La ricerca empirica in psicoanalisi e psicoterapia dinamica può

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La ricerca empirica in psicoanalisi e psicoterapia dinamica può
La ricerca empirica in psicoanalisi e psicoterapia dinamica
può essere utile alla pratica clinica svolta nei servizi
di salute mentale?1
ANTONELLO COLLI
Quando si parla di ricerca in psicoterapia alcuni obiettano relativamente alla possibilità di
verificare empiricamente i trattamenti, altri ne contestano l’utilità, muovendo critiche e sollevando
perplessità rispetto alle reali ricadute sul piano della pratica clinica. Le cose vanno ancora peggio
quando si parla di ricerca in psicoanalisi e in psicoterapia dinamica: i sostenitori di un’impossibilità
a indagare empiricamente i trattamenti psicoanalitici sono tanti (Leuzinger-Bohleber, Dreher &
Canestri, 2003) e tra questi molti lamentano il timore che un’eccessiva enfasi sulla polarità della
verifica empirica possa determinare un «collasso del pensiero» analitico (McKinley, 2011). Al
tempo stesso altri sostengono che la psicoanalisi pur «riconoscendone il valore storico non possa
svolgere alcuna funzione all’interno dei servizi di salute mentale poiché non solo non vi sono prove
della sua efficacia come metodo ma addirittura non ci sono basi empiriche che sostengono i suoi
costrutti chiave» e concludono affermando «che l’impiego della teoria e della pratica psicoanalitica
siano addirittura dannosi e controproducenti per non dire perversi all’interno di un servizio di salute
mentale» (Salkovskis & Wolpert, 2012, 1). Partendo da queste premesse potrebbe apparire alquanto
problematico sostenere, sulla base dei risultati delle ricerche empiriche, l’utilità della psicoanalisi e
della psicoterapia psicodinamica a lungo termine, rispetto alla pratica clinica attuata all’interno dei
servizi di salute mentale. In particolare Salkovskis e Wolpert (2012), nel loro articolo sul British
Medical Journal che ha innescato l’ennesima discussione pro e contro psicoanalisi relativamente
all’utilità dei trattamenti analitici all’interno dei servizi di salute mentale (Fonagy & Lemma, 2012),
sostengono che: 1) non esistono prove empiriche relativamente all’efficacia dei metodo analitici; 2)
la psicoanalisi, non facendo diagnosi, è inconciliabile con la pratica psichiatrica; 3) i trattamenti
psicoanalitici sono eccessivamente (e inutilmente) lunghi e costosi; 4) rifiutando la psicoanalisi una
valutazione dell’esito dei trattamenti non può essere inclusa all’interno di servizi pubblici la cui
logica deve essere necessariamente quella della programmazione, pianificazione e verifica dei
trattamenti, etc. Ma è vero che la psicoanalisi e le psicoterapie psicoanalitiche non sono verificate
empiricamente?
Trovo singolare che ancora oggi si debbano spendere parole relativamente a questa tematica
poiché, mentre da anni si dice che la psicoanalisi e le terapie analitiche non sono passate attraverso
le lenti delle verifica empirica, nel frattempo si è accumulata una mole di studi in quest’ambito che
può essere considerata ragguardevole e quindi «quando leggiamo che la psicoterapia dinamica non
è sostenuta da dati di ricerca possiamo dire che questa affermazione non è più vera» (Gabbard,
1 Dipartimento di Scienze dell’Uomo. Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Ringrazio, per i suggerimenti e il
prezioso contributo in fase di revisione del manoscritto, la dott.ssa Valeria Condino e la dott.ssa Daniela Gentile.
