Moschino - PIMPIRIMPANA

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Moschino - PIMPIRIMPANA
MOSCHINO
Leonardo Lavacchi
Non tutti gli uomini, maschi e adulti, sono uguali. Ce ne sono che davanti alla donna eppur
desiderata non trovano mai propizio il momento di proporsi, e non sanno cogliere al balzo l’oc casione nemmeno quando lei, per usare un’espressione triviale ma pittoresca, comune nel luogo
che fu teatro dei fatti che andiamo a narrare, gliela sbatte in faccia, mentre altri, pur non dotati di
speciale olfatto ma sì probabilmente di un diverso senso, di una spiccata sensibilità, percepiscono
le femminili voglie prima ancora che la donna ne acquisti la consapevolezza, e aiutandola a prenderne coscienza, non conoscono nel loro assalto incertezza, o dilazione, o esitazione tanto ch’è
inimmaginabile il rifiuto.
A questo secondo gruppo sarebbe appartenuto, se fosse stato umano, Moschino, il cane di
Biagio, che da cane aveva in sopraggiunta un olfatto specializzato, inutile per la caccia, giacché nel
bosco lepri o fagiani potevano passargli accanto inavvertiti, o forse ignorati, come faccende che
non lo riguardassero, ma eccezionale nel percepire l’estro manifestato da qualsivoglia cagna in
tutto il circondario. D’altronde era quella l’età dell’oro per i cani, al margine anche per i bambini,
poiché la ristrettezza e il sovraffollamento degli alloggi volevano che gli uni e gli altri passassero la
maggior parte del tempo allo stato brado. Temevano e odiavano perciò Moschino tutti i proprietari di femmine fertili di notorio fiuto e nobili ascendenti, a niente meglio nate, loro sì, che a stanare e snidare selvaggina, la discendenza delle quali avrebbero voluto perpetuare previo accoppiamento con esemplari maschi di uguale razza, di pari abilità, se non certificata da autentico pedigree su carta bollata, almeno riconosciuta per fama dai membri più autorevoli della comunità ve natoria. E invece no, era sempre lui, il perfido cane di Biagio, irsuto, brutto, nero anche dov’era
bianco, intruglio di mille razze, il primo ad accoppiarsi: non v’era recinto invalicabile, né guinzaglio corto a sufficienza, che valessero a preservare quelle preziose cagnette dall’inseminazione
proditoria rapida e tenace da Moschino perpetrata.
Anche la Diana, di Gosto vanto supremo, sì, perfino lei, capace di mantenersi immota nella
punta per l’eternità, in attesa tutto il tempo che dovesse il comando tardare, per poi obbligare il
fagiano a spiccare il volo quando dove e come più favorevole si presentasse al cacciatore, nemmeno lei aveva saputo resistere alle lusinghe amorose di quel casanova, e mentre Gosto si affacciava alla bottega del fornaio, trattenendola al guinzaglio lì fuori a poco più di un metro, e chiede va il filone di pane (caldo, appena sfornato, che profumo delizioso, veniva da staccare subito il
cantuccio e sgranocchiarlo) e lo pagava con qualche difficoltà per l’impiccio della mano occupata
e la presbiopia che mal consente la scelta delle monete, lei già si era concessa, e le pedate sferrate
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ai due congiunti amatori poco valevano a riparare il danno, a dare, pur condite di orribili minacce,
sfogo bastante a tanta incazzatura.
Era allora comandante del locale distaccamento dell’Arma dei Carabinieri, da poco tempo
non più Regi, il brigadiere Antonio Caruso, trapiantato in Toscana per motivi di servizio, che godeva del massimo rispetto per l’autorità che dalla carica gli derivava, ma non di pari simpatia, un
po’ per l’inconciliabilità dei due sentimenti e un po’ per certe peculiarità del carattere, tutte colle gate alla sua passione per la partitina a tressette ‒ chiamato da quelle parti trentuno e solitamente
abbinato alla briscola ‒ che ogni giorno, se non intervenivano particolari impedimenti, giocava
nel bar del paese: il suo gioco era piuttosto elementare, ma neppure peggiore di tanti altri; era
però mal vista la sua insofferenza per i commenti degli spettatori (come se questi fossero un accessorio inutile e fastidioso e non parte fondante e basilare della partita); del pari male si digeriva
la sua pretesa di trovare sempre disponibili altri tre che con lui giocassero, con tanta insistenza
che il rifiuto, magari dovuto alla presenza di più interessanti combinazioni o più semplicemente a
scarsa voglia, diveniva sgarbo e il gioco obbligazione; ed era più di tutto invisa la sua imprescindibile esigenza di avere accanto a sé, limitando quindi lo spazio per gli spettatori, una sedia vuota,
quale altare per l’eroica fiamma, dove adagiare il cappello d’ordinanza. Biagio, considerato per
quanto anziano fra i migliori giocatori del paese, più di ogni altro subiva quelle ineludibili convocazioni, simili alla chiamata alla leva che pure aveva dovuto a suo tempo sopportare con paziente
rassegnazione.
