente
fornito di requisiti.
****
A rompere il ghiaccio, se piace meglio, ad affrontare la questione, credeva bene il
Commissario Sessi, in sullo scorcio del mese di giugno, di diramare alcuni fogli
volanti, senza data e senza firma, nei quali si conteneva, dattilografata, la seguente
proposta di transizione con i possessori di Lestra:
1° Restituzione immediata della Lestra dietro il pagamento di determinate somme;
a) di £. 1.500 cioè ad ognuno dei cinque convenuti in giudizio per mancanza di
domicilio;
b) di £. 1.500 a 3.000, a seconda della produttività della Lestra a coloro che
risultassero privi di qualche requisito;
c) di £. 3.000 a 4.500, a seconda della produttività della Lestra a coloro che fossero
in requisiti.
2° Per agevolare lo scioglimento dei contratti di affitto in vigore, l’Università si
sarebbe impegnata di rinnovare gli affitti in corso per un periodo non minore di
nove anni e al prezzo che verrebbe determinato in base alla stima del perito.
213
Inoltre l’Università si sarebbe impegnata di fronte ai Lestrieri che godevano la
Lestra direttamente, di concedere anche ad essi in affitto la Lestra per lo stesso
periodo di tempo, al prezzo da stabilire come sopra, diminuito di 50 lire.
****
Per maggiormente poi resistere nelle accennate sue proposte di accomodamento e
giungere a pratiche conclusioni, lo stesso Commissario Sessi, sotto il giorno 12
luglio, faceva pervenire a ciascun Lestriere apposita circolare parimenti in
dattilografia, portante sua firma, contraddistinta con il n°561 di protocollo e avente
per oggetto “ricupero di Lestra”.
In detta circolare, dopo aver fatto cenno alle deliberazioni revocatrici Piredda di
recente approvate dalla Giunta provinciale Amministrativa e dopo di avere
riassunto in succinto quanto di conteneva nel precedente suo foglio senza data e
senza firma, dichiarando però che il compenso non poteva eccedere le lire 4 mila,
benefici e costruzioni a parte; il Dr. Sessi concludeva testualmente così:
“Avverto che ove per la fine del corrente mese (di Luglio) non si sia venuto ad un
accordo generale, io dovrò con rincrescimento iniziare il giudizio, trattandosi di
esecuzioni di deliberazioni regolarmente approvate, che nè una Amministrazione
ordinaria, nè tampoco un Commissario straordinario possono omettere o ritardarne
a loro libito”.
****
Per discutere queste ultime formali proposte conciliative del Commissario la
commissione convocava per la sera del 16 luglio l’Assemblea degli Utenti di Lestra
alla quale intervenivano gli interessati.
Si espose brevemente ai congregati lo scopo della riunione e lo stato della questione
principale, concludendosi col dire che allo stato attuale delle cose, la vertenza veniva
a risolversi in un ricupero da parte dell’Università Agraria e in un reintegro a favore
dei Lestrieri: che quindi si riduceva vano il contendere in merito al diritto e che solo
restava a determinarsi il compenso adeguato che dovesse ricevere ciascun
possessore per la Lestra che sarebbe andato a rilasciare. In una parola la vittoria
della causa di merito sarebbe stata sicura, però il risultato sarebbe stato sempre
quello di dover rilasciare le Lestre in seguito a congruo compenso.
214
Non fu possibile adottare provvedimento alcuno in merito alle proposte del
Commissario che sembrarono a tutti troppo meschine e sproporzionate a
raggiungere lo scopo a cui esso tendeva.
Si credette perciò conveniente di sciogliere la seduta senza prendere alcuna
deliberazione e solo si restò d’intesa di riunirsi di bel nuovo, più proficuamente, il 21
a sera.
****
All’appuntamento del 21 luglio a sera intervenivano 30 possessori di Lestre o loro
rappresentanti.
In massima si ammetteva, a grandissima maggioranza, la convenienza di transigere,
stante però il fervore dei lavoratori d’ara e trebbiatura che impediva a moltissimi di
recarsi alle riunioni, si proponeva e si accettava dai convenuti di far richiedere al
Commissario una dilazione a tutto il 15 agosto.
Frattanto dall’agronomo sig. Roberto Cialdi , che rappresentava il Conte BruschiiFalgari, si accennava ad un progetto generale che esso riteneva accettabile dai
Lestrieri e vantaggioso per l’Ente Agrario che, accettandolo, non sarebbe andato ad
ingolfarsi in una grossa operazione di mutuo (si vociferava per Corneto che il
Commissario Sessi, per effettuare il recupero delle Lestre, volesse impiantare il
servizio dei piccoli prestiti agli Agricoltori, dei quali prestiti si parla nello schema del
nuovo regolamento universitario, e per altre eventualità, avesse in animo di far
contrarre all’Ente Agrario da lui straordinariamente amministrato, un mutuo
ipotecario di 500 mila lire) e conseguenti imbarazzi finanziari che avrebbero potuto
condurlo alla rovina.
Tale progetto consisteva nel riconoscere indistintamente tutti i possessori di Lestra,
aventi o non requisiti, come legittimi investiti e di accordare a ciascuno di essi in
affitto ordinario colla facoltà del subaffitto, per 27 anni la rispettiva Lestra dietro
l’annua corrisposta, per tutti eguale, di 250 lire, salvo a tener conto dei benefici e
costruzioni allo spirar delle locazioni.
