Riflessioni su Auschwitz

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Riflessioni su Auschwitz
RIFLESSIONI SU AUSCHWITZ
Auschwitz è diventato in tutto il mondo simbolo di terrore, genocidio,
Olocausto. Fu costituito dai nazisti nei sobborghi di una città polacca,
Oswiecim; il suo nome venne cambiato in Auschwitz, che successivamente
indicò anche il campo di concentramento. Già da questo primo fatto si può
notare la volontà dei nazisti di germanizzare tutto il mondo e di annullare il
'diverso'.
Il campo fu stabilito nella metà degli anni quaranta, più di un anno prima
dell’inizio della “soluzione finale della questione ebraica”, il piano con cui i
nazisti si erano prefissati di uccidere tutti gli ebrei che abitavano sul territorio del
Terzo Reich. La prima ragione dell’istituzione del campo era il fatto che la
capacità delle prigioni locali non era più sufficiente a contenere la massa degli
arrestati polacchi in continuo aumento.
Dal 1942 divenne il più grande campo di morte mai esistito dove furono
uccise milioni di persone. La posizione del campo, praticamente al centro
dell’Europa occupata, e la conveniente rete di trasporti ha fatto sì che i nazisti
deportassero proprio ad Auschwitz persone da tutta l’Europa. Il campo era
composto di tre parti: la prima e la più antica era il cosiddetto “campo
principale”, conosciuto anche come “Auschwitz I”, il numero dei prigionieri che
poteva contenere si aggirava intorno ai 15.000-20.000; la seconda parte era il
campo di Birkenau o “Auschwitz II” il più grande apparato di sterminio di massa
contenente oltre 90.000 prigionieri, qui, a tre chilometri da Auschwitz I, trovarono
la morte la maggior parte delle vittime dei nazisti; l’ultima parte era “Auschwitz
III” al quale vennero annessi molti altri sottocampi.
Questo scritto, però, non vuole essere un elenco di nomi e dati, una
cronaca statica di quello che è stato Auschwitz, bensì un concentrato
d’emozioni e sentimenti per raccontare a chi non l’ha visitato cosa si prova a
camminare sullo stesso terreno dove i prigionieri in pieno inverno lavoravano
nudi o ad entrare nelle “docce” dove milioni di persone hanno perso la vita
pensando di andarsi a lavare.
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Mentre eravamo sul pullman per arrivare ad Auschwizt mi chiedevo che
cosa avrei potuto provare, che cosa avrei potuto vedere, che cosa mi sarebbe
rimasto di quell’esperienza. Certo, tutti abbiamo studiato sui libri di storia, tutti
abbiamo letto e sentito testimonianze di sopravvissuti, ma essere lì è tutta
un’altra cosa. Ancora prima di arrivare l’atmosfera si incupiva sempre più, il
cielo fuori dal pullman si ingrigiva e il mio cuore batteva più velocemente per la
consapevolezza di quello che mi aspettava. La prima cosa che sono riuscita a
vedere guardando fuori dal finestrino è stato il filo spinato. Come un flash mi è
apparsa l’immagine, vista in qualche film, d’alcuni prigionieri che vi si gettavano
contro per porre fine alla loro sofferenza; un brivido mi è corso lungo tutto il
corpo. Prima di iniziare il nostro “viaggio” attraverso una parte orrenda della
storia dell’umanità, siamo andati a vedere un breve documentario: soltanto dal
video le emozioni congiunte di tristezza e rabbia e il disprezzo verso chi ha
permesso che tutto quello potesse accadere mi hanno riempito il cuore.
