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Nietzsche: i segni dell’opera, le tracce dell’uomo
Intervista di Gianfranco Ferraro a Giuliano Campioni
Estratto da:
STUDIA NIETZSCHEANA
www.nietzschesource.org/SN/campioni-ferarro-2014
8 April 2014
NIETZSCHE SOURCE · PARIS
Nietzsche: i segni dell’opera, le tracce
dell’uomo
Intervista di Gianfranco Ferraro a Giuliano Campioni
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D. «Questo viaggio è il più importante della mia vita, forse... Ti sono grato
di aver avuto tu l’idea del viaggio a Weimar; non l’ho dimenticato. Faremo una
grande edizione-traduzione di Nietzsche!». La prima lettera da Weimar nell’aprile
del 1961 di Mazzino Montinari a Giorgio Colli ci riporta all’inizio della grande
avventura dell’edizione critica degli scritti di Nietzsche. Deleuze pubblicherà il suo
"Nietzsche" solo un anno dopo, eppure quella "comunità di giovani" italiani, come
tu la definisci, ha già in mente gli "infiniti mondi" che sembrano potersi aprire
leggendo Nietzsche in maniera "libera"...
R. Il primo impatto con Nietzsche, per Montinari, e lo sottolinea lui stesso nei
suoi scritti, è un impatto con l’antiretorica. Una liberazione dalla retorica fascista.
Ora, questo impatto avviene grazie all’influenza che Giorgio Colli ha su quella
comunità di giovani di cui era professore al Liceo di Lucca, ed è qui che affonda la
preistoria dell’edizione. Ciò che colpisce Colli è l’inattualità di Nietzsche rispetto
alle correnti culturali dominanti: quella dello storicismo crociano e dell’attualismo,
innanzitutto. Una posizione che egli acquista a partire dal suo originale intreccio
di studi su Schopenhauer, Nietzsche e i Greci. È opportuno ricordare a questo
proposito che egli pensa a un’edizione già all’inizio degli anni ’40, ai tempi della
collaborazione con l’Einaudi.
D. Figure diverse, sia per biografia che per percorso intellettuale, quelle di
Colli e Montinari, eppure unite da un medesimo progetto, quasi da uno stesso
"sentimento dell’urgenza". Alcuni tuoi ricordi...
R. La divergenza iniziale tra Colli e Montinari è rispetto la figura di Cantimori.
C’era una ostilità all’interno dell’Einaudi nei confronti di una edizione completa di
Nietzsche e mentre tutti vedevano in Cantimori il censore, Montinari ha continuato
a difenderlo. Del resto Cantimori aveva ribadito, contro Vasoli, il quale tra l’altro si
era laureato su Nietzsche, che qualunque atteggiamento “pedagogico” e censorio, per
la sinistra, era errato. Possiamo ipotizzare sia stato Bobbio il vero censore: di certo
c’era una ostilità diffusa verso il progetto Nietzsche all’interno della casa editrice
Einaudi. Il rapporto tra Montinari e Cantimori (con cui si era laureato) comunque
continuerà, come mostrano le lettere di Montinari. E in effetti, nella stessa edizione
di Nietzsche, soprattutto nella sua sana “artigianalità” («la scientificità, per me non
è affatto un feticcio, ma semplicemente il desiderio di essere un buon “lavoratore”,
come un calzolaio bravo fa delle buone scarpe»), la lezione del Cantimori storico è
ancora ben presente, come riconosce più volte lo stesso Montinari.
D. Il rapporto tra Colli e Montinari abbandona ben presto la forma di un
dialogo tra maestro e allievo: all’inizio degli anni ’60 i due sono ormai due veri
compagni di studio. Eppure, come hai sottolineato, è merito di Colli di aver creato
una “comunità di giovani” intorno ai valori, intellettuali e pratici, della Resistenza
al fascismo.
R. Certamente. Ricordiamo come Montinari sia stato espulso dalla sua scuola
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per una manifestazione antifascista e come abbia aiutato nel 1944 Colli a rifugiarsi
in Svizzera, per sfuggire alla Repubblica di Salò. Colli, dal suo lato, ha come
riferimento la scuola torinese di Gioele Solari (con cui si era laureato) e di Martinetti,
caratterizzata da un liberalismo decisamente antifascista e critico del populismo
demagogico.
D. E qual è invece il bagaglio intellettuale che fa accostare Montinari, di cui
tu sei allievo diretto, a Nietzsche?
R. L’opera di Montinari si pone alla confluenza di più tradizioni, ma il suo è
certamente un sapere storico, volto alla creazione di nuovi orizzonti. Nei suoi geni
abbiamo una maggiore attenzione all’ambito sociale e politico anche se, in accordo
con Colli, anch’egli riteneva che l’umanità e la cultura non si esauriscono nella
politica. Una figura politicamente impegnata, dunque, che aveva lavorato per il
Partito comunista, nella “Libreria” e nelle edizioni Rinascita a Roma traducendo
classici del movimento operaio. Montinari parla del suo periodo di impegno attivo
a Roma come di un periodo di "certezze ideologiche", messe in crisi dagli eventi
del ’56. In lui rimane costante la fedeltà verso una soluzione sociale di problemi,
verso la concretezza della politica. Montinari ha continuato a lavorare e a pensare
politicamente, anche se Colli gli ha insegnato che la vita culturale non si esaurisce
nella politica. In un appunto inedito, Montinari afferma che Nietzsche è la sua
“malattia”: ora, appunto, per lui se c’è un limite o una malattia “aristocratica”
di Nietzsche, questa è tutta nella volontà del filosofo di voler guarire da solo.