In tal guisa il maggiore o minore valore di ogni singola Lestra verrebbe compensato
dal godimento ventisettennale a ciascun Utente addivenuto locatore libero senza
limitazione alcuna di requisiti, di residenza, discendenza maschile ecc.
L’anzidetto progetto, da svolgersi mediante opportuno ordine del giorno in una
prossima riunione, non dispiacque ai convenuti; solamente si proponeva di portare
215
l’affitto a 29 anziché a soli 27 anni e di ridurre la corrisposta annua a sole 200 lire,
restando bene inteso le spese tutte dei contratti e loro trascrizioni a carico dell’Ente
agrario.
Si accennava inoltre ad un piccolo compenso pecunario di 500 lire e si richiedeva,
da ultimo, l’iscrizione di tutti i Lestrieri nel novero degli Utenti della Università col
diritto alla quota di tre rubbia.
Finalmente si dava incarico a chi scrive di redigere la lettera al Commissario
tendente a fargli conoscere le buone disposizioni in massima dei congregati a
transigere ed a richiedergli insieme una proroga fino al 15 agosto.
MANDATO SPECIALE DI PROCURA
Corneto-Tarquinia 20 agosto 1910.
A tenore degli accordi presi fra il Commissario Prefettizio dell’Università Agraria di
questa città di Corneto-Tarquinia, sig. Avv. Edoardo Cuciniello, e la Commissione
dei possessori di Lestra in ordine ad un accomodamento generale e definitivo della
vertenza delle Lestre mediante arbitrato sul quantitativo del compenso da
concedersi a tempo e luogo siccome meglio verrà specificato con separato
compromesso - dalla prefata Università Agraria, sul cui dominio collettivo sono
situate le Lestre singole di Selvaccia e Roccaccia agli spossessandi Lestrieri; la
sullodata Commissione, il giorno 12 del volgente agosto 1910, convocava la riunione
generale dei nominati possessori di Lestre; lestre che, sebbene complessivamente
ascendono al n° di 70, purtuttavia 38 solamente sono usufruite da altrettante
famiglie investite, mentre le altre 12 sono tornate a far parte del dominio collettivo
dell’Ente: 5 perché quotizzate, 5 perché rinunciate e 2 a retrocedersi alla fine del
prossimo settembre per mancata successione.
L’indetta riunione aveva effettivamente luogo in detto giorno nell’aula universitaria
coll’intervento di 33 possessori di Lestra e loro rappresentanti e, dopo breve
discussione, mercè il seguente ordine del giorno, veniva in massima parte accettato,
con 32 voti favorevoli contro uno solo contrario, il proposto arbitraggio.
Segue il tenore dell’ordine del giorno:
“I possessori di Lestra riuniti in assemblea, udita la relazione dei loro Commissari
già seguito all’abboccamento avuto col nuovo Commissario Prefettizio, sig. Edoardo
Cuciniello; ritenuto che è sempre più adatto agli interessi propri ed a quelli dell’Ente
evitare contestazioni e procedimenti giudiziari;
216
deliberano
di accettare la proposta fatta dal Commissario Prefettizio e di risolvere la questione
delle Lestre mediante l’arbitrato.
Si riservano la nomina dell’arbitro e la più ampia discussione dei quesiti da
sottoporsi.
Rimane piena ed illimitata la libertà individuale di trattare la cessione della propria
Lestra mentre procedono le trattative suddette”.
Il ripetuto ordine del giorno veniva dalla Commissione comunicato al sig.
Commissario che se ne mostrò soddisfatto ed ebbe ad accettarlo in ogni sua parte,
solamente, ad evitare lungaggini ed a derimere inconvenienti che non possono
evitarsi nella discussione coi numerosi interessati, il Commissario stesso propose per condizione sine qua non - che, se non i Lestrieri tutti, la grandissima
maggioranza almeno di essi, avesse a rilasciare, prima di domenica prossima 21
agosto, per il qual giorno è stata da lui indetta la riunione in assemblea generale
degli Utenti tutti universitari, speciale mandato di procura per man di Notaro,
mediante il quale venisse deferito a soli tre possessori di Lestra la facoltà di
procedere - entro un determinato spazio di tempo da non eccedere quello di un
mese - alla nomina di due arbitri di cui uno sarebbe per nominarsi dal Commissario
in rappresentanza dell’Università, e l’altro dai tre eletti a nome dei Lestrieri,
restando ad eleggersi il terzo arbitro dai due arbitri nominati dalle parti come sopra.
Intender poi se la dovessero col Commissario stesso in merito alla compilazione del
compromesso, relativi capisaldi e quesiti da sottoporsi al collegio arbitrale.
Per dare evasione ai desiderata dell’Egregio funzionario la Commissione dei
Lestrieri convocava nuovamente la riunione generale dei possessori di Lestra per la
sera di sabato 20 agosto volgente affine di procedere alla nomina dei tre incaricati
che a loro volta avrebbero dovuto procedere alla elezione dell’arbitro come sopra,
pregando intervenire all’adunanza il sig. dr. Umberto Leonelli, Regio Notaio locale,
allo scopo di assistere alla lettura e di vidimare le firme che gli interessati investiti di
Lestra sarebbero per apporre ad apposita procura speciale per brevetto, da
redigersi, a spese dei firmatari, in doppio originale di cui uno da ritenersi per loro
giustificazione dagli eletti e l’altro da rilasciarsi in mano del sig. Commissario,
Edoardo Cuciniello.
