1 LA CULTURA DELLA VITA - Pontifical Academy for Life

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1 LA CULTURA DELLA VITA - Pontifical Academy for Life
LA CULTURA DELLA VITA:
FONDAMENTI E DIMENSIONI
ATTI DELLA SETTIMA ASSEMBLEA
DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA
Città del Vaticano, 1-4 Marzo 2001
A cura di :
JUAN DE DJOS VIAL CORREA
ELIO SGRECCIA
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
2002
Presentazione (Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA E ELIO SGRECCIA)
DOCUMENTI CORRELATI
Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II
Comunicato Finale
CONTRIBUTI DELLA TASK-FORCE
S.E.R. Mons. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, L'uomo "immagine di Dio". Vita umana e salute
alla luce della teologia.
Rev. Mons. BRUNO MAGGIONI, Dio parla della vita.
Rev. Mons. GIUSEPPE LORIZIO, «Credo nella resurrezione della carne».
Dr. LUKE GORMALLY, La dignità umana: il punto di vista cristiano e quello laicista.
Rev. Prof. MAURIZIO FAGGIONI, La vita e le forme di vita. Rapporto fra biologia e antropologia.
Rev. Mons. FIORENZO FACCHINI, Evoluzione, emergenza e trascendenza dell'uomo.
S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA - Prof. MARIA LUISA DI PIETRO, La vita dello spirito nella
corporeità: persona e personalità.
1 S.E.R. Mons. ANDREAS LAUN, La legge naturale.
Dr. VINCENZA MELE, Per un'ecologia personalista tra antropocentrismo ed ecocentrismo.
Rev. Mons. MAURO COZZOLI, La legge naturale a difesa della vita. Le ragioni e i limiti della
difesa della vita fisica.
Prof. FRANCESCO D'AGOSTINO, Il rispetto della vita e il dirito.
Prof. GONZALO HERRANZ, La cultura della vita: un impegno affermativo.
Rev. Prof. TADEUSZ STYCZEN, Vivere significa ringraziare: gratias ago, ergo sum.
S.E.R. Mons. FRANCISCO GIL HELLÍN, Missione della famiglia nella cultura della vita.
Dr. CARLO CASINI, Ambiti e forme nuove di sostegno alla vita nascente.
Prof. GIAMPIERO GAMALERI, I media e la cultura della vita.
Prof. ADRIANO PESSINA, Cultura della vita e mentalità tecnologica.
Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA, Giovanni Paolo II: Il Pontefice della vita.
2 JUAN DE DIOS VIAL CORREA, ELIO SGRECCIA PRESENTAZIONE Le annuali sessioni di studio della Pontificia Accademia per la Vita hanno sviluppato in questi primi sette anni d'attività una riflessione approfondita su punti precisi del dibattito etico-­‐
giuridico, concernente sempre la difesa della vita umana: l'Identità e lo Statuto dell'Embrione Umano, il Genoma Umano, la Dignità del Morente. A questi temi cruciali del dibattito bioetico attuale fa da premessa il Commento scientifico e dottrinale sull'Enciclica "Evangelium Vitae", e lo studio del rapporto tra l'E.V. e la Legge che funge da esame retrospettivo della situazione giuridica nei vari continenti e nei paesi del mondo, per quanto riguarda la protezione legale della vita umana a cinque anni dalla pubblicazione della Enciclica "Evangelium Vitae". I volumi (n.6) che testimoniano questa ampia e approfondita riflessione costituiscono un patrimonio apprezzato dagli studiosi, date anche le numerose traduzioni realizzate per la maggior parte dei volumi. Il discorso sulla cultura della vita è stato continuamente richiamato durante questo percorso esplorativo, ma si avvertiva la necessità di porre esplicitamente a tema tale concetto e vederne le implicazioni culturali e le prospettive future, in senso positivo. Infatti, le testimonianze della cultura della morte sono sotto gli occhi di tutti, hanno di per sé una visibilità massiccia, ma i pressuposti per una cultura della vita, nei suoi fondamenti filosofici e teologi non ci risultava che fossero stati sottoposti ad un esame approfondito ed esplicito. La domanda era ed è rilevante, se si vuol passare ad una fase operativa quella di costruire cioè una cultura della vita, come superamento della fase di semplice condanna del male dilagante, che pur esiste ed è minaccioso, "Vince in bonum malum": è il monito della Scrittura (Rm 12, 21). In questa percezione storica e culturale si colloca la scelta del tema della VIª Assemblea Generale, La cultura della vita: fondamenti e dimensioni. Con il metodo collaudato della Task-­‐Force, che ha impegnato un numero elevato di specialisti (19) nello studio personale e in un confronto reciproco, ampio, condotto nella fase preparatoria della Assemblea stessa, si è giunti ad un panorama che ha toccato -­‐crediamo-­‐ i nodi essenziali del tema posto allo studio. I diversi sottotemi, quali: il concetto di "dignità dell'uomo", il fondamento teoretico e teologico della "creazione", la concezione della corporeità, la definizione della vita e delle forme di vita, la legge naturale... sono stati approfonditi da specialisti e discussi nell'Assemblea Generale. Il volume comprende anche i contributi della teologia e della prospettiva di fede e comprende altresì relazioni che toccano temi di confronto critico con la cultura attuale come quelli dell'ecologia e della concezione dell'evoluzione delle varie forme di vita; si è voluto portare la riflessione sulle ricadute della cultura della vita negli ambiti della famiglia e di mass-­‐media e sui temi dibattuti della difesa della vita nascente, delle conseguenti legislazioni. Il risultato di questo esame è nel volume che presentiamo, un volume scritto da più autori, ognuno specialista nel tema, ma unificato, quasi monografico, attorno al tema di fondo che è quello della cultura della vita. Questo volume sarà subito pubblicato in due lingue: l'inglese e l'italiana, con la previsione che esso possa costituire un serio supporto per chi nell'insegnamento, nel dibattito culturale e nell'azione pastorale vorrà trarre ispirazione e contenuti. 3 GIOVANNI PAOLO II DISCORSO E' sempre con vivo piacere che vi incontro, illustri membri della Pontificia Accademia per la Vita. Quest'oggi il motivo che me ne offre l'occasione è l'annuale vostra Assemblea Generale, che vi ha visti convenire a Roma da diversi Paesi. Il mio più cordiale saluto va a ciascuno di voi, benemeriti amici che formate la famiglia di quest'Accademia a me molto cara. Un particolare e deferente pensiero rivolgo al vostro Presidente, il Professor Juan de Dios Vial Correa, che ringrazio per le amabili parole con cui ha interpretato i vostri sentimenti. Estendo il mio saluto al Vice-­‐Presidente Mons. Elio Sgreccia, ai componenti del Consiglio Direttivo, ai collaboratori e benefattori. Avete scelto come tema per la vostra riflessione assembleare un argomento di grande interesse: "La cultura della vita: fondamenti e dimensioni". Già nella stessa sua formulazione il tema manifesta il proposito di portare l'attenzione sull'aspetto positivo e costruttivo della difesa della vita umana. In questi giorni vi siete domandati da quali fondamenti occorra partire per promuovere o riattivare una cultura della vita e con quali contenuti proporla ad una società contrassegnata -­‐ come ricordavo nell'Enciclica "Evangelium vitae" -­‐ da una sempre più diffusa ed allarmante cultura della morte (cfr nn. 7, 17). Il miglior modo per superare e vincere la pericolosa cultura della morte consiste proprio nel dare solidi fondamenti e luminosi contenuti ad una cultura della vita che ad essa si contrapponga con vigore. Non è sufficiente, anche se necessario e doveroso, limitarsi a esporre e denunciare gli effetti letali della cultura della morte. Occorre piuttosto rigenerare di continuo il tessuto interiore della cultura contemporanea, intesa come mentalità vissuta, come convinzioni e comportamenti, come strutture sociali che la sostengono. Tanto più preziosa appare questa riflessione, se si tiene conto che dalla cultura non viene influenzata soltanto la condotta individuale, ma anche le scelte legislative e politiche, le quali, a loro volta, veicolano spinte culturali che non di rado ostacolano, purtroppo, l'autentico rinnovamento della società. La cultura orienta, inoltre, le strategie della ricerca scientifica, che oggi, come non mai, è in grado di offrire mezzi potenti, non sempre impiegati purtroppo per il vero bene dell'uomo. Anzi, talora la ricerca sembra muoversi, in molti campi, addirittura contro l'uomo. Opportunamente, pertanto, voi avete voluto precisare i fondamenti e le dimensioni della cultura della vita. In questa prospettiva, avete posto l'accento sui grandi temi della creazione, evidenziando come la vita umana debba essere percepita quale dono di Dio. L'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è chiamato ad essere suo collaboratore libero e, ad un tempo, responsabile nella «gestione» del creato. Avete voluto, altresì, ribadire il valore inalienabile della dignità di persona, che connota ogni individuo, dal concepimento alla morte naturale; avete rivisitato il tema della corporeità e del suo significato personalistico; avete portato l'attenzione sulla famiglia come comunità d'amore e di vita. Vi siete soffermati a considerare l'importanza dei mezzi di comunicazione per una capillare diffusione della cultura della vita, e la necessità di impegnarsi nella testimonianza personale a suo favore. Avete inoltre ricordato come vada perseguita, in questo ambito, ogni via che favorisca il dialogo, nella convinzione che la verità piena sull'uomo è a sostegno della vita. Il credente è sorretto, in questo, dall'entusiasmo radicato nella fede. La vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza. Come sempre avviene nel rapporto tra riflessione filosofica e meditazione teologica, anche in questo caso sono di imprescindibile aiuto la parola e l'esempio di Gesù, che ha dato la sua vita per 4 vincere la nostra morte e per associare l'uomo alla sua risurrezione. Cristo è la «resurrezione e la vita» (Gv 11,25). Ragionando in quest'ottica, nell'Enciclica "Evangelium vitae" ho scritto: "Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso e ad ogni uomo, Gesù si presenta con queste parole: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14,6)" (n. 29). Si tratta di una fondamentale verità che la comunità dei credenti, oggi più che mai, è chiamata a difendere e propagare. Il messaggio cristiano sulla vita è "scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e di ogni donna, risuona in ogni coscienza dal principio, ossia dalla creazione stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana" (Evangelium vitae, 29). Il concetto di creazione non è soltanto un annuncio splendido della Rivelazione, ma anche una sorta di presentimento profondo dello spirito umano. Ugualmente, la dignità della persona non è nozione derivabile soltanto dall'affermazione biblica secondo cui l'uomo è creato "ad immagine e somiglianza" del Creatore, ma è concetto radicato nel suo essere spirituale, grazie al quale egli si manifesta come essere trascendente rispetto al mondo che lo circonda. La rivendicazione della dignità del corpo come «soggetto», e non semplice «oggetto» materiale, costituisce la logica conseguenza della concezione biblica della persona. Si tratta di una concezione unitaria dell'essere umano, che molte correnti di pensiero, dalla filosofia medioevale fino ai nostri tempi, hanno insegnato. L'impegno per il dialogo tra fede e ragione non può che rafforzare la cultura della vita, congiungendo insieme dignità e sacralità, libertà e responsabilità di ogni persona, quali componenti imprescindibili della sua stessa esistenza. Verrà, altresì, garantita, insieme con la difesa della vita personale, la tutela dell'ambiente, entrambi creati e ordinati da Dio, come è comprovato dalla stessa struttura naturale dell'universo visibile. Le grandi istanze relative al diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte, l'impegno per la promozione della famiglia secondo il disegno originario di Dio, e l'urgente bisogno, ormai da tutti sentito, di tutelare l'ambiente nel quale viviamo rappresentano per l'etica e per il diritto un terreno di comune interesse. Soprattutto in questo campo, in cui sono coinvolti i diritti fondamentali dell'umana convivenza, vale quanto ho scritto nell'Enciclica Fides et ratio: "La Chiesa permane nella più profonda convinzione che fede e ragione si recano un aiuto scambievole, esercitando l'una per l'altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell'approfondimento" (n. 100). La radicalità delle sfide che oggi vengono poste all'umanità, da una parte, dai progressi della scienza e della tecnologia, dall'altra dai processi di laicizzazione della società, esige uno sforzo appassionato di approfondimento della riflessione sull'uomo e sul suo essere nel mondo e nella storia. E' necessario dar prova di una grande capacità di dialogo, di ascolto e di proposta, in vista della formazione delle coscienze. Solo così si potrà dar vita ad una cultura fondata sulla speranza e aperta al progresso integrale di ogni individuo nei vari Paesi, in modo giusto e solidale. Senza una cultura che mantenga saldo il diritto alla vita e promuova i valori fondamentali di ogni persona, non si può avere una società sana né la garanzia della pace e della giustizia. Prego Dio perché illumini le coscienze e guidi quanti sono coinvolti, a vari livelli, nell'edificazione della società di domani. Sappiano sempre proporsi come obiettivo primario la tutela e la difesa della vita. 5 A voi, illustri membri della Pontificia Accademia per la Vita, che spendete le vostre energie a servizio di uno scopo tanto nobile ed esigente, esprimo il mio più vivo e grato apprezzamento. Il Signore vi sostenga nel lavoro che state svolgendo e vi aiuti a portare a compimento la missione che vi è affidata. La Vergine Santissima vi conforti con la sua materna protezione. La Chiesa vi è riconoscente per l'alto servizio che rendete alla vita. Quanto a me, desidero accompagnarvi con il mio costante incoraggiamento, avvalorato da una speciale Benedizione. ( Da L'Osservatore Romano, domenica 4 marzo 2001) 6 COMUNICATO FINALE Si è svolta, dall'1 al 4 Marzo, presso l'Aula vecchia del Sinodo in Vaticano, la VII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, sul tema «La cultura della vita: fondamenti e dimensioni». Anche quest'anno, il convenire della quasi totalità dei Membri dell'Accademia, ha permesso lo sviluppo di una riflessione approfondita e compiuta intorno alla tematica proposta, secondo il metodo della interdisciplinarità. Durante le sessioni di lavoro, ogni impegno è stato messo dai partecipanti nel cercare di individuare gli elementi fondanti ed imprescindibili per un'autentica cultura della vita, che possa essere promossa nel contesto culturale odierno, spesso contrassegnato da crescenti ed inquietanti scenari di una «cultura di morte» che sembra avanzare sempre più. Un impegno, dunque, quello dell'Accademia per la Vita in questa sua Assemblea annuale, tutto volto al positivo, con il deliberato scopo di non fermarsi tanto a focalizzare gli eventuali limiti etici di specifiche problematiche di pertinenza della bioetica, quanto piuttosto a ripresentare i punti cardine da assumere come riferimento nella ricostruzione di una nuova «civiltà della vita». Ampio è stato l'orizzonte d'indagine. Nell'ambito biblico-­‐teologico, si è trattato dei fondamenti biblici del senso e del valore della vita umana, di ogni vita umana, qualunque sia la sua condizione contingente; ugualmente, anche la riflessione sulla fede nella «risurrezione della carne» ha rappresentato un importante presupposto per ogni ulteriore sviluppo antropologico. Ecco perché, entrando in questo campo, si è scelto di porre a fondamento proprio un'attenta considerazione della dignità umana, così come questa si è andata manifestando nello sviluppo del pensiero cristiano e secolare; allo scopo di approfondire ulteriormente la questione antropologica, un'intera sessione dei lavori è stata dedicata alla considerazione della singolarità dell'uomo rispetto all'universo dei viventi, singolarità espressa massimamente dall'unitarietà del suo essere «corpore et anima unus» (Gaudium et Spes 14), che vede la vita dello spirito vivificare ed «informare» la sua corporeità. Il riconoscimento della vita come dono creato da Dio, poi, orienta l'uomo stesso a vivere la sua esistenza come un bene da donare a sua volta con gratitudine, al suo Creatore, eterna sorgente del suo essere, e ai fratelli, in un impegno di solidarietà e condivisione. Soltanto così l'uomo può realizzare in pienezza se stesso. La ripresentazione di un tale quadro antropologico ha consentito anche di affrontare fondatamente la «questione ecologica», rifuggendo dalla semplicistica alternativa tra tutela indifferenziata di ogni forma di vita e protezione esclusiva della vita umana, mediante l'adozione del concetto di «custodia» : la natura è un dono di Dio che l'uomo non deve soltanto utilizzare ma anche custodire, cioè proteggere ed, insieme, far fruttificare. Si è voluto anche sottolineare, dal punto di vista della teologia morale, che la vita fisica umana è un bene morale «primario» e «fondamentale», che reclama di essere promosso, difeso e rispettato, pur attendendo il compimento della sua perfezione che si realizzerà soltanto nella condizione soprannaturale ed eterna. Non sono mancati riferimenti al rapporto tra la tutela e il sostegno della vita umana, soprattutto se debole ed indifesa, e l'impegno per un rinnovato quadro legislativo, secondo le esperienze dei vari Paesi. Tra gli strumenti da impiegare per una efficace diffusione del Vangelo della vita, nell'orizzonte socio-­‐culturale odierno, massima importanza rivestono i mass-­‐media la cui forza d'impatto risulta impressionante; per questo, appare decisivo affrontare la problematica etica circa la comunicazione, riproponendo con coerenza la strada del servizio alla verità della vita. 7 Il cammino di riflessione di questa Assemblea ha poi trovato un importante momento di arricchimento e di incoraggiamento dalla presentazione di alcune testimonianze di dedizione piena al servizio della vita in difficoltà. Anche quest'anno, il Santo Padre ha voluto ricevere in udienza speciale i partecipanti all'Assemblea Generale, rivolgendo loro la sua preziosa parola a sostegno delle attività dell'Accademia ed indicando la direzione per continuare il cammino già intrapreso. «Vi è l'urgenza -­‐ ha detto il Papa -­‐ di rigenerare di continuo il tessuto interiore della cultura contemporanea», così come vi è pure la necessità di «dare prova di una grande capacità di dialogo, di ascolto e di proposta, in vista della formazione delle coscienze», nella costruzione di un'autentica cultura della vita, poiché «senza una cultura che mantenga saldo il diritto alla vita e promuova i valori fondamentali di ogni persona, non si può avere una società sana né la garanzia della pace e della giustizia» . L'Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita si è conclusa facendo proprio il grido che il Papa ha pronunciato con entusiasmo: «La vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza». (pubblicato su "L'Osservatore Romano" di Domenica 18 Marzo 2001, p. 7) 8 JAVIER LOZANO BARRAGÁN L'UOMO IMMAGINE DI DIO. VITA UMANA E SALUTE ALLA LUCE DELLA TEOLOGIA Il Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute ringrazia vivamente l'Accademia per la Vita per il suo interesse ad approfondire il tema della vita stessa, visto che salute e vita si intrecciano, e quando si svolge uno studio con la profondità con cui lo fa l'Accademia per la Vita, si offre al Pontificio Consiglio un aiuto meraviglioso in linea con le sue grandi preoccupazioni ed interessi. Il tema che mi è stato assegnato probabilmente può essere preso come una piccola introduzione a quello che sarà esposto in modo autorevole nel corso del Congresso. Tenterò di unire alcune poche idee sulla vita concludendo con il suo rapporto con la pastorale della salute attraverso i concetti di opposizione, di contraddizione e di opposizione come contrarietà relativa. La riflessione in questo modo sarà centrata sul concetto di vita e di vita umana alla luce della Teologia. LA VITA A prima vista sembrerebbe che la vita è una verità di per sé stessa così evidente che non abbia bisogno di nessuna ulteriore riflessione e che di per sé stessa appaia come una specie di primo principio che risulti a tutti chiaro e venga percepita senza alcuna confusione, comunque, se ci chiediamo più profondamente, che cosa è la vita, in cosa consiste veramente il vivere, e concretamente, il vivere umano, le cose si complicano un poco. Antica definizione della vita Ricordo una vecchia definizione della vita: la vita è muovere se stesso. Questo è la vita, ci dicevano gli antichi, è l'essere o agire della sostanza che secondo la sua natura si mette in relazione con il movimento o con qualche altra operazione.Si tratta di un essere costituito nelle sue parti essenziali che ora si avvia alla vita, questo è un movimento interno. Ma, cosa è questo movimento?, ci viene risposto: è quello che è in capacità e potenza in quanto tale. Perciò la vita sarebbe la capacità primordiale di essere e di agire. Relazioni e organicità Essere agendo e agendo si è. Ma in qualunque movimento ci sono due termini, uno dal quale si procede e un altro verso il quale si tende e quello verso il quale si tende è la sua finalità, quello che specifica e definisce tutto il movimento. La finalità per essere tale deve essere l'esempio, e pertanto, inizio ed efficacia. Quindi, in quale direzione tende la vita? Penso che la risposta sia che la vita tende verso l'unità. L'unità è quello che specifica la vita, c'è un'unità che organizza l'essere vivente dall'interno e c'è un'altra unità che l'organizza dall'esterno, cioè in rapporto con gli altri esseri. Sono due le classi di unità: l'unità interna dà il rapporto interno delle parti e così costituisce l'esclusione di altri esseri dentro di sé e dà l'individualità, l'individualità costituisce, per dirlo in un certo modo, la prima meta della vita che diventa così concreta e la realizza costituendo l'individuo. L'unità esterna sorge dalla comparazione di questo individuo concreto con gli altri individui. Prendendo l'individuo come punto di partenza, grazie alla sua comparazione scaturiscono rapporti speciali tra questo individuo già costituito e gli altri. 