articolo - Guia Soncini
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D’ALEMA TOUR NEL PAESE NORMALE Una giornata elettorale con pennichella umanitaria l paese normale. Dove la mazzetta non è Iconsiderata quella di quotidiani. Dove la Hbo non è un imprescindibile baluardo della civiltà occidentale. Dove sotto a ogni cartellone elettorale ci sono mucchi di spazzatura. Dove per andare a sentir parlare il candidato ci si mette il vestito buono. Dove sotto al vestito buono – quello blu – spesso ci sono scarpe marroni. Dove “lo Strega” è un liquore, non un premio. Il paese normale esiste, e fa schifo. * * * Il treno da Benevento ad Avellino è un unico vagone, locomotiva compresa, nessun controllore che ti chieda il biglietto, e facce da latitanti come passeggeri. Alla stazione di Avellino non c’è un posteggio di taxi, ma un’enorme voragine di lavori che forse prima o poi finiranno, come tutti i palazzi cominciati e non terminati in giro per la città. La musicassetta che gira nel taxi mescola Barry Manilow, gli Stadio e Carly Simon. Il tassista dà spiegazioni confuse degli scavi di Visita alla scuola enologica, con mancato assaggio di Taurasi alle undici del mattino e pubblica condanna dei vini barrique fronte alla stazione, ma con una chiusa chiara: “Qui è tutto a scopo di lucro”. Non si scompone neppure per l’invasione di spazzatura. “Niente di particolare, le solite storie, mafia, camorra”. Disincanto da Prima repubblica, tono “tanto son tutti uguali”, preconizzazioni disilluse: “In un paio di giorni questa storia della spazzatura la risolvono. Sistemeranno tutto – fino al giorno dopo le elezioni”. Il centro sociale dove domani parlerà Massimo D’Alema è chiuso: “Lo aprono quando c’è qualche iniziativa. Lo affittano per i matrimoni”. Niente pericolosi no-global che implorino D’Alema di dire qualcosa di sinistra, ma fuori, su un muretto, sono appoggiati bigliettini di vari candidati. Molte liste civiche, qualcuno che ha fatto aggiungere un “dott.” prima del nome, un Napolitano che però è Antonio (anzi: “Avv. Antonio”). Le omonimie si portano molto: il tassista mostra l’ultimo bigliettino che gli hanno dato, prima che lo strappi e lo getti nel posacenere si fa in tempo a vedere che è una Santoro. Bionda, molto fard, altra lista civica. Un’abitante del paese reale. * * * D’Alema è partito da Roma alle otto, in macchina con un giornalista del Corriere. Il primo appuntamento è alla scuola enologica, alle 10.30. Il tassista dice che una volta era tutta campagna. Ora scuole di ogni ordine e grado stanno ai bordi di una strada in salita che altrove sarebbe zona residenziale. La scuola è composta di tre edifici. Uno con le aule, un altro coi laboratori per il vino, un terzo, deserto, dove quattro carabinieri attendono l’arrivo del candidato. Il preside spiega che quella prima era l’abitazione del preside, quando c’era un convitto e il preside viveva a scuola, ora il convitto non c’è più e lui ha fatto riadattare l’edificio ad aula magna, viene usata per incontri scientifici, e anche quello di oggi “non è un incontro politico, lui ha espresso il desiderio di visitare la scuola”. Un rappresentante della questura si preoccupa della selezione degli studenti, “potrebbero chiederti: perché mi fai sentire D’Alema e non un altro”, il vicepreside borbotta che fosse per lui “non ce ne farei andare nessuno”, ma certo “se è per riempire la sala…”, il preside precisa che gli studenti sono stati lasciati liberi di scegliere se andare a sentire o meno il candidato, per gli studenti si tratta pur sempre di un’ora fuori di classe, e quindi già ronzano intorno all’aula magna e devono essere rispediti in classe a urla di “cammina!”. Arriva il segretario locale dei Ds, D’Alema è al casello, è andata ad accoglierlo Alberta De Simone, candidata a presidente della Provincia. Qualcuno (un provocatore) domanda perché il candidato non sia ancora lì, il segretario locale si spazientisce e sgualcisce l’Unità che tiene sotto al braccio: “L’appuntamento era alle dieci e mezza, mo’ doveva arrivare pure in anticipo?”