1
2009, IX). A titolo esemplificativo si pensi ai due recenti volumi che raccolgono la summa dei
lavori svolti in ambito psicodinamico negli ultimi anni (Levy & Ablon, 2009; Levy, Ablon, &
Kächele, 2012), oltre alla pubblicazione dell’Open Door Review (Fonagy, 2001), commissionato
dall’IPA, che raccoglie numerose indagini empiriche sul processo e l’efficacia dei trattamenti
analitici (per una rassegna aggiornata sull’efficacia dei trattamenti analitici si veda anche Lingiardi,
Gazzillo, & Genova, 2012). Ciò che mi preme sottolineare è che in questi volumi, non solo sono
raccolte e descritte le più svariate ricerche e relativi risultati raggiunti in ambito psicodinamico, ma
anche si intravede, trasversalmente ai vari autori, un approccio alla ricerca empirica che si potrebbe
considerare di carattere analitico o comunque vicino ai principi ispiratori della psicoanalisi. Ne sono
testimonianza, solo per citarne alcuni, la centralità del clinico nei processi di valutazione (Westen &
Weinberger, 2005; Colli, 2009), la rilevanza attribuita agli studi del caso singolo (Lingiardi, 2006;
Kächele, Schachter & Thomä, 2012), una critica all’applicazione tout court di disegni di ricerca
RCT mutuati dalle discipline mediche (Westen, Novotny, & Thompson-Brenner, 2004), un
approccio alla psicopatologia caratterizzato da un’interpretazione della sintomatologia come
prodotto emergente di una struttura di personalità (PDM Task Force, 2006; Westen, Gabbard, &
Blagov, 2006), l’accento posto sul cambiamento strutturale e clinicamente significativo piuttosto
che esclusivamente sul cambiamento statisticamente significativo (Grande, Keller, & Rudolf, 2012)
e infine lo studio di trattamenti a lunga durata e elevata frequenza (Leichsering & Rabun, 2011;
2012). Indubbiamente la quantità di ricerche in ambito dinamico, se confrontato con quello di
orientamento cognitivo o con le terapie farmacologiche, fa apparire le terapie dinamiche come «i
cugini poveri» della ricerca empirica (Levy & Ablon, 2009, XXV). Ma questo minor numero di
ricerche non giustifica la falsa credenza che in ambito psicoanalitico e psicodinamico non si faccia
tout court verifica empirica e che non esistano dati a sostegno dell’efficacia delle terapie analitiche
compresi i trattamenti a lungo termine.
Un’altra obiezione che viene mossa alla psicoanalisi è che, non facendo essa diagnosi ( questa
secondo Salkovskis e Wolpert è una delle principali motivazioni di una distanza inconciliabile tra
psichiatria e pratica analitica), non possa essere utilizzata all’interno di un servizio che ragiona
secondo logiche di programmazione, treatment planning e valutazione dell’efficacia. Il rapporto tra
diagnosi e psicoanalisi è assai complesso e non può essere ridotto in poco righe, rimando pertanto
ad altri contributi per un approfondimento (McWilliams, 1994; Rossi Monti, 2008). Ciò che però
vorrei porre in evidenza riguarda due aspetti principali: 1) esiste o meno una diagnosi
psicoanalitica? 2) in caso affermativo quale è l’utilità dal punto di vista clinico di ragionare
diagnosticamente secondo assunti e presupposti di tipo psicodinamico.
Rispetto al primo punto è importante ricordare come la psicoanalisi abbia fornito contributi
preziosi alla riflessione sul processo diagnostico quali, l’attenzione all’eziologia e alla biografia,
l’utilizzo del controtransfert ai fini di una maggiore comprensione del mondo interno del paziente, il
ruolo dell’empatia nell’osservazione etc. (Colli, 2009). Sicuramente il mondo psicoanalitico ha
mostrato non poca diffidenza verso gli inquadramenti diagnostici e nosografici, tanto da considerare
il termine diagnosi «una brutta parola» (McWilliams, 1994) con evidenti problemi di comprensione
e dialogo tra clinici di diversa formazione e provenienza geografica (Bordi, 1988; Rossi Monti,
2008). La diffidenza di alcuni analisti non ha fermato però altri dal proporre una forma di
sistematizzazione del pensiero analitico rispetto alla diagnosi. Sono esempi di questi tentativi il
Manuale Diagnostico Psicodinamico: PDM (PDM Task Force, 2006) e il manuale per la Diagnosi
Psicodinamica Operazionalizzata: OPD (1992). Questi due sistemi diagnostici possono essere
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considerati psicodinamici perché i principi attorno ai quali sono costruiti fanno riferimento a buona
parte del sapere psicoanalitico sulla nosografia e sulla diagnosi: ai concetti di conflitto, meccanismi
di difesa, livello di sviluppo delle relazioni oggettuali, risposte controtransferali, esperienza
soggettiva del sintomo da parte del paziente, solo per citarne alcuni.
