Partesana KAFKA AGLI OPERAI

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Partesana KAFKA AGLI OPERAI
Kafka agli operai
XXII paragrafi sui racconti di Franz Kafka
Ezio Partesana
Questo scritto è un piccolo manuale per la lettura di tre racconti di Franz Kafka, Indagini di un cane, La tana e Josephine
la cantante, e de La metamorfosi. Sono pagine scritte pensando
a chi sa poco, non presuppongono conoscenze letterarie o filosofiche, e non sono adatte a un concorso accademico; per leggerle basta procurarsi una copia dei racconti di Kafka e un
po’ di tempo.
Come ogni saggio anche questo esprime per metà il personale
punto di vista dell’autore, e solo per il rimanente quanto ci
sarebbe da dire su Franz Kafka. Va dunque utilizzato come le
istruzioni di un frigorifero: può servire leggerle ma non sono
loro a far funzionare la macchina.
La divisione in capitoletti e le poche note a piè di pagine
inserite servono solo a rendere più semplice e chiaro il contenuto. Se oscurità sono rimaste vanno scusate pensando ai limiti di chi scrive e al fatto che non tutto può essere reso
elementare e semplice.
Kafka agli operai è libero: può essere letto, stampato, riprodotto e diffuso in qualunque modo o forma; vi chiedo solo di
non alterare il testo e di evitare tagli, se possibile, e di
lasciare il nome dell’autore.
Chi volesse contattarmi, per qualunque motivo, può farlo
all’indirizzo elettronico in calce.
Un grazie di cuore a tutti.
Ezio Partesana.
[email protected]
2
Continuate pure a ballare, porci. Che c’entro io?
F. K. Diario del 1914
I°
Kafka agli operai sembra faticoso da leggere e lontano dai loro interessi. Parole molto semplici e frasi elementari, quando si susseguono in un suo racconto, diventano un groviglio di domande difficili e riposte nascoste; non si riesce a trovare il punto a partire dal quale tutto si spieghi, la trama si arrotola, i protagonisti non si sa se
siano buoni o cattivi, e nemmeno reali, la confusione regna in un mondo apparentemente così elementare, e dopo aver detto “bello!”, vien voglia di chiudere il libro e
lasciar perdere tutto. Un enigma al giorno non serve a nulla, e perché mai ci si dovrebbe sforzare di mettere ordine negli scritti di uno che sembra faccia apposta a nascondersi? Per questo Kafka sembra inutile agli operai, alla loro esistenza e alle cose
che invece devono comprendere. Ed è un peccato perché nei racconti del ceco1 invece
fu messo un potente veleno contro lo sfruttamento e ancora oggi potrebbe funzionare,
se solo chi ne ha bisogno riuscisse a leggerlo.
Kafka fu un uomo alto, magro e malinconico. Per tutta la vita oscillò, come
una pertica al vento, tra la sensazione di non essere adatto a questo mondo e la fede
nella verità. Non credeva che questa potesse salvargli la vita, ma sperava che conoscerla e raccontarla – scrivere, insomma – potesse donargli un poco di pace. Quando
nel 1917 gli venne diagnosticata la tubercolosi aveva trentaquattro anni. Per altri sette
cercò disperatamente una tregua con la propria coscienza, la società borghese di Praga
e gli obblighi e gli affetti famigliari, sino a che la morte lo colse il 3 giugno del 1924.
Se così tante cose vengono negate agli operai, perché cercare di restituire loro
proprio Kafka? Uno che spaventa e non sembra insegnar nulla di utile? e che se immagina la rivoluzione la vede così:
A tutti i miei coinquilini: Possiedo cinque fucili giocattolo. Sono
appesi nel mio armadio, uno per ogni gancio. Il primo appartiene a
me, per gli altri può presentarsi chiunque. Se si presentano più di
quattro persone, coloro che sono in soprannumero dovranno portare
1
Franz Kafka nacque a Praga il 3 luglio del 1983.
3
i loro fucili personali e depositarli nel mio armadio. È infatti necessaria l’unità di azione, senza di che non si va avanti. Del resto, i
miei fucili sono del tutto inservibili per ogni altro uso, il meccanismo è guasto, il tappo si è staccato, soltanto i cani scattano ancora.
Perciò non sarà eventualmente difficile procurarsi altri fucili come i
miei. Ma in fondo, per i primi tempi vanno bene anche persone prive di fucile. Noi, che siamo armati, al momento decisivo faremo
barriera intorno agli inermi.2
arrendendosi ancora prima di combattere?
II°
L’essere umano passa la vita a salvarsi dalle contraddizioni. Il cervello è una
macchina molto potente che, dai primi momenti dell’esistenza sino alla fine del tempo
a disposizione, cerca di eliminare le divergenze. Non lo fa per vezzo: è nata per questo. L’essere umano ragionando sulla natura e sugli eventi aumenta le proprie possibilità di sopravvivenza, migliora le condizioni nelle quali si trova e risolve i problemi
che deve affrontare. È questa l’esperienza che facciamo e la tecnica funziona; fra i
bambino che impara a non scottarsi le dita con il fuoco della pentola e lo scienziato
che scopre come far volare gli aerei nel cielo c’è solo una differenza di quantità, non
di metodo. Una volta eliminate tutte le contraddizioni dalle nostre percezioni e dai
nostri pensieri, quel che ne risulterà sarà vero, magari non allegro e divertente, ma
certamente vero.
Il malinconico Kafka non la pensava così. Non avrebbe saputo decidersi, probabilmente, su quale destino spettasse all’uomo in terra, ma da ogni pezzetto, anche
minimo, dei suoi racconti si può star sicuri che la contraddizione faccia parte della
verità, almeno per quanto a noi è dato raggiungerla. Il malinconico Kafka chiede agli
operai, che eventualmente lo leggano, uno sforzo apparentemente in contrasto con il
buon senso: accettare la contraddizione, fare esperienza di una cosa e contemporaneamente del suo contrario. Come se dicessimo: l’imprenditore vive del lavoro degli
operai, ma se cessasse di sfruttarli fallirebbe e loro resterebbero disoccupati; senza
lavoro non c’è libertà3. Quindi data la situazione gli operai devono sperare che il loro
2
Franz Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, p.p 697-98.
Sul cancello d’ingresso di un noto campo di concentramento nazista,, Auschwitz, era scritto con lettere di ferro
“Arbeit macht frei”, “Il lavoro rende liberi”...
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padrone li sfrutti bene, abbastanza per la concorrenza capitalista ma non troppo da
farli morire di fame.
Kafka scrisse una volta che, data la situazione, la peggior cosa che un uomo
possa fare è lamentarsi del peccato originale, perché proprio questo lamentarsi è il
peccato originale4. È vero: veniamo al mondo con una certa soglia di dolore e infermità ineliminabili. Ma c’è una sottile differenza tra il dolore che gli uomini infliggono a
se stessi per cattiveria e stupidità, e il dolore che deriva dalla nostra fragilità e dal caso. Una differenza che è sottile, però, solo perché alcuni uomini, coloro cui cattiveria
e stupidità convengono, da secoli pagano zelanti servitori perché venga assottigliata.
È vero, cose terribili accadono: bambini magnifici si ammalano e soffrono atrocemente, una corrente aerea svolta sotto una bassa pressione e migliaia di persone muoiono
travolte da un uragano, salta una guarnizione difettosa e dalle cucine dell’ospizio esce
una lingua di fuoco anziché la colazione. Tuttavia le ingiustizie che rendono la vita
meno felice non dipendono dalle malattie, dagli uragani o da un difetto casuale. Pensare che i limiti ineliminabili dell’essere umano, del suo cervello, del suo cuore e delle
sua anima, siano la causa per la quale viviamo in un mondo stravolto dalle ingiustizie
è il peccato originale; nessuna maledizione leggendaria ci incatena:
Il peccato originale, l’antico torto fatto dall’uomo, consiste nel rimprovero che l’uomo fa continuamente quando afferma che gli fu fatto un torto e che il peccato originale fu commesso a suo danno.5
Cercare di sciogliere Kafka è a volte un’impresa disperata, anche per chi non è
un operaio e di professione proprio questo dovrebbe fare. Ma lo stesso è possibile almeno domandare se accettare la quantità di sofferenza che deriva dalla nostra fragilità
abbia qualcosa a che fare con la lotta contro la quota che dipende invece da altri esattamente come noi...
III°
Nel più noto dei racconti di Kafka un uomo, un commesso viaggiatore di nome Gregor Samsa, si sveglia una mattina trasformato in uno scarafaggio6; s’intende:
4
Cfr. Franz Kafka Confessioni e diari, op. cit., pp. 815-16.
Ibidem.
6
Ho utilizzato, per comodità, l’edizione completa Mondadori dei racconti di Kafka, uscita nella collana Meridiani
nel 1972. Non avrebbe molto senso che io riempissi questo piccolo lavoro di note per ogni citazione, e poiché chi
voglia seguire i ragionamenti di questo personalissimo manuale dovrà comunque aver letto (e temo rileggere di
nuovo) i racconti trattati, eviterò di indicare per ogni citazione il riferimento bibliografico.
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5
molto, molto più grosso dell’insetto che conosciamo, ma per il resto esattamente uguale a quello. È una metamorfosi, cioè un cambiamento completo di aspetto. Dentro
di sé Gregor Samsa si sente, ed è ancora un essere umano, che percepisce, ama e ragiona esattamente come il giorno prima e quello prima ancora e così addietro, ma fuori è diventato uno scarafaggio in piena regola.
In italiano abbiamo più di un termine per indicare il cambiamento e tutti con
sfumature diverse. Diciamo “metamorfosi”, per esempio, quando un bruco diventa
una farfalla, e parliamo di “trasformare” l’acqua in vino nel miracolo che Gesù fece
alla nozze di Canaan. Un amico che non vediamo da tempo può essere “cambiato”
(oppure non cambiato affatto), e poi ci sono “mutazioni”, “evoluzioni”, “stravolgimenti” e via dicendo. In più la nostra lingua, a differenza del tedesco per esempio, usa
assai spesso un verbo connotandolo poi con un aggettivo, per essere più precisi; così
che potremmo anche dire di cambiamenti superficiali o profondi, sostanziali o di comodo, etc. etc. Kafka scrisse in tedesco e noi leggiamo una traduzione. Così è ragionevole domandarsi a che genere di trasformazione si riferisca il titolo La metamorfosi:
una esteriore, di forma e aspetto, o qualche cosa di più sostanziale e profondo?