9 I rapporti I rapporti sorgono nel costatare la meravigliosa unità dell'Universo e del suo ordine imperante; senza rapporti non ci sarebbe ordine, tutto quello che è diverso per la sua partecipazione creata si unifica attraverso i rapporti. I rapporti costituiscono il condursi l'uno all'altro, l'aversi di un ente rispetto l'altro. In qualunque rapporto abbiamo un soggetto, un termine ed il fondamento del rapporto. Ci sono rapporti mutui e rapporti unilaterali, rapporti che coinvolgono due elementi o diversi elementi, sono diversi per la loro profondità e durata, alcuni scaturiscono dall'indigenza di uno dei soggetti che si relaziona e altri dalla sua ricchezza. La distinzione più importante dei rapporti è tra quelli trascendentali e quelli predicamentali, quelli trascendentali superano i limiti della categoria e si riferiscono alla costituzione essenziale del soggetto, come i principi dell'essere e i rapporti della creatura con il suo Creatore, quelli predicamentali sono accidentali e trasmettono una determinazione ulteriore al soggetto già costituito. Di solito si parla anche di rapporti reali e logici a seconda che il loro fondamento si trovi nell'ordine oggettivo o soggettivo. L'insieme di effetti realizzati per i rapporti trascendentali e predicamentali esprime l'organicità. La organicità Per costituire l'organicità, è necessaria la distinzione delle parti, l'interna e l'esterna; altrimenti, non ci può essere unità. L'unità interna, l'organicità dell'essere vivente genera la propria vita. Comunque, questa organicità non si esaurisce nell'interno, ma mira all'organicità esterna, mira verso l'unità con gli altri essere viventi. L'unità interna conferisce l'individualità, comunque quest'unità interna non è vitale se non è intimamente trasformata dall'unità esterna, cioè, se non si mette in rapporto con gli altri esseri viventi. L'organicità esterna influisce in tale maniera sull'individualità in modo che l'individuo non può chiudersi in sé stesso per diventare vita individuale ma ottiene la sua ricchezza quando si apre agli altri e si realizza l'unità, l'armonia, la convergenza tra i diversi. Si potrebbe quindi dire che la vita in genere è la convergenza tra i diversi. Così l'organicità esterna diventa in un certo modo un rapporto trascendentale, influisce sull'organicità interna senza danneggiare la distinzione degli esseri viventi; cioè, senza scendere in un monismo panteista di segno organologico. Esseri diversi Di fatto, ogni individuo è essenzialmente diverso dagli altri, in effetti, chiunque si può considerare diverso in quanto ha quello che l'altro non possiede e non possiede quello che l'altro ha. C'e un aspetto della vita nel quale è compresa una negazione, e su questa negazione si genera la vita, perché in questa è inclusa un'affermazione che esige l'organicità, la convergenza stessa verso l'unità degli esseri diversi, la vita. Questa convergenza tra i diversi, che in un ultimo termine costituisce la vita nella sua totalità, è stata pensata o negata in diversi modi attraverso la storia del pensiero. Una corrente che ha seguito questa linea è stata il Panteismo in tutte le sue forme, del quale abbiamo già fatto menzione; un'altra corrente è stata rappresentata dalla Partecipazione. Infine c'e stata un'altra linea di pensiero che strutturava molte correnti contemporanee che è stata la negazione basica dell'organicità esterna dell'uomo nella cosiddetta cultura o anticultura della morte. Negazione della distinzione: panteismo 10 Nel Panteismo veramente non esiste organicità distinta in quanto le barriere vengono soppresse, nel profondo non c'è pluralità perché l'uno è il tutto e il tutto è l'uno. Quindi il Panteismo non spiega la vita, perché in esso non c'è una vera coincidenza tra i diversi ma è un tutto amorfo e pertanto senza vita. Veramente nel Panteismo non esiste un'autentica opposizione tra rinuncia e proprietà o un vero rapporto che riconosca l'organicità, perche è tutto confuso. VITA COME OPPOSIZIONE Nelle concezioni lontane dal Panteismo, invece, esiste l'obiezione; ma mettiamo in chiaro quale tipo di obiezione si intende: la vita è opposizione, l'opposizione può essere come contrarietà o come contraddizione. Se è come contrarietà, ci troviamo nell'ambito della vita. Se è come contraddizione, ci porta alla morte. L'opposizione come contrarietà unisce i contrari con un disgiungimento, "questo e quest'altro"; l'opposizione come contraddizione elimina uno degli opposti per affermare l'altro. Nell'eliminare uno degli opposti non c'è più organicità e quindi non si può più parlare di vita. Aggiungendo qualcosa a quanto già detto possiamo dire che c'è opposizione tra due contenuti quando la posizione di uno elimina in qualche modo quella dell'altro. A seconda di quale sia lo spirito di questa eliminazione si hanno le diverse classi di opposizione. L'opposizione come contraddizione è irriducibile, si svolge tra l'essere e il non essere, non tollera un termine medio. L'opposizione come contrarietà o opposizione contraria fa sì che i due contenuti si respingano in un aspetto limitato e per tanto accetta i termini medi. L'opposizione contraria può essere privativa oppure relativa a seconda che siano in opposizione i due contenuti per rinuncia -­‐ proprietà, oppure per semplice relazione. Opposizione di contraddizione nel concetto della vita C'è una mentalità nel mondo moderno che si basa fortemente sull'opposizione come contraddizione. Questa è la mentalità evoluzionistica applicata all'uomo in modo diretto e interamente. In effetti, nella mentalità evoluzionistica la sopravvivenza delle specie si ha nella lotta fino alla morte che è un'opposizione come contraddizione, che porta alla sopravvivenza del più forte. Probabilmente molti passi dell'evoluzione degli esseri inferiori all'uomo si possono spiegare in questa lotta per la vita, la famosa "struggle for life". Ma non risulta possibile applicarla nella sua totalità perché, sebbene è vero che esiste una gradualità nell'esistenza attuale delle specie nel mondo vivente subumano, cioè esiste una gradualità attuale delle stesse, non sono scomparse le specie inferiori. Queste nel suo insieme formano la sfera subumana organica. Il problema sorge più fortemente quando questa spiegazione della vita attraverso l'opposizione contraddittoria si applica alla sfera umana della vita stessa. Quindi si arriva al punto che la prevalenza e la sopravvivenza del più forte diventano una norma e da lì si originano tutte le opinioni maltusiane e di razze superiori nelle quali alcuni si affermano tentando di uccidere gli altri, in modo più selvaggio negli stadi primitivi, in modi più sofisticati nel mondo attuale. Questa è la cultura della contraddizione, o per dire lo stesso, la cultura della morte che viene chiamata l'anticultura propriamente detta. In questa posizione non c'è praticamente organicità, la vita come organicità scompare perché non c'è termine contro il quale opporsi, poiché è stato distrutto. Il problema è che siccome questo termine è assolutamente indispensabile per la vita, dal momento che non esiste più, la vita marcisce e quindi si arriva alla cultura della morte. Non c'è il termine contro il quale affermarsi dal momento che questo appartiene internamente alla propria organicità del soggetto che vuole 11 affermarsi, la stessa vita individuale muore. Nuovamente, con la stessa logica, affrontiamo l'assurdo della cultura della morte. Opposizione di contrarietà nel concetto della vita L'autentica opposizione che può garantire la vita è l'opposizione di contrarietà. Questa, come dicevamo prima, si esprime mediante un disgiungimento: "questo e quest'altro". In parole povere, la vita è complementarietà organica, si è vivi in quanto si è in opposizione ad un altro essere vivente perché non si ha quello che l'altro possiede ma si vuole partecipare della sua ricchezza. A sua volta, l'altro essere vivente è vivo in quanto partecipa della ricchezza del primo. L'ideale è che questa mutua partecipazione sia senza menomazione, cioè, senza sottrarre alla partecipazione comune niente di quello che gli esseri viventi possiedono di per sé. In questo caso ci troviamo con l'opposizione per mero rapporto. LA VITA NELLA SANTISSIMA TRINITA' E NELL'INCARNAZIONE È precisamente questo l'ideale che si realizza nella fonte della vita di tutta la creazione che è la Santissima Trinità. La Santissima Trinità, secondo la rivelazione dello stesso Dio, si costituisce in una opposizione relativa e una coincidenza assoluta. È per questo che Dio è uno in tre persone diverse (cfr. Jo 16,15). In Dio l'opposizione tra le persone divine è l'opposizione di rapporto di completezza, non di indigenza; dove, è vero, si trova la rinuncia e la proprietà nelle diverse persone, ma senza che questa rinuncia significhi una menomazione di una delle persone divine, e senza che la proprietà di una delle persone possa produrre qualche sottrazione a un'altra. L'opposizione tra le persone divine è un rapporto di completezza che consiste in una mera opposizione di contrarietà relativa. In definitiva, quello che una persona non possiede si mette in rapporto con quello che un'altra ha in modo che la rinuncia resta in una possessione non relativa ma assoluta e infinita. Quest'apparente contraddizione viene chiarita osservando le tre persone concretamente: il Padre non ha la filiazione, ma è padre per la filiazione. Il Figlio non ha la paternità ma è Figlio per la paternità. Lo Spirito non ha l'ispirazione, ma è Spirito per l'ispirazione del Padre e del Figlio. Infine tutti e tre sono infiniti nella perfezione di una sola natura divina perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio. La vita infinita delle tre persone divine si realizza per una donazione assoluta del Padre al Figlio, del Figlio al Padre, del Padre e del Figlio allo Spirito e dello Spirito al Padre e al Figlio. La distinzione si ha per rapporto di completezza, cioè, per opposizione di mera contrarietà relativa e, a sua volta, per la sua opposizione di sola contrarietà sono la vita in sé, che vuol dire, sono un solo Dio (Cfr. Jo 16, 13-­‐15;17, 22). Da questo modello divino possiamo intuire che la vita nella sua fonte, e quindi nella sua massima espressione, è muovere se stesso in un insieme di rapporti verso la piena donazione. Viene donato quello che si possiede e si riceve quello che non si ha in un processo incessante che arricchisce e che è, precisamente, il processo vitale. (Cfr. Jo 17, 22-­‐23.26). I punti fondamentali sono i rapporti che fondano l'opposizione contraria, non per rinchiudersi nella propria proprietà o nella propria rinuncia, ma per aprirsi in una totale donazione. Così la vita diventa rapporto di completezza feconda in una donazione amorosa. Questa è la vita in sé, e quando Dio la partecipa nella sua creazione, in particolare quando partecipa l'uomo, la dona, analogamente, in questo modo. Dio iscrive questa donazione all'interno della libertà umana. E precisamente quando l'uomo non vuole più accettare questa donazione, allora si rinchiude in sé stesso, si oppone agli altri in contraddizione. Questo è il peccato, vale a dire, la morte. 12 La storia della salvezza All'interno di queste coordinate si scrive la Storia della Salvezza, come una storia della libertà (Gn 2, 16-­‐17). E siccome l'uomo aveva scelto l'opposizione di contraddizione (Gn 3,6), il peccato e la morte e nonostante Dio non gli aveva sottratto il fatto che nel suo interno sia ancora fatto a sua immagine, la storia dell'umanità è una storia che si svolge all'interno di due capi vincolati nel più profondo dell'uomo: contraddizione-­‐contrarietà, morte-­‐vita, odio-­‐amore, egoismo-­‐donazione. In questo ambito, l'Incarnazione Pasquale viene a compiere la frattura della contraddizione in una costruzione amorosa di contrarietà di rapporto. Cioè, la morte viene vinta dalla risurrezione. Cristo prende su di sé la contraddizione dell'uomo che significa il suo peccato e la sua morte, e porta questa contraddizione fino a patirla su sé stesso nella sofferenza della morte (Cfr. Ro 5-­‐6, passim). Ma questa morte, per l'amore dello Spirito Santo diventa fonte di vita, una donazione amorosa di vita, una risurrezione per Cristo medesimo e per tutta l'umanità (Cfr. Ro 8; Ef 1). La contraddizione in quest'unico caso diventa feconda, viene distrutta la sua negazione della vita e si trasforma in opposizione di contrarietà amorosa, fondata nel rapporto di amore che è lo Spirito Santo: la morte diviene la maggiore prova di amore, la maggiore prova di donazione. E così Cristo, divenuto colpevole, prendendo su di sé la contraddizione assoluta dell'uomo che è la morte, crea nuovamente un uomo nuovo nel rapporto di giustizia e santità che è la risurrezione. La contraddizione compresa nella contrarietà Per arricchire quello già detto possiamo aggiungere che Cristo prende su di sé la contraddizione e la fa diventare contrarietà in rapporto di massimo amore e quindi di massima vita, contrarietà nella quale si oppone relativamente all'uomo come soggetto al quale gli dona quello che gli manca totalmente: la vita. La vita trinitaria di opposizione contraria di pura donazione ora passa attraverso la contraddizione della morte per vincere la stessa morte e trasformarla in una pura donazione nello Spirito. La fa diventare donazione di puro amore. Si supera la contraddizione della morte nell'opposizione relativa di contrarietà che è un rapporto di amore. Avevamo descritto come l'opposizione di contraddizione genera la cultura della morte; in Cristo, questa opposizione lo condusse alla massima morte, così chiamata perché la sua morte prende su di sé tutte le morti del mondo, tutte e ciascuna delle contraddizioni; la Redenzione quindi si fondò nel trasformare questa massima morte nella massima vita, riformare la contraddizione attraverso lo spirito in un puro rapporto di amore, come donazione totale. Se, come dicevamo, la vita è capacità di essere e di agire, possiamo quindi concludere che la vita è capacità di essere e di agire attraverso un'opposizione contraddittoria, come è la morte, una opposizione contraria come rapporto di donazione amorosa assoluta nella quale si riceve la partecipazione alla vita della Santissima Trinità (Jo. 17,23.26). In questo consiste l'obbedienza di Cristo che, sentendo la voce del Padre e condotto dallo Spirito Santo, rinuncia a sé stesso, come dice San Paolo: "Pur essendo di natura divina, non ha insistito nell'essere uguale a Dio, ma abbandonando quello che gli era proprio e prendendo la natura di un servo è nato come uomo e presentandosi come uomo si sottopose all'umiliazione e per obbedienza, è andato incontro alla morte, vergognosa morte, sulla croce. Per questo Dio gli ha offerto il più alto onore e il più eccellente di tutti i nomi, così sentendo il nome di Gesù pieghino le ginocchia tutti quelli che sono nei celi e nella terra, e sotto la terra, e tutti possano riconoscere che Gesù Cristo è il Signore, per lode a Dio Padre" (Fil 2, 6-­‐11). 13 Opposizione, tensione e salute All'interno di questa riflessione sul contesto salvifico di Cristo è ora necessario considerare molto brevemente cosa è la salute. Lo faccio soltanto a modo di conclusione. Trattare in modo esauriente la salute comporterebbe un discorso molto lungo per il quale non abbiamo tempo in questa occasione. Qui possiamo enunciare il concetto di salute che Papa Giovanni Paolo II ci ha offerto nel Messaggio Giubilare della Giornata Mondiale del Malato dell'anno 2000. Diceva il Papa: "La salute non si identifica soltanto con l'assenza di malattia, ma si pone come un'inclinazione verso la più piena armonia e sano equilibrio a livello fisico, psichico spirituale e sociale. In questa stessa prospettiva la persona è chiamata a mobilitare tutte le sue energie disponibili per realizzare la propria vocazione e il bene degli altri" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la VII Giornata Mondiale del Malato, 6.VIII.1999) Ora tenteremo di commentare brevemente questo concetto di salute utilizzando i termini della riflessione che abbiamo svolto finora: Abbiamo parlato di un rapporto di opposizione. Anche la salute è un'opposizione perche è una tendenza verso l'armonia totale dell'uomo, verso l'armonia fisica, psichica, sociale e spirituale dell'uomo. Quest'armonia è, in ultimo termine, la partecipazione della vita divina della Santissima Trinità nell'uomo ed è quindi un'opposizione di contrarietà relativa di completezza, come abbiamo già detto, e la tendenza partecipa di questa stessa natura della vita armonica trinitaria. Infine, la salute è la tendenza generata dalla chiamata di Dio in Cristo a partecipare a questa armonia, è la risposta che l'uomo offre a Dio lungo le diverse tappe della sua vita. A volte comporterà l'assenza di malattia, a volte No. L'essenziale non è l'assenza di malattia ma la tendenza all'armonia. Questa tendenza è un'opposizione di rapporto di completezza. È muoversi in completezza. Così la salute si avvia verso la vera vita, che può trovarsi anche nella malattia e nella stessa morte, quando questa ha una natura come quella di Cristo. Una cosa è, quindi, la carenza di malattia e un'altra è l'autentica salute. In questo senso, la vera salute si identifica con la vera vita in quanto la vita si trova, in un certo senso, nel cammino verso la salute. Si fa notare, inoltre, il vincolo essenziale che c'è tra salute e Chiesa, dal momento che la Chiesa è la chiamata concreta a quest'armonia. La vita e la salute sono, quindi, un dono dello Spirito Santo, sono i doni sperati dall'armonia nel contesto delle contraddizioni più grandi che siano mai esistite. Dicevamo che la vita consiste nel muovere se stesso, possiamo quindi dire che la vita e la salute sono i doni che fanno sì che l'uomo metta in moto sé stesso nella forza dello Spirito Santo e grazie allo stesso (Cfr. 1 Cor 2, 6-­‐16; 12-­‐13; 2 Cor 5, 1-­‐5). Così, salute e vita si identificano con il regalo della vita divina affidata, partecipata all'uomo. La vita e la salute sono il rimedio alle tensioni quotidiane che ricevono un cammino di risoluzione nella Parola di Dio che è Cristo e che ora ci arriva nella forma sacramentale, in particolare, nell'Eucaristia. Per questo motivo l'Eucaristia si chiama il pane della vita ed è la medicina dell'immortalità (Cfr. Jo 6, 25-­‐29). CONCLUSIONE: L'UOMO COME IMMAGINE DI DIO Tutto questo che è stato detto è stato un balbettare alcune idee partendo dall'analogia per descrivere la vita e la salute e, in questo modo, l'uomo come immagine di Dio. Quindi, in sintesi, potremmo concludere la nostra riflessione dicendo che l'uomo come immagine di Dio (Gn 1, 27; Cfr. Ro 5, 12-­‐19) è l'uomo che tende verso l'armonia, una tendenza che consiste nella contraddizione morte-­‐vita (Ro 6, 1-­‐11), che si risolve nel rapporto amoroso e di completa donazione con lo Spirito stesso (Ro 8, 1-­‐17) e che permette all'uomo di vivere in quanto si apra a Dio e agli altri in un'essenziale integrazione umana (Cfr. Ef 4, 17-­‐32). 14 Così la vita è convergenza dei diversi, diversi che sono opposti ma non per un'opposizione di contraddizione ma per una mera opposizione di contrarietà che consiste in un rapporto di completezza dove quello che si possiede si dona agli altri, e invece di scomparire si diventa più forte per lo stesso atto di donazione. Questa è la meraviglia della vita e la salute come immagine di Dio. Come immagine di Dio, l'uomo si costituisce nella vita grazie alla donazione amorosa verso Dio e verso gli altri. Come immagine di Dio, la tendenza che lo spinge a donarsi sempre a Dio ed agli altri costituisce la salute. È una tendenza che punta verso la completa armonia della resurrezione, ma è una tendenza molto dolorosa, perché passa attraverso la contraddizione che è la morte di Cristo. La vita è donazione amorosa sempre crescente che si spinge verso orizzonti infiniti. La salute è la tendenza che orienta la vita verso quest'armonia sempre perfezionabile. E questa vita e questa salute cristiane fanno sì che l'uomo sia, nel suo rapporto con Dio e con gli altri, una vera immagine di Dio. 15 BRUNO MAGGIONI