Il contributo alla pratica clinica quotidiana che un approccio dinamico può dare e sta dando
attraverso numerose ricerche non si limita però alla sistematizzazione di alcuni assi organizzatori
della nosografia ma si esprime anche attraverso una concezione della psicopatologia basata
sull’interpretazione della sintomatologia come prodotto emergente di una sofferenza nell’area della
personalità e di un rapporto tra sintomo e personalità articolato e complesso (Westen, Gabbard, &
Blagov, 2006). Molti studi, attraverso analisi fattoriali e modelli di equazioni strutturali,
suggeriscono come i sintomi, soprattutto ansiosi e depressivi, non possano essere compresi
separatamente dalla personalità (Zinbarg & Barlow, 1996; Mineka, Watson, & Clark, 1998) e come
la personalità stessa diventi un importante fattore di predisposizione rispetto a tale sintomatologia
(Hammen, Ellicott, Gitlin &J amison, 1989; Blatt & Zuroff, 1992). L’utilità di tale concezione, in
completo disaccordo con un modello diagnostico multi assiale quale quello proposto dal DSM che
si basa su una netta divisione tra sintomo e personalità (Westen, 2012), risulta confermata da
numerose ricerche che hanno indagato per esempio le diverse strutture di personalità soggiacenti
vari problemi clinici quali disturbi depressivi (De Fife et al., 2012), attacchi di panico (Powers &
Westen, 2009), disturbi alimentari (Westen, Thompson-Brenner & Peart, 2006), tendenze suicidiarie
(Cross, Westen, & Bradley, 2011) solo per citarne alcuni. Queste ricerche dimostrano come ai fini
della terapia e della risposta al trattamento non svolgano tanto un ruolo principale le problematiche
sintomatologiche in sé quanto piuttosto le strutture di personalità soggiacenti al quadro
psicopatologico e l’interazione con esse.
A proposito mi sembra utile ricordare come la psicoanalisi si caratterizzi anche per
un’attenzione alla dimensione controtransferale dell’esperienza del clinico nella relazione con il
paziente e un utilizzo della stessa ai fini di una più approfondita comprensione delle dinamiche del
paziente (Heimann, 1950; Racker, 1957). Fu lo stesso Freud d’altronde a tracciare tale strada
quando affermava che «ogni uomo possiede nel suo inconscio uno strumento con il quale è in grado
di interpretare il modo in cui si esprime l’inconscio degli altri» (Freud, 1913, 238), strada poi
allargata e percorsa ampiamente da autori come la Heimann quando affermava che «spesso le
emozioni risvegliate nell’analista sono molto più vicine al nocciolo del problema di quanto non lo
sia il suo ragionare” (Heiman, 1950, p. 75) o da Racker (1968) attraverso i concetti controtransfert
concordante e complementare. Diverse sono le ricerche empiriche che dimostrano come
l’esperienza emotiva del clinico nella relazione con il paziente possa essere un potente ausilio ai fini
della comprensione diagnostica (Betan, Heim, Zittel & Westen, 2005; Gelso & Hayes, 2007; Hayes,
Gelso & Hummell, 2011; Dahl, Røssberg, Bøgwald, Gabbard & Høglend, 2012) e della pratica
clinica (Bateman & Fonagy, 2006; Clarkin, Yeomans & Kernberg, 2006). Un dato che rimane valido
anche tra i clinici di un orientamento diverso da quello psicoanalitico (Betan et al., 2005).