Il protagonista de La metamorfosi si rende conto poco alla volta, e immaginiamo con quale stupore, che il suo corpo ha gambe e testa e ventre che non sono più
quelli di un essere umano. Non ne prova ribrezzo perché pensa che sia uno stato momentaneo, forse, oppure perché è più concentrato sul da farsi che non sulla bellezza o
sullo schifo del suo nuovo involucro. Per prima cosa cerca di capire come muoversi e
evitare che il suo aspetto inquieti la sorella e la madre, ed è naturale che così si comporti; dopo di che gli eventi precipitano. Ma La metamorfosi è un racconto insolitamente lungo per Kafka, è il fatto eccezionale, il miracolo della trasmutazione di un
essere umano in un insetto enorme, occupa due righe e mezza. Le rimanenti sessantatre pagine della storia descrivono le conseguenze di quella prima, eccezionale, mutazione. Se al principio infatti, il protagonista, nel corpo dello scarafaggio continua a
essere, per così dire, se stesso, col passare del tempo alla trasformazione esteriore segue anche quella interiore. Gregor Samsa sente e pensa sempre più come l’insetto che
è diventato. Le cose intorno a lui cambiano di significato, il comportamento delle persone, che all’inizio occupava la sua mente, scivola lentamente nell’indifferenza, e ciò
che più gli stava a cuore si trasforma in una lontana periferia della sua esistenza.
L’unica leggerezza che mi sono permesso è conservare i nomi tedeschi dei protagonisti di due racconti, quindi
Gregor Samsa resta tale, e la cantante de topi si chiama Josephine, non Giuseppina.
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IV°
Non sappiamo, Kafka non dice, sino a che punto si spinga il processo; verso la
fine del racconto il protagonista muore e una serva, tanto pietosa quanto grossolanamente pratica, fa sparire il suo cadavere prima che i famigliari di Gregor Samsa debbano vederlo ancora una volta e domandarsi che farne di quel corpo smisurato di insetto che un tempo era il loro congiunto. Ma al nostro (ipotetico) operaio lettore qualcuno dovrà pur dire che in questo racconto ci sono due metamorfosi: quella notturna,
improvvisa, della quale non conosciamo causa né svolgimento, e che troviamo già
bell’e compiuta all’inizio del racconto, e un altra, psicologica, interiore, che non giunge tuttavia a compimento, forse perché l’uomo muore prima di diventare in tutto e per
tutto uno scarafaggio.
Filosofi, critici e amici hanno commentato l’opera di Kafka, che era un uomo
buono e debole, e hanno cercato il senso delle sue opere nella sua vita, anche perché i
diari suggeriscono questa strada. Lo scrittore ceco scrisse molto di suo padre, severo e
con molte aspettative, della sorella, pietosa, confidente e lontana al tempo stesso, della
fidanzata, scelta, rifiutata, poi scelta di nuovo e infine abbandonata definitivamente, e
della madre, buona forse, ma che faceva quel che doveva fare senza opporsi né al figlio né al marito. Forse il ragazzo troppo sensibile7 sognò di retrocedere indietro nella
scala evolutiva sino a non essere più altro che un insetto, inabile a qualunque cosa certo, ma proprio per questo libero finalmente dai rimproveri di non essere abbastanza
bravo, capace, adulto, pratico. Ebbe un incubo e lo trascrisse d’un getto, come capita
sempre ai geni, che creano le cose migliori quasi inavvertitamente.
Oppure Kafka non pensava affatto alla sua famiglia né a se stesso. Se uno
schiavo dei nostri tempi trovasse la lingua e il tempo per parlare, anche lui spiegherebbe probabilmente di sentirsi meno di nulla rispetto al petrolio, alle scarpe o alla
legna da tagliare. E in misura minore, rispetto agli schiavi, tutti noi sentiamo di non
essere al nostro posto; un contratto andato a male ci rovina, le ultime notizie sono
peggiori delle precedenti e ogni spazio sottratto al lavoro costa sempre più oblio, umiliazione e degrado. Ce n’è davvero perché ognuno possa sentirsi, in un giorno sfortunato, come un insetto che tutti evitano con disgusto. L’anima sensibile di Kafka ha
raggelato questo sentimento per noi, che adesso possiamo leggerlo e rileggerlo tutte le
volte che vogliamo. Un inutile tormento a gente nei guai.
7
La metamorfosi è del 1912, Kafka aveva a quel tempo ventinove anni.
7
V°
Se davvero Gregor Samsa fosse esistito e una mattina, di soprassalto, si fosse
svegliato trasformato in un immondo insetto, la notizia che il suo incubo fosse solo
una metafora lo avrebbe certo fatto tirare un sospiro di sollievo. Ma non sempre il
“meno male che è solo un sogno” si può dire.
Una cosa è certa tuttavia: di solito gli uomini non si trasformano in scarafaggi
(e neanche le donne), però il racconto di Kafka inizia proprio con questa trasformazione incredibile. Dunque la metamorfosi del titolo è razionalmente impossibile e al
contempo reale. Il fatto è che tutta la letteratura è finzione, procede come se quel che
si racconta fosse vero. Non è quasi mai essenziale che la situazione iniziale, dalla quale si dipanano poi gli eventi narrati, sia vera, ma solo che date le premesse lo svolgimento sia coerente con esse. Bisogna far finta di credere che per davvero Dante sia
sceso all’Inferno, che Marco Polo abbia viaggiato nel regno di Kublai Kahn e che tra
Lucia e Renzo si frapponesse l’invidia e la gelosia di un potente, per potere godere
della Divina Commedia, del Milione e dei Promessi Sposi. Che senso ha questo credulità?
In un manuale, poniamo di meccanica, è descritto il funzionamento di un motore a scoppio: quanto calore produca, quanta energia, cosa serva a farlo funzionare, i
possibili difetti e via dicendo. Se studiamo le pagine di quel manuale, quel che apprendiamo così potrà successivamente essere usato per fare delle cose. Ma se spendiamo una settimana a leggere un’opera di pura fantasia, come la Divina Commedia di
Dante, a cosa potrebbe mai servirci? Una possibile risposta è che le opere di fantasia
sono manuali della lingua, cioè insegnano l’uso delle parole e dunque, di conseguenza, a vedere, pensare e comprendere. Un esempio: “Tizio è il mio datore di lavoro”, è
una frase che raccoglie l’esperienza di un uomo, Tizio, che mi paga per lavorare per
lui, mi dà del lavoro, è il mio datore di lavoro, appunto. Ma se lo stesso rapporto è
descritto scrivendo che “Tizio compra il mio lavoro pagandolo il meno possibile”,
ecco che allora chi dà il suo lavoro sono io, e Tizio solamente quello che se lo compra, perché lui è il proprietario del posto dove si lavora e si produce, e io da solo della
mia possibilità di lavorare non saprei che farmene. La stessa lingua può essere adoperata per capire i rapporti o nasconderli.
La metamorfosi di Kafka è un manuale per scoperchiare la lingua e descrivere
quel che altrimenti non saremmo capaci, abituati come siamo al solito e al convenien8
te, di vedere. C’è però un presupposto che è difficile da mandar giù, ovvero che un
uomo si svegli una mattina trasformato in uno scarafaggio. Se questo accadesse di
frequente, se lo shock della rivelazione “Sei trattato come uno scarafaggio, non come
un uomo” ci colpisse spesso, e restassimo attoniti e senza parole, come si suol dire,
allora il racconto dello scrittore ceco sarebbe una sorta di manuale per trovare le parole a questa verità. Ecco a cosa serve la “credulità” con la quale prendiamo per buono
l’antefatto de La metamorfosi: è una simulazione dove mettiamo alla prova le parole
della nostra lingua, per vedere cosa altro possano dire su quel che abbiamo sotto gli
occhi tutti i giorni e ci sembra ovvio e scontato.
Ma così non è. Un uomo fa in tempo ad abbruttirsi sino al grado più infimo, o
a morire, prima che il suo corpo gli si rivolti contro e lo abbandoni. E Kafka scrive di
cose che non stanno né il cielo né in terra.
VI°
I racconti di Kafka dove i protagonisti siano animali sono tre8: Indagini di un
cane, La tana e Josephine la cantante; - Gregor Samsa, lo scarafaggio, è un uomo trasformato in animale, a rigor di termini, non proprio un animale fatto e finito - e tutti e
tre questi racconti furono stesi tra il 1922 e il 1924, ovvero negli ultimi tre anni di vita
dello scrittore. Per quale motivo mai uno scrittore dovrebbe scegliere di far parlare un
animale al posto di un uomo? In fondo gli animali in realtà non parlano mentre
l’uomo sì...
Noi siamo soliti catalogare quelle storie dove animali si comportano da uomini
come fiabe. Un genere di letteratura cioè adatto ai bambini, un poco fantastica ma moralmente rigorosa, e che “da grandi” non si legge più. Esopo9 era un gran inventore di
fiabe, descriveva il comportamento degli uomini attraverso quello degli animali e tutti
conoscono almeno uno dei suoi racconti. Ma se non si è studenti di greco è assai difficile che da adulti ci si imbatta nei suoi scritti.
8
Non sempre è agevole dire chi sia il protagonista di cosa in Kafka; in un racconto si parla di Sirene, in un altro di
uno strano essere che infesta una casa e rassomiglia a un rocchetto di filo, in un altro ancora di sciacalli che parlano o di una bestiola che è per metà agnello e per l’altra metà gattino. C’è persino una scimmia che diventa un uomo e tiene una relazione in un’accademia scientifica per raccontare la sua trasformazione. Ma in sostanza animali
che parlino in prima persona e siano gli unici a parlare, si incontrano solo nei tre lavori citati...
9
Esopo fu il primo autore di fiabe della nostra tradizione. Vissuto in Grecia nel VI secolo a.e.v, sono a lui attribuite, per esempio, le favole della volpe e dell’uva, oppure quella della cicala e della formica, o ancora quella del
contadino che, per fare uno scherzo, gridava in continuazione “Al lupo! Al lupo!”, facendo accorrere tutta la gente,
e al quale nessuno credette più quando alla fine il lupo arrivò davvero.
9
Qualche altro scrittore prese a far parlare animali al posto di uomini per sfuggire la censura politica10, oppure per ridicolizzare le nostre convenzioni sociali, o per
essere più giocoso e divertente. Ma tutto questo non c’entra nulla con Kafka. Ci sono
molte cose ridicole e comiche in Kafka. Per esempio: le Indagini di un cane sono il
racconto degli sforzi che un cane bastardo compie per scoprire come sia che ad un
certo punto il cibo del quale tutti i cani si nutrano arrivi loro; e c’è una parte dove si
parla di “cani volanti”, tenuti in braccio da facoltose signore in pelliccia che non è
niente male quanto a comicità. Ma in altri racconti ci sono: un agnello che aspetta il
coltello del macellaio, sciacalli assassini e vili, mostriciattoli che infestano le case,
sirene che vogliono solo afferrare e fare a pezzi. Il mondo degli animali di Kafka non
è un universo di favole per bambini, piuttosto un campionario di incubi; e del resto
anche lo scarafaggio Gregor Samsa è un incubo a sé e agli altri.