Per definire l’atteggiamento di Montinari potremmo parlare insomma, «saggia
radicalità» (l’espressione che così bene lo caratterizza è della sua amica Gigliola
Pasquinelli).
D. Soffermiamoci un momento su questo carattere dell’attitudine di Nietzsche
verso il mondo, su questa “malattia della solitudine” dell’ultimo Nietzsche. Gli studi
più recenti, soprattutto quelli che indagano l’“ontologia del sé” dell’ultimo periodo,
tendono a sottolineare come Nietzsche rimanga in qualche modo intrappolato dalla
mancanza di interlocutori. In particolare emerge una urgenza mai placata di
"fuoriuscita" dalla propria solitudine, ma anche di consapevolezza terribile di una
inattualità rispetto al proprio presente storico.
R. In questo c’è un elemento di sofferenza cruciale: la solitudine di Nietzsche
non è la scelta del viandante ozioso che passeggia nei giardini della storia. Fin
dall’inizio l’atteggiamento di Nietzsche è caratterizzato dalla relazione col mondo.
Il suo problema, anche da giovane, è sì quello di una costruzione di sé, ma in un
rapporto che implica sempre il dialogo. E questo vale ovviamente anche a proposito
del suo rapporto con Wagner. Certo, Nietzsche stesso ammetterà che quello è stato
un autoinganno, un’automistificazione, ma il problema, anche lì, è l’orizzonte di
una comunità nuova. È un atteggiamento che ritroviamo del resto anche quando
il giovane docente di filologia a Basilea si chiede a cosa serva la sua professione,
il suo lavoro quotidiano. La scelta della solitudine da parte di Nietzsche non è
quindi mai una vocazione: è la costrizione in cui una certa singolarità, quella dello
"spirito libero", si può trovare a vivere. E alcuni aforismi del periodo di Umano,
troppo umano contro la solitudine sono molto significativi in questo senso, nella
loro avversione verso una estetica della solitudine. La solitudine nasce a partire
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da una liberazione dello spirito, contro l’elemento gregario, contro una cultura di
"massa". Precisiamolo meglio: contro una "uniformità". E anche quando parla di
“unità di stile” del popolo nella prima considerazione inattuale, Nietzsche tende a
differenziarla dall’uniforme.
D. La parabola intellettuale di Nietzsche sembra essere attraversata da quella
che oggi chiamiamo “costruzione di sé”. È un risultato importante, anche questo,
della ricerca sui testi, sulla loro “genetica”, per così dire.
R. Oggi possiamo dire che è un atteggiamento che vale fin dall’inizio in Nietzsche.
Nella filologia e verso la “costruzione” di una seconda natura. Oggi l’idea di
individualità tende a essere pensata in termini narcisistici o di ripiegamento su
di sé, e la "cura di sé" rischia di essere interpretata superficialmente, come una
semplice estetica. Basti pensare al fraintendimento che può esserci stato per la
Gaia Scienza, vista come una "terapia" personale. Nietzsche stesso dà su questo
indicazioni precisissime. A Rohde, che interpreta lo scritto come una terapia
"riuscita", egli risponde richiamando un impegno più vasto nella costruzione di
una “seconda natura” con riferimento alla civiltà del “gai saber” provenzale e
accettando ciò che Burchkardt gli aveva scritto, cioè che, con la Gaia scienza, il
filosofo sta capovolgendo i giudizi consolidati nella storia corrente. Nel riferimento
a una civiltà ibrida e felice, erede della raffinatezza dei costumi moreschi , sconfitta
dalla brutalità delle armi, traspare la domanda sui “germi” che potevano rimanere.
Non è mai dunque un orizzonte di individualità, di salvezza individuale e personale,
quello in cui scrive Nietzsche, un orizzonte di “ritiro” ascetico. Il tentativo ultimo
è anzi quello di presentarsi sulla scena del mondo come "politico".
D. Un Nietzsche “politico” dunque. Ma cosa intendiamo esattamente? Il
rischio di fraintendimento è forte, se pensiamo all’uso che di Nietzsche è stato
fatto.
R. Quando Nietzsche parla, a proposito della propria attività, di "politica", intende sempre una pratica alternativa alla politica degli armamenti, della guerra, alla
politica di Bismarck e degli Hohenzollern, per intenderci. E questo è estremamente
significativo.
D. Emerge tra l’altro sempre a questo proposito una figura in realtà antitetica
ai nazionalismi e alle loro forme.