Un altro punto critico, che spesso viene sollevato a sostegno dell’inammissibilità della
psicoanalisi all’interno della pratica psichiatrica, riguarda la lunghezza dei trattamenti psicoanalitici
e la loro elevata frequenza settimanale che li rendono particolarmente dispendiosi. Tale critica si
colloca al crocevia tra le problematiche relative alle risorse economiche e di personale all’interno
dei servizi da una parte e dal punto di vista teorico alla problematica del rapporto dose/effetto in
psicoterapia. È importante a mio avviso non confondere i piani della discussione: un conto è
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sostenere le difficoltà ad applicare all’interno di un servizio pubblico alcuni parametri derivati dalla
psicoanalisi, frequenza e durata dei trattamenti, poiché troppo dispendiosi per le risorse umane e
finanziarie di un servizio; un conto è sostenere che un’elevata frequenza e una durata a lungo
termine dei trattamenti non sia utile clinicamente.
Il problema del rapporto frequenza/durata ed efficacia dei trattamenti è una questione assai
rilevante che si colloca all’interno del più ampio dibattito relativamente al rapporto dose ed effetto
in psicoterapia (Howard, Kopta, Krause & Orlinsky, 1986; Kraft, Puschner & Kordy, 2006; Reese,
Toland & Hopkins, 2011). In generale coloro i quali sostengono che la psicoanalisi offra trattamenti
eccessivamente lunghi e inutilmente dispendiosi sostengono anche che importanti risultati si
possono raggiungere in termini di cambiamento terapeutico grazie a interventi brevi, generalmente
a bassa frequenza. Rispetto a tale questione è utile ragionare in primo luogo sugli assunti di base
sottostanti l’idea che una terapia breve – sia essa cognitiva o dinamica – possa essere efficace
piuttosto che discutere sull’efficacia o meno dei trattamenti brevi. L’assunto implicito principale
delle terapie brevi è quello dell’elevata malleabilità dei processi psicologici (Westen, Novotny &
Thompson-Brenner, 2004). Secondo tale assunto, un processo psicologico è altamente malleabile e
quindi modificabile in un lasso di tempo ristretto, traducibile in un numero di sedute tra le quattro e
le sedici per trattamento. Tale assunto appare in contraddizione però con numerosi dati provenienti
da diversi campi della ricerca. Per esempio diversi studi naturalistici hanno individuato una
relazione dose/effetto migliore in trattamenti lunghi almeno uno o due anni rispetto a trattamenti
brevi e dimostrato che, sebbene si possano ottenere delle riduzioni sintomatologiche significative in
tempi brevi, per avere un ritorno a un funzionamento ottimale soprattutto in termini di personalità,
occorrono tempi maggiori, almeno due anni (Howard et al., 1986; Kopta, Howard, Lowry &
Beutler, 1994). Altre ricerche indicano inoltre come sebbene per problematiche di scarsa rilevanza
clinica la median effective dose (espressa attraverso la sigla ED50) – che sta indicare la quantità di
terapia necessaria a produrre un cambiamento significativo in almeno il 50 % di una popolazione
clinica sottoposta a trattamento – possa essere di circa 4/6 sedute, per problematiche cliniche più
rilevanti (quale la depressione o disturbi di personalità per esempio) difficilmente possa essere
inferiore a cento sedute (Cooper, 2008). Questi dati sono confermati anche da altri ambiti di ricerca
quali le neuroscienze cognitive che dimostrano come le reti associative che sostengono l’esperienza
individuale tendono a caratterizzarsi per un’elevata resistenza al cambiamento e che tali reti
possono costituire una diatesi per diversi disturbi (Westen, 1998): per esempio i pazienti depressi
possono mantenere un’elevata suscettibilità a tematiche depressive anche dopo una riduzione della
sintomatologia depressiva (Wenzlaff & Eisenberg, 2001).