C’è però un’altra cosa che riguarda l’uomo e gli animali, più crudele ancora e
interessante allo stesso tempo: l’uomo prima di essere umano fu animale, e ancora lo
è, in parte, o rischia di esserlo in certi momenti, di regredire allo stadio di bestia. Non
è difficile trovare in noi stessi – uomini oramai da decine di migliaia di anni – tracce
di quel passato remoto in cui eravamo animali, cicatrici del distacco dalla natura,
quando la nostra specie iniziò a parlare e a costruirsi una seconda natura in cui vivere, e cioè la società. Però l’uomo moderno, civilizzato, evoluto, può essere irresistibilmente attratto dal sogno di regredire a quando era una bestia tra le altre, senza parole e obblighi che non fossero quelli dell’istinto e del piacere. Fuggire da tutto e da tutti, diciamo a volte, scomparire in qualche eremo, e persino dormire per sempre.
L’uomo prova, di fronte alla fatica della sua esistenza sociale, la nostalgia di quando
faceva parte della natura come un animale, rimpiange un’era in cui, cioè, in fondo
come uomo non esisteva ancora.
È questo il tempo dei racconti di Kafka11, una sorta di zona grigia dove tutto
quel che fa parte della nostra società è incerto e revocabile. Chi ha il potere esercita il
potere, ma in modo così confuso e inspiegabile che sembra quasi che il Potere si eserciti da sé, distaccato dagli uomini e a loro indifferente – e siamo ne Il castello. Anche
la giustizia esiste ma è cieca, poiché solo gli uomini hanno occhi per vedere, non i libri della legge né le aule dei tribunali, e ne Il processo è come se l’intera nostra civiltà
10
Per farsi un’idea si può pensare alla Fattoria degli animali di George Orwell, dove i diversi rapporti sociali sono
descritti sfruttando le caratteristiche degli animali di una ipotetica fattoria...
11
A scanso di equivoci, e per gli accademici petulanti, dichiaro volentieri che questa è un’idea del filosofo Walter
Benjamin, non mia.
10
svanisse negli afosi corridoi delle aule di giustizia, lasciando a tormentare K., il protagonista, soltanto vuoti e crudeli fantocci. Kafka scrive da un punto di vista assurdo: il
nostro stesso punto di vista e contemporaneamente quello di un universo dove la razza umana non si è ancora evoluta. Nei tre racconti dei quali ragioniamo allora, gli animali parlano al posto degli uomini perché, in effetti, gli esseri umani non esistono
ancora, o non esistono più, il che è lo stesso, ma restano le loro tracce: domande, paure, comunità e voce. E chi legge si trova catapultato in una dimensione folle, dove c’è
tutto il male delle nostre vite e nessuna di quelle potenze che potrebbero, forse, limitare il dolore.
La metamorfosi è la cronaca di un ritorno alle origini, un viaggio nel tempo.
Un uomo che ripercorre all’indietro, per miracolo, la strada che ha percorso per diventare quel che è, educato, intelligente, responsabile. Ma il ritorno fallisce, e si ritrova a
essere non un libero animale, bensì un insetto disgustoso. La metamorfosi è il racconto di come quell’istinto che ci coglie a volte di scomparire e perdere coscienza, non
possa essere seguito. La trasformazione fallisce, il sogno va a male. Alla fine Gregor
Samsa resta prigioniero a metà strada: brutto come uno scarafaggio e infelice come un
commesso viaggiatore.
VII°
Franz Kafka era un ebreo, faceva cioè parte di un popolo da secoli rinchiuso e
integrato allo stesso tempo. Gli ebrei del tempo di Kafka parlavano la lingua delle nazioni nelle quali vivevano ma conservavano anche la propria o, quando questo divenne un difficile privilegio di pochi colti, s’inventarono un dialetto fatto con tutti i dialetti e le lingue che conoscevano12. Erano integrati nella vita economica dei paesi che
li ospitavano, prestavano servizio militare, a volte persino assurgevano a posizioni di
prestigio e comando all’interno della pubblica amministrazione. Ma al tempo stesso si
riconoscevano tra di loro come una comunità separata, fratelli con un destino comune,
uomini e donne con delle cose da fare insieme. Naturalmente l’Antico Testamento
della Bibbia, che gli ebrei chiamano Torah13, ebbe gran parte in tutto questo; Dio fece
un patto con gli ebrei all’inizio della storia, e la Bibbia è la storia, la ragione e il modo
12
È lo yiddish che fu parlato soprattutto dagli ebrei dell’est Europa. La parola yiddish si può trovare scritta in modi
differenti nei libri, ma è sempre la stessa cosa; del resto anche in yiddish alcune parole si possono scrivere in modo
differente.
13
O Torà... La parola significa “insegnamento” o “legge” e comprende i primi cinque libri dell’Antico Testamento
cristiano (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio); per questo è anche chiamata Pentateuco e cioè appunto in greco “cinque (astucci o contenitori per) libri”.
11
di mantener fede a quella promessa. Dai diari di Kafka sappiamo che questo significò
molto per lui. Forse gli parvero in una qualche misura simili il suo essere sempre a
disagio tra gli altri uomini e la secolare storia di un popolo che a disagio lo era tra gli
altri popoli, o loro con lui.
Se Kafka fosse stato un generale o un capitano d’industria tutto ciò farebbe
parte solo della sua biografia. Ma poiché fu uno scrittore, cioè un uomo che lavora
con le parole, l’universo delle immagini, dei nomi e delle idee nel quale si mosse costituisce il senso di quel che è scritto. Non si tratta di interpretare, di dire per esempio:
Ecco, Kafka era ebreo, dunque quando scrive “legge” bisogna intendere “Torah”, perché in ebraico Torah significa appunto ‘legge’. È piuttosto un’operazione simile a
quella di chi trovasse una lettera chiusa in una bottiglia lungo la spiaggia. In che lingua è scritta? – si chiederebbe per prima cosa e poi: Com’è il mondo dal quale proviene? Chi ci abita e cosa temono o sperano quegli uomini?
Kafka è il signore degli enigmi, domande alle quali sarebbe importante rispondere ma che sono poste in modo tale che anche solo riuscire a capirle sarebbe già
una metà della soluzione, ma fu capace anche di giudizi chiari e senza inganni. Nel
1918, anno in cui gli fu diagnosticata la tubercolosi che lo avrebbe ucciso, Kafka lascia un’annotazione nei suoi diari:
Noi fummo creati per il paradiso, il paradiso era destinato a servirci.
Il nostro fine è stato mutato; ma nessuno ha mai detto che sia mutato
anche il fine del paradiso14.
L’uomo fu creato per la felicità, e fu dato lui il luogo perfetto a questo fine: il paradiso. Ora lo scopo dell’esistenza è cambiato, è stato cambiato, ma da qualche parte il
paradiso continua a essere in attesa del nostro arrivo.
Non ci si può nemmeno consolare con una frase del genere, un rimpianto più
che una speranza, e un rimpianto per il paradiso perduto reso ancora più amaro dal
fatto che quel luogo di delizie è ancora là, in attesa di servirci da casa. Non sappiamo
nemmeno da chi, o perché, il nostro fine fu mutato, né quale sia adesso che non è più
il paradiso.
Nella tradizione ebraica il paradiso non ha un gran posto. La parola stessa è
greca e prima ancora iraniana, e significa “giardino”, niente altro. Tutte le religioni
hanno i loro luoghi di grazia e un premio per il fedele o per chi, semplicemente, si
14
Questa nota si trova nel terzo degli Otto quaderni in ottavo. Cfr. Franz Kafka, Confessioni e diari, op. cit,, p.
732.
12
comporta bene. Nel patto tra Dio e il popolo ebraico ci sono molte promesse di terre
meravigliose e progenie infinite, ma si dice poco o nulla di un luogo dove alla fine dei
tempi i buoni vivranno in perfetta armonia. Quando se ne parla è per dire: “Veniamo
da lì”, ma non si discute nemmeno se ci sia un modo per farci ritorno; la via
all’indietro è preclusa. Il paradiso come luogo celestiale dove siederanno i beati dopo
il giudizio universale è una tradizione cristiana; premi e punizioni per gli ebrei riguardano il futuro terrestre, non una vita dopo la morte, e Kafka era ebreo. La cosa più
simile al paradiso dei cristiani, al gran premio finale ai giusti che siederanno in coro
con gli angeli, che hanno gli ebrei è il Messiah, che arriverà prima o poi a salvare il
popolo di Israele dalle sue disgrazie. Ma quando si dice che dopo il suo avvento la
terra sarà un paradiso per gli ebrei, non si disegna affatto un paradiso celeste, ma solo
la fine terrena delle pene. Kafka usa parole di due fedi per dire un’unica cosa: non
siamo stati creati per il male ma per il bene. Purtroppo l’ordine della creazione non
vale più; esiste ancora il bene e sarebbe adatto a noi, a nostra disposizione, ma
Il nostro fine è stato mutato.
La chiave dell’enigma è nell’unica frase che non parla del paradiso ma bensì di noi.
Le ere geologiche di Kafka si srotolano di fronte al presente per raccontare come sia
che non siamo più quel che eravamo.
VIII°
La colpa è sempre di qualcuno. Perché non dire allora chi ha mutato il fine
dell’uomo e perché lo ha pervertito? Ci sono dei momenti nei quali è importante sapere chi sia il nemico, individuarlo, difendersi e attaccare. Ma quando sembra che la realtà stessa sia il nemico ed è ridicolo, non serve a nulla fare tre o quattro nomi e prendersela con quelli. Dire che il mondo è ingiusto e indicare chi ci guadagna e chi ci
perde è serio e utile. Ma è anche pericolosamente vicino a dire che va tutto bene così,
che basterebbe non ci fossero i cattivi e vivremmo nel migliore dei posti. Invece
fummo creati per il paradiso e l’abbiamo perduto. Non va bene così com’è il mondo, e
non basterebbe che tutti fossero un poco più buoni per renderlo migliore. C’è qualcosa
di fondamentalmente sbagliato in noi.