DIO PARLA DELLA VITA Sono convinto che Dio parli della vita in diversi modi. Nel mio discorso, però, mi soffermo sulla Parola di Dio "scritta", Antico e Nuovo Testamento. Mi interessa soprattutto una domanda: qual è la radice che nel discorso biblico costituisce il fondamento ultimo che dà senso e dignità alla vita di ogni uomo? Non soltanto senso e dignità alla vita riuscita e promettente, ma anche alla vita "ferita"? Come si sa, il cammino biblico può apparire frammentario, lungo, persino tortuoso. La verità non sta nella somma si tutti i particolari che emergono, ma nella logica che guida l'intero cammino, che rimane ferma anche nel variare delle situazioni, che via via si chiarisce e trova il suo compimento nell'evento di Gesù Cristo. La prospettiva scelta-­‐ indubbiamente limitata e tuttavia essenziale-­‐ mi libera da alcune preoccupazioni, come l'analisi dei singoli testi, delle situazioni storiche in cui si collocano, della loro genesi. Nulla di questo, non faccio esegesi, ma teologia biblica. Mi interessa la sintesi. LE COORDINATE Ritengo utile iniziare la conversazione elencando alcune coordinate che costituiscono la griglia entro la quale il discorso biblico si è svolto, sia pure non sempre con la stessa chiarezza. Sono notissime e basta elencarle. Fin dall'inizio la Bibbia è convinta che la vita sia molto di più della semplice esistenza. Paradossalmente il vangelo dirà che per avere la vita occorre anche saper perdere l'esistenza (Mc 8, 34)! La Bibbia è poi particolarmente colpita da quelle manifestazioni della vita che possiamo descrivere come movimento e vivacità. La vita è qualcosa che cresce e si sviluppa, dic4e pienezza e intensità. Per questo il vocabolo ebraico è al plurale, appunto per sottolineare la pienezza e la intensità. La Bibbia è convinta che occorre allargare la vita, non solo allungarla. In proposito si può leggere Prov. 3, 16-­‐18. La concezione biblica della vita si costruisce entro una concezione unitaria dell'uomo. Nessun dualismo, né fra spirito e corpo, né fra individuo e società. Per la Bibbia non è possibile alcun dualismo, perché vede sempre l'uomo nella sua inscindibile unità. Il tratto biblico più tipico e più ricco è certamente il legame tra Dio e la vita. Dio è il Vivente, e la vita è il dono più prezioso che sgorga dal suo amore gratuito e fedele. In mille modi si sottolinea che la vita è dono, e come tale da vivere in gratitudine e letizia. La parola vita è sempre unita ai verbi che indicano l'azione salvifica di Dio: donare, redimere, custodire, disporre, fare. Il racconto di Genesi 2 narra che "Il Signore modellò l'uomo con la polvere del terreno e soffiònelle sue narici un alito di vita, e così l'uomo divenne un essere vivente. Il racconto sacerdotale (Genesi 1) narra invece che il sesto giorno Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Genesi 1, 26); e per assicurare all'uomo la sua benedizione. Non soltanto la creazione dell'umanità nel suo insieme, ma anche l'apparire di ogni singola persona e di ogni singola vita viene ricondotta dalla Bibbia all'attività creatrice e operosa di Dio. Per la Bibbia l'uomo non comprende a fondo se stesso se non ha questa consapevolezza: egli trae la propria origine da una decisione nella quale egli non ha preso parte. All'origine di ogni uomo c'è la gratuità dell'amore di Dio, la libertà di un gesto di amore. In proposito si possono leggere testi bellissimi, come il salmo 139 e Giobbe 10, 8-­‐12. E' in questa gratuità originaria che sta la ragione vera che dà senso e dignità a ogni uomo vivente. E in questa 16 gratuità è racchiusa la "promessa" della fedeltà di Dio all'uomo, a ogni singolo uomo, una fedeltà che non può venir meno iin nessuna circostanza. Nella concezione dell'uomo immagine di Dio sono contenute alcune affermazioni di grande rilievo. La prima è che la vita discende da Dio ed è suo dono, sua immagine e sua impronta. Dio è l'unico padrone della vita, e perciò questa è una realtà intoccabile, sottratta al potere di qualsiasi uomo. Benedicendo Noé alla fine del diluvio, Dio disse: "Della vita dell'uomo domanderò conto alla mano dell'uomo, alla mano d'ogni suo fratello... perché quale immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo (Gen 9, 6-­‐6)". Una seconda affermazione è che l'uomo si colloca al vertice della creazione. L'uomo è qualcosa di unico. E' certo imparentato con la creazione ed è solidale con tutte le creature, ma in lui c'è un di più: appunto l'essere immagine di Dio. E questo vale per qualsiasi uomo, al di là di ogni possibile differenza (si veda il salmo 8). Immagine di Dio non è qualcosa che si aggiunge alla creaturalità, ma esprime piuttosto il significato profondo di tale creatura di Dio. E si riferisce all'uomo nella sua totalità, non a una parte di essa o a una sua qualità. Una terza affermazione è che la vita è da vivere nell'obbedienza. Immagine dicerelazione, realtà riflessa, obbedienza appunto. Dono di Dio, la vita si sviluppa rimanendo in comunione con la sua sorgente, si mortifica allontanandosene. Più semplicemente, molti passi biblici legano la promessa della vita all'osservanza dei comandamenti: per esempio Deut. 31, 15-­‐16. In altri termini meno immediatamente religiosi, diremmo che lo sviluppo della vita è legato a una corretta impostazione della vita stessa. Con grande acutezza i profeti hanno sempre tentato di strappare Israele da progetti autonomi, e di distoglierlo da sicurezze troppo umane, ferme, fosero pure religiose. Bisogna invece abbandonarsi fiduciosamente nelle mani di Dio: "Cercate me e vivrete", dice il profeta Amos (5, 4ss). Per vivere pienamente occorre il coraggio di abbandonarsi in avanti, alla vita che ci viene incontro. E per questo non soltanto nella prospettiva di un mondo futuro (un dato che nell'Antico Testamento è nebuloso) ma anche nello svolgersi della vita mondana. Ma dove scorge-­‐ di fatto-­‐ l'uomo biblico la sua grandezza e la sua consistenza? Con grande chiarezza risponde a questa domanda cruciale il salmo 8, che si presenta come il frutto maturo di una lunga meditazione sulla creazione e sul rapporto Dio e uomo. Il salmista trova la grandezza e la solidità dell'uomo nel fatto che Dio si ricorda di lui. Non nella bellezza dell'uomo, o nella forza, o nell'intelligenza. E' l'amore di Dio che dà dignità all'uomo. L'esperienza più profonda dell'uomo biblico è lo stupore di essere ricordato da Dio. L'ultima coordinata a cui voglio accennare, tanto importante da costituire in qualche modo la spina dorsale dei discorso (e perciò già ripetutamente accennata), è il rapporto di fiducia fra l'uomo e Dio: una fiducia nella sua promessa tanto solida che le molte smentite la purificano, ma non la fanno crollare. Nelle pagine bibliche, anche nelle più angosciate, quelle che sembrano esprimere l'abbandono di Dio, la fiducia nella sua fedeltà resta sempre, magari sotterranea. Questa fiducia è persino presente nel racconto di Abramo che obbedisce a Dio sino ad essere disponibile al sacrificio del figlio. Certamente non mancano nel percorso biblico comportamenti divergenti da quanto sin qui detto: violenza contro il nemico, sterminio di città straniere, uccisioni, anche qualche episodio di suicidio. Questi comportamenti non compromettono, però, il discorso essenziale. Dicono invece la difficoltà della sua maturazione e la fatica di superare le molte remore culturali. In ogni caso, non è alla luce di questi comportamenti che va inteso il discorso centrale, ma viceversa. 17 TIPOLOGIE Dopo le coordinate (alle quali ho forse dato uno spazio eccessivo) è utile riguardare il percorso anticotestamentario attraverso le varie situazioni che l'uomo biblico ha incontrato. Ne elenco alcune brevemente: -­‐ l'uomo che vive una vita riuscita che giunge al suo termine naturale; -­‐ la vita interrotta che si conclude con una morte prematura, a volte violenta; -­‐ una vita colpita: la sofferenza innocente (Giobbe); -­‐ una vita insoddisfacente e tuttavia umanamente riuscita, priva di senso in se stessa, quasi una promessa delusa (Qohelet); -­‐ il martirio. Certamente queste varie situazioni suscitano modi differenti di affidarsi alla vita. Ma la cosa interessante -­‐e per noi essenziale-­‐ è che l'uomo biblico, in tutte le situazioni, ha sempre cercato rifugio nella fedeltà di Dio. L'EVENTO DI GESÙ CRISTO E LA VITA Il Nuovo Testamento non pone al centro della sua rivelazione l'uomo, ma come Dio guarda l'uomo: il suo amore per l'uomo, la sua alleanza con l'uomo, il suo condividere l'esistenza dell'uomo. Ovviamente questa rivelazione -­‐che riguarda anzitutto Dio-­‐ getta una luce impensabile, nuova, sull'uomo. Elenco alcuni aspetti che direttamente ci possono interessare. Il Figlio di Dio si è fatto "carne" (1, 14), si legge nel prologo di Giovanni. Carne non è certo la condizione di peccato, ma neppure semplicemente la natura umana: è la natura umana nella sua caducità, nella sua storicità, nella sua corporeità e nella sua mondanità. Il Figlio di Dio ha assunto la vita dell'uomo nella sua piena realtà. E così viene posto di nuovo il fondamento della dignità della vita dell'uomo nella sua totalità. Dopo l'incarnazione dei Figlio di Dio al cristiano è preclusa ogni fuga lontano dal mondo. Neppure il peccato può servire come alibi per la denigrazione della vita dell'uomo nel mondo. Per il Nuovo Testamento non ci sono due esistenze parallele (spirituale e materiale), tanto meno un'esistenza spirituale imprigionata nel corpo e da esso impedita, e neppure due esistenze concepite semplicemente come un prima e un poi, ma un'esistenza unitaria, quella che già ora si vive, destinata però a sfociare nell'eternità e nella piena comunione con Dio. S. Giovanni, con la sua ripetuta espressione di vita eterna -­‐da intendere come partecipazione già ora della vita divina, qualitativamente tale da vincere la morte-­‐ indica che la ragione (o il senso) della vita non è solo da cercare al di fuori di essa, nel suo destino futuro, ma è già dentro di essa: certo un senso ricevuto, ma già presente. Se poi osserviamo le precise modalità storiche dell'esistenza vissuta dal Figlio di Dio, allora comprendiamo anche che Egli ha assunto il volto dell'uomo deriso, del sofferente, del perseguitato, del nemico, persino dell'uomo considerato peccatore e malfattore. Tutto questo mostra che nessun uomo, chiunque sia e qualsiasi cosa abbia fatto, può essere privato della sua dignità di amato da Dio. Proprio perché radicata nel gratuito amore di Dio, la dignità dell'uomo è inalienabile e incondizionata. Gesù esige, poi, esplicitamente il massimo rispetto per l'uomo e considera come diretti a se stesso tanto l'amore quanto l'offesa (Mt 25, 21 ss). Un Dio pensato come lontano può permettere di manipolare l'uomo, ma un Dio che si fa uomo non lo permette. Il Nuovo Testamento apre la vita dell'uomo su orizzonti vastissimi, sconfinanti nello stesso mistero di Dio, il mistero trinitario. E' sempre il gratuito amore di Dio che apre all'uomo questi 18 ulteriori impensati orizzonti. E così la vita è tutta segnata dalla gratuità: dono gratuito nel suo primo sorgere e dono gratuito nella sua elevazione. In qualche modo anche nell'Antico Testamento si pensava la vita -­‐nel suo nocciolo più profondo-­‐ come comunione con Dio. Ma ora si parla dipartecipazione alla stessa vita divina. E tutto questo è molto importante per comprendere la vita. Se si limita lo sguardo al solo tempo presente, o anche se si chiude lo sguardo dentro lo spessore naturale dell'uomo, trovare un senso alla vita resta obiettivamente più difficile. Bisogna alzare lo sguardo verso Dio, della cui vita l'uomo partecipa. E siccome la vita di Dio è un dialogo di comunione e di amore (Trinità), ne consegue che anche la vita dell'uomo -­‐inserita nel dialogo trinitario-­‐ si manifesta e si sviluppa nell'amore e nella comunione. Ha ragione S. Giovanni di scrivere nella sua lettera (3, 14): "Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, poiché amiamo i fratelli". Vita è la novità dell'amore di Dio che in Cristo afferra la persona in tutta la sua interezza, rinnovandola, aprendola verso una impensata dignità. LA CROCE/RISURREZIONE DI GESÙ Ma per capire la vita bisogna capire la Croce e, ovviamente, la risurrezione. Senza la Croce mancherebbe la chiave per comprendere le contraddizioni dell'esistenza, troppe cose dell'uomo resterebbero senza senso. La Croce non sopprime le realtà negative della vita, ma ne suggerisce una diversa lettura. Accettando la via della Croce, Gesù ha condiviso della vita dell'uomo il peso e la tentazione, il fallimento e la sofferenza, lo sconcerto di fronte a una vita interrotta, l'abbandono. Così la Croce di Gesù è il luogo in cui il mistero dell'esistenza si rispecchia, in un certo senso si ingigantisce, e poi si risolve. Morendo in Croce, Gesù si è veramente posto al centro del mistero dell'uomo e di Dio, là dove la vita sembra smentita e Dio contraddire la sua promessa. Ma la Croce/risurrezione trasforma tutte le contraddizioni in rivelazione. Le tre grandi alienazioni dell'uomo, che sembrano sconfiggere la vita privandola di senso e dignità (il peccato, la sofferenza e la morte) trovano una diversa comprensione: il peccato è perdonato, la morte è vinta dalla risurrezione, la sofferenza si tramuta in solidarietà e riscatto. Così il vangelo è persuaso che per trovare un senso positivo della vita, non solo nonostante le sue alienazioni, ma addirittura dentro le sue alienazioni, è necessario confrontarsi con la Croce di Gesù. 19 GIUSEPPE LORIZIO "CREDO NELLA RISURREZIONE DELLA CARNE" Premesse: il fondamento cristologico della fede nella risurrezione della carne Per questa riflessione a carattere teologico-­‐fondamentale sul tema che mi è stato assegnato prenderei spunto da una constatazione molto semplice, ma non per questo ovvia ed acquisita. Si tratta del fatto che la formula "risurrezione della carne" non è di origine biblica, bensì protocristiana. Uno dei testi più antichi e significativi a riguardo è un passaggio dell'omelia, impropriamente denominata "Seconda lettera di San Clemente ai Corinti" (ca 140): Kaì m¾ legε'tw tij Ømîn, Óti aÛth ¹ s¦rx oÙ kr…ínetai oÙdε ¢n…statai. Gnîte: ε'n t…ni ε'sèqhte, ε'n t…ni ¢neblε'yate, e… m¾ ε'n tÍ sarkì taÚth Ôntej; De? oân ¹m©j æj naÕn qeoà ful£ssein t¾n s£rka. ?On trÒpon g¦r ε'n tÍ sarkì ε'kl»qhte, ka… ε'n tÍ sarkì ε'leÚsesqe. E… CristÕj Ð KÚrioj Ð sèsaj ¹m©j, ín mεn tÕ prîton pneàma, ε'gεneto s¦rx kaì oÛtwj ¹m©j ε'k£lesen, oÛtwj kaì ¹me?j ε'n taÚtV tÍ sark… ¢polhyÒmeqa tÒn misqÒn[1]. Nessuno di voi venga a dire che questa nostra carne non subirà il giudizio e non risusciterà. Ricordatelo: non foste salvati, non otteneste la vita interiore, se non in questa carne, vivendo in essa? Perciò è doveroso custodire la carne come un tempio di Dio. Nella carne foste chiamati e nella carne raggiungerete [Dio o la salvezza]. Se Cristo, il Signore, nostro Salvatore, che prima era solo spirito, si fece carne e solo così ci chiamò, anche noi solo in questa carne raggiungeremo il premio eterno[2]. Oltre che sul testo stesso e sulla ricorrenza in esso del termine s¦rx mi preme concentrare l'attenzione su due elementi contestuali, a mio avviso particolarmente significativi, anche per un'attualizzazione del tema e una sua riproposta nell'attuale areopago culturale e religioso: Il contesto di martur…a-­‐testimonianza in cui si esprime la fede nella "risurrezione della carne", qui attestata, per cui la carne destinata alla risurrezione è anzitutto la carne dei martiri, che hanno testimoniato col dono supremo della propria vita-­‐carne la fede della comunità (basterebbe ricordare il linguaggio forte e a tratti eccessivamente cruento di Ignazio d'Antiochia). Il contesto di polemica antignostica che costituisce lo sfondo di queste affermazioni intorno al carattere sarxico della salvezza cristiana. A questo proposito ricorderò soltanto come, nel quadro della sistematica gnostica emerga con distinta chiarezza una concezione ispirata al più radicale dualismo ontologico, cosmico ed antropologico, il che in rapporto alla soteriologia, viene designato con la formula della "restituzione del corpo": "La deposizione del corpo non rappresenta per la gnosi soltanto una liberazione dell'Anima, bensì anche un giudizio sulle potenze che hanno creato il corpo. È una vittoria del regno della Luce che precede la distruzione definitiva della Tenebra"[3]. Una seconda indicazione preliminare riguarda il fatto che la più antica cristallizzazione in una formula di fede dell'attestazione che conosciamo è nel Papiro liturgico Dêr Balyzeh, rinvenuto nell'alto Egitto e riproducente una liturgia che si fa risalire alla metà del sec. IV: 20 PisteÚw e…j QeÕn patε'ra pantokr£tora kaì e…j tÕn monogenÁ aÙtoà u\ιÕn tÕn kÚrion ¹mîn 'Iesoàn CristÒn kaì e…j tÕ pneàma tÕ ¤gion kaì e…j sarkÕj ¢n£stasi[n ε'n tÍ] ¡g…v kaqolikÍ ε'kklhs…v.