R. Nietzsche usa a questo proposito l’immagine dei "porcospini in armi", che si
tengono a distanza l’uno con l’altro. In particolare «questa Germania del presente,
per quanto si aderga puntando le armi come un porcospino, rappresenta la forma
più stupida, più degenerata, più falsa dello “spirito tedesco” che ci sia mai stata
sino ad ora» – scrive in una lettera del febbraio del 1887. Se i migliori tedeschi sono
quelli che si "stedeschizzano", lo stesso sguardo Nietzsche riserva ai francesi. C’è
una Francia del cattivo gusto, ad esempio quella emblematicamente rappresentata
nei funerali di Victor Hugo: quando un popolo unitariamente si riconosce in
alcuni valori dati, per Nietzsche è un “gregge”. I migliori francesi sono per questo i
decadenti: coloro che portano un movimento dentro la forma sclerotizzata. Abbiamo
quindi, per la Francia, da una parte la prospettiva analitica, che è rappresentata da
Stendhal, nel quale troviamo quella passione per la conoscenza che ha addirittura in
Descartes il punto di partenza, dall’altra i decadenti, che, come figure di transizione,
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si oppongono alla Francia del "cattivo gusto": tra questi innanzitutto Baudelaire.
Stendhal è l’esempio di un "nichilismo attivo": di chi ci permette di guardare
alla realtà come realtà, senza velami idealistici e travestimenti vari. Nella natura
simbiotica di Baudelaire invece le due prospettive si incrociano, perché il poeta
francese è per Nietzsche, più di altri, capace di analisi e misticismo, un ibrido di
elementi francesi ed elementi germanici.
D. È dunque opportuno, a tuo avviso, rapportarci a Nietzsche, innanzitutto,
come ad un critico delle identità. E che dire per esempio della sua immagine del
“buon europeo”? Non si tratta forse di un esito identitario, magari non nazionalistico, ma pur sempre identitario, della “grande politica”? Un esito tra l’altro che
ci riporta alla nostra attualità...
R. Certo, Nietzsche vuole essere considerato il “buon europeo”, cittadino di un
orizzonte in cui a valere non sono più i principi etnici e nazionali. Ma anche verso
questa forma di identità – l’Europa – Nietzsche è critico. Perché non dimentichiamo
che per lui c’è anche un “cattivo” europeo, ed è quello che ha una immagine ferma
dell’Europa, ovvero formata da una morale europea data per sempre, che poi può
essere appunto la morale cristiana o quella dei valori cristiani. Il "buon europeo"
dunque è l’individuo che è in grado, a sua volta, di “diseuropeizzarsi”, di aprirsi.
Quando Nietzsche vuole giungere a una forma, pensa sempre ad una forma aperta,
capace di inglobare il diverso, l’ostile, senza per questo distruggerlo. È dunque un
modello complesso di forma, il suo, un modello che vediamo presente nel mondo
greco, una volta liberato dalle strettoie metafisiche che tentano di ricondurre ad
unità la molteplicità. L’elemento valido che emerge dalle sue lezioni di Basilea sui
Greci attiene proprio a questa tensione: i Greci prendono la loro cultura da tutto
ciò che li circonda: dall’Oriente, dai culti stranieri, dai Fenici... E soprattutto, ciò
che colpisce Nietzsche è il fatto che la loro arte della parola intersecava la vita
vissuta, la vita quotidiana. Il dionisiaco puro per Nietzsche è distruttivo: per
arrivare alla bellezza delle forme classiche c’è tutta una sofferenza dietro, un dolore,
un lungo lavoro.
D. Dagli ultimi anni, abbiamo fatto un balzo all’indietro, nel segno di alcune
linee di continuità. Per decenni, in effetti, il contributo del Nietzsche filologo era
stato messo da parte di fronte alla grandezza del Nietzsche “maturo”: eppure anche
qui ritroviamo dei nuclei di pensiero su cui riflettere.
R. In tempi passati il problema del "primo Nietzsche" si risolveva rapidamente.
Nietzsche moriva alla filologia con La nascita della tragedia: stroncato dall’accademia, si dava alla filosofia. Tutto qui. In anni recenti anche il Nietzsche filologo è
stato in parte recuperato. Basti pensare a come uno studioso di Diogene Laerzio,
Marcello Gigante, valorizzi l’opera filologica di Nietzsche, sia da un punto di vista
metodologico, sia perché, al di là dei risultati, che Gigante non ritiene validi,
Nietzsche avvia su Diogene Laerzio, e in generale sugli antichi Greci, una riflessione
che ha al centro l’elemento dell’aneddoto, delle vite. Non si tratta cioè più, per lui,
di guardare alla storia della filosofia nei termini di un agire astratto: come se ogni
modello, ogni scuola filosofica, germinasse da quella precedente dentro un vuoto
pneumatico. L’attitudine dei presocratici, in particolare, è quella che li fa lottare
contro le sicurezze, che sono poi anche le ristrettezze, del mito, le ristrettezze della
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polis, in una direzione anche politica ed ecumenica, cioè più universale. La parola,
anche quella scritta, dei Greci, è una parola che tiene sempre presente l’interlocutore
pubblico. Tende cioè a mantenere anche dentro la scrittura l’elemento originario
del gesto, del ritmo, della danza. E questo tema della scrittura come "gesto" è
evidente nei vari modelli di scrittura che Nietzsche utilizza. Nietzsche aspira a quel
modello di comunicazione, una comunicazione più piena: ed è questo un tema che
Colli ha colto sin dall’inizio.