“Non riesce a farsene una ragione”, si usa dire in malo modo e con tono di superiorità di chi ha subito una perdita, per esempio, o ha fallito un amore e non si rassegna. Si comanda di imparare a “farsi una ragione” delle cose che fanno male sem-
13
plicemente perché esistono di fatto, sono reali, “così e non altrimenti”. Ti sei svegliato
una mattina da una notte particolarmente agitata e hai scoperto di esserti trasformato
in uno scarafaggio? fattene una ragione, dove “ragione”, in questo caso, è sinonimo di
“accettare la realtà”. Insomma: questo mondo è l’unico mondo possibile. Si prende
atto, come vorrebbero tutti i potenti della terra, che l’uomo non è più destinato al paradiso. È vero: tuttavia era destinato al paradiso e il paradiso era fatto per lui. Dunque
almeno nel passato questo non fu l’unico mondo possibile. In una società dove grandi
forze sono impegnate a cancellare qualunque idea, o ricordo, o sogno, possa servire
per giudicare il presente e prenderne le distanze, il rammarico del “non sarebbe dovuta andare a finire così” tiene viva la speranza. Kafka a suo modo è stato un rivoluzionario.
È possibile raccontare il male per come lo si è visto, descriverlo con precisione
e senza tralasciare nulla. Kafka usa parole semplici come riferisse di una festa di
compleanno o una gita al mare. Ma qualcosa dei suoi racconti e dei personaggi che li
popolano fa pensare più a un gioco di forze enormi e primordiali, che prendono ora
una forma e ora un’altra, piuttosto che al resoconto di un’avventura. In questo modo il
presente sicuramente sfugge. Se qualcuno volesse imparare qualcosa sulla città di
Praga all’inizio del secolo XX leggendo Kafka rimarrebbe deluso. Ma in compenso la
verità di Gregor Samsa, metà uomo e metà scarafaggio, non può essere scalfita dicendo che in realtà le cose non vanno poi così male, oppure prospettando un nuovo e miracoloso progresso della tecnica medica che potrebbe restituire al povero commesso
viaggiatore il suo corpo d’uomo. È un guadagno e una perdita al tempo stesso. I racconti di Kafka non possono essere usati per cambiare il mondo, e forse neppure per
interpretarlo, ma per farsene venire la voglia sì.
IX°
Due esseri si guardano di lontano. Entrambi sono, a modo loro, mal messi.
Forse per tutti e due la fine è vicina, certo non sono giovani né nel pieno delle proprie
forze. Non riescono a parlare, non ne sono capaci. È la storia di un incontro mancato.
Ma in un momento uno dei due osserva l’altro mezzo assopito e immobile, e pensa tra
sé:
Saresti forse un mio compagno a modo tuo? E ti vergogni perché
tutto ti è andato male? Guarda, a me è accaduto lo stesso. Quando
sono solo ne piango: vieni, in due è più dolce piangere.
14
Chi parla così, anzi chi riflette e invita così, è un cane. È il protagonista nonché voce
unica delle Indagini di un cane, il racconto che Kafka scrisse, e abbandonò incompiuto, nel 1922. La storia è presto detta, perché non ci sono molte vicende da raccontare
qui. Un cane, un normalissimo cane, si dà allo studio e come oggetto delle sue ricerche sceglie il cibo, da dove provenga e cosa si debba fare per ottenerlo. Durante i suoi
studi gli capitano strani incontri, due principalmente: un gruppo di cani danzanti e un
cacciatore, canide anch’egli. Arriva sino a privarsi volontariamente del cibo, a soffrire
la fame e rischiare di morire d’inedia, pur di rivelare il segreto del quale è in cerca,
ma fallisce. Dopo di che il racconto si interrompe per non proseguire più.
Gli essere umani sono in grado di provare molti sentimenti diversi, probabilmente anche gli animali possono farlo, alcuni almeno sembra, dall’espressione del
volto, che lo facciano proprio come noi. Viviamo in un mondo paradossale: mentre la
produzione diventa sempre più impietosa e insieme ai meccanismi dello sfruttamento
si oliano anche i fucili, sul mercato dell’immaginario nulla si vende di più che i sentimenti e le emozioni. In televisione, per esempio, trionfano quei programmi che ne
fanno esibizione, vera o simulata che sia, gli scomparsi, i grandi fratelli, amicizie e
sfide, delitti. E se è di politica che si discute, o di qualche altro argomento, allora bisogna essere capaci di parlare per slogan e frasi fatte, avere la battuta pronta, far paura
o ammiccare, ed essere brevi, soprattutto essere brevi. In questo modo ci si guadagna
la patente di “grandi comunicatori”, di personaggi adatti al dibattito televisivo . Il pudore non va più di moda, a meno che non possa essere spacciato come backstage del
calendario di una qualche graziosa vedette dello schermo. Ma più un sentimento è
comprato e venduto meno dà soddisfazione, e da capacità di immedesimarsi nel dolore o nella gioia altrui si fa merce, e come le altre merci vale solo il tempo necessario a
produrlo. Per questo servono dosi sempre più massicce, per rimpiazzare con la quantità la qualità.
Un uomo decente deve essere capace gioia e di dolore, e di condividere con gli
altri la propria felicità o infelicità, così come gli altri la dividono con lui. Ma essere
felici può diventare imbarazzante, come sedersi a un banchetto mentre tutto intorno
donne e bambini muoiono di fame. Quando è presente una grave minaccia, parlar
d’altro o nascondersi e aspettare che passi la bufera, diventa una colpa. Come scrisse
un filosofo tedesco, posso parlare della bellezza degli alberi a patto che questo non
significhi tacere su tutto il male che c’è in terra. Se si smette di lottare per la giustizia
anche la bellezza diventa un bene che serve a nascondere l’ingiustizia.
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Se una frase così commovente come quella sopra riportata vien messa in bocca
a un cane però, la possibilità che un sentimento di calore e tenerezza serva a distrarre
dalle ingiustizie è minore. Così il “vieni, in due è più dolce piangere” non è un invito
a piangersi addosso purché a due a due, ma appunto, letteralmente, la riflessione di un
cane, che ha ben poco da dire sul resto. Una bestia può far tenerezza, ma le sue emozioni non potranno mai soddisfare la povertà di spirito nella quale viviamo noi. Kafka
evita il rimprovero di solidarizzare solo con le cose belle e non anche con il dolore
degli altri esseri umani, lui che è uno scrittore e dunque uno che cerca il bello con le
parole, usando un espediente antico: non i saggi dicono la verità al re, ma i buffoni. E
a noi non i padroni degli animali, ma i loro stessi cani.
X°
Se La metamorfosi è il tentativo fallito di ritornare al punto di partenza, dove
uomo e animale non si distinguevano, le Indagini di un cane sono il resoconto di quel
che l’uomo ha perso separandosi dalla natura ed entrando nel mondo storico e sociale.
È da una lontananza abissale che questo cane (del quale non sappiamo il nome, ma del
resto i cani ricevono un nome solo dal loro proprietario) ci parla. Al posto di un passato remotissimo potrebbe persino essere un futuro altrettanto remoto dal quale ci giungono le sue riflessioni, e non farebbe differenza. Non conta che i pensieri del cane
siano venuti prima di noi, come se ci potessero spiegare a causa di questo essere venuti prima qualcosa di noi. È la distanza dal nostro mondo l’essenziale. Kafka strappa il
linguaggio all’uomo e lo presta a un cane e poi sta a guardare. E questo cane è un cane del tutto normale. Parla di sé e del suo popolo e delle sue indagini sull’origine, o la
fonte, del nutrimento dei cani. Non è un rivoluzionario il nostro scienziato a quattro
zampe, confessa di non voler immischiarsi davvero nella scienza della nutrizione canina. Non andrebbe bene come “esperto” in un dibattito televisivo. Si accontenta del
senso comune. Ecco un lunga citazione dal racconto:
A me basta il compendio di ogni scienza, la regoluccia con la quale
le mamme staccano dal seno i piccoli e li mandano nel mondo: “Bagna tutto ciò che puoi”. Non vi è forse contenuto quasi tutto? [...]
Certo abbiamo anche altri ripieghi, ma in caso di bisogno, se le annate non sono troppo cattive potremmo vivere di questo principale
alimento che troviamo sopra la terra, la quale poi ha bisogno della
nostra acqua, si nutre di essa e soltanto a questo prezzo ci dà il no16
stro cibo, la cui produzione – non bisogna dimenticarlo – può anche
essere affrettata con determinate formule, con canti e gesti.
La comicità non è affatto involontaria. Gli esseri umani non compaiono mai in questo
racconto, ma è evidente che il nostro cane, come tutti i cani del mondo, mangia il cibo
dalla ciotola del padrone. Solo che non lo sa e pensa, o crede, che il cibo venga direttamente dalla terra, a patto che la si innaffi, ovvero si faccia pipì il più spesso possibile, come fanno tutti i cani per segnare il territorio. Esistono anche “altri ripieghi” (forse andare a caccia o rovistare nei bidoni della spazzatura), ma se non succede nulla di
straordinario ai cani basta il cibo che dà loro il padrone. Al massimo si può dire che
uggiolando, saltando in su e in giù o abbaiando la produzione di cibo “può essere affrettata”.
La scienza cui questo cane si dedica per tanto è frutto di un inganno: Kafka
lascia che questi animali prendano il cibo dall’uomo ma al tempo stesso lo fa sparire
dal loro orizzonte. È una contraddizione: chi non esiste non può dare da mangiare, se
c’è il cibo per tanto qualcuno lo produce. Ma il cane del racconto cade in trappola una
seconda volta: ritiene, e con lui tutti gli altri cani, che sia l’urina sparsa per terra a far
sorgere da questa il cibo.
Siamo dunque di fronte alle riflessioni di un cane che non vede la realtà e crede ciecamente nei miti e nelle leggende, o almeno su quelle si dà a riflettere. E tuttavia il racconto non è l’amara constatazione di quanto gli uomini si lascino prendere in
giro dalle bugie e dalle frottole dei potenti, proprio perché è un cane che parla e non
c’è una sola parola che inviti chi legge a sostituire ‘cane’ con ‘pover’uomo’. Gli esseri
umani, dicevamo appunto, sono scomparsi indietro o avanti nel tempo.
XI°
Ci sono alcuni luoghi del racconto dove l’ironia di Kafka lascia intuire che gli
esseri umani ci sono eccome, e da loro proviene il cibo per i cani. L’indagatore discorre per esempio, come già detto prima, dei cani volanti, barboncini in braccio a
ricche e impellicciate signore, o di come il cibo, che pure è generato secondo il sapere
canino dalla terra, scenda per lo più dall’alto, gettato da mano d’uomo si suppone. Ma
per una curiosa cecità i cani quella mano non la vedono.
Perché? Con Kafka è sempre forte la tentazione di interpretare tutto come una
metafora; i cani sarebbero gli uomini che si affaticano in una vana e ridicola ricerca
senza riuscir a vedere un palmo al di là del proprio naso, o della propria bocca in que17
sto caso, e la verità starebbe invece in una vita spirituale. Vero. Ma perché allora è
proprio un essere che, al contrario di tutti gli altri suoi simili, si getta anima e corpo in
un’impresa intellettuale a fallire più miseramente?