[4]. Tre brevi considerazioni a questo proposito: La prima concerne la collocazione della formula sarkÕj ¢n£stasij subito dopo quella concernente lo Spirito Santo, il che evidentemente comporta un'attenzione alla dimensione pneumatologica della fede nella risurrezione della carne, è infatti lo Spirito che ha il potere di ridare vita alle ossa aride e alle carni putrefatte. La seconda annotazione riguarda l'apertura all'ultima formula che concerne la ¡g…v kaqolikÍ ε'kklhs…v. Siamo così condotti a riflettere sulla dimensione ecclesiale della nostra fede escatologica, per cui la carne non va intesa soltanto in senso individuale bensì anche comunitario. Infine va notato che il termine ¢n£stasij nel suo significato originario di "mettere in piedi, rizzare, far alzare (qualcuno che è disteso o dorme)". A un'attenta analisi del termine scelto in rapporto ad ε'ge…rw, si fa notare come la radice di quest'ultimo designi, specialmente nel passivo, l'evento pasquale, cioè la risurrezione del crocifisso, mentre i termini con la radice anhist-­‐ vengano utilizzati, oltre che naturalmente nel contesto dell'evento fondatore, anche in riferimento alle risurrezioni di morti compiute durante la vita di Gesù e alla risurrezione escatologica di tutti i morti. Un testo particolarmente significativo al riguardo è 1Cor 15,13: e… dε ¢n£stasij nekrîn oÙk ?stin, oÙdε CristÕj ε'g»gertai["Ebbene se non c'è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato"]. Sarebbe interessante a questo punto introdurre ed articolare la tematica, che ci limitiamop ad accennare, della nostra formula di fede in rapporto a 1Cor 15,50: Toàto dε' fhmi, ¢delfo…, Óti s¦rx kaì a?ma basile…an qeoà klhronomÁsai oÙ dÚnatai, oÙdε ¹ fqor¦ t¾n ¢fqars…an klhronome? ["Ora questo dico, fratelli: la carne e il sangue non può ereditare il regno di Dio né la corruttibilità può entrare nell'incorruttibilità"], dove l'espressione "carne" e "sangue" sta ad indicare "l'uomo nella sua creaturale impotenza di fronte alla sfera del soprannaturale"[5]. Siamo così rimandati al fondamento cristologico della fede nella "risurrezione della carne" e alle sue implicazioni teologiche. Una riflessione teologico-­‐fondamentale sulla corporeità non potrà ignorare da un lato l'evento fondatore e le sue tracce costitutive, in rapporto alla corporeità del Risorto: -­‐ tomba vuota e sua storicità; -­‐ il corpo di Cristo nei racconti delle apparizioni[6], dall'altro il realismo dell'incarnazione e la logica paradossale (Discorso a Diogneto[7]) del lÒgoj s¦rx, così come è richiamata e impostata da Ireneo, in direzione antignostica[8]. La valenza antropologica della fede nella risurrezione della carne Il cuore della problematica che la fede nella "risurrezione della carne" solleva è comunque di tipo antropologico. Sebbene il sintagma sarkÕj ¢n£stasij non sia immediatamente rinvenibile nelle Scritture, bisogna tuttavia a mio avviso interpretarlo alla luce del dato biblico sull'uomo, senza dimenticare il configurarsi dell'antropologia cristiana e i suoi possibili sviluppi in rapporto al pensiero contemporaneo. Propongo quindi una riflessione in tre momenti: il primo dei quali si rivolgerà alla concezione antropologica che la Scrittura suggerisce, il secondo ai grandi maestri del pensiero medievale, rilevando in particolare la tematica dell'unità dell'uomo nel pensiero di Tommaso, il terzo alla fenomenologia contemporanea, di cui si esporranno i risultati in ordine alla nozione di "corpo soggettivo". 21 La dimensione carnale dell'uomo nelle Scritture Tentiamo qui un approccio all'antropologia biblica attraverso l'analisi dei termini più significativi attraverso cui si designa l'essere umano, limitando la nostra attenzione al termine "carne". Nel testo ebraico dell'Antico Testamento il termine basar ricorre ben duecentosessantasei volte con svariati significati, raggruppabili come segue: -­‐ indica la parte muscolosa del corpo umano, che l'uomo ha in comune con gli animali; -­‐ l'intero corpo umano per sineddoche; -­‐ tutto l'uomo concreto; -­‐ l'insieme degli esseri viventi; la parentela del sangue e la comunione creata nel matrimonio ecc. A noi mi sembra possano interessare soprattutto i tre seguenti significati: -­‐ basar = il cadavere umano e il corpo morto degli animali, come nel testo del Genesi, dove Dio proibisce a Noè di mangiare il cadavere (basar) degli animali con la loro vita, cioè con il loro sangue (Gen 9, 4); -­‐ basar = l'uomo nella sua condizione terrena, fragile, debole, mortale, lontano da Dio ovvero distinto da Lui, che, invece, è forza e potenza (Cf. Gen. 6, 3; Ger.17,5; Sal. 56, 5; Is. 40, 6; Giob. 34, 14-­‐15; Deut.5, 26 ecc.). -­‐ basar = l'uomo in una certa opposizione a Dio (cf. Giob. 10, 4; Is. 31, 3; Ger. 17, 5). Generalmente si tratta della relazione dell'uomo alla terra, che lo rende mortale, cioè radicalmente lontano dal Creatore (estraneità rispetto a Dio). Notiamo che si tratta di tutto l'uomo rivolto alla terra, quindi che la prospettiva esclude ogni dualità. Questo significato getta luce sul testo di Paolo sopra riportato 1Cor 15,50. Sebbene gli autori biblici considerino l'uomo prevalentemente come un'unità, tuttavia colgono tre aspetti fondamentali (dimensioni strutturali), che sono espressi con le parole ebraiche: basar, nefesh e ruah, che i LXX e il Nuovo Testamento greco traducono con: s¦rx, yuc», pneàma e la Vulgata con: caro, anima e spiritus. L'articolazione dei significati di s¦rx nel NT in rapporto al giudaismo ellenistico risulta estremamente variegata con oscillazioni non indifferenti per es. nei testi di Paolo sopra richiamati e nel versetto del prologo giovanneo. Particolarmente significativo il brano di 1Cor 15, 36-­‐45, con la risposta di Paolo alla domanda con quale corpo risuscitano i morti?: 15:39 Non ogni carne è la medesima carne; 15:39 oÙ p©sa s¦rx ¹ aÙt¾ s£rx, ¢ll¦ ¥llh mεn altra è la carne di uomini e altra quella di ¢nqrèpwn, ¥llh dε s¦rx kthnîn, ¥llh dε s¦rx animali; altra quella di uccelli e altra quella di pthnîn, ¥llh dε …cqÚwn. pesci. 15:40 kaì sèmata ε'pour£nia, kaì sèmata 15:40 Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma ε'p…geia: ¢ll¦ ε\tε'ra mεn ¹ tîn ε'pouran…wn altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro dÒxa, ε\tε'ra dε ¹ tîn ε'pige…wn. quello dei corpi terrestri. 15:41 ¥llh dÒxa ¹l…ou, kaì ¥llh dÒxa sel»nhj, kaì 15:41 Altro è lo splendore del sole, altro lo ¥llh dÒxa ¢stε'rwn: ¢st¾r g¦r ¢stε'roj diafε'rei ε'n splendore della luna e altro lo splendore delle dÒxV. stelle: ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. 15:42 OÛtwj kaì ¹ ¢n£stasij tîn nekrîn. spe…retai 15:42 Così anche la risurrezione dei morti: si ε'n fqor´, ε'ge…retai ε'n ¢fqars…v: 22 semina corruttibile e risorge incorruttibile; 15:43 spe…retai ε'n ¢tim…v, ε'ge…retai ε'n 15:43 si semina ignobile e risorge glorioso, si dÒxV: spe…retai ε'n ¢sqene…v, ε'ge…retai ε'n semina debole e risorge pieno di forza; dun£mei: 15:44 si semina un corpo animale, risorge un 15:44 spe…retai sîma yucikÒn, ε'ge…retai sîma corpo spirituale. Se c'è un corpo animale, vi è pneumatikÒn. e… ?stin sîma yucikÒn, ˜stin kaì anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che pneumatikÒn. 15:45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere 15:45 oÛtwj kaì gε'graptai, 'Egε'neto Ð prîtoj vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito ¥nqrwpoj 'Ad¦m e…j yuc¾n zîsan: Ð ˜scatoj datore di vita. 'Ad¦m e…j pneàma zJopoioàn. Lo slittamento semantico s¦rx Þ sîma risulta coerente con quanto verrà categoricamente affermato al v. 50, dove tuttavia si lascia una apertura alla risurrezione corporea introdotta dalla sintomatica espressione: …doÝ must»rion Øm?n lε'gw = "ecco vi annunzio un mistero". L'affermazione paolina "non ogni carne è la medesima carne" ci farà da guida nei passaggi successivi, in particolare nel terzo momento, allorché introdurremo nella nostra riflessione la nozione di "corpo soggettivo"[9]. L'elaborazione teoretica dell'antropologia cristiana in età medievale Referente privilegiato del pensiero credente in età patristica è certamente la filosofia platonica. Basterà qui richiamare la famosa formula agostiniana, con cui il dottore della grazia definiva l'anima: come substantia rationis particeps regendo corpori accomodata[10]. Un'antropologia di questo tipo venne seguita nel Medioevo finché non si venne a conoscenza del De anima di Aristotele, che aveva percorso un'evoluzione dall'adesione al dualismo antropologico della teoria ilemorfica. La caratteristica fondamentale dell'aristotelismo maturo (che per Tommaso è l'aristotelismo tout court) è la rivelazione e la netta affermazione dell'unità del vivente concreto animato. Il filosofo di Stagira parte da un'analisi "fenomenologica" dell'esperienza, indagante il comportamento concreto del vivente e la coimplicanza delle sue manifestazioni operative. Il vivente è uno: le sue attività sono operazioni varie fenomenicamente, unificate, però, su uno sfondo che resta unitario, quale fonte prima e radicale di esse. La concezione ilemorfica, estesa ed applicata al vivente, è la chiave ermeneutica dei dati fenomenici. Il primo libro del De anima,impostato il problema dell'oggetto e del metodo ed individuato il primo in ogni vivente animato e il secondo nell'indagine del suo comportamento si conclude con la netta affermazione dell'unità dell'anima[11]. Poco più avanti entriamo nel punto centrale dell'opera aristotelica, dove viene data la definizione di "anima" come «l'entelechía prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza»[12]. Conclusione logica di questo discorso: la non separabilità dell'anima dal corpo e il dubbio di fronte alla analogia del nocchiero[13]. Il procedimento di Aristotele ha seguito una linea di coerenza notevole, allorché si è trattato di applicare l'ilemorfismo agli esseri viventi inferiori, ma quando è passato a considerare l'uomo, sono sorte notevoli difficoltà, derivate dalla presenza dell'intelletto, non riducibile alle forme di vita presenti negli altri viventi. Il riconoscimento di questa presenza sembrò in qualche maniera arrestare e bloccare il processo di unificazione del vivente umano, così lo Stagirita venne a trovarsi in un groviglio di aporie, che sembra non sia riuscito a superare. Il processo di unificazione rimase, inconcluso, tuttavia troviamo qui le premesse perché l'anima venga definita 23 "unica forma sostanziale del composto umano". La conclusione che la teoria aristotelica sembra suggerire apparve, però, incompatibile con l'immortalità dell'anima, che una prospettiva dualistica riesce meglio a fondare. Nonostante questa incompatibilità il Medioevo credente non oppose un netto rifiuto all'antropologia aristotelica, probabilmente anche perché lasciava spazio ad interpretazioni differenziate. Del resto, storicamente, prima di conoscere la traduzione del De anima di Aristotele, l'Occidente medievale[14] conobbe quella del De anima di Avicenna, che si presentava come una parafrasi della trattazione dello Stagirita e ne avvicinava l'antropologia a quella di Agostino, non già perché Avicenna conoscesse Agostino, piuttosto perché attingeva anch'egli elementi neo-­‐platonici. Analogamente Bonaventura[15] (ed altri con lui), pur adottando la terminologia aristotelica, rimase tuttavia fermo alla posizione agostiniana, affermando che l'anima non è una forma come le altre, cioè che non è semplicemente atto di una materia, ma un essere in sé, una sostanza con una propria indipendente attività, composta a sua volta anche essa di materia e forma. Il Medioevo conosceva anche un altro commento al De anima di Aristotele, dovuto alla penna di un altro filosofo arabo: Averroè, che intendeva presentare l'antropologia aristotelica con maggiore fedeltà di Avicenna. Nel farlo, però, la interpretava, sviluppando le parti oscure circa l'intelletto separato, per cercare di conciliare l'unità dell'uomo col fatto che certe forme di conoscenza si presentano come trascendenti il mondo corporeo. Il filosofo arabo credette di risolvere il problema, pur avvertendone tutta la difficoltà, ammettendo che solo l'attività intellettiva dell'indivíduo umano partecipasse alla vita dello spirito. Concepì l'intelletto come rigorosamente spirituale, ma pensò che fosse separato ed unico per tutta l'umanità. La conoscenza intellettiva sarebbe una partecipazione dell'individuo umano all'attività dell'unico intelletto possibile, mentre l'anima sensitiva rimaneva, essendo il principio delle funzioni vitali, forma del corpo. Le conseguenze a livello escatologíco della concezione aristotelico-­‐avverroista saranno tratte da Pietro Pomponazzi (1464-­‐1525), che insegnerà a Padova che lo spirito, per la sua capacità di comprendere l'universale, non è una natura singola individuale, pertanto come tale non può perdurare oltre la morte. Ecco un dato per ermeneutizzare correttamente le affermazioni del Concilio Lateranense V, che, condannerà Pomponazzi, affermando la immortalità dell'anima[16]. Il problema dell'unità dell'anima: è il motivo ispiratore di tutto il commento di Tommaso al De anima di Aristotele, nel quale non esita a dissentire dal filosofo prediletto nell'intento di prevenire qualsiasi attentato all'unità dell'anima umana[17]. Le parti dell'anima vengono qui intese e concepite quali potenze (facoltà) radicate in una unità fondante e fontale e per giustificare la sua tesi l'Aquinate fa appello e mette in particolare evidenza i testi favorevoliall'unità. Con la lezione settima del commento al libro terzo entra nella spinosa questione dell'intelletto aristotelico, che Averroè aveva separato e superindividualizzato, ed afferma che una simile concezione non risulta dai testi di Aristotele, che suggeriscono la lapidaria espressione dell'hic homo intelligit, fulcro dell'argomentazione tomista nella polemica anti-­‐averroista. Nel secondo libro della Summa contra Gentiles, tra l'altro, Tommaso osserva che l'averroismo è preoccupato di salvare la spiritualità dell'uomo e, in particolare, della conoscenza intellettiva, ma, staccando l'intelletto dall'individuo concreto (che è poi l'unico uomo reale) finisce col farne un animale uguale a tutti gli altri: pone fra l'uomo individuo e il bruto una differenza solo di grado. Tommaso, diversamente da Averroè, prosegue l'itinerario di unificazione intrapreso da Aristotele e cerca di superarne le aporie. Egli aveva a sua disposizione una maturazione plurisecolare di indagini sull'anima umana, ma soprattutto disponeva storicamente e psicologicamente della tradizione cristiana, che gli offriva tutta la potenzialità dei suoi dati sulla creazione, la spiritualità e 24 l'immortalità dell'anima umana. Nel portare a compimento l'itinerario aristotelico Tommaso approda a formulazioni rivoluzionarie, se comparate letteralmente con quelle dello Stagirita. L'anima umana è caratterizzata dall'attività intellettuale: ciò che Aristotele vide e riconobbe, ma poi esitò nel precisare i rapporti fra l'intelletto e la forma del corpo. La rivoluzione tomista fa capo alla scoperta chiara e consapevole che l'uomo è radicalmente uno. E questo viene espresso nella formulazione dell'anima intellettiva come forma del corpo. Se l'anima intellettiva è così pensata cadono tutti quegli pseudoproblemi del come essa possa unirsi al corpo (si pensi alle trovate del razionalismo cartesiano), poiché per sua natura è atto del corpo. Il vero problema piuttosto sarà del come l'anima possa separarsi dal corpo nell'escatologia intermedia, che da Tommaso è considerata come stato delle anime separate. E per rispondere a questo problema l'Aquínate, prima di definire l'anima forma del corpo, le riconosce le caratteristiche di sussistenza e di incorruttibilità, e questo gli consente di considerare la sopravvivenza dopo la morte come momento di esilio dell'anima dal suo corpo, in tensione verso il ricongiungimento. Tommaso, a differenza di Bonaventura e di altri teologi della scuola francescana, prende sul serio la terminologia aristotelica e non ne assume solo il rivestimento esterno, per riproporre sostanzialmente un'antropologia dualistica. Quindi, a differenza di Bonaventura, egli nega che l'anima sia composta di materia e forma. Inoltre, in polemica con il filosofo giudaico Avicebron, che nella sua opera Fons vitae aveva ipotizzato l'esistenza di una materia prima, chiamandola materia universale ed appropriandola sia alle sostanze spirituali che a quelle materiali, ricevendo in queste solo in parte la forma della corporeità, Tommaso oppone tutto il realismo della filosofia aristotelica, che, portata alle estreme conseguenze, lo induce all'affermazione ancora più rivoluzionaria secondo cui la forma sostanziale dell'uomo è una ed unica. Nella Summa theologiae Tommaso addurrà le ragioni che lo inducono all'affermazione dell'unicità della forma sostanziale nell'uomo. Questa tesi, infatti, esprime per l'Aquinate l'unico modo d'intendere e di salvare l'unità dell'essere umano, che si fonda appunto sull'unità ontologica data dalla forma. La molteplicità delle forme, invece, moltiplica l'essere e scinde le strutture del vivente. Concludendo e schematizzando, possiamo dire che, mentre per gli agostiniani e la scuola francescana, l'anima è substantia sui generis; per Tommaso d'Aquino, preoccupato piuttosto di salvare l'unità dell'uomo, l'anima è forma sui generis, dove il sui generis dice per entrambi i sistemi la difficoltà di imprigionare in una formula il mistero dell'uomo così come si rivela e si nasconde nell'evento della morte e il travaglio che comporta la fedeltà alla dottrina rivelata. Il primo, adottando un certo dualismo antropologico, lo purifica, ammettendo che l'anima è destinata all'unione con il corpo. L'Aquinate, invece, servendosi della filosofia aristotelica, deve tuttavia mitigare questa prospettiva, perché il suo pensiero non sia in contrasto con il dogma dell'escatologia intermedia. L'unità dell'uomo -­‐ secondo Tommaso -­‐ non è assolutamente in contrasto con la fede cristiana, anzi risulta esigita dal dogma della resurrezione, che segna per l'uomo il ricostituirsi in unità, ovvero la realizzazione in pienezza nei suoi due aspetti: quello spirituale e quello corporeo. Se l'escatologia successiva è stata sviluppata soprattutto sottintendendo uno schema dualistico, dovrebbe essere a questo punto chiaro che ciò è avvenuto in maniera autonoma (anzi opposta) rispetto al pensiero tomista più autentico. La nozione di "corpo soggettivo nella fenomenologia contemporanea Una elucidazione della nozione moderna e contemporanea di "corpo soggettivo" mi sembra possa offrirci una possibile chiave interpretativa e teoretica della fede nella risurrezione della carne. L'originalità della proposta cristiana rispetto alle acquisizioni della filosofia greca è stata messa in luce dal filosofo-­‐fenomenologo di Montpellier Michel Henry[18] nella sua analisi della 25 corporeità in rapporto alla soggettività, nel suo saggio di ontologia biraniana[19]. Alla nozione di "anima" lo stesso autore ha dedicato, oltre che un paragrafo dello stesso scritto, un lavoro autonomo, che riproduce il testo di due lezioni tenute a Bruxelles nel novembre del 1965 e pubblicate sulla Revue philosophique de Louvain l'anno seguente[20]. L'intenzione di questa riflessione è presto dichiarata: si tratta di riflettere sul vecchio concetto metafisico di "anima" per rispondere alla domanda relativa al suo senso per noi che filosofiamo oggi, dove per "avere un senso" si intende "riferirsi ad una realtà" che a tale nozione corrisponde[21]. La domanda è del tutto legittima in quanto tra la metafisica tradizionale, la quale insegna che abbiamo un'anima distinta dal corpo, spirituale, semplice, identica a se stessa attraverso il tempo, non caduca ecc., tra questa metafisica che Henry definisce "rassicurante" e noi che filosofiamo oggi si situa la critica kantiana, considerata a sua volta radicale e definitiva[22]. Anche se può sembrare un'impresa presuntuosa e sproporzionata, se si vuole ancora oggi continuare a parlare di "anima", bisogna effettuare una rigorosa critica della critica kantiana del paralogismo della psicologia razionale, una operazione che il Nostro denomina di "distruzione ontologica", nel senso di "mettere a nudo le strutture dell'essere" implicate nel paralogismo stesso e nella critica kantiana. Henry, dopo una dettagliata esposizione del pensiero di Kant riguardo all'anima, propone il proprio argomento "distruttivo": "L'argomento di questa critica sarà il seguente: la struttura dell'essere, come lo comprende Kant, è incompatibile con la struttura dell'essere del nostro io. Questa struttura dell'essere dell'io possiamo chiamarla l'essenza dell'ipseità. Se il nostro ragionamento è vero, allora dovrà essere possibile dimostrare due cose: da una parte che l'esperienza interna descritta da Kant, è di fatto incapace di consegnarci il nostro io; d'altra parte che ogni volta che Kant parla dell'io, o