. Arriva puntuale, stringe mani, si guarda intorno con aria soddisfatta, si abbottona ANNO IX NUMERO 145 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO GIOVEDÌ 27 MAGGIO 2004 Pranzo con vini barrique, però d’acacia e non di rovere, nella cantina del vero Ciriaco. Pubblica condanna dei vini bianchi la giacca. Per essere uno che non vuole coinvolgimenti politici, il preside ha parecchio da dirgli, gli espone tutta una serie di problematiche legata alla durata dei corsi, ai finanziamenti, parla senza interruzione, ricorda che la scuola è stata fondata da Francesco De Sanctis, e che però il diploma di enologo lo dà l’università, e… D’Alema riesce a infilare solo frasi smozzicate, “Una scuola importante”, “I ragazzi arrivano qui a che età?”, approfittando delle pause in cui il preside interrompe il proprio comizio per rimbrottare i suoi che ancora non hanno portato il caffè, propone l’assaggio di un vino, e prima di vedere il capolista di Uniti nell’Ulivo per il sud bere Taurasi alle undici di mattina, il provvidenziale caffè arriva. D’Alema lo prende amaro. * * * La corrispondente della tv locale ha i capelli di un aspirante rosso Gruber, ottenuto con una tintura casalinga. D’Alema risponde alle sue domande, e arringa un po’ i convenuti in presidenza (insegnanti, poliziotti, curiosi) sulla politica a sostegno del Mezzogiorno, che “noi avevamo attuato, poi è arrivata una gelata dal nord”. Un astante spiritoseggia: “Che peccato…”, e D’Alema non si fa pregare: “Mo’ vanno via, però. Per manifesto fallimento”. * * * Devono essere gli effluvi dalle botti, fatto sta che la visita alle cantine gli risveglia il buon umore, D’Alema sogghigna “meno Internet più cabernet” e racconta che “Bartolo Mascarello ha prodotto alcune bottiglie con un’etichetta con la scritta ‘No barrique, no Berlusconi’: li considera due segnali della decadenza della civiltà. Noi siamo per un uso ragionevole. Una modica quantità, diciamo”. Di barrique. O di Berlusconi. * * * Non è solo il preside. Tutti quelli con cui parla hanno una vocazione da comizianti, anche il viticoltore che prende la parola quando la richiesta del preside di fare una domanda all’onorevole cade nel silenzio insonnolito degli studenti. Mentre quello accusa le norme europee di trattare i produttori di vino come dei criminali, il pezzetto di carta che D’Alema tiene in mano si fa sempre più piccolo, e le guance si gonfiano e si sgonfiano. Tira fuori di nuovo le (attualmente mancanti) politiche per il Mezzogiorno, che saranno uno dei suoi cavalli di battaglia per l’intera giornata, assieme al vino da taglio. “La vecchia economia che muore… Da noi si facevano i vini da taglio. Andavamo a dare un po’ di nerbo ai vini del nord. I francesi ci mettevano lo zucchero, per non comprare i vini da taglio del sud”. Non si vedeva la contrapposizione nord-sud come tema narrativo dominante dai tempi di Rossella O’Hara. Gli studenti rimangono in un silenzio inebetito. Sembra “Caterina va in città” di Paolo Virzì, con la differenza che quello era il liceo Virgilio di Roma, ovvero un paese pochissimo reale in cui ci si schiera, a destra o a sinistra che sia, e Caterina la qualunquista è un’aliena. Qui, all’Istituto agrario scuola enologica, gli alieni sarebbero – se ce ne fossero – i diciottenni che discutono di Berlusconi, non questi normali abitanti di un paese normale che a D’Alema non hanno nulla da dire ma ricordano di averlo visto in tivvù e quindi, all’uscita, corrono a fotografarlo col cellulare per poi mostrarlo alla famiglia. Eppure D’Alema sembra perfettamente a suo agio, in mezzo a Caterine che non sono mai andate in città. Nel paese normale. Il Brasile è un ricordo utile a rendere il comizio quello di un ex presidente del Consiglio, non solo di un deputato a caccia di preferenze e del lustro che ne deriva. Un ricordo di quando andò a Berkeley e conobbe la vicesegretario del Senato della California. Spiega che disse alla signora di essere appena stato in Brasile, e quella disse che lei era brasiliana, era