217
Alla riunione che sta avendo luogo questo giorno 20 agosto 1910 nella sala maggiore
del grande Hotel Tarquinia 1) coll’intervento del sullodato Notaro sig. Umberto
Leonelli, i 27 Lestrieri personalmente vi assistono: in armonia di quanto precede,
nella intesa di procedere alla nomina della terna che eleggere deve l’arbitro o gli
arbitri sarà per eleggere il Commissario Cuciniello ed il terzo o quinto arbitro che
alla lor volta saranno per nominare i due o quattro eletti onde stabilire il
quantitativo del compenso da accordarsi agli spossessandi Lestrieri; con il presente
mandato di procura, gli intervenuti all’assemblea nominano a loro legittimi
rappresentanti i sigg. Angelo Ajelli fu Luigi, Paolo cav. Ricci fu Luigi e Vincenzo
Falzacappa fu Egidio dando loro formale incarico di nominaere entro un mese
l’arbitro o gli arbitri che insieme agli altri arbitri ad eleggersi come sopra, dovrà o
dovranno determinare l’equo compenso da accordarsi ai possessori di Lestra,
tenendo calcolo delle avvenute transazioni individuali.
Regnando ecc. ecc.
Si premette in linea di fatto che esiste da vari mesi una vertenza fra i possessori di
Lestre e l’Università Agraria di Corneto-Tarquinia, proprietaria, che pretende la
restituzione delle Lestre in base a nuove disposizioni della legge sui domini
collettivi;
che i possessori di Lestra forti dei loro diritti che si vorrebbero disconoscere non
intendono addivenire alla pretesa restituzione almeno senza un equo compenso;
che dopo varie trattative, l’Assemblea dei possessori di Lestra, nella riunione del
giorno 12 corrente agosto alla unanimità, meno uno, deliberava di risolvere la
vertenza di cui sopra;
che a tale deliberato si ritiene necessario dare forma e valore di pubblico atto
mediante l’intervento di pubblico Ufficiale;
quindi è che i sottoscritti possessori di Lestra confermando la deliberazione 12
agosto 1910 nominano spontaneamente i sig......... a loro legittimi rappresentanti,
dando loro formale incarico di nominare l’arbitro o gli arbitri che dovranno
rappresentare e difendere i possessori di Lestra nel collegio arbitrale allo scopo di
definire la vertenza e stabilire quell’equo compenso che risulterà doversi ai
possessori di Lestra, specialmente dopo le avvenute transazioni individuali.
Corneto Tarquinia..........................
1)
Albergo situato a quel tempo nel palazzo Marzi, di fronte all’Episcopio, in via Roma.
218
1°- Agostini D. Luigi
2°- Avvolta Anna in Perrini
3° - Benedetti Crispino
4° - Boccanera Maria
5° - Branca Benedetto
6° - Calvigioni Telesforo
7° - Falzacappa Pietro
8° - Latini Calisto
9° - Maneschi Pietro
10°- Maneschi Giulia
11° - Mastelloni Emilia
12° - Fioravanti Ettore
13° - Fattori Salvatore
14° - Albelli Antonio
15° - Benedetti pupilli Giovanni
e Giulio
16° - Benedetti Francesco fu
Filippo
17° - Benedetti Pietro di
Francesco
18° - Bruschi Augusto
19° - Campioni Francesco e
Pietro
20° - Mancini Marzio
21° - Maneschi Giovanni
Battista
22° - Marzi Agostino e Luigi
23° - Marzi Pietro ed Amilcare
24° - Perelli Girolamo
25° - Piergentini Mariano
26° - Ramaccini Antonio
27° - Paparozzi Eredi di Angelo
a cura di Bruno Blasi
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LE DODICI TELE DEI “MISTERI DEL ROSARIO” GIA’ CONSERVATE
NELLA CHIESA DI S. MARIA DI VALVERDE
E’ evidente che la causa principale dell’attuale stato di inagibilità della chiesa di S.
Maria di Valverde dipenda soprattutto dallo slittamento verso sud dell’intero
Santuario che, costruito sopra un banco di argilla, viene spesso segnato nelle
murature da lesioni che si evidenziano maggiormente nella chiave dell’arco trionfale
nel Coro della chiesa.
Infatti, se si guarda bene la zona dove è eretta la chiesa, ci si accorge subito
dell’esistenza - sia nella stradina di “Poggio Ranocchio” che nello sperone di argilla
attaccato alle vicine mura nel lato a nord della chiesa - delle molte e capillari
infiltrazioni di acqua che trasformano le argille esistenti in vera materia viscida e
per questo anche movibile.
Altra ragione della continua instabilità del Santuario di Valverde potrebbe essere
causata dall’aver tolto nella parete sud (quella che si affaccia nella piccola vallata del
“fossaccio”), un probabile “sperone” di contenimento, o “portico” ad archi di
contenimento. Quanto detto finora, si può affermare maggiormente guardando una
vecchia fotografia e alla presenza nella parete di alcune murature che ancora oggi,
aggettanti, sono inserite nel muro stesso della chiesa.