“Arbeit macht frei" ( Il lavoro rende liberi), queste le parole scritte in ferro
che sovrastavano il portone d’entrata al campo. Sapendo quello che avveniva
al di là di quel portone, ho subito pensato alla malvagità, al sadismo e alla
perversione che doveva caratterizzare i nazisti. Una volta varcata la soglia
d’entrata mi è sembrato quasi di fare un salto indietro nel tempo di sessant’anni,
di poter vedere lì davanti ai miei occhi i deportati che lavoravano e le SS che si
divertivano nel vedere quella gente soffrire. Proprio lì all’ingresso i nazisti
avevano stanziato un gruppo di persone con il compito di suonare una marcia
che serviva per salutare e accogliere i prigionieri che andavano e tornavano
dal lavoro massacrante distante chilometri. Come tutti possiamo immaginare,
questo non era affatto un atto di cortesia, bensì una presa in giro con la quale si
mirava ad abbattere l’anima dell’individuo. Non bisogna pensare, però, che
Auschwitz come tutti gli altri campi di concentramento, siano stati il frutto della
pazzia del singolo perché la precisione minuziosa e dettagliata, il dispendio di
denaro e di soldati non possono essere opera di un folle che prende in mano un
fucile e va a sparare in piazza. Tutto, infatti, era studiato e progettato nei minimi
dettagli e niente era lasciato al caso. Soltanto le cifre del denaro utilizzato per
mantenere attivo giorno e notte il cavo ad alta tensione ( circa 4000 Wolts) che
circondava il campo sono da capogiro.
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Nel campo di “Auschwitz I” le baracche, una volta case per i prigionieri,
ora sono adibite a museo. Nei vari stanzoni vi sono alcune foto ingrandite di
deportati: guardando i loro occhi ho potuto leggere il terrore di chi aveva già
capito dove quel treno li avrebbe portati per non farli più tornare; tante
persone, ma lo stesso viso scippato del sorriso. Quegli occhi ancora oggi
chiedono perché. Siamo poi usciti all’aperto per entrare in un'altra baracca: il
freddo, però, non sembrava attenuarsi dall’esterno all’interno. Il gelido silenzio e
le immagini strazianti che vedevo da ogni parte in cui mi giravo valevano più di
mille parole: essere lì per me è stato come poter sentire quello che hanno
provato quelle povere persone. La guida ci ha portati in una stanza…entrando
ho sentito le gambe che mi cedevano, le lacrime iniziavano a scorrere sulle mie
guance e ogni pensiero nella mia mente lasciava spazio all’odio e alla rabbia.
In quell’istante un insieme di sentimenti confusi mi hanno invaso il cuore e la
testa: nessuna giustificazione, nessuno spazio, niente per chi ha fatto accadere
simili barbarie. In quella stanza c’era una vetrata lunga quasi dodici metri e alta
fino al soffitto riempita di capelli. Capelli sì, i capelli che i nazisti tagliavano ai
deportati quando arrivavano per fargli perdere la dignità, per uniformarli.
Capelli che venivano spediti imballati in Germania dove venivano utilizzati
nell’industria tessile. Quando i russi arrivarono nel campo trovarono tonnellate di
capelli che i nazisti non avevano fatto in tempo a far sparire appartenenti a
persone un tempo bellissime alle quali era stato tolto tutto, gioia di vivere
compresa. Quando, poi, fu istituito il museo si decise di lasciarne una certa
quantità come testimonianza di tale crudeltà. Si potevano vedere le trecce
delle donne ancora intatte. Ritrovarsi di fronte a ciò è stato tremendo. Dopo
giorni ancora cercavo di immaginarmi quale viso poteva esserci sotto.
Non riuscivo a fermare le lacrime, piangevo disperata come se fossi stata
coinvolta in prima persona. L’indignazione e il disprezzo aumentavano mano a
mano che entravamo in altre stanze. Una vetrata piena di valigie, con ancora
scritto all’esterno nome e cognome del proprietario; il piano dei nazisti si basava
sulla menzogna e sull’inganno: avevano promesso agli ebrei terreni da poter
comprare e quindi in molti avevano preso il biglietto del treno per spostarsi in
cerca di maggior fortuna. Il viaggio, a loro spese, era un inferno. Le valigie non
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potevano pesare più di dieci chili. I nazisti, all’inizio, sfruttarono l’ingenuità degli
ebrei.