Se il tono comico di tutto il racconto ci porterebbe appunto a farne una sorta di
ironica presa in giro del gregge umano, ci sono almeno tre elementi serissimi che
paiono esser fatti apposta per spiccare dal contesto: le riflessioni sui cani in genere,
sul popolo dei cani, sui suoi pregi e difetti, e due incontri piazzati l’uno all’inizio e
l’altro alla fine delle vicende narrate in primo persona dal cane indagatore.
Il primo incontro avviene quando il protagonista è ancora un cucciolo. Come
sovente si legge in Kafka, qualche volta persino con un certo fastidio, l’evento è presentato con due frasi l’una la negazione dell’altra:
...devo dire che qualcosa di straordinario accadde davvero venendo
a confermare le mie smodate aspettazioni. In sé non era nulla di
straordinario, in seguito ho visto fin troppe volte cose simili...
È una specie di tecnica “straniante”: si presenta un fatto come eccezionale e come assolutamente comune al tempo stesso di modo che chi legge sia costretto, in un certo
senso, a tener presenti entrambi i punti di vista quando apprende i fatti. Come se di un
incidente si desse conto alternando le frasi di testimonianza di un guidatore con quelle
dell’altro, e chi ascolta non potesse di conseguenza credere ciecamente a nessuna delle due. Ma poi ecco che l’evento è a suo modo davvero straordinario: sette cani saltano fuori dal buio alla luce e cantano. È la prima e l’unica azione non canina che i cani
compiano in questo racconto. Ed è un “canto”, spiega Kafka, assordante eppure fatto
più di silenzio che di voce, di una musicalità innata ma che si manifesta con passi di
danza piuttosto che con suoni.
Non solo, ma questi sette “grandi artisti” trasgrediscono ben due inviolabili
leggi della comunità canina: si alzano sulle zampe posteriori durante il loro canto/balletto e, cosa forse ancora più sacrilega, non rispondono quando interrogati.
Ci vorrebbe un paranco per tirarci fuori dai meandri in cui questi passi del racconto di Kafka ci cacciano, così tante le domande che non vale neanche la pena di elencarle, ma si lasciano riassumere in: “Che cosa significa tutto questo?”.
Le Indagini di un cane si concludono, a rigor di termini, con il protagonista
che decide di allargare le proprie indagini “alla musica dei cani”, ma in effetti si tratta
di poche righe, due pagine appena, e poi il testo si interrompe. Poiché molti scritti di
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Kafka sono incompiuti non è il caso qui di dare particolare valore a questa interruzione tra decine di altre, come se il “canto” dei cani avesse inchiodato non solo il cane
del racconto ma anche l’autore Kafka. E tuttavia è il secondo canto, quello di un cacciatore, che convince il protagonista ad allargare le due indagini alla “musica dei cani”. E in un certo qual modo ogni interruzione è anche un finale che dice: Da qui in
oltre non si può più andare avanti. Certo è un finale esterno alla fiaba, ma chi ha detto
che ogni racconto debba restare conchiuso all’interno della finzione?
XII°
Il secondo decisivo incontro avviene durante, anzi per meglio dire alla fine,
del tentativo di digiuno. Disperato dal nulla di fatto dei suoi esperimenti il cane indagatore decide di compiere un tentativo estremo e semplicemente di digiunare; se morisse di fame allora la scienza dei cani sul cibo sarebbe confutata, forse. Quasi allo
stremo delle forze perde i sensi e quando li riacquista vede innanzi a sé “un cane bello”. È un cacciatore e chiede al cane indagatore di andarsene. Ecco la parte centrale
del dialogo:
“Chi sei?” domandai?
“Sono un cacciatore” rispose.
“E perché non vuoi lasciarmi qui?”
“Mi disturbi. Non posso cacciare se stai qui.”
“Prova” dissi. “Può darsi che tu riesca ancora a cacciare.”
“No” replicò lui, “mi dispiace, ma devi andar via.”
“Rinuncia per oggi a cacciare!” lo pregai.
“No” rispose, “devo cacciare”.
“Io devo andar via, tu devi cacciare. Sempre doveri. Riesci a capire
perché dobbiamo?"
“No” rispose, “e non c’è niente da capire, sono cose ovvie e naturali.”
[...]
Non dissi altro perché m’accorsi [...] da impercettibili particolari che
fosse nessun altro avrebbe potuto notare, come il cane si preparasse
a cantare dal profondo del cuore.
“Tu canterai” gli dissi.
“Sì” rispose serio serio “canterò, presto, ma non ancora.”
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“Stai già cominciando.”
“No” ribatté “non ancora. Ma Preparati.”
E il cacciatore si mette a cantare “senza saperlo”, come se la melodia si staccasse da
lui e prendesse vita propria. Dopo di che il cane indagatore si alza in piedi, nonostante
sia sull’orlo dell’agonia, e vola via “spinto dalla melodia, con balzi stupendi”. Fine
del racconto. Che cosa significano il canto dei sette cani e quello del cacciatore?
La musica è un’espressione priva di utilità pratica: non rende fertile la terra,
non protegge dal freddo, non si guarisce l’infermo col canto né la melodia apre una
via di fuga in caso di pericolo. Il mondo dei cani di Kafka è invece dominato dalle
pratiche volte a ottenere risultati tangibili, come l’urina che feconda la terra che poi, a
sua volta, dà nutrimento ai cani. È una forma magica di concretezza però, come quando i nostri antenati compivano riti sacrificali per assicurarsi che tornasse la primavera
dopo l’inverno, o incidevano le immagini delle prede sui muri delle caverne per propiziare la caccia. Dal punto di vista pratico, insomma, i cani di Kafka e i nostri lontani
antenati si comportano allo stesso modo.
La scienza oggi disprezza quelle pratiche e se ne tiene lontana. Lo sviluppo
della tecnologia ha sbaragliato qualsiasi concorrenza ed è a essa più che alla preghiera
che affidiamo il nostro futuro. Tuttavia questo non elimina il bisogno e gli uomini
continuano a cercare anche le risposte a domande che la scienza non può porsi; domande sul dolore, la solitudine, l’esistenza e la morte. Noi chiediamo il “senso” e la
scienza non può che rispondere che “è così e basta” – incroci di cellule, non un senso.
Il cane cacciatore sa la verità: il nutrimento dei cani viene dalle mani dell’uomo, a
meno che non si facciano cacciatori. Ma in Kafka tutto è rivoltato al contrario: il cane
scienziato non vede al di là del proprio naso la ciotola che qualcuno gli riempie, e si
affida a rituali magici e leggende, mentre il cane che canta, l’artista, è concreto ed efficace, va a caccia. Nell’universo dei cani la scienza è superstizione e il canto, al contrario, reale. Ma che cosa lega il canto e la caccia? Perché il cane cacciatore è quello
che canta? E come mai durante questo canto il cane scienziato, benché moribondo, si
alza e se ne corre via come fosse perfettamente in forma?
XIII°
La musica è l’arte più antica, e la più astratta. Il suono dei tamburi, o meglio di
qualcosa che possa essere percosso con le mani o un bastone, precede le parole e anche i disegni alle pareti delle caverne, come il ritmo del cuore della madre è la prima
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cosa che le orecchie dell’uomo non ancora partorito ascoltano quando cominciano ad
aprirsi. E se il disegno di un animale imita l’animale reale, i colpi del legno sul tronco
cavo risuonano invece di forza propria, senza pretendere di rassomigliare a nulla. Si
danza sino all’estasi o allo sfinimento con la musica, e non serve a nulla; è una specie
di accordo primordiale che risuona dentro di noi, senza che lo si voglia o lo si sia cercato, più primitiva di qualunque altra arte.
Il cane cacciatore di Kafka che canta, viene dunque da un tempo remoto, nel
quali i cani non erano ancora cani, proprio come il commesso viaggiatore Gregor
Samsa regredisce a uno stadio in cui gli uomini non erano ancora uomini. Un’altra
volta ancora Kafka ci trascina indietro nel tempo, là dove stanno forse le nostre origini
Ci fu un momento in cui tutti i cani non erano ancora cani, e andavano a caccia come lupi per procurarsi il cibo e cantavano. Ma la tentazione di diventare cani era
così forte che prese il sopravvento:
Quando si sviarono i nostri avi non pensavano neanche che fosse
uno smarrimento senza fine, vedevano ancora, diremo così, il crocicchio, era facile tornare indietro in qualunque momento e se esitarono a tornare indietro lo fecero soltanto perché vollero godere ancora per un poco la vita canina [...] E così continuarono a sviarsi.
Non sapevano [...] che l’anima si muta prima della vita...15
Quando i lupi divennero cani si sviarono, persero la capacità di cacciare e il canto, e
in cambio ebbero la sicurezza del cibo e una scienza ridicola sul come procurarselo. E
gli esseri umani?
Un cane curioso vuole sapere da dove traggano il cibo i suoi simili, e scopre
invece il canto, cioè la preistoria della sua specie. Insieme avrebbe anche a portata di
mano la risposta alla sua domanda, e cioè che i cani si procurano il cibo andando a
caccia, ma non è più così. Era vero un tempo e adesso non lo è più. Per gli esseri umani vale lo stesso destino: vengono al mondo e li aspetta una società dove non è possibile cantare e non si sa da dove venga il cibo con il quale ci nutriamo. E non c’è una
via di fuga, un modo di tornare indietro all’origine e correggere l’errore. E chi ci provasse nonostante tutto, si sveglierebbe una mattina trasformato in uno scarafaggio. Il
cane indagatore del racconto di Kafka cui prova, ma la scienza canina, fatta di leg15
I corsivi sono miei, così come una piccola correzione che mi sono permesso di apportare alla traduzione del
testo in italiano.
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gende ingenue e paradossali, non lo aiuta, e la sua stessa natura oramai è sviata. Solo
quando si decide a un ultimo, estremo, tentativo (digiunare sino alla morte), sfiora,
scoprendo il passato comune di tutti i cani, la risposta, ma è una verità vecchia, poco
più di un frammento che non coglie, le tracce di un sogno:
Posso capire il tentennamento della mia generazione, non è più neanche un indugio, è l’oblio d’un sogno sognato mille notti or sono e
mille volte dimenticato: chi ci terrà il broncio proprio per il millesimo oblio?
L’errore fu commesso una prima volta lasciandosi sedurre a una vita da cani, perché
quel che i nostri antenati non sapevano è che:
l’anima si muta prima della vita.