arrivata lì sette anni prima e ci era rimasta, e ora ditemi voi se uno può pensare qui di diventare vicesegretario del Senato “senza avere almeno uno zio consigliere di Stato”, un’immigrata, poi, figurarsi, “qui con la Bossi-Fini questo non sarebbe successo, ve lo comunico, diciamo”. Se vi state chiedendo come D’Alema fosse finito a raccontare alla signora del proprio viaggio in Brasile, se pensate che fosse andato a vedere il carnevale di Rio, allora vi mancano i fondamentali: “Ero stato in Brasile a fare un po’ di campagna elettorale con Lula, che è stato poi successivamente scoperto dal grande pubblico, allora era meno noto, diciamo”. * * * cenno allo slogan elettorale di Bartolo Mascarello. * * * Ciriaco spiega che è lui quello vero: “De Mita si chiama Luigi Ciriaco”. Alberta De Simone arriva con una ragazza di ventidue anni: “Qui ad Atripalda abbiamo eletto la più giovane consigliera comunale, vediamo se voi Il presidente si circonda di assistenti bellocci, non fa come quelle liceali che per risaltare si accompagnano ad amiche cesse ne eleggete una più giovane”. D’Alema la sgrida: “Ti deve eleggere tutta la provincia, guai a te se ti sento ancora dire ‘noi’ e ‘voi’”. Lei, pronta, elenca antenati da pressoché ogni paese della zona. Il segretario locale dei Ds, dopo tanta attesa, è finalmente a tavola con D’Alema, che annusa i bianchi, beve i rossi e a domanda risponde che “se Mancino ritiene di parlare è giusto che lo faccia”. Il paese normale è rimasto fuori: al tavolo della libera stampa, poco più che ventenni consiglieri comunali o candidati alla Provincia discutono fra loro di normative europee con la stessa serietà con cui discutono degli sms di corteggiatori inadempienti. D’Alema si alza ai formaggi, invita i presenti a continuare e si avvia verso l’ora di pennichella umanitaria. All’uscita dal centro sociale, un compagno dice che come possono aver fatto un errore del genere, venire ad Avellino e non parlare con la più importante tv locale, bisogna che rimedino. Alberta De Simone dice “Ora vediamo”, D’Alema spiega “Alberta voleva farmi riposare, era un programma a forte impronta umanitaria”. Poco prima che lo carichino in macchina per andare al previsto incontro a pranzo, si volta verso la De Simone e ammicca con mezzo sopracciglio a due cronisti che stanno a origliare: “I rappresentanti della libera stampa li invitiamo a pranzo?”. Dice “libera stampa” col tono che normalmente si usa per pronunciare le parole “rifiuti tossici”. Se le illustrazioni di voto spiegano che bisogna scrivere il nome sulla scheda, e lo spiegano con un “D’Alema” con la maiuscola, perché le iniziali ricamate sulla camicia azzurra sono M.d’A.? * * * * * * * * * * * * Poi racconterà di nuovo il suo aneddoto preferito, di quando è andato a Baghdad e ha parlato con tutti, ed era con l’Internazionale socialista, ospite dei curdi, ed “è stato presto chiaro che non essere scortati dagli americani ci rendeva più sicuri”, e quando è tornato ha detto che bisognava che chi aveva fatto la guerra facesse un passo indietro, e lo hanno trattato come un matto, gli hanno detto che la guerra era finita, ora c’erano da spartirsi gli appalti e mica ce ne si poteva andare sul più bello… Poi lo dirà, ma ora, qui, al centro sociale dove lo aspettano sindacalisti che parlano in sindacalese, esordisce calibrando l’incipit sull’interlocutore. Esattamente come a scuola aveva cominciato dicendo che “si vede che noi siamo la parte più giovane del paese, di gran lunga. E’ un’osservazione empirica”, qui ricorda che ai tempi suoi la concertazione con le parti sociali era “non un metodo ma la chiave del successo delle politiche di governo”. Passa per la spesa pubblica, scesa di 3 punti (“Berlusconi costa ai meridionali un tot a persona: una volta nel Mezzogiorno i voti si pagavano, ora si paga per votare”) e approda a se stesso che si farà eleggere nel sud e poi ci sarà, per il sud: “Il deputato del sud è uno che i voti si chiedono per favore, e dopo averli avuti si ringrazia”. “Il Mezzogiorno non è