Ormai non mi stupivo più di quello che vedevo, era quasi come se mi
aspettassi che i nazisti potessero commettere simili atrocità. Nonostante questo
la tristezza per quelle persone, il disprezzo verso chi aveva architettato quel
piano diabolico e la rabbia verso chi, in qualunque modo l’aveva appoggiato,
anche solo rimanendo indifferente, crescevano dentro di me. Altre vetrate:
occhiali, protesi, pentole…i nazisti requisivano tutto. Una delle cose che più mi
hanno sconvolto è stato vedere le scarpine e i vestitini dei bimbi. Quei bambini
innocenti che non costituivano assolutamente alcuna minaccia non sono mai
diventati grandi. Tutto ciò non è giusto, non sono accettabili tali crudeltà a
danno di povere persone la cui unica colpa era essere ebree, oppositori o
“diversi”.
Joseph Mengele, questo nome se non fossi andata ad Auschwitz non mi
avrebbe mai detto nulla. Ma ora che ad Auschwitz ci sono stata capisco cosa
ha potuto provocare quel dottore. Anche solo chiamarlo dottore mi disgusta: io
vedo nella figura di un medico la speranza per i malati, un aiuto per chi ha
bisogno, una mano pronta a curarti e non un torturatore che fa esperimenti
sulle persone con lo scopo di eliminarle definitivamente. Nelle foto dei
sopravvissuti ai suoi esperimenti si vedono persone deformate e rovinate per
sempre. Joseph Mengele, finanziato dai nazisti, ad Auschwitz faceva
sperimentazioni su bambini, specialmente gemelli, donne e uomini. Il suo scopo
principale era quello di renderli sterili in modo che non si potessero più riprodurre
e quindi portare la loro razza alla scomparsa mediante lo sterminio biologico.
Ancora una volta l’ira, l’angoscia, la pena e il dolore si impossessarono di me. Le
immagini delle persone che, una volta arrivate, venivano marchiate come
animali diventando dei semplici numeri e venivano catalogate in base alla loro
pseudo-colpa non mi abbandoneranno per tutta la vita. La frase di Primo Levi
“Se questo è un uomo” in quel momento io l’ho riferita ai nazisti, chiedendomi
se potevano essere considerati uomini tali carnefici. Senza esitare mi sono
risposta di no, non potevo considerare uomini, nel senso di persone meritevoli di
giustizia e comprensione, chi aveva compiuto tali crimini contro l’umanità.
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Non ho parole per descrivere le innumerevoli atrocità che venivano
commesse. Mi limiterò, perciò, solo a farne un elenco: il muro della morte, dove
si procedeva alle fucilazioni di massa; piccole stanze sotterranee, dove
venivano rinchiusi e murati vivi i prigionieri; il blocco della morte, una stanza
chiusa dove nessuno ha mai saputo cosa avvenisse dentro. Penso che tutto
questo si commenti da solo. Malgrado il tentativo dei nazisti di annientare
l’umanità e la fratellanza fra gli individui, ci sono stati dei casi in cui il senso di
solidarietà che accompagna la società civile ha trovato il sopravvento. Per
esempio, Frate Massimiliano Kolbe si offrì al posto di un altro detenuto nel
tentativo di salvare la vita a questo padre di famiglia. Venne rinchiuso nel
blocco della morte dove attese pregando la fine. Papa Giovanni Paolo II lo
santificò come martire della carità.