di un io in generale, non fa che presupporlo, meramente e semplicemente, come non fa che presupporre l'essenza dell'ipseità, di cui non rende mai conto, e che non eleva mai allo stato di problema"[23]. L'analisi serrata della critica kantiana mostra l'indigenza della rappresentazione dell'io penso in ordine al problema dell'anima, in quanto, trattandosi appunto di una rappresentazione, resta situata nella sfera dell'esteriorità, ma -­‐ aggiunge Henry -­‐ "l'essere dell'io non può sorgere, né mostrarsi, nel cuore dell'esteriorità"[24]. Per poter cogliere l'essenza dell'ipseità si dovrà far ricorso alla dimensione dell'interiorità radicale, nella quale solo è possibile la manifestazione dell'essenza. Nonostante il divieto husserliano rivolto verso l'interiorità e nonostante i pregiudizi filosofici presenti nell'areopago contemporaneo, Henry non si stanca di rimandare a questa dimensione fondamentale, che costituisce peraltro l'originalità e lo specifico della sua filosofia. Così alla critica della critica kantiana, il Nostro affianca la discussione con le tesi fondamentali della fenomenologia del corpo di Merleau-­‐Ponty. Sebbene risulti paradossale legittimare la nozione di interiorità radicale e, attraverso questa, la nozione di anima, far appello al corpo, Henry intraprende senza esitazione la via del "corpo soggettivo" e ad essa rigorosamente si attiene: "Questo paradosso si attenua allorché si fa strada l'idea di un corpo soggettivo. Allorché il corpo è interpretato, in effetti, non più nel modo ingenuo ed unilaterale di un oggetto, ma anche come un soggetto, e può essere come il soggetto autentico, come la fonte della nostra conoscenza sensibile, e allorché questa conoscenza sensibile, a sua volta, al posto di essere trattata come un modo inferiore della conoscenza, è compresa come la sola e il fondamento di ogni conoscenza possibile, allora l'analisi del corpo così compreso nella sua soggettività originaria sembra poterci condurre a quell'interiorità che noi cerchiamo"[25]. La strada rimane tuttavia preclusa, qualora con Merleau-­‐Ponty, la soggettività venga intesa nei termini dell'essere-­‐nel-­‐mondo e quindi della trascendenza. Le arcinote descrizioni dell'esistenza 26 corporea contenute nella Fenomenologia della percezione[26] in termini di trascendenza risultano agli occhi di M. Henry per un verso evidenti e sostanzialmente fedeli a ciò che descrivono, mentre lasciano in ombra il problema essenziale del come questo corpo, che ci apre al mondo (è il "veicolo della nostra presenza al mondo") e che costituisce la base del nostro sapere del mondo, conosce se stesso? Come è presente a se stesso? A queste domande fondamentali non si può rispondere se si nega l'interiorità, come avviene nella filosofia moderna globalmente considerata. Di qui l'interesse di Henry verso il pensiero di Maine de Biran, il quale (in polemica con il sensismo di Condillac), pur senza misconoscere affatto la dimensione trascendente dell'esperienza corporea come capacità del corpo di porci in rapporto al mondo e agli altri, ha posto il problema previo a quello di questo rapporto, ossia il problema della conoscenza del corpo stesso. Se si parte dalla considerazione della conoscenza originaria che noi abbiamo della mano che tocca qualcosa e ci soffermiamo sulla stessa capacità del toccare, dobbiamo concludere che una tale conoscenza non consiste in un'estasi, in quanto non si svolge di fronte all'essere, compreso, esterno. Dunque una conoscenza originaria di questo genere non è né può essere in alcun modo intenzionale, per il fatto che ogni intenzionalità è fondata sulla trascendenza, sviluppando un orizzonte come luogo dell'alterità. Se il potere di toccare con mano ci venisse consegnato tramite la mediazione dell'intenzionalità, allora esso sarebbe un potere esterno a noi, ma se è vero che ad ogni vero potere è dato un primo potere, assoluto ed immanente, allora il potere di toccare in quanto ha di esteriore si fonda sul potere autentico ed interiore che è il mio corpo: "Esiste [...] una forza assoluta, una causalità efficiente (questa autentica causalità di cui la metafisica tradizionale ha negato la nozione o l'ha riservata a Dio solo), esiste un potere autentico un "io posso" nell'effettività del suo esercizio? Sì: è il mio corpo. Poiché il mio corpo è questo potere assoluto, irrefutabile, per il quale dilato o contraggo i miei polmoni, per il quale chiudo o apro le mie dita, per il quale io mi alzo e cammino. Il mio corpo è il movimento che si prova camminando, cioè che si attesta lui stesso interiormente, è la mia azione tale quale la vivo in una esperienza immediata che sfida ogni commento e a maggior ragione ogni contestazione, l'essenza su cui scivolano le chiacchiere, la libertà che deride i paralogismi, le rappresentazioni, la conoscenza e le sue tesi, che si fa beffe della scienza"[27]. Traendo le estreme conseguenze da questa esclusione radicale della trascendenza della soggettività e della corporeità, Henry giunge a concludere che la relazione soggettiva dell'io al proprio corpo non è nient'altro che la relazione fondamentale del corpo a se stesso, l'autoaffezione (per riprendere la tematica dell'affettività) del movimento e del senso per se stessi e questa autoaffezione immanente ed interiore è l'ipseità. La coerenza interna primaria di questo "abitacolo che noi siamo, in cui siamo e in cui siamo dei viventi" riceve a questo punto il nome di "anima". In chiusura del suo saggio e prima di indicare il senso della nozione di anima nella struttura "monadica" dell'essere come "interiorità", Henry riporta un passaggio di un autore, cui spesso ricorre anche nella sua opera principali: Kafka, che nel romanzo America narra di Karl, in quale nella sua ricerca di un lavoro, viene colpito da un cartello con la scritta : "Qui c'è un posto per ciascuno". L'espressione esprime agli occhi di Henry la condizione metafisica dell'essere. "L'ontologia contemporanea rende conto facilmente in apparenza dei primi termini di questa proposizione: "qui" "c'è" "un posto". Ma che significa il sorgere alla fine della frase di quel "ciascuno"? L'ipseità è un'aggiunta contingente all'avvenimento instancabile, anonimo, impersonale dell'essere nell'esteriorità, una limitazione accidentale, una particolarizzazione infondata della sua universalità? O non designa piuttosto la condizione dell'essere, la sua stretta originaria in una luce che non è più quella del mondo, la donazione prima che è giustamente la stessa ipseità?"[28]. In tale prospettiva l'anima non sarà dunque altra cosa che l'ego, ma l'ego ha un essere che è appunto l'anima, ma non l'anima intesa in termini di trascendenza, che in questo 27 senso non è che un'ombra, una larva vagante nell'Ade della metafisica classica. La realtà del "corpo soggettivo" consente all'anima di uscire da questa esistenza vaga ed umbratile per comprendersi come autenticamente reale. La dottrina cristiana del corpo, non considerato soltanto come un modo determinato e contingente della nostra esperienza storica, ma come una realtà ontologica costitutiva della natura umana, comporta una serie di affermazioni sorprendenti, che secondo Henry hanno un senso solo se comprese alla luce della nozione di "corpo soggettivo": "Solo se il nostro corpo è, nel suo essere originario, qualcosa di soggettivo, le brevi allusioni della dogmatica a proposito del suo destino metafisico possono essere altra cosa che delle concezioni stravaganti. Stravaganti, in effetti, dovevano necessariamente sembrare, agli occhi dei Greci, delle affermazioni come quella che sostiene la resurrezione del corpo. Ecco perché i Corinzi sghignazzavano allorché Paolo pretendeva di non riservare all'anima il privilegio di questa resurrezione. È chiaro al contrario che se l'essere originario del nostro corpo è qualcosa di soggettivo, esso cade, allo stesso titolo della nozione di "anima", sotto la categoria di ciò che è suscettibile di essere ripreso e di essere giudicato. È manifestamente al contenuto della teologia cristiana che Rimbaud ha improntato l'affermazione: les corps seront jugés"[29], citazione che riecheggia il testo dell'omelia protocristiana citato all'inizio. Mi preme ancora ricordare come la distinzione fra "corpo oggettivo" e "corpo soggettivo" svolga un ruolo importante nella elaborazione di una antropologia ispirata all'ontologia trinitaria nell'opera più ponderosa di Edith Stein. La ripresa dell'antropologia trinitaria di stampo patristico, che considera l'essere umano finito come immagine dell'Essere eterno trinitario, se da un lato si inquadra nella tradizione origeniana e agostiniana, nonché bonaventuriana più autentica, d'altra parte include dei riferimenti fecondi alla tematica ad esempio del corpo soggettivo, che la Stein chiama "corpo vitale", distinguendo fra Körper e Leib ed introducendo così una categoria tipica dell'ontologia fenomenologica, di cui è certamente debitrice, ma che, per tanti versi, richiama il senso cristiano della corporeità e la sua valenza personale e spirituale. Il quadro gnoseologico qui è dato dalla concezione della verità, anch'essa trinitariamente strutturata, secondo le dimensioni logica, ontologica e trascendentale. La dottrina dell'anima rimanda alla mistica del castello interiore e ad essa di fatto si ispira, in maniera fin troppo esplicita: «L'anima è lo "spazio" al centro di quella totalità composta dal corpo, dalla psiche e dallo spirito; in quanto anima sensibile (Sinnenseele) abita nel corpo, in tutte le sue menti e parti, è fecondata da esso, agisce dando ad esso forma e conservandolo; in quanto anima spirituale (Geistseele) si eleva al di sopra di sé, guarda al mondo posto al di fuori del proprio io -­‐ un mondo di cose, persone, avvenimenti -­‐, entra in contatto intelligentemente con questo, ed è da esso fecondata; in quanto anima, nel senso più proprio, però, abita in sé, in essa l'io persona è di casa. Qui si raccoglie tutto ciò che entra provenendo dal mondo sensibile e da quello spirituale, e qui ha luogo la disputa interna muovendo dalla quale si prende posizione, ricavandone ciò che diventerà più propriamente personale, la componente essenziale del proprio io, ciò che (parlando metaforicamente) si «trasforma in carne e sangue». L'anima in quanto "castello interiore", come l'ha chiamata la nostra santa madre Teresa, non è puntiforme, come l'io puro, ma è uno spazio, un castello con molte abitazioni, dove l'io si può muovere liberamente, andando ora verso l'esterno, ora ritirandosi sempre più verso l'interno»[30]. In tempi nei quali la figura dell'angelo ritorna e richiama l'interesse dei filosofi, mentre viene quasi del tutto dimenticata dai teologi, leggere la pagine dell'opera della Stein, in cui si delinea una vera e propria angelologia filosofico-­‐teologica, può addirittura risultare di sconcertante attualità. Conclusioni 28 Uno sviluppo speculativo importante dell'affermazione paolina secondo cui oÙ p©sa s¦rx ¹ aÙt¾ s£rx pensiamo possa avvenire proprio a partire dalla nozione di "corpo soggettivo" sopra esposta, senza tuttavia dimenticare le fondamentali acquisizioni del pensiero tomistico, che restano punto imprescindibile per il pensiero cristiano. Il contesto o areopago culturale contemporaneo presenta infatti delle interessanti analogie col periodo della prima evangelizzazione, oggi come allora la tentazione gnostica sembra incombere sulla fede e connotare le variegate forme del cosiddetto ritorno del sacro. Oggi come allora il richiamo alla martur…a-­‐testimonianza ci sembra particolarmente prezioso e decisamente significativo in un contesto in cui si espone sempre più all'incomprensione e all'isolamento chi, con energia ed evangelica parresia non demorde dal compito di "custodire la carne come un tempio di Dio". 29 [1] F, 1, 194 -­‐ PG 1, 341. [2] Seconda lettera di san Clemente ai Corinti, in I Padri apostolici, trad., intr. e note di G. Corti, Città Nuova, Roma 19713, 230. [3] R. Kurt, La Gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, Paideia, Brescia 2000, 249. [4] DS 2. [5] La prima lettera ai Corinzi, introd., versione e commento di G. Barbaglio, Dehoniane, Bologna 1995, 855. [6] Cf tra l'altro H. Kessler, La risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico, teologico-­‐
fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999. [7] "I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è la scoperta del pensiero e della ricerca di qualche genio umano, né aderiscono a correnti filosofiche, come fanno gli altri. Ma, pur vivendo in città greche o barbare -­‐ come a ciascuno è toccato -­‐ e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o meglio -­‐ come dicono tutti -­‐
paradossale" [Discorso a Diogneto, in I Padri apostolici, cit., 364-­‐365]. [8] Sarà proprio facendo leva sul realismo dell'incarnazione ["Il Figlio di Dio divenne veramente uomo per salvare l'uomo" (Adversus haereses III, 18,7)] e adottando una prospettiva storico-­‐
salvifica (o„konom…a) che il grande Ireneo di Lione soprattutto nell'AH risponderà alla tentazione gnosticistica e alle sue diverse espressioni, fornendoci allo stesso tempo una fonte preziosa per la conoscenza di questo fenomeno e di queste dottrine. [9] Sul tema dell'antropologia biblica cf tra l'altro L. Scheffczyk, L'uomo moderno di fronte alla concezione antropologica della Bibbia, LDC, Leumann 1970, W. Mork, Linee di antropologia biblica, Esperienze, Fossano 1971 e G. De Gennaro,L'antropologia biblica, Dehoniane, Napoli 1981. [10] Aurelius Augustinus, De quantitate animae XIII, in PL XXXII, 1048. [11] Cf Aristotele, Opere, Laterza, Bari 1973, IV, 125. [12] Ib., 128. [13] Cf ib., 130. [14] Su questo tema cf tra l'altro Aa. Vv., L'anima dell'uomo. Trattati sull'anima dal V al IX secolo, Jaca book, Milano 1979. [15] Resta fondamentale il volume di E. Gilson, La filosofia di San Bonaventura, Jaca book, Milano 1995. [16] Cf<DS 1440-­‐1445. [17] Per tutta questa problematica in prospettiva tomista cf S. Vanni Rovighi, L'antropologia filosofica di S. Tommaso d'Aquino, Vita e pensiero, Milano 1972. [18] Data la scarsa frequentazione di questa filosofia, ne diamo una bibliografia di riferimento quasi completa, in modo da offrire materiali per l'ulteriore approfondimento di queste pagine: Opere filosofiche di M. Henry: L'essence de la manifestation, PUF, Paris 1963, 2vv.; Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l'ontologie biranienne, PUF, Paris 1965; Marx. I: Une 30 philosophie de la réalité. II: Une philosophie de l'économie, Gallimard, Paris 1976; Généalogie de la psychanalyse. Le commencement perdu, PUF, Paris 1985; La barbarie, Grasset, Paris 1987; Voir l'invisible. Sur Kandinsky, Bourin, Paris 1988; Phénoménologie matérielle, PUF, Paris 1990; C'est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme, Paris 1996. Articoli e saggi di carattere filosofico: "Le bonheur chez Spinoza", in Revue d'Histoire de la Philosophie 39-­‐40 (1944) 187-­‐225; 41 (1946) 67-­‐100; "Le concept d'âme a-­‐t-­‐il un sens?", in Revue philosophique de Louvain 64 (1966) 5-­‐33; "Introduction à la pensée de Marx", in Revue philosophique de Louvain 67 (1969) 241-­‐266; "Forces productives et subjectivité, le socialisme selon Marx", in Diogène 88 (1974) 95-­‐
118; "Le concept d'être comme production", in Revue philosophique de Louvain 73 (1975) 79-­‐107; "Phénoménologie de la conscience, Phénoménologie de la vie", in Aa. Vv., Sens et Existence. En hommage à Paul Ricoeur, du Seuil, Paris 1975, 138-­‐151; "La métamorphose de Daphné", in Les études philosophiques 32 (1977) 319-­‐332; "Qu'est que cela que nous appellons la vie?", inPhilosophiques mai (1978) 133-­‐150; "La rationalité selon Marx", in Aa. Vv., Rationality today, Univ. Press, Ottawa 1979, 116-­‐135; "Théodicée dans la perspective d'une phénoménologie radicale", in Archivio di filosofia 56 (1988) 383-­‐393; "Acheminement vers la question de Dieu: preuve de l'être ou éprouve de la vie", in Archivio di filosofia 58 (1990) 521-­‐531; "La parole de Dieu: un approche phénoménologique", in Archivio di filosofia 60 (1992) 157-­‐163; "Qu'est-­‐ce qu'une Révélation?", in Archivio di filosofia 62 (1994) 51-­‐57. Romanzi: Le jeune officier, Paris 1954; L'amour le yeux fermés, Paris 1976; Le Fils du Roi, Paris 1981 (tutti editi da Gallimard). Studi su Michel Henry: J. Colette, "L'essence de la manifestation", in Revue des sciences philosophiques et théologiques 51 (1967) 39-­‐52; P. D. Dognin, "Le «Marx» de Michel Henry", in Revue thomiste 4 (1977) 610-­‐624; A. Dominguez, Une phénoménologie de l'intériorité. La philosophie de Michel Henry. Tesi dottorale difesa nel 1968 presso l'Università Cattolica di Lovanio (non pubblicata); Id., "Michel Henry, un filosofo de la immanencia", in Pensamiento 34 (1978) 145-­‐176; G. Dufour-­‐Kowalska, "Michel Henry lecteur de Maître Eckhart", in Archives de philosophie 36 (1973) 603-­‐624; Id., "Marx ou l'anti-­‐marxisme", in Contrepoint 22-­‐23 (1976) 247-­‐
249; Id., Michel Henry au miroir de Marx", in Critique 360 (1977) 489-­‐504; Id., "Un concept de la dialectique", in Revue de théologie et de philosophie 4 (1977) 296-­‐306; Id., "Le Marx de Michel Henry et la question de l'idéologie", in Archives de philosophie 41 (1978) 641-­‐657; Id., Michel Henry, un philosophe de la vie et de la praxis, Vrin, Paris 1980; J. Lacroix, "Un philosophe du sentiment: Michel Henry", in Id., Panorama de la philosophie française contemporaine, PUF, Paris 1966, 164-­‐170; G. Lorizio, "La parousia dell'Assoluto nel pensiero di Michel Henry", in Id.(ed.), Morte e sopravvivenza, AVE, Roma 1995, 73-­‐106; J. L. Petit, «Autour du «Marx» de Michel Henry, I: Marx et l'ontologie de la praxis", in Revue de Métaphysique et de Morale 82 (1977) 365-­‐
385; J. Racette, "La philosophie du corps de Michel Henry», in Dialogue 7 (1968-­‐9) 391-­‐409; J. Textier, « Autour du «Marx» de Michel Henry, II: Marx est-­‐il marxiste?», in Revue de Métaphysique et de Morale 82 (1977) 386-­‐409; X. Tilliette, "La révélation de l'essence. Notes sur la philosophie de Michel Henry", in Aa. Vv., Manifestation et Révélation, Beauchesne, Paris 1976, 207-­‐236; Id., "Michel Henry: «L'amour les yeux fermés»", in Revue des Deux-­‐Mondes, vol. I (1977) 505-­‐508; Id., "Corpo oggettivo, corpo soggettivo", in Aa. Vv., Il corpo, perché? Saggi sulla struttura corporea della persona, Morcelliana, Brescia 1979, 53-­‐65; Id., "Une nouvelle monadologie: la philosophie de Michel Henry", in Gregorianum 61 (1980) 633-­‐651; Id., "Michel Henry: la philosophie de la vie", in Philosophie 15 (1987) 3-­‐20; G. van Riet, "Une nouvelle ontologie phénoménologique. La philosophie de Michel Henry", in Revue philosophique de Louvain 64 (1966) 436-­‐457. [19] Cf M. Henry, "La théorie de l'ego et le problème de l'âme", in Id., Philosophie et phénoménologie du corps, cit., 50-­‐70. [20] Id., "Le concept d'âme a-­‐t-­‐il un sens?", cit. 31 [21] Cf ib., 5. [22] La tesi kantiana è nota e viene da Henry così riassunta: "Ce qui est constamment affirmé à travers les méandres de laDialectique transcendentale, c'est, d'une part, que l'être de l'ego ne peut être posé à partir de la pensée pure ni par elle, et, d'autre part, qu'il ne peut pas davantage être saisi tel qu'il est en soi. Et c'est parce que l'âme dont parle la métaphysique traditionelle désigne en fin de compte cet être réel et véritable du moi, que Kant écarte son concept" (ib,, 6). [23] Ib., 11. [24] Ib., 18. [25] Ib., 21. [26] Cf M. Merlau-­‐Ponty, Fenomenologia della percezione (a cura di A. Bonomi), il Saggiatore, Milano 19803. I testi di questo autore sulla tematica del corpo sono raccolti in M. Merleau-­‐