rappresentato nella vita del paese. Di tutti quelli che contano non ce n’è uno che ci rappresenta. E quando ho posto questo problema mi hanno risposto ‘Non è vero, c’è Miccichè’. E io considero questa risposta una conferma della gravità del problema, con ogni evidenza, diciamo”. La sala ridacchia. Si passa ai candidati veri (quelli come lui: “nel campo della fiction non siamo forti”) contrapposti ai candidati finti, quelli di destra, quelli messi lì perché riconoscibili: “Vi faccio presente che è una cosa che non ha cittadinanza nei paesi civili”, già, perché siccome “non è più tempo di deleghe in bianco ai partiti”, non si può chiedere un voto per sé “e poi dire ‘scusa un attimo io c’ho da governare l’Italia e in Europa ci mando il mio assistente’, diciamo”. L’altro giorno, per dire, D’Alema era in Abruzzo e ha visto un cartello elettorale di An: “L’Abruzzo in Europa con Alemanno”. “Tecnicamente è una truffa”. La sala annuisce, pronta per il D’Alema internazionalista, che puntualmente arriva. “A Budapest non ci credono, ci ho messo un quarto d’ora a convincerli che in Italia i ministri sono candidati alle europee. Non possono crederci, pensano che tu parli male inglese”. (Dicono che la differenza fra D’Alema e Berlusconi sia sintetizzabile nel fatto che il primo parla bene l’inglese ma dice di cavarsela a stento; l’altro non lo parla ma sostiene di cavarsela benissimo. Chissà se è vero. Per verifica, occorrerebbe mandare Berlusconi a Budapest). “Basterebbe questo perché questi signori dovessero perdere le elezioni. Non che manchino altre buone ragioni, diciamo”. La sua battuta chiamapplausi è in levare, detta a mezza bocca, facile come la vuole l’uditorio: “Uno dice ‘Voto Fini perché è una grande personalità’ – così si dice…”. Il paese normale applaude, gli infiltrati anche. * * * mocratica che seppe prendere le distanze dalla guerra del Vietnam dove non avrebbe mai mandato neppure un carabiniere”; quando esprime il desiderio che la lista unitaria diventi “come quei grandi partiti che tenevano insieme l’Italia”; e soprattutto – ahilui – quando dice che all’inizio su Berlusconi ci si divideva fra i “Lasciatelo lavorare” e gli “Attenzione che c’è un regime”: “Dopo un po’ non si trovava più nessuno che l’avesse votato”. Chissà se lo capisce, mentre lo dice, che lui vuole diventare la Dc mentre Berlusconi lo è già. * * * Entra in macchina facendosi largo fra mani da stringere e “E’ stato meraviglioso” di elettrìci con toni da alcova. Guarda come fosse di trasparenza medusiaca l’estranea che è in macchina con lui: “Ah, sì. Mi avevano avvertito”. Pochi metri dopo, la macchina si ferma. Il poliziotto abbassa il finestrino, da un’altra macchina del corteo è sceso un altro poliziotto che lo avvisa: “Facciamo inversione, sennò qui passano ore”. D’Alema scuote la testa: “Per fortuna il sindaco uscente è passato col Polo”. * * * Allora è vero, che è più amato dalla gente che dai giornalisti. “Capita spesso, che quando mi incontrano poi le persone dicano ‘Ma allora non è quello stronzo arrogante che raccontano i giornali’”. Ci sarà una ragione, se passa un’immagine diversa dalla realtà. Forse non bisognerebbe dare interviste. “Il sistema è pervasivo”. Ci si può sottrarre. “E’ un modo per non venire detti. Se si tace troppo a lungo iniziano gli articoli ‘D’Alema ha detto ai suoi che…’. E dato che io sono uno che quando viene chiamato da un giornalista per sapere cosa si è detto nella tal riunione riservata risponde sempre ‘Si legga il comunicato’…”. Un funzionario del Pcus. “Una persona seria”. Comunque si trova meglio a stringere mani nel paese reale che a cucinare risotti da Vespa. “Io non ho cucinato un risotto da Vespa. Ho cucinato a casa di amici. Ma credo che sia stato un tentativo sbagliato. Ho ripensato quel periodo, di recente, e credo siano stati fatti degli errori. Fu una generosa iniziativa…” Generosa da parte di Vespa? “Da parte di chi lavorava con me. Vespa fu solo molto disponibile. Lui è sempre molto disponibile. Ma ancora oggi c’è gente che mi dice ‘il suo