D. Tema cruciale, quello dei diversi modelli di scrittura di Nietzsche, soprattutto
per comprendere meglio la stessa concezione che egli ha della filosofia. Una filosofia
come arte del gesto pubblico, e non solo della scrittura...
R. È impossibile non pensare a questo, proprio riguardo al tema della “relazione”.
Pensiamo alla riduzione ad aforisma: nel momento in cui viene a mancare un nucleo
del soggetto, un atomon di scrittura, per così dire, ci si può approssimare a
una definizione del soggetto solo attraverso la molteplicità delle relazioni che lo
costituiscono. Relazioni che vengono dal passato, ma anche si incrociano nello
spazio presente. A proposito della Parigi delle Esposizioni Universali, piena di
ogni genere di merci, Nietzsche evoca la figura delle maschere che per debolezza
l’uomo moderno può indossare. Il problema per Nietzsche non è di indossare queste
maschere, ma di incorporarle in una forma ricca, aperta. Questo è il punto di
scommessa: la grande salute rispetto la malattia. Dove la malattia è l’essere preda
di questi stimoli plurali, che vengono dal passato come dal mondo contemporaneo
senza la forza di ordinarli in una forma.
D. In questo senso quindi il filosofo dallo spirito libero non è per Nietzsche
estraneo alla “politica”: sia quando parla dei presocratici che quando parla del
proprio tempo, il filosofo è una figura che aiuta la città a uscire da se stessa e dalle
proprie forme.
R. La polis è circonfusa dalla luce del mito, ma è anche ristretta da questo,
mentre l’elemento della conoscenza è qualcosa che distrugge queste sicurezze. Mette
in pericolo: «fa avventurare in mare aperto», dice Nietzsche. E i preplatonici, fino
a Socrate, si avventurano appunto in mare aperto, sono figure di spiriti liberi in
grado di spingersi oltre l’orizzonte della polis. Basti pensare che la figura iniziale
che Nietzsche incontra, facendo studi di filologia, è Democrito. Che per lui rimarrà
«der freieste Mensch», l’uomo più libero in assoluto, il cui spirito di conoscenza
lotta contro i “costumi” che lo circondano, e che pure non riesce ad essere felice,
nonostante la sua etica sia un’etica volta alla felicità e alla liberazione degli uomini,
attraverso la scienza, dalle paure dei miti foschi e dell’aldilà. Il superamento delle
sicurezze implica anche il superamento della “felicità” tout court. Così quando
Nietzsche presenta Platone come l’uomo dalle molte caverne, questo vale in generale
per l’uomo malato decadente: nella pluralità di anime nel petto vediamo anche una
virtualità rispetto al futuro. E se si resta in una pluralità in lotta senza arrivare
ad una forma c’è la disgregazione. La “debolezza” della modernità è quella di non
essere capace di arrivare ad una forma attraverso la pluralità di istinti. Mentre la
forza sta proprio in questo: nella validità della potenza come forma organizzatrice,
che ha dentro di sé la pluralità e che non ha bisogno di tagliare via l’elemento ostile,
la contraddizione.
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D. Socrate, Democrito, Platone... ma c’è un’altra figura, cruciale, con cui
Nietzsche si confronterà in un continuo corpo a corpo, fino alla fine. Se pensiamo
alla rilevanza che Ecce homo sta iniziando ad acquisire ai nostri occhi nell’economia
complessiva del pensiero nietzscheano, e agli ultimi “biglietti della follia”, in cui
si firmerà addirittura Il Crocifisso, non possiamo che tornare a interrogarci sul
rapporto tra Nietzsche e il Cristo.
R. Contro alcune letture che sono state fatte di Cristo come espressione del
"Superuomo" bisogna dire che il Cristo si trova per Nietzsche pur sempre al di qua
del bene e del male. La sua è una serenità che nasce dalla mancanza di confronto
reale con la vita. Cristo non conosce le leggi della natura, se ne sta in questa
limitata interiorità, ed è questo il suo Regno di Dio sulla terra, tutto dentro di sé.
È un regno di interiorità che non si scontra con la realtà. È l’Idiota di Dostoievskij.
La lontananza dal risentimento, che è propria di Cristo, deve confrontarsi con il
mondo reale, con la conoscenza della natura e della società. E Cristo invece, per
Nietzsche, non conosce la natura. La tradizione del Cristianesimo è quella di una
lettura “pneumatica” della natura, che lo avvicina poi al “pensiero impuro” dei greci.
E su questa base, per Nietzsche, non si può costruire più nulla. Il cristianesimo
ha il carattere del pensiero impuro: esso non solo si rifiuta di conoscere la natura,
ma la fraintende, per cui una malattia diventa il castigo di Dio, la sofferenza la
punizione per un peccato...
D. Si tratta dunque di tornare a leggere la natura, il reale, senza fraintendimenti.
Di appurarne la lectio originale...