Ponty, Il corpo vissuto (a cura di F. Fergnani), il Saggiatore, Milano 1979. [27] M. Henry, art.cit., 27. [28] Ib.,, 32-­‐33 [29] M. Henry, Philosophie et phénoménologie du corps, cit.,289. [30] E. Stein, Essere finito e Essere eterno, Città Nuova, Roma 1988, 394-­‐395. 32 LUKE GORMALLY LA DIGNITÀ UMANA: IL PUNTO DI VISTA CRISTIANO E QUELLO LAICISTA 1 INTRODUZIONE Il contrasto da discutere in questo saggio tra la classica concezione cristiana della dignità umana e quella tipicamente laicista può essere brevemente enunciata come segue. Entrambe asseriscono che agli esseri umani pertiene un indiscutibile valore. Nella concezione cristiana classica tale valore, o dignità, può essere definito nei modi seguenti: (1) il valore, o la dignità, che gli esseri umani possiedono in virtù della loro natura creata, una dignità che è insita in questa natura, e che come tale appartiene a tutti gli esseri umani; (2) la dignità che appartiene a quegli esseri umani che vivono completamente in accordo con il fine o l'intento che Dio riserva agli esseri umani; infine (3) la dignità che appartiene alla perfezione della vita umana in paradiso. Queste potrebbero essere chiamate (1) dignità ontologica o innata, (2) dignità esistenziale o acquisita, e (3) dignità definitiva. La concezione contemporanea tipicamente laicista della dignità umana nega che ci sia una dignità innata che attiene agli esseri umani in quanto tali, nega che soltanto alcune disposizioni o scelte (quelle che rispettano la verità circa il bene umano) siano coerenti con il raggiungimento della dignità esistenziale, ma afferma che la dignità esistenziale è collegata all'esercizio della capacità di determinare sia ciò che è da considerare di valore, sia il modo di vivere la propria vita. Questo saggio delinea lo sviluppo della classica concezione cristiana della dignità umana, analizza con particolare attenzione ciò che San Tommaso d'Aquino ha da dire sul concetto di dignità, individua quali elementi cruciali nella concezione di Tommaso sulla vita umana (la sua antropologia) sono andati successivamente perduti nella tradizione intellettuale europea, e suggerisce come proprio tali perdite concorrano a spiegare l'emergere della concezione moderna della dignità umana. La concezione moderna, in alcune delle sue versioni contemporanee estreme, presume che non esista una cosa come la verità concernente gli elementi importanti del bene umano. Il saggio si chiude con una brevissima analisi della recente risposta del Santo Padre alle contemporanee concezioni laiciste della dignità umana. Nel proporre una genealogia della comparsa della moderna concezione laicista della dignità umana, sono consapevole sia di quanto è approssimata e sommaria la trattazione offerta, sia delle lacune che necessiterebbero d'essere colmate in un resoconto più dettagliato. L'omissione maggiore è un'analisi particolareggiata del carattere mutevole della dottrina della volontà tra d'Aquino e Kant. La mia relazione si concentra sulla costituzione fondamentale degli esseri umani, ed in particolare sul contrasto tra, da una parte, una concezione unitaria e teleologica degli esseri umani e, dall'altra, un'antropologia dualistica in cui il corpo è considerato meccanicisticamente; tale contrasto è sicuramente fondamentale per comprendere il fallimento tipicamente laicista nel riconoscere l'innata dignità degli esseri umani. Limiti di tempo e di spazio hanno imposto il carattere selettivo di quanto segue. IL RETROTERRA PAGANO CLASSICO[2] Nel mondo classico non c'era una base religiosa o filosofica per l'idea di uguaglianza nella dignità di tutti gli esseri umani.[3] Nel pensiero non-­‐cristiano dell'antichità si possono identificare due 33 posizioni relative al valore della vita individuale dell'uomo. Quella predominante "semplicemente asserisce o argomenta che per qualsiasi motivo (p.es. mancanza di nous) gli uomini nascono con un valore disuguale in qualche fondamentale senso di "valore."[4] L'altra posizione, minoritaria, (presente in Epitteto e Plotino) è che gli esseri imani sono nati con la capacità di raggiungere pari valore per mezzo dell'acquisizione della virtù e dunque godere della parità di spettanze (o 'diritti'), ma "che tali diritti sono alienabili, a volte in toto, e che, dunque, potrebbe verificarsi che alcuni potrebbero trovarsi addirittura nella posizione di non avere diritto alcuno."[5] LO SVILUPPO DELLA DOTTRINA CRISTIANA SULLA DIGNITÀ UMANA "Creati ad immagine dell'unico Dio e ugualmente dotati di anime razionali, tutti gli uomini hanno la stessa natura e la stessa origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare della stessa beatitudine divina: tutti, pertanto, godono d'una eguale dignità."[6] "L'uguaglianza degli uomini si basa essenzialmente sulla loro dignità come persona e sui diritti che da essa scaturiscono...."[7] In queste frasi il Catechismo della Chiesa Cattolica chiarisce che ci sono due concetti che sono stati di centrale importanza nello sviluppo della dottrina Cristiana sulla dignità umana: il concetto di 'immagine di Dio' e il concetto di 'persona'. L'immagine di Dio e la dignità umana: sviluppi biblici, patristici e medievali del tema[8] Genesi 1, 26-­‐27 e 5, 1 insegnano che gli esseri umani furono creati ad immagine (tselem) e a somiglianza (demuth) di Dio. L'immagine è associata al dominio sulla creazione animale. E' evidente che l'immagine permane dopo il peccato originale, in quanto l'uomo, essendo ad immagine di Dio, è la ragione della proibizione dell'assassinio [Genesi 9, 6]. Nel Nuovo Testamento è di Cristo che si parla come "immagine di Dio invisibile" [Colossesi 1, 15]. Dall'interpretazione di questo testo, sono derivate due distinte concezioni di immagine tra i Padri della Chiesa: a) c'era chi riteneva che l'umana natura di Cristo fosse l'immagine visibile della realtà divina (Ireneo, Tertulliano, Mario Vittorino). b) c'era chi reputava che solo la divinità di Cristo potesse essere "l'invisibile immagine dell'invisibile Dio" (Origene): Dio, essendo incorporeo, non può avere un'immagine corporea. Questa disputa su Cristo è collegata alla disputa sul senso in cui l'uomo è imago Dei: da una parte ci sono coloro per i quali l'immagine è nell'intero uomo, corpo e anima. dall'altra ci sono coloro per i quali l'immagine risiede solo nell'anima. Per molti Padri della Chiesa solo Cristo, il Figlio, è propriamente detto "immagine", mentre l'uomo è solamente "ad immagine" (kat' eikona). Questo essere 'ad immagine' costituisce l'essenza della natura umana. Dal momento che molti dei Padri ritennero che Cristo fosse l'immagine di Dio nella sua divinità, non nella sua umanità, è solo l'anima, o piuttosto ilnous dell'uomo, che è 'ad immagine' di Dio. Il corpo partecipa per derivazione alla dignità che propriamente appartiene all'anima/nous. Tra i Padri emerge una distinzione tra 'ad immagine', intesa come costituita da ciò che l'uomo è nell'ordine della natura, e 'a somiglianza', intesa come costituita da ciò che l'uomo riceve nell'ordine della grazia. Così Sant'Agostino distingue l'uomo come 'capax Dei' in virtù della 34 ragione, dell'immortalità e della conoscenza naturale di Dio, e l'uomo come 'particeps Dei' grazie ai doni soprannaturali. A causa della forte influenza della filosofia Platonica e neo-­‐Platonica sulla patristica, particolarmente rispetto all'anima, non è chiaro se ci sia un'intrinseca dignità per la vita corporea. Nel periodo[9] medievale antecedente a d'Aquino, a causa dell'ininterrotto dominio delle influenze filosofiche Platoniche, non è emersa una esauriente spiegazione del modo in cui il corpo umano partecipasse della dignità della persona umana. D'Aquino sulla dignità, 'l'immagine di Dio' e la persona umana[10] "La 'dignità' denota la bontà di qualcosa per se stessa (propter se ipsum)."[11] I due concetti di 'immagine di Dio' e 'persona', che nel Catechismo abbiamo notato essere concetti chiave per la comprensione della dignità umana, appaiono chiaramente avere questa funzione in San Tommaso. Qui, in successione, riportiamo la sua trattazione di entrambi, nel modo in cui si collegano alla concezione della dignità umana. L'immagine di Dio La sua principale trattazione di questo concetto in relazione all'uomo è nella Summa theologiae I q. 93. Un'immagine, dice San Tommaso, è una somiglianza significativa. Nell'uomo c'è una somiglianza con Dio, ma non una somiglianza perfetta (ciò perché la Scrittura dice che l'uomo è fatto a somiglianza di Dio: hoc significat Scriptura, cum dicit 'hominem factum ad imaginem Dei'. Praepositio enim 'ad' accessum quemdam significat, qui competit rei distanti. Art.1) Una somiglianza è una somiglianza significativa soltanto se contiene quel che è distintivo di ciò che rappresenta. Tra le creature, solo quelle che conoscono e comprendono maggiormente si avvicinano a Dio nella somiglianza. E dunque solo le creature intellettuali sono, propriamente parlando, 'ad immagine di Dio'. L'immagine di Dio nell'uomo è imperfetta ma può essere portata a perfezione. Questo è possibile in quanto 1) l'immagine consiste, in prima istanza, nella nostra natura intellettuale, in virtù della quale noi siamo dotati dellacapacità dinamica di sviluppare le abilità necessarie alla conoscenza e l'amore di Dio; 2) la grazia rende possibile nell'uomo un'effettiva o consueta, ma certamente non perfetta, conoscenza di Dio e del suo amore; 3) possiamo essere portati a conoscere ed amare Dio perfettamente in paradiso 'dalla somiglianza della gloria'. Corrispondenti ai gradi di somiglianza nell'immagine, sono i gradi di dignità: 1) la naturale dignità dell'uomo -­‐ la dignità che appartiene alla sua natura e ai suoi poteri naturali. Questa non viene mai perduta.[12] 2) La dignità di coloro che vivono rettamente, i 'justi'. 3) La dignità dei benedetti in paradiso, i 'beati'. Questi tre livelli corrispondono a ciò che noi abbiamo chiamato 'innata' (o ontologica), 'acquisita' (o esistenziale) e 'definitiva' dignità. Dal nostro punto di vista, in questo saggio, la dignità umana che più ci interessa è la prima, la naturale, innata dignità dell'uomo, la dignità che appartiene alla 35 sua natura e alle sue facoltà naturali. L'esplorazione del fondamento di questa dignità è forse maggiormente accessibile se ci rivolgiamo al secondo concetto chiave, quello di 'persona'. La Persona Il concetto di persona implica la 'dignità', e questo è il motivo per cui il concetto di persona è valido solo per individui di natura intellettuale, che è precisamente ciò che dà loro la dignità.[13] Una persona è 'una sostanza individuale di natura razionale'. Gli esseri umani sono costituiti come sostanze individuali di natura razionale in virtù del fatto che possiedono anime razionali. L'anima razionale è la 'forma e la realtà persistente tutta la vita"[14] che dà unità dinamica ai complessi organismi materiali quali noi siamo e all'espressione delle nostre svariate facoltà (vegetativa, animale e intellettuale) in molteplici attività. San Tommaso in II Sent., d.26, q.1 a.4c afferma: "Dall'essenza dell'anima scaturiscono facoltà che sono essenzialmente differenti... ma che sono tutte unite nell'essenza dell'anima, come in una radice." Le facoltà dell'anima, nella forma di capacità fondamentali non completamente sviluppate, vengono donate a ciascun individuo all'inizio della sua esistenza. Questo è il fondamento della dignità naturale che appartiene ad ogni essere umano. Una parte importante di questa dottrina di San Tommaso è quella inerente all'unicità della forma sostanziale.[15] Una delle implicazioni di questa dottrina è che il corpo umano partecipa della dignità della nostra natura razionale nel senso che, finché siamo corpi umani viventi, la nostra corporeità è intrinseca a ciò che ci dà dignità naturale. Ma tale insegnamento sulla unicità della forma sostanziale è di fondamentale importanza anche per comprendere ciò che San Tommaso intende quando parla della nostra capacità di controllo (dominium) sulle nostre azioni, una capacità che è una caratteristica centrale della nostra natura razionale, ed essenziale per la nostra dignità esistenziale o acquisita.[16]Perché l'unicità della forma umana vuol dire, inter alia, che l'impulso e il bisogno dei sensi non sono qualcosa di estraneo alla nostra natura sostanziale, ma (a) sono capaci di rivelare i beni della persona umana che sono, in modo riconoscibile,integrali alla realizzazione umana, e (b) per quanto il desiderio sensuale sia contrario al bene dell'uomo, tale desiderio è trasformabile, fondamentalmente in virtù della nostra razionalità, attraverso l'acquisizione di virtù morali. Il 'dominium' razionale a cui siamo chiamati nella nostra condotta di vita non vuole essere una forma di tirannia esercitata su emozioni e sentimenti essenzialmente estranei, ma dovrebbe portare a quella integrazione di sentimento ed emozione, attraverso la trasformazione, che favorisce il nostro vivere bene con la speranza di giungere a quella realizzazione per la quale Dio ci ha creati. La vita umana ha un obiettivo da raggiungere, e può essere condotta ad una certa unità morale dall'impegno profuso nel raggiungimento di tale obiettivo [ciò, naturalmente, non può essere ottenuto senza la grazia]. Le capacità radicali che pertengono all'essenza dell'anima umana hanno un orientamento teleologico dinamico volto alla nostra realizzazione. Vorrei ora proseguire sostenendo che la perdita di una concezione, unificata e teleologica, della vita umana è una parte importante della spiegazione relativa alla concezione moderna e laicista della dignità umana. Farò questo cercando di indicare i modi in cui una concezione dualistica della vita umana, che includa una concezione meccanicista del corpo umano, hanno influenzato la nascita di una etica kantiana, e come le concezioni moderne e laiciste della dignità umana siano derivate da Kant. 36 37 L'EMERGERE DELLA CONCEZIONE MODERNA E LAICISTA DELLA DIGNITÀ UMANA Il contrasto tra il meccanicismo cartesiano e la teleologia nella concezione del corpo umano Secondo Cartesio, qualcosa, la cui caratteristica essenziale è 'la coscienza'[17], è misteriosamente congiunto [il filosofo ipotizza attraverso la ghiandola pineale] con il corpo umano. Il corpo umano è da concepirsi in termini meccanicistici. Cosa si intende con questa espressione? Dire che qualcosa può essere concepito come una macchina vuol dire che possiamo spiegare cosa essa sia solamente con riferimento alle leggi naturali che ne governano le parti, considerate non come parti ma come entità di nature proprie del tutto indipendenti. Se si vuole comprendere qualcosa di semplice come una pompa di bicicletta -­‐ come essa funziona -­‐ ciò che bisogna cogliere è come le sue parti si adattino l'una all'altra tanto da trarre vantaggio dalle leggi naturali che governano le sue parti. Ma sono le leggi naturali che governano le parti che in definitiva spiegano come essa funziona. E ciò che è valido per una pompa di bicicletta è valido anche per una macchina o un aeroplano o un reattore nucleare o qualunque altro tipo di macchina. Una concezione meccanicista di una qualsiasi entità è, in linea di principio, una concezione riduzionista di quella cosa.[18] Vale la pena considerare brevemente ciò che Cartesio ha da dire sul corpo umano nella sua Sesta Meditazione, dove il corpo viene paragonato ad un orologio. Egli scrive: "Dunque, un orologio fatto di rotelle e bilancieri obbedisce non meno esattamente a tutte le leggi di natura sia quando è costruito male e non segna l'ora esatta, sia quando soddisfa in ogni suo aspetto i desideri del suo costruttore ... Certamente, se considero la mia idea preconcetta dell'uso di un orologio potrei direche quando non segna l'ora esatta si allontana dalla sua 'natura'. Allo stesso modo, se considero la macchina del corpo umano, posso pensare che essa devia dalla sua 'natura' se la sua gola è asciutta in un momento in cui il bere non l'aiuta a sostenersi, ma vedo chiaramente che questo senso di 'natura' è molto diverso dall'altro. Dunque, 'natura' è un termine che dipende dal mio personale modo di pensare ['a cogitatione mea'], dal mio paragone tra un malato o un orologio mal costruito e l'idea di un uomo sano o un orologio ben fatto. [La 'natura'] è qualcosa di estrinseco all'oggetto cui è attribuita." Un orologio, come osserva Cartesio, non funziona bene in virtù di una natura ad esso intrinseca. Le parti di un orologio, sia che funzionino bene o male, sono conformi alla loro natura. La nostra idea di un 'buon orologio' è qualcosa di estrinseco alla natura della materia che noi abbiamo combinato in modo tale da farle svolgere il compito che noi vogliamo sia eseguito. Secondo Cartesio, è possibile dire qualcosa di esattamente equivalente riguardo alla nostra idea di un 'buon (o sano) corpo '. Affermare che un corpo è malato non vuol dire che non sia in grado di essere o di funzionare nel modo in cui la suanatura intrinseca propenderebbe a farlo funzionare. Le nostre idee di un funzionamento sano e insano non derivano da nessuna concezione di come il corpo, nella sua vera natura, dovrebbe funzionare, proprio perché in quanto corpo non ha una natura che lo caratterizza come corpo unificato. E' un assemblaggio meccanico di parti che, a livello microscopico, si può dire abbiano una natura caratterizzata nei termini delle leggi fondamentali di natura. Ciò che Cartesio rifiuta in questo influente insegnamento è sia il principio circa l'anima razionale come unica forma sostanziale di vita corporale umana, sia la concezione teleologica di tale vita. Cartesio, ovviamente, non avrebbe negato che le macchine e i manufatti hanno delle finalità -­‐ le forbici per tagliare, le pompe per gonfiare le gomme, le macchine per trasportarci, e così via. Ma i manufatti e le macchine servono tali finalità in virtù del fatto che abbiamo organizzato la materia 38 in modo da ottenere questi scopi; non c'è nulla di intrinseco alla materia di cui i manufatti sono composti che rende il raggiungimento di questi scopi intrinseci alla materia. La concezione teleologica del corpo umano, che Cartesio rifiuta, afferma che il corpo umano è il locus di una vita unificata così che la totalità di quella vita è plasmata e informata da una dinamica di sviluppo finalizzata alla realizzazione dell'uomo. Questo sviluppo dinamico abbraccia la totalità della vita umana perché tutte le parti sono informate da un principio di vita unificatore -­‐ l'anima razionale. La dinamica dello sviluppo è diretta alla realizzazione dell'uomo, la quale include tutti gli aspetti dell'essere umano: un buon funzionamento in quanto organismo corporeo, una giusta relazione con gli altri nella giustizia e nell'amicizia, il bene della trasmissione della vita umana (nel matrimonio), la progressiva comprensione della verità e il superamento dell'errore e del confondersi nei propri pensieri, una giusta relazione con Dio, l'integrazione delle proprie emozioni così che gradualmente si diventi più prontamente sensibili all'autentico bene della vita umana -­‐ tutte queste sono possibilità da realizzare in virtù della dinamica di sviluppo che è intrinseca alla nostra natura e che rende i nostri corpi non accozzaglie meccaniche, ma una unità che può essere informata dall'orientamento teleologico della nostra razionalità pratica. Il dualismo e il meccanicismo cartesiano hanno fondato la struttura antropologica di molti successivi sviluppi della filosofia moderna. Risulta subito evidente che la vita corporale, concepita in termini meccanicistici, ha poco in comune con la dignità umana che la dottrina cristiana classica attribuisce alla vita corporale dell'uomo. In ciò che segue, vorrei indicare come la struttura antropologica cartesiana abbia influenzato la concezione kantiana della dignità umana come 'autonomia', e in che modo tale interpretazione dell'autonomia sia degenerata nelle concezioni laiciste contemporanee della dignità e dell'autonomia. Kant e la dignità come autonomia Non si può comprendere il significato della 'svolta' kantiana in etica senza tener conto di un'altra conseguenza dovuta all'abbandono di una concezione teleologica della vita umana. La forza, e dunque entro certi limiti l'autorità della morale tradizionale, viene in parte spiegata da San Tommaso nel distinguere che il rifiuto delle norme di moralità non è il rifiuto di una arbitraria volontà divina, ma piuttosto il rifiuto di norme il cui punto consiste nella realizzazione per la quale noi siamo destinati in virtù della natura che ci è stata data. Le norme sono intrinsecamente intelligibili dai riferimenti al fine (telos) per il quale siamo stati creati (e redenti). Agire contrariamente alle norme è una attività intrinsecamente auto-­‐frustrante; agire in accordo con esse è intrinsecamente razionale, come il contribuire alla nostra realizzazione. Con la perdita di una concezione teleologica unificata della vita umana, i moderni hanno anche perduto la loro comprensione dell'intelligibilità delle norme morali, che esistono proprio al fine della realizzazione.