cuoco’…”. Un errore nel senso che il cuoco lo si perdona a un leader di destra ma non a uno di sinistra? “Nel senso che ha dato di me un’immagine fatua che non mi corrisponde. Ma non sono questi i temi della campagna elettorale”. Tira fuori una cartellina da sotto il bracciolo e si mette a leggere dei fax. Fin qui, era sembrato troppo semplice, diciamo. * * * L’auto blindata con la sirena spenta parte preceduta e seguita da due Uno della polizia, e da un’altra macchina che porta l’uomo di fiducia di D’Alema e un ragazzo dell’ufficio stampa dei Ds. “Lo seguo, per ora in campagna elettorale, poi si vedrà. Gli porto le agenzie”. D’Alema, interrogato, spiegherà benevolente che “è giovane, è una persona civile, si presenta bene”. Effettivamente è vero. E’ vero che D’Alema è circondato di bellocci. E’ belloccio il ragazzo delle agenzie, è belloccio il responsabile della comunicazione, è belloccio il capo della segreteria, sono bellocci persino i poliziotti che guidano sgommando. Se D’Alema fosse una liceale, non sarebbe di quelle che si circondano di amiche cesse per risaltare. * * * Il corteo approda a una cantina sociale. “Dedicato a Marianna”. “Marianna della rivoluzione francese”, spiega D’Alema. Poi indica Ciriaco e spiega che “lui era segretario della Fgci quando io ero segretario della Fgci”. “Rappresentavo l’1 per cento del tuo pacchetto di voti”, ricorda quello con aria adorante. “Quando la Fgci era una grande cosa – continua D’Alema nostalgico del se stesso che fu – Guidata da un grande… Lasciamo perdere, diciamo”. Ciriaco è talmente dalemiano che dice “diciamo” con preoccupante frequenza. Talmente dalemiano che non fa una piega quando D’Alema dice “Io passerò quasi subito al rosso. I bianchi non riesco più a berli neanche col pesce. Mi fa venire subito mal di testa, il bianco”, e lo dice due minuti dopo che Ciriaco ha detto che loro producono “so- I due jolly dei suoi discorsi sono l’olio lampante (che non si fa più) e il vino da taglio del sud (che la Francia ci boicottava) prattutto bianchi”. D’Alema, d’altra parte, prima di essere lo sprezzante figuro dei dibattiti televisivi, è un uomo di mondo che mai infierirebbe su un compagno che sbaglia, e quando Ciriaco lo porta a fare un giro delle cantine e mostra orgoglioso le botti in cui si fa la barrique, dice dolcemente: “Acacia; l’acacia è meno violenta del rovere; il rovere è troppo violento” – e non fa Nel cinema che ospiterà il comizio, gli altoparlanti diffondono ossessivamente “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano alternata con “Una vita da mediano” di Ligabue. Non si sa che fine abbia fatto il nuovo inno dell’Ulivo, quello che “abbiamo scarpe per camminare abbiamo sogni da cantare”, e che “invece vivi e fai progetti coi ragazzini e coi vecchietti”. D’Alema è in ritardo, alle prese con tre interviste a tv locali. Le fan più accanite lo attendono per fargli firmare copie di suoi libri (“Oltre la paura” e “La grande occasione”, sotto il cui titolo una mano irrispettosa ha aggiunto a penna la parola “perduta”). Mancino col vestito della domenica saluta chiunque passeggi lì davanti, in quello che sembra un corso domenicale, di quelli che si percorrono per andare a comprare le paste. D’Alema arriva quando non ne puoi più di lavorare come Oriali. Arriva e passa di fianco a un se stesso più riposato, semisorridente su manifesti con lo slogan “Il Sud in Europa a testa alta”. Di fianco ai quali ci sono le locandine dell’imminente film dei Coen, “Ladykillers”, quelle con la faccia di Tom Hanks e lo slogan “I più grandi criminali di tutti i tempi finalmente hanno un degno avversario”. * * * “Berlusconi è per tutto. Adesso è per l’Onu, che è una scoperta recentissima, diciamo. Mi aspetto il manifesto elettorale ‘Meno tasse, più caschi blu’ (…) C’è un solo modo di affermare la democrazia a giugno in Europa e a novembre in America: mandare a casa i responsabili di questo disastro. Altro che ‘siete antiamericani’: il danno che hanno fatto all’America Bush e Rumsfeld vale mille cortei no-global (…) Hanno mentito quando hanno detto ‘Andiamo che c’è la pace’, o si sono sbagliati? Io propendo per questa seconda ipotesi. Io temo che questi ci abbiano portati in guerra per sbaglio, diciamo. E’ una catena di cose che non sapevano, non hanno capito. Ma si può essere governati da gente che non sa e non capisce?” * * * Alla fine del terzo comizio sono evidenti alcuni dettagli: l’olio lampante e il vino da taglio sono i suoi due jolly; la mancanza di politici del sud al governo è il suo affondo preferito; la Dc è nel suo cuore. Lo si capisce quando rievoca nostalgico “l’Italia de- Dice D’Alema che il milione di preferenze “è una voce messa in giro da chi poi vuole poter dire che D’Alema ha perso. E’ matematicamente impossibile”. D’accordo, diciamo che ne prende abbastanza da venire eletto, va a Bruxelles e poi? Dice di non voler fare il ministro degli Esteri… “Ah, lei intende poi-poi…”. Non mi dica che non ha progetti per il futuro. “Il mio futuro interessa più gli altri che me. Vede, io mi sono dimesso da presidente del Consiglio e sono stato senza alcun tipo di incarico per otto mesi, mi sono inventato una fondazione culturale…”. Sì, ho capito che lei ha una forte autostima, ma… “Sì, è anche questo. Ce l’ho. Ma è vero che, pur in mancanza di incarichi, non ho smesso di avere una certa rilevanza nella politica italiana, diciamo”. D’accordo, restiamo al breve termine. Ha già preso casa a Bruxelles? “Ma per carità. Sono scaramantico”. Ci sarà una via di mezzo, fra il milione di preferenze e il timore di non essere eletto. “Sono meridionale”. * * * Mi spiega un volta per tutte la differenza fra il Kosovo e l’Iraq? “Lì c’era un’emergenza umanitaria. Io andai prima dell’inizio…”. Sì, gliel’ho già sentito dire, che c’erano i profughi. Ma non è che in Iraq stessero benissimo. “Lì c’era una guerra civile che ha fatto trentamila morti”. In quanti posti ci sono sterminii e dittatori e morti e non ci si va? “Appunto. Infatti in Iraq non bisognava andarci”. Sì, ma il Sudan? Il Ruanda? (Momento storico: semi-indignato per l’idiozia della domanda, D’Alema si volta verso la sua interlocutrice e la guarda negli occhi. E’ la prima volta che accade, e sarà anche l’ultima, in un’ora di viaggio). “I Balcani sono nel cuore dell’Europa. Era una situazione che metteva a rischio la nostra sicurezza”. Quindi le ragioni erano politiche almeno quanto erano umanitarie. “La politica si fa per ragioni politiche”. * * * Dice D’Alema che “chi fa politica con la P maiuscola” non vuole predicare ai convertiti: “Preferisci sempre convincere gli indecisi: la battuta che ti guadagna un applauso dei tuoi deve strappare almeno un sorriso agli altri. Io ormai ho l’occhio allenato, distinguo gli elettori dai curiosi. Credo che, fra quelli che vengono a questi incontri, un dieci per cento esca più convinto. La valutazione si fa su quanti di questi all’uscita prendono il materiale illustrativo: ognuno nel suo piccolo, sono opinion leader, e fanno opera di convincimento, ho sentito questo D’Alema, mi pare la persona giusta…”. Non le pare di fare appello ai più bassi istinti clientelari nel battere sul tasto del deputato del sud eletto dal sud? “Non c’è nessun clientelismo nel dire che il Mezzogiorno dev’essere rappresentato. Questo governo è un governo che chiama gli abi- tanti del Mezzogiorno terroni…”. Sì, ma mettiamo che tutte le persone competenti che hanno a disposizione siano di Vicenza, cosa dovrebbero fare, scartarle a favore di un incapace che però sia calabrese? “A parte che vedo che viene da ridere anche a lei, nel parlare di persone competenti in questo governo. Se hanno a disposizione solo persone di Vicenza facessero il consiglio comunale di Vicenza”. Ma è un discorso razzista, è come dire prendiamo Condoleezza Rice non perché è brava ma perché è donna e nera… L’indignazione ha raggiunto il massimo. D’Alema guarda in basso, scuote la testa e sbotta: “Questo discorso che sta facendo è di un’idiozia assoluta”. Grazie. “La politica non è l’assunzione di un responsabile delle vendite o di un direttore marketing, non contano solo ‘le competenze’, conta anche la rappresentatività. In America non si candiderebbero mai tutti cittadini del Massachusetts. Se il candidato alla presidenza degli Usa è del nord, si sceglie un vice del sud: non si è mai chiesta perché?”