Anche se può sembrare meno convincente dei già citati accorgimenti per la
salvaguardia della chiesa di Valverde, non possiamo trascurare quello del
persistente pericolo che secolari piante di pino, nel piazzale antistante la chiesa,
arrecano alle strutture portanti del Santuario. Ed è quasi certo che le radici di queste
piante, fortificatesi negli anni, si sono ora propagate per tutta la superficie
dell’edificio, e nelle giornate di vento (che a Tarquinia quando tira non scherza),
queste radici che si muovono sotto il terreno contemporaneamente alla pianta,
arrecano danni alle strutture portanti della chiesa, le cui conseguenze potrebbero
essere anche gravi ed imprevedibili. Simili esempi poi, non dobbiamo andarli a
220
cercare tanto lontano; basti guardare le nostre mura civiche anche in prossimità
della chiesa di Valverde e ci renderemo conto di quello che può causare una pianta
le cui radici intrecciate ed avvinghiate nei muri, sviluppano una forza
impressionante e demolitrice.
Nell’immediato dopoguerra e per l’interessamento dell’allora Vescovo Giulio
Bianconi (1945-1976), la chiesa di S. Maria di Valverde subì un ennesimo restauro di
consolidamento - avendone avuti molti altri fin dal XV secolo - sempre per il solito
banco di argille mobili.
E proprio in quest’ultimo restauro, una dozzina di piccoli quadri furono appoggiati
in una mangiatoia di una stalla nelle immediate vicinanze del Santuario di Valverde,
in attesa che si terminassero i lavori onde ricollocarli al loro posto di provenienza
(chiesa o magazzino). Questa ricollocazione dei quadri nella chiesa di S. Maria di
Valverde però, non avvenne mai e mai nessuno si prese premura né di ricercarli né
di riportarli nel loro luogo di provenienza. Penso che l’avanzata fatiscenza delle tele
e l’averle credute di scarso valore artistico, abbiano contribuito a salvare queste
opere del patrimonio artistico della città.
Ora, però. è anche giusto e doveroso qui ricordare, che a salvare le tele dalla sicura
perdita o distruzione, non fu solo la fatiscenza o l’averle ritenute di scarso valore, ma
anche il buon gusto e la sensibilità dei Signori Bruno Blasi e Fausto Fattori, che
ritrovarono le tele in quella stalla - dove avevano sostato per circa venti anni premurandosi poi di consegnarle ad una Comunità del luogo per una buona
conservazione.
Le dodici tele non sono altro che le raffigurazioni dei Misteri del Rosario arrivate a
noi in uno stato più che pietoso: quasi tutte prive di telaio di legno e in quei pochi
rimasti, i più erano stati compromessi dai tarli che avevano intaccato anche alcune
tele. A quattro o cinque pezzi di queste pitture, mancavano addirittura parti di tela,
che i topi avevano rosicchiata, mentre l’umidità e il ripiegamento compresso delle
tele aveva compromessa la stabilità della mestica che stava cadendo da tutte le parti.
Da due “Inventari” della Chiesa di Valverde della fine del XVII secolo, si suppone
che le tele ivi descritte, siano proprio quelle dei “Misteri” ritrovate nella stalla
attigua alla chiesa, e infatti così vengono annotati: (“Inventario della Sacristia del
1689”) “Quattordici quadri sopra le colonnette et uno sopra la Madonna”;
(Inventario della Sacristia del 1695”) “.... e più dodici quadri sebbene debbano
essere quattoridici, si ritrovano le cornici ma non le tele, si suppongono guasti
quando furono levati dal pittore che fece le colonne di (mischio) (?)”.
221
Le tre tele che mancano dal ciclo dei “Misteri” sono: “Flagellazione di Gesù” “Gesù
legato alla Colonna” “Incoronazione della Vergine”.
In occasione poi di un collaudo alla nostra “Resurrezione” nella chiesa di S.
Giuseppe, dopo il restauro, venne a Tarquinia, invitato dal nostro concittadino il
Cardinale Sergio Guerri, il Dott. Vittorio Federici 1) il quale ricopriva allora la carica
di Direttore del Gabinetto per le Ricerche Scientifiche dei Musei Vaticani; in quella
visita gli furono mostrate le dodice tele che egli visionò con entusiasmo, ritenendole
anche di buona fattura tanto che sollecitò caldamente i rappresentanti della Società
Tarquiniense di Arte e Storia - presenti al sopralluogo -, a provvedere per un
intervento di restauro da farsi al più presto.
Infatti, fu proprio lo scrivente ad offrirsi per curarne il restauro che fu eseguito circa
dieci anni fa nei Laboratori di Restauro dei Musei Vaticani.
Esaminati poi con più cura le tele, ci si avvide che le lacune nelle parti di tela
mancante non erano molto grandi, e per suggerimento del Direttore del Laboratorio
si stabilì di procedere per un restauro integrale, previa la foderatura e la
collocazione delle tele su nuovi telai. Durante questo restauro, le tele vennero
sottoposte al giudizio del critico d’arte Prof. Cesare Brandi, il quale dette il seguente
responso: “Opere del tardo Seicento, di scuola del Caravaggio e del Reni” (1976).
Anche il celebre pittore Guido Reni dipinse per commissione delle Suore di S. Luca,
verso la fine del XVI secolo, la grande pala raffigurante “Madonna con Bambino e i
Misteri del Rosario”, in Bologna nella Basilica di S. Luca. I “Misteri” del Reni, che
non hanno nulla in comune con il cromatismo e la drammaticità dei dipinti di
Valverde, possono sono accostarsi a questi per qualche piccola analogia nelle
composizioni.