[19] Questa concezione delle norme morali fu sostituita in primo luogo da una concezione di esse che le interpretava dotate di una loro forza esclusivamente in virtù della volontà Divina, una volontà che non era più concepita come intelligibile in riferimento alle intenzioni creative di Dio manifestate nella nostra natura. Con l'erosione del credo in un Dio provvido e l'emergere del Deismo, si sono dovuti trovare altre ragioni per rendere intelligibile la forza e l'autorità dei principi morali tradizionali. Questa è una parte centrale del compito che Kant si era prefissato. Il passo che lui compì fu di dire che la moralità è costituita dall'esigenza di agire in rispetto di una legge morale che noi stessi creiamo. Questa è l'idea di autonomia cui necessita, nel determinare cosa sia la legge morale, che la volontà non debba essere costretta da nulla di estrinseco alla ragione stessa. E' importante 39 rilevare qui una conseguenza fondamentale del meccanicismo cartesiano, nella concezione del corpo, per la formulazione del contenuto della legge morale. Dato che Kant concepiva il corpo umano governato da leggi meccaniciste e deterministiche, non considerò che l'esperienza corporale e il desiderio sensuale potessero essere fonte di comprensione profonda del bene e dei valori che dovrebbero governare le nostre scelte razionali. L'esperienza corporale e il desiderio finirono nell'ambito dell'eteronomo. La nostra distintiva costituzione umana, in quanto esseri corporei, non attiene alla definizione della razionalità che dovremmo esercitare nella condotta della nostra vita. Se la legge morale deve avere autorità, deve prendere la forma di imperativi categorici (non ipotetici). Ma se gli imperativi categorici devono essere possibili, devono esserci alcuni principi guida che ci mostrino in che modo la ragione li identifica. Le finalità dell'azione non si devono trovare in nulla di estrinseco alla ragion pratica stessa. "L'azione razionale deve pertanto fornire i suoi stessi fini. L'essere autonomo è sia l'agente sia il depositario di tutto il valore, ed esiste, nelle parole di Kant, 'come un fine in se stesso'. Se, in generale, dobbiamo avere valori, dobbiamo apprezzare (rispettare) l'esistenza e gli sforzi degli esseri razionali. In tal modo l'autonomia prescrive i suoi stessi limiti. La limitazione della nostra libertà è dovuta al fatto che dobbiamo rispettare la libertà di tutti: in quale altro modo può la nostra libertà generare leggi universali? Da ciò segue che non dobbiamo mai usare un altro senza considerare la sua autonomia; non dobbiamo mai trattarlo come un mezzo."[20] Concludendo queste brevi osservazioni sulla 'svolta' kantiana in etica, tre punti devono essere tenuti a mente: 1. i suoi presupposti antropologici non consentono considerazioni sulla nostra costituzione di esseri corporei unificati in quanto determinativi dei beni e dei valori che dobbiamo rispettare e onorare. 2. rende considerazioni puramente formali determinative di ciò che è vincolante per noi; in una versione esse sono equivalenti all'affermazione che il test di ragionevolezza cui sottoporre un'eventuale 'norma' d'azione è quello che dovrebbe rispettare la libertà di tutti gli altri agenti razionali; 3. il sistema morale richiede che ogni persona legiferi per sé. Nella considerazione kantiana, dunque, la dignità attiene all'agente morale autonomo che determina la legge morale per se stesso nel modo che Kant propone. Una chiara implicazione di tale valutazione è che coloro i quali sono privi di evolute capacità di comprensione e scelta necessarie all'azione morale non possono possedere dignità. La volgarizzazione della 'autonomia' Una conseguenza dell'interpretazione meccanicista del corpo umano, un'interpretazione andata formandosi sin dal diciannovesimo secolo attraverso la diffusa credenza secondo cui gli esseri umani sono prodotti casuali di un processo evolutivo, è che quei valori che la tradizione cristiana associa in particolar modo alla vita corporea (come la vita stessa, e la trasmissione della vita come valore che governa l'attività sessuale) vengono sempre più ritenuti privi di una base oggettiva e conseguentemente vengono assegnati alla sfera della scelta privata ed autonoma. La 'soggettivizzazione' di certe aree del valore è un fattore assegnato di proposito, da un numero significativo di autori moderni, all'idea di 'autonomia': la persona autonoma determina non solo ciò che deve contare come legge morale, ma ciò che essa deve considerare di valore. Lo sfondo di molta riflessione contemporanea, su ciò che renda una vita umana preziosa, è un diffuso agnosticismo o scetticismo sull'ipotesi che esista una gamma di eterogenei valori di base che 40 siano componenti integrali, per così dire, del benessere umano. Presupposto tale agnosticismo e scetticismo, una persuasiva risposta alla domanda sul valore della vita umana procede come segue: la tua vita ha valore nella misura in cui sei nella posizione di valutare le cose e consideri le cose in quanto dotate di valore. Ciò significa che se non possiedi le facoltà mentali che rendono possibile alle cose di sembrare di valore per te, allora non c'è modo di dare conto del valore della tua vita. [21] A causa di ciò solo un limitato gruppo di esseri umani è da ritenersi in possesso di dignità umana o di valore -­‐ e dei basilari diritti umani che accompagnano il riconoscimento della dignità umana. Sono quegli esseri umani che possiedonocapacità subito esercitabili, capacità tipiche degli esseri umani sviluppati: abilità di comprendere, scegliere e comunicare razionalmente. Nei circoli anglo-­‐americani, i filosofi che promuovono questa posizione hanno cominciato a riservare il termine 'persona' a quegli esseri umani dotati di tali abilità sviluppate ed esercitabili. L'affermazione che solo questi esseri umani sono 'persone' dovrebbe essere visto per ciò che è: una condizione ideata per sancire una particolare valutazione su quali, degli esseri umani, hanno dignità e godono dei diritti.[22] E' chiaro che, in base a questa visione laicista della dignità umana, non è stato difficile giustificare l'aborto, la sperimentazione embrionale, l'infanticidio, l'eutanasia volontaria o non-­‐volontaria. E' opportunamente chiamato punto di vista laicista perché non riconosce l'ordine della creazione in cui le intenzioni del Creatore sono percepibili nei beni appropriati alla realizzazione della nostra natura umana creata. LA REPLICA DI PAPA GIOVANNI PAOLO II ALLA CONCEZIONE LAICISTA DELLA DIGNITÀ UMANA[23] In Evangelium Vitae, Papa Giovanni Paolo II sottolinea che "... quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: '... l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa'."[24] La conseguente perdita di comprensione si manifesta nell'incapacità di riconoscere la dignità ontologica e in una falsa concezione della dignità esistenziale. Il Santo Padre identifica come radici principali delle diffuse violazioni dei diritti umani -­‐ e pertanto della dignità umana -­‐ evidenziate nell'aborto, nell'eutanasia, e nei programmi di controllo della popolazione, "la mentalità che ... riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ... e la logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita, o almeno percepibile."[25] Qui abbiamo un venir meno del senso della dignità ontologica. Assieme a tale perdita viene affermata una falsa concezione della dignità esistenziale: "... la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità; ... allora la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio."[26] Due anni prima dell'Evangelium Vitae, Giovanni Paolo II aveva criticato, nell'enciclica Veritatis Splendor, l'opinione secondo cui ciò che è distintivo in una persona (e costitutivo della dignità propria della persona) è la libertà che "si autoprogetta, un fenomeno che crea se stesso e i suoi valori." Non è per l'uomo "determinare liberamente il significato del proprio comportamento". 41 "Una libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l'abbia investito del suo progetto."[27] Il fondamento per il rifiuto di questa concezione di libertà è la verità degli insegnamenti della Chiesa secondo cui "l'unità dell'essere umano, la cui anima razionale è per se et essentialiter la forma del corpo. L'anima spirituale e immortale è il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui esso esiste come un tutto -­‐ corpore et anima unus -­‐ in quanto persona." A motivo di tale unità "ragione e libera volontà sono legate a tutte le facoltà corporee e sensibili".[28] Il corpo condivide la fondamentale dignità propria della persona. Inoltre, le predisposizioni del corpo favoriscono quei beni che sono gli elementi costitutivi della realizzazione della persona umana. La nostra natura, in quanto persone corporee, impone dei limiti circa la linea di condotta prescelta e consona alla nostra realizzazione come esseri umani. Pertanto, la nostra natura di persone corporee impone dei limiti su ciò che possiamo considerare scelte adeguate al rispetto della dignità umana. La dignità essenziale dipende dal rispetto di questi limiti; dipende, si potrebbe dire, dal rispettare la realtà della dignità ontologica. Qui giungiamo al rifiuto del meccanicismo cartesiano e dell'autonomia kantiana, le idee seminali che sono al centro della modernità e costituiscono la radice intellettuale delle nostre contemporanee concezioni laiciste della dignità umana. E' chiaro che il Santo Padre vede il recupero di una adeguata concezione della dignità umana come dipendente, almeno in parte, da un recupero di una concezione dell'anima razionale come unica forma sostanziale del corpo umano e di una concezione della dinamica teleologica che, di conseguenza, informa la nostra esperienza corporea. Il recupero di tale concezione di fronte alle usuali ipotesi di gran parte della scienza biologica e, più ampiamente, della cultura prevalente, è un vasto ed impegnativo compito. [1] Ho sostituito il termine 'laico' con 'laicista'. Una visione laica può essere quella tipica di una società laica, ovverosia una società in cui l'autorità politica viene esercitata indipendentemente dalla autorità religiosa dato che ad entrambe si riconoscono distinti ambiti di competenza. Una visione laicista è quella caratterizzata da una struttura mentale in cui o si crede che Dio non esista, o che, se pure esiste, non ha nulla a che vedere con le questioni umane, o che l'interesse di Dio è vagamente benevolo, e non implica nessuna particolare richiesta il cui rifiuto comporterebbe una radicale e potenzialmente definitiva alienazione da Lui. Su questo tema vedi, in breve, GORMALLY L., Catholic Bioethics in a secularised society, Priests and People 1997, 11, 413-­‐417, e, più estesamente, FINNIS J., On the practical meaning ofsecularism. Notre Dame Law Review 1998, 73, 491-­‐516. [2] Uno studio agile e sintetico su questo tema è FERNGREN G. B., The Imago Dei and the sanctity of life: the origins of an idea, in McMILLAN R. C., ENGLEHARDT H. T., SPICKER S. F. (a cura di), Euthanasia and the Newborn, Dordrecht, Reidel 1987, 23-­‐45. Più estesi e articolati: den BOER W., Private Morality in Greece and Rome: Some Historical Aspects,Leiden, E. J. Brill 1979; RIST J. M., Human Value: A Study in Ancient Philosophical Texts, Leiden, E J Brill 1982. [3] FERNGREN, The Imago Dei, op. cit., p.34. [4] RIST, Human Value, op. cit., p.153. [5] Ibid. 42 [6] Catechismo della Chiesa Cattolica, par.1934. [7] Ibid., para.1935. [8] La brevissima analisi qui abbozzata si basa su trattazioni sintetiche del tema della 'immagine di Dio' in FERGUSON E. (a cura di) Encyclopedia of Early Christianity, II ed., New York, Garland 1998 (di J. L. Garrett) e in di BERARDINO A. (a cura di) Encyclopedia of the Early Church [tit. orig.: Dizionario Patristico e di Antichità Cristiana] Cambridge, James Clarke 1992 (di Henri Crouzel). [9] Ciò che qui viene detto sul periodo medievale è limitato ad una singola osservazione sulla condizione della vita corporale umana; è poco più di un passaggio di collegamento per giungere alla trattazione dell'Aquinate. Il tema della dignità umana riceve una ricca e vasta trattazione dai teologi monastici e dai primi scolasti. Per una disamina vedi JAVELET R., La dignité de l'homme dans la pense du XII siècle, in HOLDEREGGER A., IMBACH R., SUAREZ de MIGUEL R., (a cura di) De Dignitate Hominis. Melanges offerts a Carlos-­‐Josaphat Pinto de Oliveira. Fribourg/Freiburg 1987, 39-­‐87; vedi anche DALES R. C., A Medieval View of Human Dignity, Journal of the History of Ideas 1977, 47, 557-­‐72. Nel presente saggio non faccio riferimento al tema centrale del contributo di Dales sulla dignità dell'uomo in quanto 'microcosmo'. Per una disamina dettagliata di questo tema nella prima fase della Scolastica vedi McEVOY J., The Philosophy of Robert Grosseteste, Oxford, Clarendon Press 1982, Capitolo 6: 'The place of man in the cosmos', 369-­‐441. [10] Importanti contributi sull'argomento sono: PINCKAERS S., La dignité de l'homme selon Saint Thomas d'Aquin, in HOLDEREGGER et al., De Dignitate Hominis, op. cit., pp. 89-­‐106; FINNIS J., Aquinas. Moral, Political and Legal Theory, Oxford: Oxford University Press 1998, 176-­‐180. Sul tema della 'imago Dei' in d'Aquino, vedi PELIKAN J., 'Imago Dei. An Explication of Summa theologiae, Part 1, Question 93', in A. Parel (a cura di) Calgary Aquinas Studies Toronto, Pontifical Institute of Medieval Studies 1978: 27-­‐48. [11] III Sent. d. 35, q. 1, a. 4, sol. lc. [12] Non viene distrutta o sminuita dal peccato: "bonum naturae nec tollitur nec diminuitur per peccatum". Summa theologiae I II 85, 1c. [13] I Sent. d.23, 1, 1: "Hoc nomen 'persona' significat substantiam particularem, prout subjicitur proprietati quae sonet dignitatem, et similiter 'prosopon' apud Graecos; et ideo 'persona' non est nisi in natura intellectuali." San Tommaso spiega la connessione dell'idea di 'dignità' con quella di 'persona' come derivante dal fatto che gli antichi attori teatrali indossavano maschere per rappresentare personaggi che occupavano alte cariche o posizioni di rilievo nella loro società, i 'dignitari' come si direbbe in italiano. Vedi Summa theologiae I q.29, a.3, ad 2. [14] FINNIS, Aquinas, op. cit., p.178. [15] "L'opinione di d'Aquino secondo cui c'è una sola forma sostanziale in ogni sostanza, compresi gli esseri umani, fu molto contestata anche durante la sua vita e dopo la sua morte. Uno dei principali motivi per difendere tale punto di vista è il seguente: se la forma sostanziale comunica l'esistenza sostanziale alla materia e al composto forma-­‐materia, una pluralità di forme sostanziali risulterebbe in una pluralità di esistenze sostanziali e, dunque, minerebbe l'unità sostanziale del composto. Se la prima forma sostanziale desse esistenza sostanziale, tutte le altre forme darebbero solo esseaccidentale. Come d'Aquino asserisce in ST Ia. 76, se un essere umano deducesse che vive grazie ad una forma, che è un animale grazie ad un'altra, e che è umano grazie ad un'altra ancora, non sarebbe uno nel senso pieno del termine." WIPPEL J. F., Metaphysics, in 43 KRETZMANN N., STUMP E., (a cura di) The Cambridge Companion to Aquinas, Cambridge, Cambridge University Press 1993, 85-­‐126, spec. pp.112-­‐3. [16] '... habent dominium sui actus; et non solum aguntur, sicut alia, sed per se agunt.' Summa theologiae I q.29, a.1c. [17] 'Cogitatio', nel senso di Cartesio, include emozioni e sentimenti, ed anche disposizioni intellettuali ed atti. [18] Il Riduzionismo è stato certamente molto fecondo come principio metodologico per lo sviluppo della scienza moderna. Gli scienziati hanno cercato di identificare le fondamentali parti costituenti della materia e di scoprire le leggi basilari che le governano. Questo è il programma del micro-­‐riduzionismo. Combinazioni più o meno complesse di parti costituenti fondamentali -­‐ come le molecole, le macromolecole, le cellule, i tessuti, gli organi -­‐ sono concepite come riuscite combinazioni di particelle elementari, unite insieme, per così dire, sfruttando i modi in cui le leggi fondamentali che governano le parti tengono conto di tali combinazioni. Questo è stato il paradigma dominante nello sviluppo della scienza moderna, incluse le scienza mediche. E' stato un paradigma fecondo. Ci ha permesso di capire molto sul funzionamento del corpo umano: i sistemi organici, i singoli organi, i tessuti, le cellule, i cromosomi, i geni. Attualmente i geni sono oggetto di intensi programmi di ricerca che mirano a svelare il modo in cui buona parte dello sviluppo umano sia pre-­‐programmato da quelli che attualmente supponiamo siano gli elementi base dell'ereditarietà trasmessi nei gameti (sperma e ovulo). Ma proprio la storia della genetica è utile per mostrare l'inadeguatezza del riduzionismo. E' impossibile capire la funzione del gene senza comprendere le complesse dinamiche della cellula, che a loro volta non possono essere capite senza una comprensione delle dinamiche intra-­‐cellulari, che a loro volta non possono essere comprese senza capire il ruolo che, diciamo, gruppi di cellule hanno in un organo, che a sua volta non può essere compreso senza far riferimento all'organismo nel suo complesso. Sulla storia dello sviluppo della genetica vedi FOX KELLER E., The Century of the Gene, Cambridge, Mass., e Londra, Harvard University Press 2000. [19] Questo viene evidenziato come fattore importante nella genealogia della contemporanea situazione morale da Alasdair MacIntyre nel suo After Virtue, II ed., Notre Dame, University of Notre Dame Press 1984. [20] SCRUTON R., Kant, Oxford, Oxford University Press 1982, 70. [21] Vedi alcune prove documentarie della presenza di tale posizione negli scritti estremamente convincenti di Mary Warnock e Ronald Dworkin, nel riferimento presente nella nota successiva. Punti di vista simili si possono trovare, ad esempio, in Grant Gillett, Jonathan Glover, John Harris, Peter Singer ed altri. [22] In diverse pubblicazioni ho sostenuto che l'interpretazione, secondo cui solo un sotto-­‐
gruppo di esseri umani possiede la dignità necessaria per fruire dei diritti umani fondamentali, è incompatibile con le nostre più basilari idee di giustizia e, in quanto tale, non ci consente di stabilire nessun difendibile parametro di giustizia nei rapporti umani. Tra i più recenti, vedi GORMALLY L, (a cura di) Euthanasia, Clinical Practice and the Law, Londra, The Linacre Centre 1994, spec. pp.118-­‐126. [23] Questa sezione non può sperare di rendere giustizia alla ricca trattazione del tema sulla dignità umana negli scritti di Papa Giovanni Paolo II. Semplicemente sintetizzo a grandi linee, ciò che il Santo Padre ha da dire in Evangelium Vitaesulle false concezioni della libertà umana (in ciò che si ritiene consista la dignità umana) che si trovano alla radice di diffuse violazioni contemporanee dei basilari diritti umani, specialmente il diritto alla vita; successivamente 44 propongo una breve analisi della concezione della dignità umana che il Papa invoca in Veritatis Splendor, nell'affrontare tale concetto accolto da quei teologi morali che, influenzati da Kant, propongono un 'sistema morale autonomo'. Ometto qui lo sviluppo nel pensiero di Papa Giovanni Paolo dell'idea delle specifiche dignità dell' 'essere uomo' e dell' 'essere donna', che egli collega al tema del senso nuziale del corpo. Vedi in particolare l'enciclica Mulieris Dignitatem. [24] Evangelium Vitae 22, con citazioni interne tratte dalla Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo, Gaudium et Spes 36. [25] Ibid. 19. [26] Ibid. [27] Veritatis Splendor, 48. [28] Ibid. 45 MAURIZIO FAGGIONI