Unitamente a questa considerazione bisogna necessariamente menzionare diversi studi che
sembrano indicare come i trattamenti psicodinamici a lungo termine possano avere nel lungo
periodo una ricaduta positiva maggiore sulla qualità della vita e la salute dei pazienti. Per esempio,
attraverso uno studio quasi sperimentale si è potuto osservare come confrontando tra loro una
terapia breve a bassa frequenza (una seduta ogni due settimane per un totale di 12 sedute), una
terapia breve dinamica (20 sedute a frequenza settimanale), una terapia dinamica a lunga durata (2/3
sedute a settimana per 3 anni) e trattamenti analitici (4 sedute a settimana per 5 anni), la terapia
breve dinamica al primo anno di follow up risultasse maggiormente efficace rispetto alle altre forme
di trattamento. Tuttavia già a un follow up di 3 anni la terapia dinamica a lungo termine aveva
determinato una maggiore riduzione della sintomatologia depressiva e ansiosa rispetto alle altre
forme di trattamento breve. Al follow up a 5 anni la maggiore riduzione sintomatologica si
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evidenziava nei trattamenti analitici (Knekt et al., 2012). Relativamente a questo punto un’altra
ricerca sull’efficacia comparata dei trattamenti cognitivi e dinamici rispetto ai disturbi ansiosi ha
messo in luce come le terapie cognitive nell’immediato producano una riduzione dei sintomi
maggiore; alla fine del trattamento i pazienti che hanno ricevuto una terapia dinamica continuano a
migliorare in termini di riduzione sintomatologica, mentre quelli che hanno ricevuto una terapia
cognitivo-comportamentale sperimentano una riduzione del miglioramento nel corso del tempo
(Slavin-Mulford & Hilsenroth, 2012).
Questi risultati sembrano suggerire che i trattamenti dinamici ad alta intensità e lunga durata
possono in qualche modo determinare un tipo di cambiamento nei pazienti qualitativamente
differente, un cambiamento nella struttura di personalità dei pazienti che agisce poi da fattore
protettivo rispetto a possibili ricadute (Grande et al., 2012). Interessati anche i dati provenienti dal
Konstanza study, un consumer report svolto in Germania, che aveva come obiettivo quello di
replicare il famoso Consumer Report di Seligman (1995) che non aveva però incluso i trattamenti a
lunga durata di elevata intensità. I dati del Konstanza study suggeriscono come i trattamenti a lunga
durata, se nell’immediato appaiono maggiormente dispendiosi, determinano a lungo raggio una
riduzione da parte dei pazienti nell’utilizzo delle strutture sanitarie, sia per motivi psichiatrici che di
salute generale, andando così a recuperare la maggiore spesa iniziale (Breyer, Heinzel, & Klein,
1997).
Certamente tutti questi studi non sono esenti da critiche e limitazioni, quali la mancanza di
gruppi di controllo come nel caso del Konstanza study (limite però che appartiene a tutti i
Consumer Report compreso quello di Seligman), al fatto che alcuni studi non sono del tutto
terminati (Knekt et al., 2012) o. ammesso che questo possa essere considerato realmente un limite
(rimando a proposito a Westen, Novotny, & Thompson-Brenner, 2004), alla mancanza di disegni
Randomized Clinical Trials, oppure alle valutazioni fornite solo dalla prospettiva del paziente o del
terapeuta, solo per citarne alcuni. Il punto però a mio avviso che queste ricerche sollevano è che le
terapie a maggiore frequenza e durata possono costituire un maggior costo nell’immediato per i
servizi e apparentemente essere considerate oltre che più costose meno efficienti, visto che le
terapie brevi e in particolare quelle cognitive sembrano garantire cambiamenti sintomatologici più
rapidi, ma allargando il focus temporale di osservazione ci si rende conto che un maggior
investimento iniziale corrisponde in realtà a un risparmio nel corso del tempo. A questo proposito si
pensi alle tante ricerche sulle terapie brevi (siano esse dinamiche o cognitive) che hanno dimostrato
la loro efficacia nel trattamento della depressione (Taylor, 2012): queste ricerche, spesso prive di
follow up a lungo termine, probabilmente sono vittime di una forma di ceiling effect dovuto al fatto
che l’arco temporale in cui viene somministrata la terapia (generalmente sei mesi) coincide con
l’arco temporale in cui fisiologicamente episodi depressivi di media intensità tendono a rientrare in
un range di normalità (Taylor, 2012).