A restauro ultimato le dodici tele 2) furono mostrate, in occasione della
presentazione del volume di Mutio Polidori “Croniche di Corneto”, nella SalaAuditorium di S. Pancrazio dove rimasero esposte solo per qualche giorno e questo
fu un vero peccato perché solo poche persone ebbero modo di ammirare le tele
esposte. Opere come questi dei “Misteri” di Valverde, non si possono tenere relegati
1)
VITTORIO FEDERICI, (Roma 1914-1980). E’ stato l’esecutore dell’ultimo restauro alla “Pietà” di Michelangelo in
S. Pietro, dopo l’attentato di qualche anno fa. Nel 1976 ha diretto un restauro alla nostra “Resurrezione”. (L. Balduini,
“La Resurrezione di Tarquinia”, Tarquinia, 1983, p. 59).
2)
Le dodici tele dei “Misteri” raffigurano: “ANNUNCIAZIONE” “VISITAZIONE” “NATIVITA”
“PRESENTAZIONE DI GESU’ AL TEMPIO” “GESU’ NEL TEMPIO” “GESU’ NELL’ORTO DEGLI OLIVI”
“GESU’ CADE SOTTO LA CROCE” “CROCEFISSIONE” “RESURREZIONE DI N.S.G.C.” “ASCENSIONE”
“DISCESA DELLO SPIRITO SANTO” “ASSUNZIONE AL CIELO DI MARIA”.
222
solo in ambienti di custodia per molti anni, bisogna che allo studioso ed alla
popolazione tutta, si dia la possibilità di vedere, studiare e gustare certi capolavori.
Sarebbe bene, allora, di poter trovare quanto prima una nuova occasione per
rimostrare ed esporre in ambienti adeguati questo ciclo dei “Misteri”, accompagnato
magari con altri quadri che, penso, non sia difficile reperire.
BIBLIOGRAFIA
- Archivio Storico Comunale di Tarquinia, “Inventari” della chiesa di Valverde del
1689 e 1695.
- ANONIMO - BOLLETTINO S.T.A.S. 1976 Tarrquinia, 1977, p. 6-7-9.
- SERGIO CESARINI: “Ultimato il Restauro di Dodici Dipinti” in “Il Periodico del
Lazio”, Viterbo, 1978, p. 2.
- EDI BACCHESCHI, “Catalogo delle Opere” in “Guido Reni”, Milano, 1971.
- PIETRO FALZACAPPA, “Chiese dirute ed esistenti nel territorio di Corneto”.
Chiesa di Valverde p. 33 v (Arch. S.T.A.S.)
- ARCHIVIO S.T.A.S. - Responso dato in Vaticano da Cesare Brandi, Roma, 1976.
RITRATTI DI DONNE
Nel rileggere il libro di Sainte-Beuve “Portraits de femmes”, mi è venuto un ritorno
di memoria su quanto ebbi succintamente a scrivere in un settimanale di alcuni anni
fa intorno a certe figure muliebri le cui vicende ebbero, nel mondo piccolo-borghese
e contadino di allora, una rimarchevole risonanza. Cosicché la mia fantasia si è
andata via via risvegliando fino ai tempi della mia fanciullezza e della mia
adolescenza, turbata - perché nasconderlo? - da visioni e avvenimenti che non ho
dimenticato mai. Naturalmente senza cedere alla tentazione di tracciare - com’ebbe
a scrivere lo stesso Sainte-Beuve - un profilo anche di me stesso che non fosse quello
di rammentare, anche a grande distanza, quel che accadde riguardo ad alcune figure
di donne che suscitarono impressione e, a volte, ammirazione e curiosità. Se Sainte
Beuve però ebbe il privilegio e la capacità di ritrarre donne di grande rilievo
223
culturale e sociale come Madame Sévigné, Madame La Rochefoucauld e Madame de
Stäel che tennero salotto e governo fra il XVII e il XVIII secolo in una Francia
dominata e sconvolta da sovvertimenti letterari e politici che la portarono al centro
dell’attenzione mondiale, io, per modestia e per diversa condizione ambientale, vo
limitando il discorso intorno a donne di nessun rilievo che non fosse dettato dal
sentimento e da una qual necessità di autonomia morale. Del resto Tarquinia non
era e non è Parigi: e le donne di un certo spicco non frequentavano salotti letterari e
tanto meno politici; per cui mi fermerò a descrivere figure che avevano a loro merito
la procacità, la bellezza e una certa disinvoltura di vita a confronto di quello che era
il costume del mio tempo, fra gli anni ‘20 e ‘30. Fino a quando cioè la fantasia e la
meraviglia non cedettero alla visione di una realtà meno incantata, come mi si
presentò alle soglie della mia giovinezza.
Le donne cornetane dovettero essere proverbialmente saporose se ancora oggi c’è
chi ricorda un vecchio madrigale che dice:
Le donne a Corneto
per chi le conosce
son come briosce
nel latte e caffè.
Odorano in bocca
di dentro e di fuori
pei nostri signori
son rari boccon.
E anche assai belle se una donna della nostra città si fece modellare nelle sembianze
di una najade di piazza dell’Esedra a Roma; precisamente quella che se ne sta col
collo di un cigno in mano e che, per passare alla storia, si lascia ancora piovere
addosso quel freddo schizzo d’acqua in un sito che avrebbe meritato tutt’altro
trattamento.