R. Ecco, esattamente. La professione, il metodo della filologia, tornano in questo
senso come arte di sciogliere, di capire la complessità: di distinguere i vari strati che
qualunque realtà presenta. Ed è questo un elemento che permane: nell’Anticristo
la filologia è ancora l’arte di leggere bene, «di saper cogliere i fatti senza falsificarli
con l’interpretazione, senza perdere, nel desiderio di comprendere, la cautela, la
pazienza, la finezza. Filologia come ephexis nell’interpretazione: si tratti di libri,
di curiosità giornalistiche, di destini o di fatti meteorologici – per non parlare della
“salvezza dell’anima”». E da qui la contrapposizione, che arriva alla rottura, con
l’idealismo morale che non ha più – pensiamo al caso di Malwida von Meysenbug –
nessun valore di movimento rispetto alla realtà, ma diventa un’apologia della realtà
data, la sua trasfigurazione idealistica.
D. L’amica Malwida, che tenterà fino all’ultimo di conciliare Nietzsche con
Wagner. Ed è nel ventre dell’idealismo wagneriano che si anniderà tenacemente
l’antisemitismo tedesco di questi anni. Del resto un antisemita Nietzsche finirà con
l’averlo, suo malgrado, in famiglia: ne sposerà uno la sorella Elizabeth, la prima
curatrice oltre che la sacerdotessa del “culto” nietzscheano dei primi anni del secolo.
Eppure Nietzsche sembra rompere con tutto questo ben prima della follia.
R. Certo, il punto di divaricazione dal wagnerismo è tutto qui: in questo
idealismo morale che porta all’antisemitismo, nel caso di tutti i wagneriani. Quando
l’idealismo morale si gonfia il petto, trasfigura la realtà e diventa poi copertura e
accettazione di questa realtà così com’è: come dire, "noi siamo i puri e la colpa è
tutta degli altri, perché se il tedesco si liberasse da queste impurità...". E Malwida
cosa dice, infatti? Che se fosse stata più giovane sarebbe andata con Förster a
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fondare la colonia germanica e antisemita in Paraguay, esalta Gobineau, il Parsifal
come l’opera più gigantesca...
D. Certo, è davvero impossibile riflettere adeguatamente, in poco tempo, sulla
valenza della frattura tra Nietzsche e Wagner. Accontentiamoci di una traccia:
quale?
R. Direi che il tema della “teatrocrazia” è inaggirabile. Senz’altro Wagner non è
un istrione dionisiaco. La sua non è cioè la comunicazione piena, la comunicazione
dell’histrio che ha il corpo come strumento privilegiato, ma è un’impostura, perché
questa sua comunicazione passa attraverso il dominio dell’attore sulla folla e
pretende di essere sacerdote del Vero. Quindi attraverso strumenti di inganno e di
violenza sui sensi. La teatrocrazia è la scenografia necessaria per arrivare ad un
potere, ad un potere tirannico che non sopporta altri accanto a se stesso, se non
servi.
D. Abbiamo toccato alcuni temi, quelli del Nietzsche politico, dell’antisemitismo,
che sono rientrati di recente prepotentemente nel dibattito filosofico italiano. Eppure
dal “bilancio critico”di Losurdo sono ormai passati più di dieci anni e Nietzsche
sembra faticare non poco a stare nella pelle di un “ribelle aristocratico” [cfr. D.
Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico: biografia intellettuale e bilancio critico,
2002]. Del resto Deleuze lo aveva detto: ad ogni generazione avremo un nuovo
Nietzsche.
R. È la ricchezza del pensiero di un grande filosofo, che ha esercitato e trovato la
filosofia, come dice Foucault, lì dove la filosofia non c’era: nel quotidiano, nell’opera
d’arte, nel gesto, nella divisione del tempo, nella giornata, nella musica... Tutto
questo avrebbe dovuto essere trascurato in favore di una caricatura che ci riporta a
un Nietzsche "totus politicus" assolutamente improponibile: i testi non permettono
questa lettura. Per Losurdo, per la critica che egli muove ai criteri dell’edizione
Colli-Montinari, l’edizione ideale sarebbe quella che mette insieme, tagliandoli e
“sistemandoli”, i pochi brani antisemiti del primo periodo, i brani aristocratici che
pure in Nietzsche non mancano, in una costruzione ideologica che pure non sarebbe
semplice comporre. Il rischio certo è quello di una mistificazione.
D. Su cosa poggia questo rischio?
R. Il pamphlet (anomalo per il numero esorbitante di pagine) di Losurdo
mostra lacune pesanti nella conoscenza dei testi che con Franco Volpi abbiamo
ben documentato. Poi, per il tema della Sozialfrage, della “questione sociale”,
che dovrebbe essere perno del volume: il termine si trova in tutti gli scritti di
Nietzsche solo tre volte, e tra l’altro solo nella prima parte della sua produzione.
Così anche la contrapposizione tra Übermenschen e Untermenschen, Superuomini
e Sottuomini, in Nietzsche non esiste. Del tutto fuorviante è quindi l’antitesi tra
una salute piena e la malattia, perché essa trascura il tema della decadenza, della
malattia e l’importanza che per Nietzsche questo possiede. E trascura il fatto che
il vero avversario del Superuomo non è l’uomo malato ma l’ultimo uomo, per cui
vale nello Zarathustra la metafora della “pulce di terra” che vive più a lungo di
tutti, dotato di una salute animale.