Un ultimo punto sollevato da Salkoviskis e Wolpert riguarda il fatto che i trattamenti
psicoanalitici dovrebbero essere esclusi dai servizi di salute mentale poiché dannosi per la pratica
clinica in virtù del loro rifiuto a misurare l’esito dei trattamenti. A questo punto credo sia importante
ricordare che non è vero che la totalità del mondo psicoanalitico rifiuti un’ottica orientata alla
valutazione dell’esito dei trattamenti e ne sono testimonianza le ricerche sopracitate. Il sapere
analitico pone la questione se i modelli attualmente in uso per valutare l’esito dei trattamenti sono
realmente idonei a valutare l’esito non solo delle psicoanalisi ma anche delle psicoterapie in
generale. È a mio avviso paradossale il fatto che nonostante in molti siano concordi nel criticare il
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DSM (American Psychiatric Association, 2000) come un sistema caratterizzato da innumerevoli
limitazioni (Westen & Arkowitz-Westen, 1998; Westen, Heim, Morrison, Patterson & Campbell,
2002) esso sia tutt’ora utilizzato come principale riferimento ai fini delle valutazioni diagnostiche
nella quasi totalità delle ricerche empiriche sull’esito dei trattamenti. Si potrebbe obiettare che in
mancanza di sistemi diagnostici più affidabili (fa eccezione il PDM) il DSM ha comunque colmato
una lacuna soprattutto dal punto di vista comunicativo tra i vari clinici, ma questo non coincide con
il poter sostenere che un sistema di riferimento non affidabile possa poi condurre a una valutazione
dei risultati affidabili. Il problema che la psicoanalisi e gli approcci dinamici in generale pongono
rispetto alla valutazione dell’esito e del cambiamento in psicoterapia non va ristretto all’utilizzo di
un sistema diagnostico piuttosto che un altro, ma va inteso come un interrogarsi sulla reale capacità
degli attuali approcci alla valutazione dell’esito, orientati quasi esclusivamente alla valutazione del
livello sintomatologico e caratterizzato dall’ampio utilizzo di questionari sintomatologici, di
cogliere i cambiamenti occorsi nel paziente durante e dopo il trattamento.
A questo proposito è interessante notare come un’eccessiva fiducia nell’affidabilità dei
cambiamenti statisticamente significativi ai punteggi ottenuti ai questionari sintomatologici può
essere talvolta fuorviante e non necessariamente essere indice di un cambiamento clinicamente
significativo nei pazienti. Per esempio Robinson, Berma e Neimeyer (1990) hanno osservato che,
dopo una terapia breve validata empiricamente per la depressione, la riduzione media al punteggio
totale del Beck Depression Inventory, risulta essere di circa 10 punti. Tuttavia considerando che
nelle popolazioni cliniche il punteggio medio iniziale è di circa 21.8 (dunque appena al di dentro di
un livello moderato di depressione) e che nella popolazione generale il punteggio medio è di circa
4.9, forse il cambiamento che queste terapie hanno ottenuto, sebbene risulti statisticamente
significativo, non lo è dal punto di vista clinico. Detto con parole e non con numeri, sarebbe come
dire che dopo una terapia breve, un paziente in una «buona giornata» si sentirà mediamente più
depresso di una persona non depressa in un una «pessima giornata» (Taylor, 2012, 111). Una
eccessiva enfasi sul cambiamento sintomatologico nella valutazione dell’esito dei trattamenti, siano
essi dinamici o cognitivi, corre il rischio di non rilevare importanti cambiamenti avvenuti o meno
nei pazienti al termine di un trattamento, quali la scoperta di risorse psicologiche che permettano un
miglior livello di funzionamento (Lingiardi, Shedler, & Gazzillo, 2006), un incremento in termini di
adattività e variabilità delle difese abituali del paziente (Perry, Beck, Constantinides, & Foley,
2009), un cambiamento nella struttura di personalità (Grande et al., 2012) solo per citare alcune
delle dimensioni che trasversalmente ai vari orientamenti dinamici vengono indagate anche a livello
empirico per la valutazione del cambiamento nei pazienti.