Quel che decide dell’anima, detto in altro modo, non è lo Spirito Santo, ma la vita che
facciamo; basta poco, un piccolo male, e ci ritroviamo tutti come il cane scienziato a
girare in tondo in dedalo di buffe e tragiche sciocchezze. E tuttavia delle eccezioni
sono possibili: sette cani che danzano e un cacciatore che canta. Fanno cose che nessun altro fa, trasgrediscono la legge, i costumi e le abitudini dei cani. Vanno a caccia
della propria anima negli unici due modi possibili per Kafka: l’arte e la lotta.
Come talvolta accade nei racconti lunghi e nei romanzi incompiuti dello scrittore ceco, sono poche frasi che si staccano dal contesto, dall’andirivieni di paradossi e
battute, a illuminare il senso.
Quando si sviarono i nostri avi non pensavano neanche che fosse
uno smarrimento senza fine, vedevano ancora, diremo così, il crocicchio, era facile tornare indietro in qualunque momento e se esitarono a tornare indietro lo fecero soltanto perché vollero godere ancora per poco la vita canina [...] E così continuarono a sviarsi. Non
sapevano [...] che l’anima si muta prima della vita...
E come potrebbe l’anima sviarsi prima della vita, se non fosse lo spirito il risultato di
un lotta nella vita per averla un’anima?
XIV°
A cavallo tra il 1923 e il 1924, mentre si trasferisce a Berlino e convive con
Dora Dymant, la sua ultima compagna, Franz Kafka scrive un racconto che lascia
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senza titolo, ma che noi troviamo edito quasi sempre come La tana. È la storia di un
animale e della sua tana, anzi il monologo ininterrotto che un animale fa intorno a sé e
al proprio rifugio. Il testo ha il tipico andamento “kafkiano”: a ogni frase segue immediatamente un’altra che la corregge, la modifica, poco o tanto, e la inverte di segno,
poi di nuovo si torna all’affermazione precedente ma detta in un altro senso, e via così
all’infinito. In mezzo a tutti questi vortici compaiono come isole degli sprazzi di parole dure e secche, che nessuna seconda frase smentisce:
E a minacciarmi non sono soltanto i nemici di fuori. Ce ne sono anche nell’interno della terra. Non li ho mai visti, ma ne parlano le
leggende e io ci credo fermamente. Sono esseri sotterranei e nemmeno la leggenda è in grado di descriverli. Persino le loro vittime
sono riuscite appena a vederli; essi vengono, si sente il raspare dei
loro artigli immediatamente sotto di sé nella terra che è il loro elemento, e già si è perduti.
Per il resto il racconto prosegue quasi monotono sino alla metà circa dove
l’animale inizia a percepire un sibilo, indistinto, saltuario, eppure costante, e da qui in
poi il testo narra solo di questo sino a che, come nel caso delle Indagini di un cane, si
interrompe incompiuto.
Kafka non dice quale sia l’animale che qui ragiona tra sé e sé. Poiché si è costruito una tana e passa il tempo a migliorarla – o almeno nel provare il desiderio di
migliorarla -, a preoccuparsi dei nemici e dei pericoli, a riflettere su cosa sia meglio e
più sicuro per lui, verrebbe fatto di immaginarsi un piccolo roditore o un qualunque
altro animaletto di quelli che fanno da preda a tutti ma loro stessi si nutrono di semi e
germogli, o al massimo di insetti. Però non è così. Se anche non sappiamo il nome
dell’animale, da molte frasi del racconto apprendiamo che è un cacciatore carnivoro,
che può essere violento e crudele e che persino quando immagina l’incursione di un
nemico è costretto ad ammettere che l’intruso può diventare la sua vittima, una preda
“dolce e saporita”.
È un animale che caccia, uccide e strazia, e si ciba delle carni e del sangue degli animali che cattura, non una preda inerme. Meglio dunque abbandonare subito
l’idea che l’animale in questione sia Kafka stesso, e la tana metafora dell’esistenza di
un uomo troppo sensibile e sempre diviso tra il desiderio di sicurezza e tepore e
l’istinto a uscire nel mondo e vivere insieme con gli altri esseri umani. Kafka è uno
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psicologo molto bravo, forse per questo ci dà sempre come l’impressione che stia parlando solo di sé. Ma se naturalmente chiunque scriva mette “un po’ di sé” in ogni personaggio, questo non significa che in ogni protagonista si rifletta solo l’autore. Può
capitare: un romanzo oscilla sempre tra i due estremi dell’autobiografia e della cronaca imparziale. Ma detto questo siamo al punto di prima perché anche un’autobiografia
può essere brutta, noiosa, falsa e non aver nulla da dire.
Qual è l’animale della tana allora?
XV°
Insomma, abbiamo tre racconti lunghi, scritti negli stessi anni, con protagonisti animali, ma due sono chiamati per nome (un cane e una topolina) mentre il terzo
resta misterioso. Bisogna fare attenzione a che cosa accade quando un lettore percorre
le pagine di un romanzo (o di un racconto) per dare ragione di questa stranezza, e le
cose che accadono sono molte. Chi legge ci mette del suo, in primo luogo, perché le
parole sono meno consistenti della realtà e quindi il lettore immagina, “riempie” molti
vuoti del racconto. Poi dà una voce (spesso anche un volto e un aspetto fisico) ai protagonisti, a volte partendo da qualche descrizione presente nel testo, altre inventando
di sana pianta, a seconda di quel che gli viene. Naturalmente ci sono anche le aspettative: a mano a mano che si procede nella lettura ci si aspetta che accada una certa cosa
piuttosto che un altra, e su questo si basa, per esempio, il così detto “colpo di scena” e
la gran parte dei romanzi polizieschi.
Queste e molte altre cose accadono dentro le nostre teste mentre leggiamo, ma
una soprattutto interessa qui, e cioè un processo psicologico che sta a metà strada tra il
prendere posizione e l’immedesimarsi con qualcuno dei personaggi di cui si leggono
le gesta. Non si tratta solo di fantasticare a occhi aperti su cosa faremmo noi se fossimo lì, in quelle pagine, ma di un moto spontaneo: si prende il punto di vista di uno dei
personaggi (di solito il principale) e si giudicano poi gli eventi a partire da quello. La
stessa cosa accade naturalmente se si guarda un film e persino ascoltando certe canzoni.
Ora: non c’è nulla di sbagliato in tutto ciò ma i racconti di Kafka cercano in
tutti i modi di bloccare questo processo. Lo fanno in primo luogo presentando nel
modo più naturale e tranquillo eventi del tutto fuori dall’ordinario (un uomo si sveglia
trasformato in uno scarafaggio), ma anche cambiando continuamente punto di vista
(in un momento gli aiutanti dell’agrimensore K. nel Il castello sono i suoi giovani ap24
prendisti che l’hanno raggiunto per aiutarlo in questa nuova avventura, un momento
dopo K. nemmeno li riconosce più e infine sospetta, probabilmente a ragione, che siano stati proprio i signore del Castello a mandargli quei due lazzaroni per spiarlo e ostacolarlo nella sua ricerca), e infine unificando le due voci di un dialogo in un monologo.
Due animali si incontrano e uno chiede all’altro: “Come mai non esci mai dalla tua tana?”, e l’altro risponde: “Mi ci trovo bene, lì sono al sicuro, perché uscire?”, e
poi il primo insiste: “È più sicuro ancora uscire ogni tanto per controllare la tana dal
di fuori”, e a sua volta l’interrogato replica ancora: “Vero, ma non si rischia proprio di
attirare l’attenzione sulla propria tana uscendo a controllare che l’ingresso sia ben nascosto?”, e così via, sembra un dialogo perfettamente ragionevole. Al massimo sarà
un po’ difficile decidere con chi dei due animali saremmo d’accordo noi. Ma se tutto
si condensa nel pensiero di una sola bestiola che rimugina tra sé e sé il risultato non
può che riuscire assurdo. In questo modo il lettore non solo non può prendere le parti
di un personaggio contro altri, ma nemmeno star fermo, per così dire, a una opinione,
un moto dell’animo o una forma di sentire. Al massimo i racconti di Kafka concedono
di immedesimarsi con il Caos, con la tremenda confusione che ci circonda, come se
nulla fosse al suo posto e non ci fosse al contempo una maniera umana di sottrarsi ai
mille rivoli di miserie e paure, e vivere in pace.
In una delle due versioni della Tavole della legge di Mosè che sono
nell’Esodo, il Signore proibisce al suo popolo di farsi immagini delle potenze divine e
di adorare quelle immagini, compreso l’Iddio stesso di Israele. Il rischio non sta nel
simbolo in sé, quanto nella possibilità che ci si affezioni più al simbolo, sensibile e
presente, che non a ciò che rappresenta, spesso lontano e incerto. Una immagine insomma può essere una spinta verso il bene se ricorda che cosa si deve fare per raggiungerlo, ma diviene un feticcio se cessa di essere una promessa da adempiere e si
trasforma in una consolazione. Tradotto per gli animaletti di Kafka questo significa
che tutti loro sono perduti, il cane indagatore, l’inquieto abitante della tana e la cantante del popolo dei topi Josephine, se danno per scontati se stessi, se pensano di possedere dal principio libertà, pensiero, giudizio e amore, e scordano che sono tutte
promesse che bisogna mantenere, non una proprietà privata che nessuno ci potrà mai
togliere. Gli animaletti di Kafka è meglio non si facciano immagini sacre nelle quali
rispecchiarsi e consolarsi per una vita migliore che verrà; non verrà, a meno che non
si diano da fare per ottenerla. Così come il misterioso abitatore della tana gira in tondo
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nei suoi pensieri e non fa nulla. Ha lavorato in passato, probabilmente ha costruito lui
i cunicoli che percorre, ma adesso sembra un cervello senza corpo, un’immensa massa
cerebrale che continua a farsi immagini di pace e serenità, o di terrore e distruzione,
senza mai più agire. L’esperienza della realtà, della lotta per essere se stessi, gli balena dal passato come un lampo:
Poveri viandanti senza casa per le strade maestre, nelle boscaglie,
rintanati semmai in un mucchio di foglie o in mezzo a un branco di
compagni, esposti a tutti gli insulti del cielo e della terra!