D. Un altro attacco ai criteri, e talvolta ai risultati dell’edizione, è venuto poi
da un lato fino a qualche anno fa insospettabile. Con una mossa di quelle che a
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volte accadono nella storia della filosofia, il newrealism di Maurizio Ferraris, l’erede
ultimo del “pensiero debole” di Gianni Vattimo, che pure tanto ha indagato sul
Nietzsche “ritrovato” con l’edizione critica, prosegue il tentativo di riconsegnarci
un Nietzsche inderogabilmente compromesso col nazismo. Come te lo spieghi?
R. Questo è accaduto perché, a un certo punto, si è ripreso Nietzsche utilizzandolo strumentalmente per battaglie di tipo culturale, politico e sociale. L’edizione
critica Colli-Montinari diventava allora un pretesto: era quella che aveva "liberato"
Nietzsche, che ci aveva portato un Nietzsche assolutamente libertario, anarchico,
destrutturante. Anche qui però il rischio che si annidava era di non vedere la
complessità dell’autore, la sua costanza nella ricerca di una “seconda natura”, di
una costruzione. Finché, quando la prospettiva di partenza è stata rovesciata, si è
arrivati a muovere delle critiche che non sono giustificate da nessun punto di vista
verso l’edizione critica, valorizzando compilazioni come La volontà di potenza [F.
Nietzsche, La volontà di potenza. Nuova edizione italiana a cura di M. Ferraris
e P. Kobau, Bompiani, Milano 1992]. Ora, sappiamo come l’edizione ci abbia
riconsegnato molti più testi rispetto a quelli contenuti nella Volontà di potenza,
testi che sono appunto ricollocati nella loro corretta posizione cronologica. C’è
quindi sempre una complessità di cui dobbiamo farci carico, che va letta. Non c’è
nulla di peggiore delle terribili semplificazioni che sono valse in passato – basti
pensare D’Annunzio – come la lettura della Genealogia della morale nei termini di
una rigida dicotomia – eternizzata – tra morale dei Signori e morale degli Schiavi,
da consolidare nel presente e nel futuro. Ora, nella “Genealogia delle morali”,
queste sono due tipizzazioni che non valgono certamente nel mondo moderno. E
sono comunque due tipizzazioni a cui occorre aggiungerne altre.
D. Eppure sembra che in queste critiche alla pratica dei testi nietzscheani
consentiti dall’edizione Colli-Montinari vi sia da un lato la contestazione sub judice
di una certa “linea” della filosofia italiana del dopoguerra e dall’altro, ancora una
volta, la ricerca di una “resa dei conti finale” con Nietzsche.
R. Il pericolo maggiore è certamente la perdita di una libertà di critica. Si
costringe di nuovo il pensiero su binari ben determinati. Da una parte abbiamo così
il ritorno dei “fatti” contro le interpretazioni, dei fatti dati una volta per tutte e a
cui ci si deve adeguare, per cui la Volontà di potenza diventa un “fatto”, anche se
quel libro Nietzsche non l’ha mai scritto. Dall’altra parte invece Nietzsche diventa
teorico del relativismo, cioè di qualcosa che Nietzsche stesso ha combattuto come
espressione di decadenza, di mancanza di centri. Sono semplificazioni parallele
verso Nietzsche e verso quello che è stato appunto il costante atteggiamento criticofilosofico di Nietzsche: un atteggiamento che tenta di comprendere la complessità
del reale in tutte le sue stratificazioni e mobilità. Viene meno quindi anche la
riflessione sul reale come orizzonte mobile di forze che si incontrano, che non hanno
un fine già dato. Se questo è il nucleo dell’atteggiamento che Nietzsche condivide
con la filologia, ecco, questo nucleo in entrambe le letture viene meno.
D. Mentre un’edizione storico-critica è per statuto in fieri...
R. Qual era in effetti l’insegnamento di Nietzsche secondo Colli e Montinari, se
non quello di seguire la complessità al di fuori di una semplificazione? Misurare
come cioè da un appunto di lettura, da un extra testo, l’autore arrivi alla definizione
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dell’aforisma o del testo: il carattere liberatorio dell’approccio di Montinari sta
qui. Sta in un atteggiamento, che Montinari perseguiva, di serietà nei confronti
della realtà. Colli aveva invece, come momento di partenza, un atteggiamento di
venerazione verso il “grande uomo”, e la comunicazione diretta, il dialogo reso
impossibile per la separazione temporale, tutto questo doveva essere per lui restituito
attraverso l’integrità del testo. Il testo “ritrovato” o “da ritrovare” implica però
per lui un’azione e un effetto diretto: un avvicinamento che restituisca almeno un
bagliore della comunicazione vivente. Il testo è in questo senso per lui un residuo,
come per i Greci. E per Colli questo bastava: accogliere Nietzsche per esserne
trasformati. Entrambi insomma vedono in Nietzsche un maestro di libertà: da una
parte attraverso una immediatezza di effetto, dall’altra parte attraverso un lavoro
critico, quotidiano. Di approssimazione.
