La stampante 3D che produce gioielli per Cartier e Tiffany? Nasce in

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La stampante 3D che produce gioielli per Cartier e Tiffany? Nasce in
15 maggio 2014
La stampante 3D che produce gioielli per Cartier
e Tiffany? Nasce in un garage dell'Alto Vicentino
di Mariano Maugeri
Ci sono uomini che con le loro storie squadernano mezzo secolo di storia patria della manifattura. Non
occorre faticare per cercarli. L'Alto vicentino è una sorta di coltivazione intensiva delle più svariate
traiettorie imprenditoriali. Prendete Maurizio Costabeber, 50 anni, calma zen e mandibola da mastino,
nel senso che quando pianta gli incisivi su un'idea è buona regola non infastidirlo.
Le ossa se le fa con il padre, distributore negli anni 70 di macchine a controllo numerico made in Japan.
Maurizio gira con la valigetta per tutta l'Asia: Taiwan, Corea, Giappone. I Costabeber rappresentano in
Italia sei aziende nipponiche. Le macchine a prototipizzazione rapida sono fondamentali nelle aziende
meccaniche e non solo. Già nella seconda metà del secolo scorso pure Olivetti inizia a produrle e per la
commercializzazione si affida ai Costabeber.
Tecnicamente si chiama additive manufacturing, e sono macchine capaci di produrre un oggetto
tridimensionale utilizzando di volta in volta materiali diversi: resine, metalli, polimeri.
Un mercato dove insieme ai giapponesi si fanno largo i californiani con la 3D System, una società che
negli anni 80 si quota a Wall street.
I Costabeber seguono gli alti e bassi del mercato: annusano, stringono accordi, sorvegliano le aziende
emerse e quelle che sgomitano per conquistarsi un posto al sole. Nel '97 Maurizio zen («ma quelle rare
volte in cui mi arrabbio divento pericoloso» scherza lui), insieme con un paio di tecnici fidati, modifica
una stampante 3D per la gioielleria nel suo micro laboratorio nella periferia di Zané - trecento metri
quadri con soppalco - che ricalca il mitologico garage di Los Altos dove Steve Jobs modella i proto pc
della Apple. Funziona. E Maurizio, nel 2003, presenta alla fiera di Basilea una stampante 3D per
l'oreficeria fatta in casa.
Allo scadere del secolo scorso si innesca l'innovazione di processo che di lì a qualche anno trasformerà le
stampanti 3D, un nome che non rende giustizia a questi piccoli box che sono una sorta di lampade di
Aladino contemporanee: da macchine per i prototipi a strumenti per la produzione rapida in serie. Un
salto tecnologico decisivo, cui si affianca l'uso di altri materiali (in principio si producevano oggetti solo
in resina).
Nel 2008 Maurizio Castabeber decide che è arrivato il momento di osare. Chiude l'azienda di
commercializzazione e con una mezza dozzina di collaboratori, sempre nei soliti 300 metri quadrati e
soppalco con vista sui campi di Zanè, comincia a produrre stampanti 3D. Nasce così Dws, Digital wax
System, dove wax sta per resine. Di finanziamenti e banche non ne ha bisogno: «Gli acquirenti pagano i
prodotti prima della consegna, dunque l'azienda si autofinanzia» racconta. I nomi di chi compra i suoi
box magici non vuole svelarli. Ma è facile arrivarci per deduzione.
Le stampanti sono diventate macchine fondamentali nella gioielleria, occhialeria, accessori per la moda,
produzione di penne stilografiche, odontoiatria e per gli studi di architettura (i plastici delle nuove opere
sono esecuzioni perfette). L'unica regola inviolabile è che gli oggetti non siano più grandi di 18 centimetri
di diametro e 18 d'altezza. Bastano solo tre nomi tra tanti per capire chi siano alcuni dei clienti più
affezionati: Cartier, Tiffany & Co e Mont Blanc. In cinque anni i ricavi si sono moltiplicano per sei. Con
nove addetti alla ricerca e tre alla produzione, Costabeber sforna 250 stampanti all'anno che costano da
un minimo di 10mila a un massimo di 250mila euro.
Vuoi un gioiello, una stilografica, un dente nuovo? (i dentisti, che rappresentano un terzo del mercato,
con questi parallelepipedi infernali sfornano le protesi provvisorie in mezz'ora). Basta programmare e le
macchine eseguono. Eliminati i giapponesi, Costabeber rivaleggia solo con gli americani.
Visitare la fabbrica a chilometri zero (un centinaio di fornitori sono a distanza di dieci chilometri), ma
forse è meglio dire il laboratorio a chilometri zero, è come scattare un'istantanea in cui si sovrappongono
passato e futuro. In una specie di ripostiglio del soppalco che cigola, con una maschera che copre il naso e
la bocca per proteggersi dalle esalazioni della sintesi fotochimica, c'è il trentottenne fisico giapponese
Satoshi Iketani, responsabile della ricerca e sviluppo; nella stanza accanto, ricurva su un tavolo
sovrastato da una cappa aspirante, Francesca Barone, una ragazza di Cosenza con un diploma di perito
turistico in tasca e una specializzazione acquisita sul campo nelle aziende meccaniche della zona, infila
con una pinzetta centinaia di piccoli aghi dentro una piastra d'acciaio. Il lavoro di Francesca per la Dws è
questione di vita o di morte: l'assemblaggio delle sorgenti laser, i motori delle stampanti 3D. Spiega
Costabeber: «E' la parte più delicata delle nostre macchine. Un passaggio che svolgiamo rigorosamente in
azienda per evitare che qualcuno s' impossessi del know-how».
A proposito di brevetti: Dws ne ha accumulati più di 25 in otto anni, uno di questi, la mini stampante da
cinquemila euro, un mese fa ha fatto il pieno di ordini al Consumer electronic show di Las Vegas. «Siete la
Ferrari delle stampanti 3D» ha detto un cliente americano. Per tenere testa a questa ondata di commesse,
l'imprenditore vicentino ha deciso di costruire una fabbrica nuova e assumere cento dipendenti.
Entro luglio Dws abbandonerà il laboratorio con vista e soppalco della periferia di Zanè e si trasferirà a
qualche chilometro di distanza, sempre sotto lo sguardo muto e benigno del Pasubio. Inutile aggiungere
che le grandi multinazionali dell'elettronica, Samsung in primis, assillino Costabeber con profferte di
acquisto. Con il box fai da te si apre un mercato di consumo immenso. Che a sua volta potrà originare un
numero non quantificabile di start up. L'alto vicentino come la silicon valley delle stampanti 3D?
Maurizio zen e la carica dei cento subfornitori a chilometri zero sono pronti a raccogliere quel che hanno
seminato. Di sicuro c'è solo che ne risentiremo parlare.
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