Il lettore non immagina quanto io abbia cercato di individuare chi mai fossero stati
quei signori a cui era consentito, grazie al censo e al peculio, di gustare quei “rari
boccon”. E mi sono persuaso che nell’Ottocento la borghesia cornetana
sopravanzava sulla comune mentalità di quel tanto secondo cui era “beata quella
casa / dove ci sta la chierica rasa”. Vale a dire laddove s’insediava un chierico con la
sua brava parrocchia - che poi culminava sempre in un arcidiaconato o in una
224
arcipretura - entrava la fortuna, seguita dal prestigio e dall’abbondanza. Specie se si
considera che era invidiato perfino colui che poteva disporre in casa di “una balla di
carbone”. Cosicchè, grazie a questo censo, si potettero realizzare quei palazzotti che
sorsero via via nel quartiere alto del paese con una nuova topologia se non di gomito
a gomito, almeno di strada in strada. E certe casate - di cui il buon Dio ha fatto
disperdere il seme - rispondevano ai nomi di Lucidi, Rispoli, Querciola, Mariani,
Dasti, Boccanera, Avvolta, Ramaccini, Calvigioni, Chiocca, Mussa, Ronca,
Martellacci ecc. ecc. I quali ebbero i loro bravi rampolli che non disdegnavano, sotto
la protezione di così alta autorità ecclesiastica, amori ancillari, a consolazione del
loro pervivace celibato. Ma siccome si dice ancora a Tarquinia che “chi moglie non
ha, moglie mantiene”, quella progenie seminò qua e là i frutti del peccato (tanto per
usare un detto allora in voga), assegnando, per tacitare la loro coscienza, una specie
di lascito o di dote a favore di quelle inavvedute ragazze che si vedevano costrette, a
copertura della loro “vergogna”, a sposare un castaldo o un qualsiasi servo della
gleba, disposto a ubbidire pur di godere il beneficio di un avvenire sicuro. Solo così
si riusciva a legalizzare una prole con moneta sonante o con piccole eredità che,
morto il donatore, non venivano quasi mai rispettate per avidità e dispregio.
Eh, quante strane rassomiglianze si giustificherebbero se si potesse leggere il
“pedigree” nel sangue di ciascuno di noi!
Ritornando alla poesiola su menzionata, quella cioè di odorare “in bocca, di dentro e
di fuori”, fu una vera metafora, perché allora l’acqua si andava ad attingere alle
fontane fuori porta, col boccalone; e col sego, anziché fabbricare in casa il sapone, ci
si nutriva ancor prima che pigliasse di rancido. Perciò dovette trattarsi col paragone
a chi si lavava sì e no nelle feste ricordatore. Che era pur sempre un privilegio. Ma
prendiamo per buona tale considerazione e cerchiamo di intrattenere il lettore sulle
quattro o cinque donne, portate per lingua, come esempio di rottura verso certe
passate costumanze che avevano relegato la donna nel ruolo di animale domestico o
di angelo del focolare. Anche se poi, sotto sotto, certe relazioni e certi sconfinamenti
dalla “routine” venivano appena appena sussurrate a fior di labbra.
Fatto si è che certe donne, in virtù di quel loro modo di vivere o di apparire,
assumevano una specie di nomea che, per volontà propria o per fantasia popolare,
sfociava in vere e proprie invenzioni d’arte che avevano beninteso relazione con il
mondo effimero del teatro. Cosicché sulla fama della “Bella Otero”, a Tarquinia ci
furono la “Bella Ida” e la “Bell’Elena”; come pure sulla scia del cinema, si ebbe una
225
“Dea del Mare” e una “Dea del Petrolio”. Che erano in definitiva gli
scimmiottamente inevitabili di un certo modo di pubblicizzarsi e di pubblicizzare.
La prima donna che colpì la mia fantasia quando ero ancora bambino, piovve a
Tarquinia subito dopo la prima guerra mondiale. Portava un nome esotico, Iovonne,
ed era, a quanto mi risulta, una profuga triestina, sopravvissuto al lungo martirio di
quattro anni di guerra. Aveva una figura nobilmente slanciata, in rapporto alla
statura, biondiccia, coi capelli mossi, la quale avrebbe dovuto abitare, a quei tempi,
in un lato del Convento dei Frati Francescani, adibito allora in parte a luogo di
rifugio e di abitazione per profughi e sinistrati dalle terre chiamate retoricamente
redente. E se si cantava che “le ragazze di Trieste / bacian tutte con ardore”, voleva
dire che una certa verità trovava rispondenza in queste forme di espressione canora,
perché Ivonne fece sanguinare, sia dentro che fuori il Convento, più d’un cuore;
mentre fece traboccare di gioia altri, più fortunati e certamente meno sentimentali.
Al punto che fu una delle prime ragazze, che io ricordi, a farsi ammirare con i capelli
alla “garconne” suscitando riprovazione nell’opinione pubblica e scandalo nelle
ragazze dell’epoca che, se avessero potuto, l’avrebbero emulata in eccesso. Chi
avrebbe osato passare più di una volta sul Corso, sia nello scendere che nel salire?
Chi mai sperato di poter recarsi da sole a un veglione pubblico nel teatro comunale?
E farsi corteggiare apertamente o mettersi addirittura a conversare in istrada con un
uomo? Nessuna. Solo Ivonne che io devo aver ammirata un giorno che stavo
curiosando davanti a un settimanale satirico “Il 420”, fuori della bottega di un tal Di
Giovangiulio: saliva lungo il Corso con un ampio scialle di seta sulle spalle le cui
frange giocavano sul corpo in bramosia di movimenti. Ed era il tempo che si sentiva
cantare dalle finestre aperte, a squarciagola, una canzone che diceva: “Ivonne,
piccolo amor / Ivonne, che bel tesor / la neve è bianca sul tuo casolar... “ Per cui
non so dire se quello fosse veramente un nome d’arte, ispirato a quelle parole e a
quel motivo che era sulla bocca di tutti.