XVI°
La bestia che abita la tana consuma la sua vita in inquieti e sanguinosi andirivieni, tormentata da un sibilo, una specie di fischio, un soffio forse, che ora compare
ora scompare per riapparire ancora. Non sa cosa sia, non si decide a far nulla per scoprire la fonte o eliminarlo. Non è nemmeno certa sia un pericolo, anche se probabilmente sì. Alla fine emerge, come da un sonno profondo, la rivelazione di una possibilità che non aveva considerato sino ad allora: da giovane una volta sentì distintamente
il rumore di un suo simile intento a scavare la terra. Allora non si incontrarono, forse
per caso, forse l’altro scavatore mutò percorso e prese una direzione opposta a quella
che stava percorrendo, e poco alla volta il rumore cessò. A quel tempo l’abitatore della tana avrebbe forse accolto persino con simpatia un suo simile o, se questi fosse stato minaccioso, se ne sarebbe andato per lasciargli terreno aperto. Oggi non più. E appena questo lampo di esperienza fa irruzione nel monologare del protagonista compare la frase più triste di tutto il racconto:
Tra quel tempo e oggi intercorre la mai età virile; ma non sembra
quasi che frammezzo non ci sia nulla? Ancora interrompo a lungo il
lavoro, sto in ascolto alla parete, ancora lo scavatore ha mutato parere, ha preso la direzione opposta, ritorna dal viaggio e crede di avermi lasciato il tempo di prepararmi a riceverlo. Dalla mia parte
però tutto è disposto meno bene di allora, il grande edificio è indifeso, io non sono più un piccolo apprendista, ma un vecchio costruttore, e le poche forze che mi rimangono mi abbandonano quando si
arriva al momento decisivo; ma per quanto sia vecchio, mi pare che
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accetterei volentieri di essere ancora più vecchio di quel che sono,
tanto vecchio da non poter più alzarmi dal giaciglio sotto il musco.
Una pagina dopo l’animale nella tana non ha più nulla da dire, è il racconto si interrompe. Del resto cosa altro avrebbe potuto fare l’inquieto abitante della tana?
L’avvenimento cruciale, il vero “colpo di scena”, sarebbe stato che si mettesse a scavare in direzione del suo simile, e invece forse lo vorrebbe fare ma teme lo scontro, e
in ogni caso preferisce essere così vecchio da non alzarsi nemmeno più dal proprio
giaciglio. E per quanto la forma del racconto cerchi di tenerci lontani da ogni immedesimazione, ognuno di noi potrebbe indicare momenti nei quali ha pensato, o avvertito la stessa cosa. E in questo senso che il racconto si arresti incompiuto è il miglior
finale: dopo il desiderio di morte non c’è più nulla da dire. Forse per questo nemmeno
il nome dell’animale, metà preda metà crudele predatore, che abita la tana può essere
detto. È un animale perduto.
Il pericolo peggiore per l’abitatore della tana viene dall’interno della terra; una
minaccia terribile che non si fa neanche in tempo a scorgere che già si è preda delle
sue grinfie. E naturalmente contro un simile demonio che viene dal centro della terra,
una tana non è di alcuna protezione. Ma nonostante ciò il vecchio scavatore alla fine
si arrende di fronte alla immaginaria, o almeno remota, possibilità di incontrare un
suo simile; non dispera per il nemico interno, ma per un altro essere vivente uguale a
lui. E allora, o gli scavatori delle tane sono bestie così feroci da saltarsi alla gola non
appena si intravedono, o tutto questo non ha alcun senso. A meno che il nemico interno non sia così immensamente potente che nulla possa valere contro di esso, che sia
una follia anche solo pensare di difendersi da lui, e dunque tanto valga non pensarci
nemmeno. D’altro canto è così raro questo dio feroce che se ne ha notizia solo perché
ne parlano le leggende, ma nessuno lo ha mai visto e neanche le leggende riescono a
descriverlo. L’unica cosa certa è che questo “essere sotterraneo” vive “nella terra che
è il suo elemento”, al contrario di tutti gli altri pericoli che invece sopraggiungono, o
meglio possono sopraggiungere, dal di fuori.
Nell’universo mentale dello scavatore sono senza rimedio due eventi:
l’irruzione di un altro identico a sé, e la morte per mano di qualcosa che è fatta della
stessa sostanza del mondo stesso. Sono due minacce che in effetti hanno qualcosa in
comune: entrambe distruggerebbero la perfetta solitudine nella quale si è rinchiuso lo
scavatore; una perché è uno scavatore anch’egli, l’altra perché spezzerebbe
l’incantesimo di un dentro e fuori la terra, rendendo indistinguibile la terra come ma27
teria della tana e la terra come origine del peggior, mortale nemico. Ciò di cui è fatta
l’ossessione dello scavatore (la tana nel sottosuolo) contiene, in effetti, la minaccia
più grave. E allora forse il nemico interno, contro il quale non c’è rimedio, è la tana
stessa, il delirio di solitudine e onnipotenza della tana. Per questo di una simile minaccia si parla all’inizio e poi più, perché dopo che è iniziato noi siamo dentro il delirio e non possiamo più vedere che è un delirio. Il demone del sottosuolo ci ha già
ghermito con i suoi artigli. Ovvio che nemmeno le leggende sappiano descriverlo:
come si può dare un’immagine della follia quando ci si è dentro?
XVII°
L’ultimo nostro racconto è l’ultimo racconto di Kafka. La protagonista è una
topolina che canta, anzi: il protagonista è l’intero popolo dei topi che narra e riflette
sulla strana arte e gli strani modi di questa loro simile. Anche in questo caso gli avvenimenti sono pochi, non si cerca alcuna suspance, e veniamo condotti per mano da un
topo a conoscere i pensieri di tutti i topi sul canto, sul fischiare che è il loro verso, e
sulla vita in genere. Non per nulla il racconto si intitola sì: Josephine la cantante, ma
ha anche per sottotitolo: Il popolo dei topi.
La trama è semplice. Tra tutti i topi una sola canta, Josephine. Quando lo fa
ogni animale lascia le sue occupazioni e accorre per ascoltare quel canto. Ma poi si
scopre che Josephine è convinta di cantare, ma in fondo fischia come tutti gli altri topi, anzi forse persino peggio. È convinta di essere lei a infondere coraggio e ardore al
popolo, ma non è vero. Vorrebbe essere adorata, Josephine la cantante, tanto da essere
dispensata persino dal lavoro, ma questo non riesce a ottenerlo. E alla fine scompare
per non fare più ritorno.
La trama nasconde però alcuni pensieri che è bene prendere uno per uno. Che
cos’è il canto di Josephine? Un fischio e tutti i topi fischiano, lo fanno da sempre quasi inconsciamente. Perché allora tutti accorrono quando a fischiare è Josephine? Scrive Kafka:
Non si può dire che schiacciare una noce sia un’arte, e perciò nessuno oserà convocare il pubblico per divertirlo schiacciando noci. Oppure sì, si schiacciano noci, ma infine risulta che non abbiamo prestato attenzione a quest’arte perché ne eravamo perfettamente padroni ed ora questo nuovo schiacciatore di noci ce ne mostra la vera
natura, e per ottenere l’effetto potrebbe essere persino opportuno
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che fosse un po’ meno abile a schiacciare noci di quanto non sia la
maggior parte di noi.
Quel che dunque in primo luogo riesce a fare Josephine, e che la rende speciale tra il
popolo dei topi, è mostrare il lato inconsueto di azioni che si compiono tutti i giorni.
Ora, esattamente che cos’è “esperienza” se non fare una cosa o percepire qualcosa che
prima non si era fatto o non si era percepito, e appunto dopo si dice che si è avuta
un’esperienza? In questo senso Josephine permette al popolo dei topi di fare esperienza di una cosa (il fischio di tutti i topi) che altrimenti passerebbe inosservata, scontata
e banale.
La descrizione del popolo dei topi fatta da Kafka richiama alla mente come
dovevano essere e sentirsi gli ebrei nell’Europa dell’Est dieci anni prima dell’ascesa
al potere di Adolf Hitler. Se è così lo scrittore ceco aveva un vista abbastanza lunga e
non era poi tanto insensibile al clima politico e sociale come alcuni critici pretenderebbero che fosse stato. E allora si potrebbe dire che i topi sono gli ebrei, il canto è la
scrittura e Josephine la cantante Kafka stesso, che un po’ si prende in giro un po’ si
loda, si sente ridicolo e si vergogna di non guadagnarsi il pane con il sudore della
fronte ma rivendica anche la sua capacità di mostrare il lato nuovo e sorprendente della vita di ogni giorno. Ma le cose stanno in maniera più complicata di così.
XVIII°
Un artigiano è stato assunto da una grande impresa. Prima lavorava da solo, in
una piccola officina; diciamo che usava il tornio e la fresa e le sue mani erano uno
spettacolo a vedersi. Però i debiti aumentavano, era sempre più difficile star dietro a
tutto e proprio allora ricevette una buona offerta dalla ditta X: stipendio fisso, malattia, ferie e tredicesima. Così ha chiuso la sua bottega e adesso ogni mattina entra nella
grande fabbrica e fa, più o meno, quel che faceva prima al tornio e con la fresa.
È un uomo a cui piace il proprio lavoro e forse i suoi compagni di reparto a
vederlo all’opera scoprono che essere capaci di far qualcosa e farlo bene è un piacere
di per sé. Avevano naturalmente sempre fatto le stesse cose che ora fa lui, ma così,
senza farci caso e senza interesse. L’artigiano è andato lì e s’è messo a “spaccar noci”,
e tutti gli altri hanno visto con occhi nuovi le loro mansioni.
Questa è senz’altro un’esperienza. Ma quell’artigiano ha anche buona memoria, non è pentito della sua scelta ma si ricorda di com’era prima e confronta la sua
situazione di allora con quella di adesso. Sa che prima lavorava per sé mentre ora lo fa
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per un salario che deve contrattare e difendere. Continua a fare il suo lavoro con la
stessa abilità di prima, sebbene le sua mansioni siano un po’ più semplici e ripetitive,
ma sa anche che il pezzo finito esce dalle sue mani per andare nel magazzino vendite
del padrone, e chissà chi verrà a prenderselo e quando. Capisce benissimo che deve
obbedire agli ordini e non discute, ma riconosce anche che tutta la sua fatica si trasforma in merce e poi solo una parte gli viene restituita, spogliata di tutto e ridotta
all’osso, sotto forma dei soldi in busta paga. Vive e comprende, per dirla in breve, il
rapporto capitalistico che lo lega al suo nuovo lavoro e al padrone che lo ha assunto. E
lo racconta ai suoi compagni.
Li convince a starlo ad ascoltare almeno per cinque minuti, spiega le difficoltà
di prima e quello di ora, e cosa, secondo lui, bisognerebbe fare per migliorare la situazione. Fischia, come fischiano anche tutti i suoi compagni, perché il lavoro che fanno
è in fondo lo stesso, ma allo stesso tempo come fischia lui non fischia nessuno.
È possibile fare esperienza di cose nuove: non ero mai stato al mare e adesso
invece sto sguazzando nell’acqua salata di fronte alla spiaggia. È possibile anche sorprendersi a vedere le stesse cose di sempre in un modo nuovo, e anche questa è esperienza: è sufficiente essere obbligati a letto un paio di mesi per un qualche incidente e
anche solo alzarsi in piedi e fare due passi con un amico sembrerà una meraviglia degna della massima attenzione e gioia. Ma è anche possibile infine fare esperienza togliendo il velo che oscura le cose, afferrando il vero senso o, se si preferisce, scoprendo il trucco: non è quel buon uomo della ditta di facchinaggio e trasporti dietro il mercato che “ci dà lavoro”, siamo noi che vendiamo il nostro lavoro a lui, che ce ne paga
un pezzo e si arricchisce con il rimanente.