Quando nel bosco fu scoperto il cadavere di Gosto, e vicino il fucile, il suo, dal quale era par tito il colpo che lo aveva raggiunto in pieno petto, e accanto a lui la Diana che uggiolando gli lam biva il volto senza accettare l’impossibilità di rianimarlo, il brigadier Caruso, che pur nella concentrazione del gioco non restava sordo a quello che intorno a lui si diceva e non ignorava dunque le
gesta amatorie di Moschino, vide una chiara luce, qual folgore in damaschino viottolo. Quel gior no Biagio, nell’aprire dopo deciso ed insistente scampanellio, se lo trovò sull’uscio di casa e non
nascose la sua sorpresa, poiché mai accadeva che l’altro, pur trovandosi casualmente a passare da
lì, si fermasse per una visita di cortesia ‒ così, per fare due chiacchiere, anche per bere un caffè,
perché no, se fosse tanto cortese da prepararglielo. Più sorprendente ancora che, mentre con il
cucchiaino rimestava meticolosamente il liquido nel quale aveva riversato una quantità incredibile
di zucchero, chiedesse di Moschino ‒ certo, per pura curiosità ‒, non avendo mai mostrato per il
cane la minima simpatia, ed anzi un certo turbamento, se al bar lo vedeva avvicinarsi durante una
partita, dovuto forse all’apprensione per le sorti del cappello. Il cane non era lì, né Biagio sapeva
dove si fosse cacciato, come era del resto naturale, ma se il brigadiere ci teneva ‒ sì certo, per
pura curiosità ‒ poteva provare a chiamarlo: qualora si trovasse nei paraggi, a portata di fischio,
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sarebbe sicuramente accorso. Si fa sulla porta, due dita fra le labbra, una profonda inspirazione,
un sibilo acuto e prolungato, e dopo pochi istanti il cane arriva trafelato, salta addosso al padrone,
entra in casa e va scodinzolante a strusciarsi alle gambe del milite aspettando da lui una carezza,
perché era quella la sua natura ‒ come si confà ad un perfetto dongiovanni ‒, gioviale e festoso
con tutti, anche con quelli che per punire la sua lascivia gli rifilavano delle belle botte, quasi che,
conscio dei propri peccati, fosse grato per la penitenza, dolorosa ma non troppo devastante, con
la quale gliene favorivano l’espiazione.
Il Caruso, che in fondo era una buona persona e gli sarebbe dispiaciuto vedere il compagno di
gioco, quello meno riottoso a formare con lui coppia, coinvolto in una brutta storia, tirò un so spiro di sollievo e una carezza al cane gliela fece davvero. Idea balzana era stata quella ‒ altro che
folgore ‒, per fortuna precocemente smentita dai fatti: altrove andavano dirette le indagini, se
delle indagini fossero necessarie, perché non era difficile immaginare che il crimine, se di crimine
si potesse parlare, avesse la sua origine in qualche fatto avvenuto durante quella stupida guerra,
fra fascismo e liberazione, in qualche vicenda che avesse lasciato dei residui non completamente
rimossi, dei rancori non del tutto sopiti, in qualche storia che di sicuro sarebbe meglio non rivan gare, cosicché il decesso, essendo i reperti compatibili con la dinamica di un incidente venatorio ‒
il fucile che cade, il colpo che parte ‒, come tale andava rubricato. E non se ne parlasse più.
Accompagnato il brigadiere alla porta, e ringraziatolo per la visita ‒ l’altro fece lo stesso per il
caffè ‒, tornò Biagio a sedersi, chinandosi un po’ a carezzare la schiena ispida di Moschino accucciato ai suoi piedi, compagno, amico, solidale nel malinconico declinare delle loro vite. Sorrideva,
seppur con mestizia, nella convinzione che quella mano, forse l’intera partita (dacché il rivale ave va confermato la solita visione unilaterale della realtà ‒ tanto lontana dalla machiavellica raffinatezza per cui era fiorita in quei paraggi la più prorompente civiltà della storia ‒, che sempre gli
impediva di discernere nelle giocate lo scopo di instradare il compagno da quello di sviare gli av versari, e non aveva considerato che si potrebbe aver fatto per prevenzione ciò che si sarebbe potuto fare, meno agevolmente, per vendetta ‒ né l’orgoglio gli consentirebbe, se qualcuno insinuasse una diversa possibilità, di accogliere l’imbeccata) fosse ormai vinta. Chissà.
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