Dopo aver fatto molto parlare e mormorare di sé, Ivonne un giorno scomparve.
Dove, non saprei. Né sanno dirlo persone più informate di me che forse ne avranno
goduto qualche grazia. Emiigrata? Sposata? Svanita misteriosamente così com’era
apparsa, o passata come quella canzone che oggi nessuno ricorda più.
Quando la mia famiglia si stabilì definitivamente in una parte nobile del Palazzo
Quaglia, noi ragazzi potevamo disporre, nell’immenso caseggiato, di un vasto
terrazzo dove passavamo intiere giornate a fabbricare, dentro scatole di cartone, le
scuderie per i saltapicchi catturati in strada, dopo averli assicurati col filo a una
226
delle zampe posteriori; quando non catturavamo con inganno i passerotti dalle
finestre del magazzino affittato ai Draghi, giù a piano terra: oppure facevamo la
vivisezione delle lucertole, dopo averle appese ai lacci degli stenditoi, per scrutare il
mistero del ventre quando lo si vedeva troppo gonfio. Perché la curiosità di
conoscere, di vedere, di sapere ci spronava la fantasia e il coraggio pur di scoprire
nelle bestie l’inconscio problema del sesso. Che non individuavamo mai se non nelle
mosche a cui spremevamo il corpo per vederne sortire un piccolo pungiglione.
S’annidava già in noi qualche malizia che sfogavamo con lo scrivere qualche frase
avventata sui muri col gesso o con un tizzo di carbone per gelosia o per vendetta,
spronati in ciò dal cameriere di Don Ivo, un tal Gian Maria che ci insegnava a
disegnare sulle pareti del cortile bellissimi cavalli rampanti che ci eccitavano e ci
facevano meditare sull’incomprensibile problema della procreazione.
Ma tante curiosità ci si rivelavano via via che ci mettevamo a spiare, dal parapetto
del terrazzo, due giovanissime sorelle che stavano a due passi da noi. Così potevamo
osservarle quando si vestivano, si spogliavano, si pettinavano con le ampie spalle
nude, mentre spingevamo lo sguardo sotto gli omeri su cui poggiavano le sottili
bretelle della sottoveste. Il terrazzo era il nostro osservatorio anche per vedere,
attraverso un oblò della finestra, la sora Maddalena Lucarini che si spidocchiava su
di un panno bianco: o i maneggi di una coppia di fidanzati non appena restavano
soli nella stanza. Sempre di donne si trattava, anche se le due sorelle godevano in
paese di una certa notorietà. Tanto che al primo apparire della moda dei capelli
corti, una si adeguò all’andazzo, mentre l’altra, con maggiore spregiudicatezza, si
fece addirittura tagliare i capelli “alla maschietta” con la sfumatura alta sul collo
nudo e l’orecchio scoperto. Il fascino che ne emanava era tale che un giovane
violinista che dimorava all’ultimo piano del comune palazzo, si sdilinquiva la notte
sulle corde del suo strumento per esternarle, sui motivi delle più belle serenate, un
amore non troppo corrisposto a causa di una deficienza cardiaca che lo costringeva a
starsene come un bicchiere sciacquato. E noi, come la destinataria di tante melodie,
ce le mettevamo ad ascoltare da dietro le persiane. E tutti quei suoni, quei languori
strumentali, lo spasimo dell’archetto che grattava le corde, risvegliavano sentimenti
strani anche in noi che cercavamo di indovinare l’impercettibilità del nostro tempo
puberale.
Ebbene, questa donna emergeva su tutte per “charme” sia nel vestire che
nell’incedere, da far impazzire i giovani di quel tempo. E la consapevolezza di
possedere due spalle bellamente modellate, la consigliava di vestire in modo da
227
essere ammirata da tutti. Ricordo di averla guardata con attenzione nei pressi della
Fontana di Piazza, con un abito di “voile fumé” che lasciava trasparire, oltre gli
omeri, una grossa voglia nera sul lato sinistro. Ed era l’età che i nostri pensieri e i
nostri desideri correvano lontano in groppa alla fantasia.
Di questa donna straordinariamente bella su cui si appuntavano le attenzioni
morbose degli zerbinotti e degli scapoli impenitenti dell’epoca, seppi che, una volta
a Roma, aveva prestato il suo corpo ad un grande scultore italiano, Arturo Martini,
perché la ritraesse in qualche opera da immortalare. Bisogna sapere che Arturo
Martini, venuto entusiasmandosi verso la scultura etrusca, quando la vide, non se la
fece passare sopra come una folata di vento; anzi ne rimase talmente affascinato che
vi cercò ispirazione e motivo per le sue future opere. Cosicché quando gli capitò di
avere fra le mani questa donna favolosa se la fece accoccolare ai piedi per ritrarla
nuda, in quell’atteggiamento così noto ai mercanti che quest’opera d’arte se la
giocano ancora a suon di milioni. Ma se a Roma si doveva parlare di Etruschi, c’era
il passo obbligato di Vincenzo Cardarelli: al punto che dové sorgere una disputa
intorno a questa scultura in terracotta che aveva preso il nome di “Donna al sole”.