XIX°
Il canto di Josephine, o meglio il suo fischio, o meglio ancora, come precisa il
topo narratore, il silenzio che circonda il fischio-canto di Josephine appartiene a questa terza specie di esperienza, toglie il velo che copre la realtà. Non a caso è proprio
nei momenti di pericolo che il fischio della topolina fa sentire più forte il suo richiamo:
È verissimo che proprio nei gravi frangenti porgiamo più che mai
ascolto alla voce di Giuseppina. Le minacce incombenti ci rendono
più taciturni, più modesti, più arrendevoli [...]; ci riuniamo volentie-
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ri, volentieri ci stringiamo l’un l’altro [...]; è come vuotare in fretta,
tutti insieme, un bicchiere di pace, prima del combattimento.
Il fischio di Josephine, si spiega nel racconto, in fondo non ha altro che questo di straordinario: tutti fischiano mentre sono schiavi delle preoccupazioni per la propria sopravvivenza, solo Josephine, forse perché matta o arrogante, folle o geniale, si separa
dalla miseria e si concentra tutta nel suo fischio:
Il fischio è il linguaggio della nostra gente, solo che taluno fischia
tutta la vita e non lo sa, qui invece il fischio è liberato dalle catene
della vita quotidiana e libera anche noi per qualche tempo. Perciò
non vorremmo mai fare a meno di queste esibizioni.
Ecco che cosa Josephine consente al popolo dei topi: un’esperienza liberata dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza. Non importa che sia una topolina arrogante, faccia le scene, crei persino pericoli per i suoi simili, qualcosa di inspiegabile
attira i topi anche, anzi soprattutto nei momenti di pericolo alle esibizioni di Josephine. Una promessa di felicità e liberazione. Non proprio un ricordo - perché quando
mai i topi hanno vissuto in libertà? – ma semmai, non c’è altro modo di dirlo,
un’esperienza, un anticipo, di paradiso.
Perché allora non fare di tutto per moltiplicare i topi canterini? Perché non dar
fondo a tutte le arti e incoraggiare chiunque si metta a cantare, dipingere o raccontare
di luoghi meravigliosi dove i fiumi sono colmi di latte e la pecora dorme con il leone?
I topi un tempo erano un popolo che cantava, si dice, lo raccontano le leggende e si sono persino conservate le canzoni anche se nessuno è più in grado di interpretarle, nemmeno Josephine. È meglio così perché, spiega il narratore, nessun topo oggi
sopporterebbe un vero canto. Anzi, la pretesa di cantare davanti a tutto il popolo sarebbe giudicata addirittura assurda. Ancora di più: non sono i topi che respingono un
vero canto, è che il fischio di Josephine ottiene effetti che un artista di canto cercherebbe invano, è un fatto oggettivo non un atteggiamento. “E – conclude il periodo il
topo narratore, - ciò dipende probabilmente dal nostro tenore di vita”. Perché?
XX°
I topi tutti fischiano, gli uomini parlano, e hanno inventato i libri quando non
possono parlare. Di un testo che non riusciamo a comprendere non sappiamo che fare,
ma forse non era diretto a noi. Ma anche un libro che ci delizi con bellezze irraggiun31
gibili è senza scopo, mente; compensa con bei sogni il dolore, ma mentre posso portare un fiore a un amico intristito, mandare fiori invece che fucili ai compagni in battaglia sarebbe criminale, non artistico. Kafka non vuole, e i suoi racconti non permettono che per star meglio ci si illuda. Chiede sì di immaginarsi cose impossibile ma per
vedere un altra faccia della realtà, non per consolarsi con un sogno.
Il fischio di Josephine non è un fucile ma nemmeno un fiore. È una creatura di
mezzo, ancora informe, di un tempo indefinito e tra animali altrettanto incerti. In fondo son topi solo di nome e per permettere a Kafka di infilar qua e là qualche scherzo e
un mezzo sorriso, anche questi strumenti per mantenere le distanze.
Gli animali di Kafka, s’è detto, sono uomini rilanciati indietro nel tempo di
intere ere geologiche. Ma per uno strano gioco di forze sono anche presentissimi e
attuali: lo scarafaggio Gregor Samsa rassomiglia a un impiegato disprezzato da tutti, il
cane indagatore a un mistico, dentro la tana si rivoltola all’infinito un’anima inquieta
e paurosa e sì, i topi sono il popolo degli ebrei. In fondo questo non ha importanza.
Che mi importa dove, da chi e come sia stata forgiata la mazza che mi libera dalle catene? Che Josephine fischi e raccolga il popolo intorno a sé; lo faccia perché convinta
di cantare o per sconfinata vanità non cambia nulla.
Nel mondo alcuni uomini sono sottratti all’obbligo del lavoro. Quasi tutti ritengono sia loro merito e ne sono molto orgogliosi. Pochi scoprono che altri producono quel che loro cantando consumano e si giustificano dicendo che in fondo la loro
arte è pur sempre qualcosa e anche la loro fatica sudore e valore. Solo pochissimi cospiratori pensano sia loro capitato di avere la testa e la voce libera dalla schiavitù del
lavoro salariato per puro caso, e non fanno arte: fischiano. Sanno benissimo da che
direzione proviene il cibo che mangiano, ma sanno anche che “il popolo, [...] se anche
le apparenze suggeriscono il contrario, può [...] soltanto offrir doni, non mai accettarne.”
Per questo i topi non sopporterebbero chi volesse loro cantare nel bel mezzo
dei pericoli, del dolore e delle tragedie che riempiono la loro vita. Un simile canto non
avrebbe per loro alcun senso né effetto. Ma il fischio di Josephine sì, perché è il loro
stesso fischio, la loro stessa vita sottratta però alle catene. Sognano in effetti anche i
topi.
Nelle scarse pause tra una battaglia e l’altra il popolo sogna, si direbbe che a ognuno si sciolgano le membra, come se l’individuo
senza pace potesse una buona volta e a suo piacimento stendersi e
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allungarsi nel gran caldo letto del popolo. Ed entro questi sogni risuona ogni tanto il fischio di Giuseppina.16
Ma si tratta appunto di una rara pausa tra una battaglia e l’altra, non di uno spirito che,
liberato dalla carne, si perda nella contemplazione del bello.
XXI°
La storia finisce male. Josephine si comporta come un’attrice famosa dei giorni nostri: pretende che tutto le sia dovuto, persino il cibo e la protezione, in nome della sua arte. Commette un errore fatale: crede di essere lei la creatrice del fischio-canto
e non una che semplicemente fischia perché e mentre gli altri stanno in silenzio. Il popolo dei topi non sa che farsene di queste pretese, le respinge quasi inavvertitamente
come piccole e ridicole assurdità. Dopo una battaglia dialettica che dura qualche pagina, Josephine scompare.
E tutto rimane come prima; l’arte non cambia il mondo.
Ma c’è ancora qualche cosa di più che possiamo imparare sul suo fischio. Un
giorno lancerà il suo ultimo strillo e morirà, e il popolo sarà triste ma si saprà adattare,
dice il racconto. Ma le cose non tornano: se il fischio di Josephine è lo strumento che
rivela il popolo a se stesso, come può essere che nulla cambi dopo la sua scomparsa?
Come fare a riunirsi in un completo silenzio se il fischio è il casuale perno che però fa
ruotare l’intero cerchio?
Si potrebbe anche tradurre: Che ne sarebbe di noi popolo se nessuno cantasse
per rallegrarci la fatica del lavoro? E se nessuno scrivesse per noi o nessuno ci insegnasse a riflettere e i grandi capolavori dell’arte di tutti i tempi? Come potremmo noi
riunirci senza un sacerdote che offici un rituale, non importa quale, non importa quanto comune?
In effetti senza Josephine le riunioni saranno molto più tristi di prima. Ma non
bisogna confondere il fischio con Josephine, il canto con il cantore, la speranza con il
suo sacerdote.
Giuseppina invece è in declino. Presto verrà il momento in cui squillerà e ammutolirà il suo ultimo fischio. Ella è un breve episodio nella perenne storia del nostro popolo e il popolo si rassegnerà alla perdita. Non ci sarà facile, certo; come potremo tenere le riunioni in un
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Josephine o Giuseppina ovviamente è la stessa cosa...
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completo silenzio? Ma, a pensarci, non erano mute anche con Giuseppina? Il suo fischiare era in realtà più forte e notevolmente più
vivo di quanto ne sarà il ricordo? È stato forse, quando era ancor viva, più di un mero ricordo? Non ha invece il popolo nella sua saggezza collocato in alto il canto di Giuseppina appunto perché era
impossibile che andasse perduto?
Così alla fine il fischio della topolina cantante altro non era che un ricordo, una facoltà creatrice del popolo dei topi che, saggiamente, l’ha innalzata sino al cielo per poterla avere per sempre.
XXII°
Che cos’è la speranza? La speranza (scriveva Lu Hsün) è come i sentieri che
coprono la terra: all’inizio non ce n’è nessuno, solo quando molti uomini percorrono
lo stesso cammino nasce la speranza. Il fischio di Josephine è la speranza dei topi.
Certo, molti uomini hanno bisogno dopo aver percorso lo stesso cammino di
uno che dica la speranza che essi hanno creato, a questo servono i fischiatori. O per
cancellare le orme, naturalmente, e vender meglio mappe del tesoro sulle quali ci sia
lo stemma del Re e del Pontefice. Ma la speranza, quella cosa calda tramite la quale ci
si può riconoscere, rimane una creazione di molti e per tutti. E questo significa che in
fondo a fischiare erano proprio i topi e questa capacità non può andare perduta.
Nel mondo degli animali di Kafka è nascosta la preistoria e la storia della nostra specie. Come in un album di vecchie fotografie dove, alle volte, basta riconoscere
un volto per potere poi dare un nome anche tutti gli altri. E se ogni lontano parente o
amico da decenni smarrito avrà avuto il suo carattere e una vita diversa da tutte le altre, nell’insieme l’incessante lotta per un’esistenza degna e il maggior grado di libertà
possibile, dal bisogno materiale e dalla schiavitù dello sfruttamento, emergerà chiara e
orgogliosa. E le fotografie interrogate si metteranno a fischiare.
Kafka agli operai sarebbe utile come un fischio, se potessero leggerlo.
Ma naturalmente il popolo dei topi è solo un popolo di fantasia.
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