Concludendo vorrei ricordare come spesso articoli come quelli di Salkovskis e Wolpert, di
matrice cognitiva, ma anche simili di orientamento dinamico, sembrano porre in netta antitesi, come
in una competizione, i diversi orientamenti. Tali discussioni devono a mio avviso tener sempre in
considerazione che le etichette con le quali identifichiamo i diversi orientamenti non coincidono poi
strettamente con quello che i clinici, indipendentemente dal loro «credo» teorico, attuano nella
pratica clinica quotidiana. In una interessante ricerca empirica, Ablon e Jones hanno dimostrato che
le differenze tra terapeuti cognitivi e terapeuti dinamici erano maggiori nella descrizione ideale che
ciascun clinico faceva del proprio approccio rispetto alle differenze reali osservate nella pratica
clinica quotidiana (Ablon & Jones, 1998). Andando ancora più nello specifico, questo lavoro ha
messo in evidenza come i terapeuti cognitivi tendessero ad aderire maggiormente al loro modello
d’intervento, mentre i terapeuti dinamici nella realtà della pratica clinica mettessero in atto un più
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ampio range di tecniche appartenenti non solo alla terapia dinamica ma anche a quella cognitiva.
Questo dato non va inteso a mio avviso come prova a sostegno di un eclettismo ingenuo ma come
stimolo a indagare sempre di più, attraverso una logica abduttiva di tipo bottom-up (Eco & Sebeok,
1983), ciò che i terapeuti realmente fanno e che cosa di quello che fanno è legato all’efficacia di un
trattamento. Per esempio, in alcune ricerche condotte con il PQS attraverso una metodologia di
costruzione di prototipi d’intervento ideali (Cognitivi, Psicodinamici, Interpersonali solo per citare i
più famosi) e di comparazione tra questi prototipi ideali e la pratica clinica realmente svolta dai
clinici dei diversi orientamenti è stato messo in evidenza come le strategie d’intervento
psicodinamiche fossero correlate a un outcome positivo nel trattamento di pazienti depressi
indipendentemente dal modello teorico dei terapeuti o – detto in altre parole – che i terapeuti
cognitivi che risultavano più efficaci erano quelli che mettevano maggiormente in atto strategie di
tipo dinamico. Questi risultati, confermati anche da altre ricerche che hanno impiegato strumenti e
impianti metodologici diversi da quelli di Ablon e Jones (Barber, Crits-Christoph & Luborsky,
1996; Hilsenroth, Ackerman, Blagys, Baity & Mooney, 2003; Diener, Hilsenroth & Weinberger,
2007) suggeriscono l’idea che «gli esiti positivi raggiunti da altre forme di trattamento siano
determinati dal grado in cui tali terapie utilizzano tecniche psicodinamiche» (Fonagy & Lemma,
2012, 2). Per dirla parafrasando le parole di Shakespeare in Romeo e Giulietta, la psicoanalisi e le
psicoterapie dinamiche sono come una rosa che indipendentemente dal nome con cui viene
chiamata mantiene inalterato il suo profumo. Una rosa è una rosa anche con un altro nome.
Rinunciare alla psicoanalisi e al suo profumo vorrebbe dire contestualmente rinunciare a dare
il giusto riconoscimento a molti dei contributi peculiari che – come spero di aver dimostrato in
questo breve scritto – essa ha dato e può dare, tanto alla pratica clinica quanto alla ricerca empirica,
salvo poi ritrovarsi necessariamente a «riscoprire questi contributi in futuro, proprio come la cultura
greco-romana è stata riscoperta dopo il Medioevo» (Fonagy & Lemma, 2012, 2).
SINTESI
Diversi autori hanno obiettato relativamente alla possibilità e all'utilità, di impiegare i trattamenti
psicoanalitici all'interno dei servizi di salute mentale, proponendo in alternativa interventi a breve termine e
adducendo in generale motivazioni relativamente al miglior rapporto costo effetto di questi trattamenti e alla
mancanza di prove empiriche dei trattamenti psicoanalitici. Obiettivo del presente lavoro è illustrare i
principali risultati raggiunti dalla ricerca empirica in psicoanalisi e psicoterapia dinamica e mostrare come
alla luce di tali risultati la psicoanalisi non solo ne esca rafforzata anche nei suoi principi generali ma anche
nell'utilità di una sua applicazione nell'ambito dei servizi di salute mentale.
PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi, ricerca di processo-esito, verifica empirica.
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