D. Non possiamo nasconderci che, a differenza di altri autori, e pur nella
difficoltà delle discipline filosofiche di vedere riconosciuta oggi la legittimità dei
propri "discorsi", Nietzsche non smette di appassionare le giovani generazioni.
Cos’è che rende Nietzsche, a tuo avviso, un "educatore"? E inoltre, come far sì che
chi inizia a leggerlo oggi possa essere "giusto" nei confronti del testo nietzscheano?
R. Nietzsche è tanto facile da leggere, quanto è di difficile comprensione. Si è
detto che Nietzsche ha detto tutto e il contrario di tutto. Non è vero: sono i suoi
critici che hanno detto tutto e il contrario di tutto, non lui. Nietzsche ha un percorso:
chiaramente con delle svolte fortemente significative. Nietzsche presupponeva una
lettura complessiva che tenesse conto di tutti i testi che aveva scritto. E addirittura
– non è una battuta – proponeva della cattedre per la spiegazione e il commento di
Zarathustra, di cui spesso si è data una lettura facile, immediata: quindi con forti
fraintendimenti. Teniamo dunque conto, allora, oltre a tutto questo, e adesso che
lo possiamo leggere, anche del carattere specifico del materiale postumo, certo non
contraddistinto da organicità, ma che è pure un immenso laboratorio sperimentale,
aperto. In cui Nietzsche inizia spesso strade che poi non percorre fino in fondo.
D. Hai fatto riferimento, prima, alle molte linee che convergono nella “preistoria” dell’edizione. D’altra parte anche la “storia” che ti coinvolge direttamente
ne ha intersecate parecchie. Se c’è una città che ha in fondo effettivamente fatto
da culla all’edizione Colli-Montinari, questa è Pisa. Una delle più importanti città
"filosofiche" italiane, in cui lo studio della tradizione filosofica ha sempre avuto dei
risvolti etico-politici cruciali. Che cosa ha dunque condotto un allievo del marxismo
storico di Nicola Badaloni verso un autore fino a quel momento maledetto?
R. Ho incontrato Nicola Badaloni quando era ancora giovane professore incaricato e con lui ho fatto il primo colloquio in Normale sul rapporto tra Schopenhauer
e la storia. Poi mi sono laureato con lui con la tesi Genesi della filosofia di Nietzsche
ed ho avuto come correlatore Colli. L’ atteggiamento di Badaloni che più mi
ha appassionato: quello capace di congiungere passione civile e ricerca storica.
Dall’altra parte per me è stato bello scoprire dopo la sua scomparsa – lavorando
sui materiali del suo fondo, poi donati dalla famiglia alla Biblioteca labronica – che
le prime letture di Badaloni erano rivolte contro il cerchio magico dell’attualismo:
Michelstaedter, Scheler, ed anche Nietzsche, in primo luogo attraverso la mediazione
dell’esistenzialismo di Luporini e di Massolo. Un suo primo abbozzo di tesi di
Studia Nietzscheana (2014), www.nietzschesource.org/SN/campioni-ferarro-2014.
Giuliano Campioni, Gianfranco Ferraro
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laurea riguarda proprio questi temi – in direzione di una filosofia che liberava e
che passava attraverso la radicalità e la concretezza dell’esistenza volgendosi al
futuro. A questa concretezza di fattualità e controfattualità Badaloni è sempre
rimasto fedele. Per me è stata una lezione importante, che si è unita solo più tardi
alla lezione di Montinari, conosciuto dopo la laurea. Con la sua passione storica
Badaloni metteva in crisi anche certe rigidezze imposte dall’epoca e per questo, se
certi lavori di Badaloni sono stati pionieristici e sono tuttora di grande validità, è
perché non erano ricostruzioni guidate o dominate dall’ideologia, ma c’era dietro
appunto un lavoro filologico, storico, che irrompeva nel presente. E questo era
un punto di assoluta vicinanza con Montinari. Questa la “saggia radicalità” di
entrambi. È forse l’atteggiamento che può unire queste figure a cui sono stato
legato per tutto il mio percorso.
D. Il tuo quarantennale lavoro su Nietzsche ti ha permesso di incrociare biografie
e amicizie diversissime. Hai spesso messo l’accento – e ultimamente anche nella
tua introduzione ad un volume in memoria di Sandro Barbera – su questo legame
tra esperienze di lavoro e amicizie. Che cosa ha significato, che cosa significa,
secondo te, lavorare insieme con altri? E in che termini questo elemento è ancora
decisivo per il lavoro d’équipe dell’edizione critica?
R. Ripercorrendo gli atteggiamenti culturali di Montinari e di Badaloni, pur
nelle loro differenze, si coglie l’atteggiamento comune di una serietà nei confronti
della cultura, nei confronti della vita, nei confronti dell’impegno sociale, della
professione, che sembra appartenere veramente ad un’altra epoca. Un impegno
– il loro – segnato da durezze e difficoltà, sullo sfondo delle vicende culturali,
editoriali, politiche del dopoguerra comuni ad una generazione, e che ora, più che
mai, sembrano allontanarsi come qualcosa di quasi definitivamente consumato.