Nel corso di quella discussione volò in aria un bicchiere da osteria (prontamente
evitato da Arturo Martini) che andò a fracassarsi contro la parete di una
fiaschetteria, probabilmente di Tito Magri in via Capo le Case, dove Cardarelli si
recava spesso sul far della sera per cenare con due uova al tegamino e un buon
bicchiere di vino dei Castelli. Probabilmente la disputa nacque per acluni
apprezzamenti ironici o sfottori che Martini dovè fare sul comportamento delle
donne etrusche e delle nostre in particolare. Per fortuna la cosa finì lì, senza
strascichi di sorta. Magari con le musonerie che Cardarelli sapeva portare verso chi
non la pensava come lui.
L’altra sorella, meno passionale, ma più avveduta, andò sposa, dopo varie avventure
consumate qui in paese, ad un tenentino capitato a Tarquinia durante le
esercitazioni estive. Fatto sta che entrambe uscirono dal nostro paese senza farvi più
ritorno, nemmeno per un momento, forse timorose di qualche incontro
imbarazzante. E si son perse nella memoria dei più. Si dice che morto un papa, se ne
fa un altro. Perciò scomparsa Ivonne, scomparse le due sorelle, se ne sostituì
un’altra: una ragazza del tutto dissimile dalla prima, soprattutto esagerata nel
truccarsi e nel vestire, con una selva di capelli crespi e neri che le si sollevavano ai
lati del capo come un’acconciatura faraonica. Di gambe un po' tozze ma nerborute,
idolatrata dalla madre che l’accompagnava ovunque con senso di trionfo, aveva
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finito col credere di poter essere in grado, sull’esempio delle dive del nascente
cinematografo (che allora si chiamavano Francesca Bertini, Pina Menichelli, Lyda
Borelli, Maria Jacobini, Elena Sangro, Marcella Albani, Carmen Boni e Rina De’
Liguoro), di emularne più d’una. E siccome quando una donna s’incaponisce, finisce
sempre col raggiungere l’obiettivo prefisso, cominciò a cimentarsi in alcuni provini
dietro la macchina da presa di un cine-amatore, Betto Cervellini. Il quale, per la
verità, qui a Tarquinia fu un vero pioniere. Girava sempre con un trabiccolo e un
treppiede, muovendo a mano la manovella della ripresa convinto di poter
conseguire un qualche successo non solo per il suo coraggio, ma soprattutto per i
copioni che scriveva lui stesso, anche se assolutamente privi di originalità.
Nei films americani, oltre alle galoppate di Tom Mix e alle pistolettate di Buck
Jones, si vedevano spesso le sconfinate coltivazioni di tabacco e di cotone, i pozzi di
petrolio, le pampas piene di mandrie: cosicché Betto Cervellini cominciò a trasferirsi
con la fantasia in America e ad invogliare chissà con quali prospettive future, questa
ragazza che si fece o venne soprannominata “la seconda Ivonne”. E una volta
trovata la prima donna non fu difficile pescare, fra i tanti ganimedi locali, un attor
giovine, disposto ad emulare il fascino di Rodolfo Valentino; di cui si erano diffuse a
macchia d’olio gli scopettoni, le chiome lunghe e imbrillantinate, un certo modo di
socchiudere gli occhi, e soprattutto, certe magliette legate sul davanti con due “pon
pon” che passarono alla storia come “le palle di Rodolfo”. Ebbene, formata la
“troupe”, non c’era che da dare il primo giro di manovella.
Si doveva riprendere una vasta coltivazione di tabacco? Si sopperiva con
un’altrettanta vasta coltivazione di broccoli le cui ampie foglie, ancor prima della
fioritura, potevano dare una sicura simulazione. Erano i primi trucchi del cinema.
C’era da girare la scena di un matrimonio? La “seconda Ivonne” in abito e velo
bianchi, sotto braccio al suo “partner”, usciva da sotto un pergolato di roselline
bianche all’Eden di Bastiano Cardoni, fuori Porta Romana. Si doveva rappresentare
la partenza dalla stazione ferroviaria? Ebbene, da un vagone sur un binario morto, si
preparava l’azione.
Al momento del commiato però accadde l’imprevisto. Il bel ganimede tentò
l’avventura e la baciò sulle labbra, come facevano allora gli attori del cinema. E fu
qui che volò un manrovescio che pose termine alle fortune della casa
cinematografica e dei due attori in erba. Betto Cervellini finì con l’impiantare uno
studio fotografico ma con scarso successo: l’attor giovine si sposò e fece il padre di
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famiglia; e la “seconda Ivonne” salpò per altri lidi, probabilmente verso un’illusoria
Mecca del cinema. Non la si vide più, né di persona e tanto meno in pellicola.
Poi tutte le donne impararono ad essere sempre più vistose, grazie all’evoluzione e
alla civetteria che hanno lievitato le bellezza muliebre; e nessuna sopravanzò l’altra;
perché alla bellezza vera e propria del viso, si sostituirono “lo charme”, “il capriccio”,
“il tipo”, “il sorriso”, “l’eleganza”, “il fascino”, “le gambe”, “il brio”, e tanti altri
attributi che formarono la fortuna delle sartine, dei fabbricanti di cosmetici, dei
parrucchieri. Ogni donna cercò di scoprire nel suo corpo l’aspetto che più la
caratterizzasse; e si confusero le lingue.
Poi ci furono altre donne al mio paese, al cui nome la gente aggiunse il dispregiativo
“accia”, tanto per non venir meno alla tradizione di quella “Santaccia di Piazza
Montanara” alla quale il poeta Giuseppe Gioacchino Belli aveva dedicato addirittura
due strofe.
Ma di esse è bene tacere per prudenza e carità di patria.
Bruno Blasi
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