. E’ affascinante, questo tono: sbaglio o mi si sta ri- “Quando la gente mi incontra dice: ‘Allora non è quello stronzo arrogante che raccontano i giornali’”. Ah, la “libera stampa” volgendo come a una povera demente? “Ma guardi, lo dico anche con simpatia”. * * * Come glielo spiega, a Santoro che le fece la trasmissione dal ponte di Belgrado e che ora è un vostro candidato? “Io? Io non gli devo spiegare niente. Sarà lui che deve spiegare perché si è candidato con me”. * * * In un’ora di viaggio, a D’Alema si illumina il sorriso solo quando parla dei risarcimenti dei giornali. Quello che gli ha dato più soddisfazione, ricorda socchiudendo gli occhi, è Panorama, che aveva scritto che prendevano soldi dalla Russia, e pagò 700 milioni a lui e ad altri compagni di partito. “Buona parte la demmo al partito, tuttavia… Io non querelo mai, faccio solo azioni civili. Trovo assurdo che uno debba andare in galera perché ha scritto qualcosa, però è giusto che paghi il danno. Anzi: alzerei moltissimo i massimali dei risarcimenti. E’ come scrivere di un’attrice che si è rifatta le tette. Se tu scrivi che io rubo, e io faccio il politico, mi danneggi professionalmente. Metti in discussione la mia onorabilità…”. Come Velardi. “Prego?”. L’altra mattina c’era Velardi in televisione che parlava della storia delle pezze al culo. Diceva che aveva fatto causa perché si era messa in questione la sua onorabilità. Il conduttore gli ha fatto notare che però Travaglio, quando aveva fatto il discorso su quelli entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo, non aveva fatto nomi. Velardi ha risposto che a tutti era parso di capire che parlasse dello staff di D’Alema, e il conduttore ha obiettato che magari Travaglio parlava di Prodi. “Se fossi Prodi farei causa al conduttore”. * * * “Io a chillo o’ vatto”. D’Alema si sta guardando intorno, ricorda una manifestazione negli anni 70 con Berlinguer, “De Filippo recitò Natale in casa Cupiello”, ma manca mezz’ora all’orario d’inizio previsto, e almeno un’ora a quello effettivo: un compagno sbraita che “Pozzuoli è a cinque minuti” e si potevano organizzare altri comizi. Al bar D’Alema beve spremuta d’arancia, rassicura militanti del posto, “Nel Mezzogiorno si capisce tutto negli ultimi dieci giorni, ora è presto”, dice che avrebbe voluto Mancino in lista, “Era un modo di parlare a un certo elettorato”, saluta Bassolino e se lo porta da una parte perché quello gli sta chiedendo di Prodi e alle nove di sera uno ha diritto a cinque minuti off the record. * * * In una saletta, un Santoro nostalgico tenta di istruire i conduttori della serata su come intervistare i candidati (lui stesso, D’Alema, Bassolino): “Le domande devono es- Santoro raccomanda domande lunghe e lui ricorda l’Urss: “Compagno Stalin, è vero che la Grande madre Russia…” “Sì” sere lunghe”. D’Alema sorride: “Era la tecnica delle interviste a Stalin. Loro chiedevano: ‘Compagno Stalin, è vero che mentre la Grande madre Russia sta lavorando pacificamente, l’America capitalista perpetra l’aggressione…’ E lui rispondeva: ‘Sì’”. * * * “Questo discorso un po’ rivolto all’indietro, diciamo, che voi avete avviato… ma d’altra parte è una passione della sinistra, diciamo, invece di rivolgersi a battaglie future…”. La manifestazione a Napoli finisce alle undici passate. D’Alema è in giro dalle otto di mattina e non ha cenato, spremuta a parte. La cronista ha un gran mal di testa e non vede l’ora di dormire. Lui ha una deliziosa aria avevo-ragione-io: “E’ perché ha bevuto i bianchi, gliel’avevo detto…”. Il viaggio di ritorno a Roma lo farà in macchina con Fabio Fazio. Partono a sirene spente. Fuori, Napoli è tappezzata di cartelli che annunciano l’imminente apertura di un’Ikea. Il paese normale. Guia Soncini