A Birkenau tutto è stato lasciato così com’era. L’atmosfera che si respirava
era quasi surreale. Sembrava che il tempo non fosse passato. La classica
immagine dei binari della ferrovia che giacciono al centro dei due camini era lì
davanti ai miei occhi. Mi sono sentita disperata e soprattutto delusa da una
società che non molto prima della mia nascita aveva tollerato che si
commettessero tali crudeltà. La condanna di chi quei treni trasportavano era
puntuale. Una volta fatti scendere i prigionieri un ufficiale decideva chi era
abbastanza sano da poter lavorare e chi, invece, doveva morire. I più deboli e
indifesi venivano subito portati alle docce “per lavarsi”. Dopo essersi spogliati
venivano accompagnati verso il loro plotone d’esecuzione: quelle docce con
cui, ancora una volta, erano stati ingannati, in quanto anziché acqua trovarono
gas. I corpi senza vita venivano, poi, fatti portar via dagli ebrei stessi, che
vedevano così l’atroce fine dei propri cari. Per la religione ebraica, inoltre, “non
era buona cosa toccare” la salma di un morto e perciò l’umiliazione che
dovevano subire era ancora maggiore. Entrare in una di quelle docce mi ha
fatto venire i brividi in tutto il corpo, mi ha fatto venir voglia di chiudere gli occhi
e scappare via per non vedere più…mi sono subito accorta, però, che per
ostacolare un ulteriore ripetersi di quelle crudeltà bisogna esserne a
conoscenza. Allora, anche se ero piena di dolore e tristezza, ho tenuto gli occhi
ben aperti. Lì a Birkenau, in una distesa immensa molto più grande di Auschwitz
I, trovarono la morte milioni di persone. E non solo a causa delle docce. Le
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baracche erano caldissime in estate e freddissime in inverno. Le persone
dormivano ammassate in letti di legno. Avevano pochi secondi per fare i propri
bisogni sotto la minaccia della pistola di un soldato. La malattie colpivano tutti.
Le condizioni igieniche erano indescrivibili. Siamo entrati in una di queste
baracche: la prima cosa che mi è venuta in mente è stata una stalla per
animali. Pensare che delle persone potessero vivere in quelle condizioni mi ha
fatto gelare il sangue nelle vene. Nonostante avessi letto e mi fossi informata
sulla Shoà e sui campi di concentramento, quello che i miei occhi hanno visto
non può essere descritto in nessun libro.
I nazisti non si limitavano a eliminare fisicamente i deportati, ma miravano
a svuotarli della loro persona, a far sì che il loro corpo rimanesse solo un
contenitore vuoto, privato dell’anima. Quando i russi sfondarono il filo spinato
ed entrarono ad Auschwitz ciò che videro non era sicuramente quello che si
aspettavano. Il primo soldato che entrò ricorda, infatti, di non essere stato
accolto come un liberatore e un salvatore, bensì rammenta gli sguardi vuoti dei
deportati che lo fissavano senza sapere più neanche chi erano. Gli sforzi fisici e
lo stress psicologico a cui erano sottoposti costantemente aveva fatto sì che
queste persone avessero perso ogni speranza, ogni sogno, ogni miraggio di
libertà, ogni prospettiva di giustizia e ogni volontà di resistere. Io non riesco a
comprendere come si possa essere così spietati e malvagi, come si possa
arrivare a commettere tanto e come si possa guardarsi ancora allo specchio
dopo aver prodotto così tanta sofferenza. Quello che so per certo, però, è che
i sopravvissuti a quel massacro rimangono delle vittime e che ancora oggi sono
segnati da una ferita che, anche se magari non si vede più, è indelebile e li
accompagna tutti i giorni della loro vita. Secondo me, anche se è
un’esperienza per certi versi traumatica, se si vuole capire fino in fondo cosa è
stato Auschwitz e cosa hanno potuto provare quelle persone bisogna andare a
visitarlo. Per renderci conto in prima persona di quello che è accaduto e che
ha coinvolto milioni di persone. In modo da essere consapevoli dei crimini di cui
l’umanità si è macchiata e in modo da riconoscere gli errori per non
commetterli più.
La prima cosa che ho pensato risalendo sul pullman per tornare a casa è
stato: “simili atrocità non possono e non devono più ripetersi”. Ma subito mentre
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lo stavo pensando mi accorgevo che simili atrocità purtroppo si erano già
ripetute. Queste sono semplicemente le mie emozioni, i miei pensieri, giusto o
sbagliato che sia, questo è quello che ho potuto vedere e provare. Sono
tornata sicuramente cambiata e oggi, più di prima, non posso accettare chi
vuole cambiare la storia e cancellare la memoria, chi continua a negare, chi
inneggia a coloro che hanno ideato tutto ciò, chi canta e gioisce al massacro
di innocenti.
È stata un’esperienza talmente forte che ancora adesso a distanza di mesi
mentre sto scrivendo ho i brividi e gli occhi gonfi di lacrime.
Greta Fedele
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