ScreenSaver. Videoarte e Premio alla migliore sceneggiatura

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ScreenSaver. Videoarte e Premio alla migliore sceneggiatura
ScreenSaver. Videoarte e Premio alla
migliore sceneggiatura
Dal ventidue al trentun Luglio Gorizia ha ospitato la XXIX edizione del Premio Internazionale alla
Miglior Sceneggiatura, istituito nel 1981 in onore dell’autore triestino Sergio Amidei e diventato un
appuntamento fisso nell’estate friulana. Il festival focalizza l’attenzione sulla scrittura per il cinema
come processo di narrazione irriducibile alla sola testualità, perché generato dal complesso di
elementi performativi, sonori e verbali propri dell’opera. Di queste singole parti è impossibile quanto
superfluo prendere atto nel corso della visione di un film: immersi nel buio della sala, ci si lascia
trasportare dalle sequenze di immagini e dalle sollecitazioni acustiche calandosi nella diegesi senza
pretese chirurgiche sul corpo filmico. Ma ai dieci film in concorso e alle oramai tradizionali sezioni
collaterali, quest’anno si è aggiunto ScreenSaver, spazio curato in collaborazione con Open Video
Projects che ha aperto le porte del Premio Amidei alla videoarte, grazie alla quale si è discusso di
scrittura cinematografica nella sua anatomica costituzione.
Goldiechiari, Dump Queen,
2008
Nel proporre ScreenSaver le curatrici Sarra Brill e Giovanna Felluga hanno adottato come criterio
assiologico le tre componenti di cui sopra, origine delle sezioni Behind the curtains and back again,
Act like music e Write it down, get it out che hanno gettato un ponte tra la cellula embrionale del
concorso – la sceneggiatura – e la videoarte. Così facendo, si è rischiata l’equazione “fruitore di
cinema uguale fruitore di videoarte” che ha subìto il contraccolpo nell’affluenza di pubblico,
presente in massa alle proiezioni di film e più sparuto nelle ore riservate al nuovo evento. Nel corso
della loro storia, cinema e videoarte si sono più volte incontrate, hanno dialogato proficuamente e si
sono influenzate tra di loro ma raramente il pubblico si è dimostrato sovrapponibile in quanto più
emotivamente partecipe delle storie raccontate al cinema. Il coinvolgimento della trama non è infatti
equiparabile all’impegno epistemologico richiesto da un video, così che, dopo le ore trascorse a
scoprire i film presentati dall’edizione 2010 del Premio Amidei, è stato necessario assestare le
proprie aspettative di fronte all’interessante carrellata inaugurata dall’opera Occupation di Clemens
von Wedemeyer (2002).
Un’analisi delle dinamiche che appartengono ad un set cinematografico, ma che si sottraggono alla
conchiusa dimensione narrativa della scena è quanto propone il primo gruppo di lavori: in Behind
the curtains and back again rientrano infatti una serie di titoli che interpretano l’azione scenica
secondo un movimento circolare che rende l’al di qua della camera più rilevante di quanto accade di
fronte alla stessa, svelando avvenimenti di norma estranei al tempo diegetico del film. Il carattere
reiterativo delle prove di una sequenza filmica raggiunge l’assurdo in Not 360 di Ra di Martino, dove
la regista del film interrompe i ciack a causa dell’irrealtà del replicarsi identico della stessa azione;
la medesima scena si ripete tale e quale ipostatizzando il paradosso espresso. Simile è l’andamento
temporale di Untitled in cui l’artista Keren Cytter privilegia una riflessione non tanto sul tempo
quanto sullo spazio, spostando off stage il baricentro e confondendo di conseguenza il dietro e il
davanti le quinte. Le contorsioni meta-discorsive di questa prima sezione proseguono nei video di
Ursula Mayer, Interiors, ed Elisabetta Benassi, Timecode, fino al parossismo del lavoro di Manuel
Saiz, The two teams team, che offre un confronto diretto tra cinema e videoarte attraverso l’acuto
dialogo di due attori; nell’elencare le controversie esistenti tra i due linguaggi audiovisivi, il lavoro di
Saiz opera conformemente a quanto esprime perché adotta la videoarte come mezzo di possibile
approfondimento critico del linguaggio audiovisivo tout-court.
A quella performativa segue l’analisi dell’aspetto sonoro in Act like music. La seconda sezione
comprende otto video che hanno concentrato il fulcro dell’opera sull’audio e declinato la parola act
secondo la sua valenza polisemantica di atto teatrale, recitazione attoriale e azione in senso generale.
La musica agisce da protagonista in You don’t love me yet di Joahnna Billing, dove la canzone
originale di Roky Erickson riarrangiata da Ida Lunden è accompagnata da una colonna visiva
composta in base agli stilemi del videoclip; la presenza figurativa passa in secondo piano anche in B
is for Blue di Mathew Sawyer, dove il battere dello xilofono è esasperato al punto da annullare la
presenza dell’immagine. Questa riacquista una sua preponderanza in Dump queen di goldiechiari
sullo sfondo di una discarica, l’attrice canta nelle vesti di Carmen Miranda definendo una
perturbante sovrapposizione tra la forza mitica dell’immagine della donna, la sua voce e ciò che
accade nel retroscena; un simile gioco di pesi lo si può trovare anche in Und jedem Ende wohnt ein
Anfang Inne di Olaf Nicolai e August 2008 di Ra di Martino. Nummer vier di Guido van der Werve e
It Will All End in Tears di Jesper Hust lavorano sul ruolo tensivo ed emotivo della musica mentre è il
video di Patrick Ward, In order of appearance che chiude magistralmente il gruppo: i fotogrammi
sono stati estratti dai titoli di coda di diversi film e accostati ad una composizione elettronica che
innesca un cortocircuito con il concetto di conclusione.
Calzante la scelta di chiudere ScreenSaver con Write it down, get it out, la sezione che coinvolge i
lavori di Julie Perini, Mariana Ferratto, Anetta Mona Chisa & Lucia Tkacova e Alban Muja, focalizzati
sulla valenza della parola e del testo. Attraverso l’impostazione tripartita, ScreenSaver ha eseguito
una puntuale operazione endoscopica sui diversi corpi della sceneggiatura attraverso ciò che è
prerogativa dello strumento con cui si è proceduto. ScreenSaver è il salva schermo, l’immagine che
si manifesta nei momenti di passaggio tra i lavori al computer, ma è anche l’immagine che può
salvare il più grande schermo del cinema, facendoci riflettere sulla nostra visione.
Elena Cappelletti
D’ARS year 50/nr 203/september 2010