Queste figure che discutono... in cui la discussione è indirizzata al cambiamento,
con una vitalità di pensiero appassionata. Intorno a Badaloni c’è stata fin dall’inizio
una comunità di discussione, pur con diversità personali e in essa Sandro Barbera era
la persona a me più vicina. Una forte amicizia, la nostra, che ci faceva scambiare
le esperienze. Certamente il mio atteggiamento verso gli allievi è stato quello
dell’incoraggiare la loro piena libertà di ricerca come è avvenuto con me da parte
dei miei maestri, verso la mia ricerca molto inattuale negli anni Sessanta.
D. Hai parlato di Nietzsche, polo della tua ricerca, come di un “continente
inesauribile”. Quali altri orizzonti a tuo avviso risulta necessario indagare, da qui
in avanti, di questo "continente"?
R. Una volta entrati nel continente Nietzsche è difficile uscirne. Da Nietzsche ci
si può avviare lungo linee che arrivano fino ai filosofi preplatonici e al pensiero mitico,
oppure verso le discussioni attuali. In questo senso è vero dunque anche il contrario:
uno entra in Nietzsche, e immediatamente ne esce. E questo perché Nietzsche
non allontana dalla riflessione contemporanea, ma dà strumenti per comprenderla
meglio, in maniera non rigida. È la garanzia di un approccio con strumenti mobili
ma sempre modificabili verso una realtà che comunque è sempre più complessa e
difficile da capire, per certi aspetti, e che vuole apparire in pericolose semplificazioni.
Nell’ottica di Montinari l’edizione doveva svilupparsi in apparati il più possibile
esaustivi, e il pericolo da evitare era che il testo diventasse l’appendice dell’apparato.
Studia Nietzscheana (2014), www.nietzschesource.org/SN/campioni-ferarro-2014.
Nietzsche: i segni dell’opera, le tracce dell’uomo
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D’altra parte si trattava, e si tratta ancora, di un lavoro di definizione, per esempio
attraverso quel lavoro sulle fonti che Montinari per primo ha individuato come il
motivo decisivo di una nuova Nietzscheforschung. Si doveva togliere a Nietzsche
ogni aura mitica e ricollocarlo nel proprio tempo, al fine, in realtà, di farlo davvero
uscire da esso. Determinarlo rispetto agli interlocutori, ma determinarlo, per
misurarne in tal modo l’originalità.
Come Montinari ha sempre sottolineato, l’edizione è sempre dunque anche
la storia dell’edizione: l’ultima edizione “invera” ed incorpora anche il lavoro
per le edizioni precedenti. Quindi, in un certo senso, a parte la polemica con
i fraintendimenti consapevoli e le falsificazioni filologiche, Montinari ha sempre
riconosciuto il debito con le edizioni precedenti.
D. Non ci resta dunque che parlare del futuro dell’edizione. E in questo
futuro certamente la digitalizzazione delle opere di Nietzsche occupa un posto
cruciale. Quindici anni fa un progetto come il Nietzsche Source poteva apparire
come un’operazione visionaria, quasi un gioco: oggi è invece uno strumento di
lavoro quotidiano. Sui testi, totalmente gratuiti e a disposizione di tutti, lavoriamo
ormai in rete: quanto siamo lontani dal "laboratorio" di Montinari?
R. Dopo la scomparsa di Montinari, ho potuto vedere più da vicino, lavorando
sulle sue carte messemi generosamente a disposizione dalla moglie Sigrid, la fatica
e la difficoltà del suo operare, sui manoscritti dalla difficile decifrazione, con le
schedine, con le fotocopie gialle, provenienti dalla Weimar della DDR, dei volumi
della biblioteca di Nietzsche, con i segni appena avvertibili. Con gli strumenti
informatici a nostra disposizione abbiamo oggi il documento originario, il testo
che Nietzsche ha redatto, sempre di fronte a noi: e accanto a questo testo la
trascrizione, che può essere modificata per errori di decifrazione – nel caso di
Nietzsche anche rilevanti e che in più di un caso hanno cambiato il senso delle
interpretazioni. Abbiamo quindi la possibilità di un’edizione che ci dà, essendoci
sia il testo originale che la trascrizione, la continua possibilità di confronto e
che ci rende comprensibili gli interventi successivi di Nietzsche. Il lavoro sulle
fonti, l’apparato critico, rimane un punto fermo ovviamente anche nell’edizione
digitale: un lavoro in fieri, certamente in buona parte compiuto, e che era stato
assolutamente trascurato dopo la morte di Montinari dagli editori tedeschi, i quali
si giustificavano dicendo che questo lavoro spetterebbe agli interpreti. Nulla di più
errato, perché l’individuazione di fonti, la loro connessione e la loro interpretazione
ci permettono di correggere anche molti errori di trascrizione, e in definitiva, se
pensiamo all’importanza che assumono i Frammenti postumi per la comprensione
dell’itinerario complessivo di Nietzsche, di “leggere” davvero il testo, tenendo conto
della diversità e varietà del materiale. Un lavoro inesausto, questo, che sempre
nuove linee può intersecare e che, con tutta la buona volontà, nessun motore di
ricerca online è ancora in grado di compiere.
Studia Nietzscheana (2014), www.nietzschesource.org/SN/campioni-ferarro-2014.