LA VITA E LE FORME DI VITA. RAPPORTO FRA BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA INTRODUZIONE In questo intervento, dopo aver esaminato la nozione di riduzionismo, vedremo le conseguenze della prospettiva riduzionista applicata allo studio del fenomeno vita nelle sue forme e articolazioni e soprattutto della vita umana. Sulla base dell'antropologia cristiana cercheremo quindi di superare le aporie del riduzionismo e di comprendere correttamente il senso della dimensione biologica e il valore normativo dei dinamismi biologici alla luce del mistero integrale della persona. L' INCANTESIMO IONICO Secondo le opinioni correnti, l'universo che noi conosciamo avrebbe avuto inizio circa 15 miliardi di anni fa a partire da uno stato della materia caratterizzato da dimensioni subnucleari e da densità e temperatura praticamente infinite che, in un ipotetico istante primordiale, sarebbe andato incontro a un violento moto espansivo, paragonabile a una grande esplosione (big bang) la quale innescò il divenire delle cose nella loro inesauribile multiformità. Da allora un numero sterminato di mondi, di galassie, di stelle, di pianeti è sorto, si è sviluppato, ha compiuto il corso del suo esistere ed è scomparso. Fu così che circa 4 miliardi e mezzo di anni fa, attorno a una stella che noi chiamiamo Sole, in un sistema ai margini della nostra Galassia, si è formato un piccolo pianeta, la Terra. In esso, circa 3 miliardi e mezzo di anni fa, particolari situazioni ambientali venutesi a creare nell'atmosfera e negli immensi oceani primitivi unite -­‐ secondo alcuni -­‐ all'apporto di molecole organiche da parte di comete, condussero alla comparsa dapprima di composti organici e quindi di biopolimeri e infine, dopo innumerevoli tentativi ed esperimenti della natura, come distaccandosi con un sobbalzo dal livello della materia inanimata, prese inizio una forma di esistenza del tutto inedita, la materia vivente[1]. Non sappiamo se in altre parti dell'universo e in altri tempi si siano realizzate le fortunate circostanze necessarie per la comparsa della vita, ma senza dubbio la vita terrestre rappresenta un evento raro e di grande interesse. Le singole unità viventi si presentano infatti dotate di qualità stupefacenti, prime fra tutte la autoregolazione e la autoorganizzazione che si esplicano nelle funzioni caratteristiche della vita. I differenti ecosistemi terrestri, l'avvicendarsi delle ere geologiche, la lotta senza quartiere per la sopravvivenza e la riproduzione agiscono come giudici inesorabili dell'attitudine di un certo organismo a occupare uno spazio sul pianeta. Sotto la spinta della selezione naturale e mossa dal desiderio recondito in ogni cellula "di diventare due cellule" -­‐ come si esprime F. Jacob -­‐ la vita è fiorita sulla Terra in forme sempre cangianti, sempre più complesse, sempre più affascinanti[2]. Letta in chiave evoluzionistica, la vita ci appare quindi come un fenomeno fondamentalmente omogeneo che, a partire dalle prime unità viventi, si è enormemente diversificato e complessificato e anche la nostra sottospecie, Homo sapiens sapiens, pur presentando tratti e caratteristiche di assoluta originalità, può essere in qualche modo inserita in questo inesausto flusso vitale[3]. In prospettiva semplicemente scientifica, lo studio del fenomeno vita nel suo complesso e della vita umana, in particolare, è senza dubbio esaltante e ricco di scoperte entusiasmanti che -­‐ si spera -­‐ ci porteranno a conoscenze sempre più sicure sull'origine della vita, sull'evoluzione dei 46 viventi, sul loro modo di funzionare e di organizzarsi. Esaminando, tuttavia, l'attitudine che guida la scienza contemporanea nello studio della vita umana e non umana, si coglie un tratto ricorrente che ne costituisce come il vizio di fondo e che ne predetermina gli sviluppi e gli esiti ed è l'opzione metodologica riduzionista cui si accompagna di fatto, anche se non necessariamente, una opzione ontologica parimenti riduzionista. In un suo volume sulla vita e l'unità del sapere, E. O. Wilson ha indicato nel riduzionismo una delle costanti del pensiero occidentale ed ha applicato a questa tendenza ipersemplificativa il concetto einsteniano di incantesimo ionico[4]. I filosofi ionici, almeno nella presentazione che ne fa Aristotele e la dossografia greco-­‐romana, avevano infatti messo al centro delle loro ricerche filosofiche la questione dell'archè del reale e c'è chi ravvede in questo tentativo di ricondurre il molteplice ad unum il movente della ricerca filosofica e il sogno segreto di tutto il pensiero filosofico e scientifico occidentale[5]. Posizioni eterogenee come il rasoio di Ockham, l'analisi di Condillac, la nosografia del linguaggio scientifico di Wittgenstein e il comportamentismo di Watson sono tutti esempi di programmi riduzionisti cioè di strategie finalizzate alla semplificazione del sapere. In generale, il riduzionismo è una forma particolare della relazione di identità, la relazione "nient'altro che" o "nientaltrismo": gli A infatti possono essere ridotti a dei B solo se gli A non sono altro che dei B[6]. Dal punto di vista logico, la riduzione può essere definita come la assimilazione di una classe di oggetti a un'altra ovvero la trasformazione di un certo enunciato in un altro enunciato equivalente al primo, ma più semplice o più preciso e quindi tale da rivelare la falsità o la verità dell'enunciato di partenza. Nella riduzione definitoria, sia concettuale sia proposizionale, gli enunciati che si riferiscono a un certo tipo di entità possono essere tradotti senza residui in altre parole o enunciati riferentesi ad entità di altro tipo. Così enunciati relativi ai numeri possono essere tradotti o, se si vuole, ridotti a enunciati relativi ad insiemi di numeri e, similmente, enunciati relativi alla casalinga di Voghera possono essere ridotti a enunciati specifici intorno a quelle donne che a Voghera fanno le casalinghe. Nella riduzione proposizionale, in particolare, il valore veritativo delle proposizioni stesse resta invariato, mentre si modifica il loro contenuto semantico. Nella riduzione teorica, una teoria viene ridotta a un caso particolare di un'altra, dimostrando che le leggi della prima possono essere dedotte, mediante precise regole di corrispondenza e servendosi di opportuni enunciati passerella, dalle leggi della seconda[7]. Un esempio classico è dato dalla riduzione delle leggi dei gas alle più generali leggi della termodinamica o da quello più complesso della riduzione della genetica formale alla genetica molecolare[8]. Dal punto di vista epistemologico, il riduzionismo è una strategia di condensazione dell'informazione e di diminuzione della complessità. Nella sua forma tipica, la riduzione ontologica, il riduzionismo afferma che "oggetti di determinati tipi non sono altro che oggetti di altri tipi: ad esempio, che le sedie non sono altro che collezioni di molecole"[9]. L'attitudine riduzionista vorrebbe evitare la proliferazione inutile di entità che vengono postulate in virtù di pure costruzioni logiche o metodologiche, ma spesso tende a respingere programmaticamente tutti i concetti che si riferiscono a entità inosservabili[10]. Ogni sistema reale viene quindi considerato come la semplice risultante aggregativa di un insieme di sottosistemi che lo compongono e le proprietà e i poteri causali di un ente sono spiegati riconducendoli alle proprietà e poteri causali di enti più semplici: per esempio il calore di una sbarra di ferro incandescente non presuppone una vis calorifica, ma dipende dall'energia cinetica media delle molecole che compongono la sbarra stessa, mentre le conseguenze causali tipiche di un solido, quali la resistenza alla pressione e l'impenetrabilità, non postulano la soliditascome entità, ma rimandano ai poteri causali del reticolo in cui si organizzano le molecole di ferro nella sbarra. 47 Riduzionismo e scienza moderna sembrano fare tutt'uno. Per la scienza positiva del XIX secolo e ancor più sistematicamente per i neopositivisti del XX secolo, il riduzionismo rappresenta una tesi epistemologica cardinale che postula un ordine gerarchico delle varie discipline scientifiche a partire dalla fisica, considerata prima e fondamentale; alla fisica sono subordinate, in ordine di importanza decrescente, la chimica, la biologia, la psicologia e la sociologia. Tutti i termini ed i concetti di una qualunque di tali discipline sono traducibili nei termini e nei concetti di una disciplina più fondamentale, mentre il contrario non è possibile. Nella prospettiva neopositivista di Carnap, il riduzionismo si propone di operare una discriminazione fra teorie scientifiche e metafisiche, costruendo un linguaggio empirico composto da enunciati protocollari o da osservazioni alle quali sarà riconducibile qualsiasi enunciato scientifico. Questo programma riduzionista presuppone che, al di là della autonomia metodologica delle diverse discipline, si dia una autentica omogeneità dei saperi e postula, come esito estremo, l'unificazione delle scienze nella fisica (fisicalismo). La psicologia potrà essere ridotta alla neurofisiologia, la biologia alla chimica organica, la chimica organica a quella inorganica e questa, a sua volta, alla fisica, sino a pervenire alla massima unificazione e semplificazione. Prescindendo dalla precomprensione antimetafisica e antispiritualista implicata in diverse espressioni del riduzionismo, la scienza moderna ha provato l'utilità delle regole di economia, imposte dal riduzionismo logico, per la formalizzazione e assiomatizzazione delle teorie scientifiche nonché l'enorme potere euristico del riduzionismo epistemologico. Ma è lecito chiedersi se l'eleganza formale e concettuale della riduzione non esponga al rischio di giungere a una ipersemplificazione artificiosa dei dati che sottace e occulta le specificità irriducibili di alcuni fenomeni. Se spesso è utile, infatti, considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni, ci si chiede se tale riduzione sia sempre possibile e rispettosa della complessità del reale e dei suoi livelli di emergenza o non rappresenti invece, almeno in alcuni casi, un oggettivo impoverimento del sapere e un ostacolo ad una comprensione autentica. LA VITA E LE FORME DELLA VITA La tensione fra riduzionismo e antiriduzionismo che caratterizza il plurisecolare dibattito sulla vita, in riferimento soprattutto alla omogeneità fra mondo organico e mondo inorganico, al rapporto fra le leggi che regolano i viventi e quelle che regolano gli oggetti inanimati, alla possibilità e ai modi del passaggio, tanto in una visione statica quanto in una visione evolutiva, dalla materia inerte a quella vivente, si è espressa classicamente nelle due posizioni denominate meccanicismo e vitalismo[11]. Il meccanicismo, variamente declinato nel tempo, sostiene la piena riducibilità di tutte le manifestazioni della vita alle forze e leggi fisico-­‐chimiche. Dopo il meccanicismo degli antichi atomisti democritei ed epicurei, il fondatore del meccanicismo moderno è considerato R. Cartesio (1596-­‐1650) il quale volle elaborare una spiegazione meccanicista dei sistemi viventi nel quadro della sua visione meccanicista della natura e si sforzò pertanto di ricondurre la fisiologia dei viventi, equiparati ad automi, alla meccanica: Tutte le funzioni che ho attribuite a questa macchina ... seguono tutte il modo naturale ... dalla sola disposizione dei suoi organi, né più e né meno di quanto fanno i movimenti di un orologio o altro automa in seguito a quello dei suoi contrappesi e delle sue ruote[12]. Il concetto di animale-­‐macchina fu ripreso, in contesto materialista, da Hobbes, dai sensisti francesi del '700, da molti positivisti ottocenteschi. Le posizioni estreme del riduttivismo contemporaneo sono riassunte da una affermazione del Nobel F. Crick secondo il quale "lo scopo 48 ultimo che si prefigge la moderna biologia è di spiegare tutta la biologia nel quadro della fisica e della chimica"[13], ma il riduzionismo assume oggi, in genere, una forma alquanto più sofisticata dal momento che molti Autori ammettono che, pur essendo i corpi viventi costituiti dagli stessi elementi del mondo inorganico, tuttavia la scienza biologica non è completamente e immediatamente riducibile nei termini delle scienze fisiche in senso stretto[14]. Il riduzionismo biologico si caratterizza infine per una critica radicale ad ogni forma di finalismo e di teleologia immanente agli oggetti naturali viventi, come è argomentato nel celebre saggio di J. Monod, Le hasard et la nécessité, secondo il quale tutti gli organismo, incluso l'uomo, sono sistemi prodotti da mutazioni casuali e spiegabili attraverso principi fisici generali[15]. Il finalismo del vivente viene ripreso, in qualche misura, nelle teorie cibernetiche della vita che assimilano il vivente a un automa capace di autoregolazione, ma anche in questo caso non si esce, di fatto, da una visione automatica del vivente come somma di parti[16]. I vitalisti di ogni tempo sostengono che il fenomeno vita è in sé irriducibile alla realtà inanimata per cui ammettono l'esistenza di leggi proprie dei viventi non riconducibili pienamente alle leggi fisico-­‐chimiche e perciò il vitalismo si è spesso accompagnato alla negazione della possibilità di generazione spontanea ovvero del passaggio dalla materia inerte alla vita. Benchè la dottrina ilemorfica sia spesso considerata un vitalismo, a rigore dovrebbero essere indicate come vitaliste solo quelle le interpretazioni del fenomeno vita che pongono la novità del vivente rispetto al non vivente in una forza o principio vitale aggiunta alla materia, per cui il vivente non è spiegabile con le leggi che sono valide per la materia stessa. Furono vitalisti per motivi diversi, talora opposti, grandi scienziati del secolo XVIII e XIX come G. L. Buffon (1707-­‐1788), J. B. De Lamarck (1744-­‐1829), L. Pasteur (1822-­‐1895) e soprattutto, a cavallo fra i due secoli, H. Driesch (1876-­‐
1941). Driesch definì il vitalismo la "dottrina dell'autonomia della vita" e dall'autonomia del fenomeno vita rispetto alla fisica e alla chimica, egli deduceva l'autonomia della biologia come scienza della vita[17]. Ancora nella seconda metà del secolo XX, W. M. Elsasser parlava di speciali "leggi biotoniche" che spiegherebbero i fenomeni biologici in accordo con le leggi fisiche, ma a queste non riducibili, e analogamente M. Polanyi proponeva per i viventi principi più elevati addizionali alle leggi della fisica e della chimica[18]. Le critiche che si possono rivolgere al vitalismo sono due: dal punto di vista del metodo scientifico il vitalismo parte dall'accettazione precostituita di un'ignoranza che non può essere superata, stante il carattere inafferrabile del principio vitale; dal punto di vista metafisico pone un dualismo insanabile fra due principi eterogenei, la materia e il principio vitale, appunto, incorrendo in tutte le difficoltà tipiche dei dualismi e non spiegando la proprietà più affascinante dei viventi che è la profonda e armoniosa unità organismica. Forse ha ragione E. Cassirer che, a ben guardare l'antagonismo fra meccanicismo e vitalismo esprime, più che due posizioni irriducibili, "uno stato particolare di oscillazione di metodi"[19], ma, in ogni caso, sarebbe illusorio cercare la soluzione dell'annoso dibattito in sede puramente scientifica. Il termine vita, è una nozione metafisica perché esprime l'atto di essere tipico dei viventi, così come corsa è termine astratto per il concreto correre, e occorre, perciò, in via preliminare cercare di determinare che cosa debba intendersi, in senso proprio e in modo adeguato, cioè in ambito metafisico, quando si parla di vita. I due piani, scientifico e metafisico, se si mantengono le distinzioni dai diversi gradi del sapere, non sono necessariamente rivali e in contraddizione, non essendoci contraddizione fra la conoscenza biologica della vita, che studia e definisce le specificità dei viventi e del loro operare, e la conoscenza metafisica della vita, che vede la vita come una perfezione trascendentale dell'essere di una classe particolare di enti. Scrive, a questo proposito, L. Melina: Non si tratta certo di passare dal rigido meccanicismo del razionalismo positivista ad un vitalismo irrazionalista, che non rispetta la legittima distinzione e autonomia metodologica della 49 biologia sperimentale. Piuttosto si tratta di mostrare come, sulla base dell'integrale rispetto dei risultati della scienza sperimentale, può sorgere una filosofia dell'essere vivente, che li interpreta nella luce sua propria, offrendo in tal modo alla biologia la sua giustificazione razionale. Così la dimensione fisico chimica non rimarrà giustapposta alla dimensione vitale del fenomeno biologico, ma apparirà ordinata ad essa[20]. Questa intima articolazione dei diversi piani del sapere comporta, d'altra parte, che la difficoltà di dare una caratterizzazione scientificamente condivisa del fenomeno vita, anche a prescindere dal problema se la vita sia riducibile o no in termini materiali di tipo fisico-­‐chimico, si rifletta nella difficoltà di dare una definizione metafisicamente ineccepibile della vita. Dal punto di vista scientifico, il vivente può essere distinto dal non vivente per la sua capacità di autoregolarsi ed autoorganizzarsi[21]. L'autoregolazione permette al vivente di esistere in una situazione molto speciale dal punto di vista termodinamico, caratterizzata da una condizione di stabilità lontana dall'equilibrio[22]. L'autoregolazione si attua attraverso complesse interazioni di organi fra loro gerarchizzati a formare l'organismo vivente che, come un tutto, regola le funzioni degli organi stessi. Per giungere a una definizione metafisica di vita che tenga nel giusto conto questa caratterizzazione scientifica è utile prendere le mosse dalla definizione aristotelica della vita come "movimento non comunicato e immanente"[23]. Il tipo di azione propria del vivente è immanente all'ente stesso e si esplica come la capacità di autodeterminazione parziale (nei viventi non umani) o totale (nell'uomo) della propria attività[24]. Mentre le azioni transeunti hanno per termine un altro, le operazioni immanenti iniziano e terminano nello stesso soggetto. L'azione immanente è una forma di organizzazione globale e autofinalizzata delle singole azioni transitive o modificazioni fisico-­‐chimiche delle parti materiali degli organismi viventi. "La nozione scientifica di autoregolazione -­‐ scrive a tal proposito Basti -­‐ ai suoi diversi livelli, può fornire una buona via rendere intelleggibile al moderno la nozione metafisica di azione immanente come tipica delle operazioni organiche ... ai loro diversi gradi di complessità (perfezione)"[25]. In prospettiva aristotelico-­‐tomista, la forma che dà unità a tutte le parti e a tutte le operazioni del singolo ente organico e che dirige l'organismo verso il suo autocompimento è la forma sostanziale, il principio vitale o anima di quel vivente[26]. Solo l'interpretazione ilemorfica della vita riesce a evitare le aporie del meccanicismo e del vitalismo: contro il meccanicismo, riesce, in primo luogo, a rendere conto del fatto che il vivente ha una capacità di generare informazione e non semplicemente di manipolare quella che un progettista umano inserisce estrinsecamente nella macchina e, in secondo luogo, riporta l'evidente unità di operazioni del vivente all'insieme piuttosto che alla somma delle parti. Contro il vitalismo, supera il dualismo tra il principio vitale, comunque inteso, e le funzioni vitali, essendo evidente che il principio vitale dipende strettamente da queste. Classicamente si riconoscono nei viventi tre tipi di azioni immanenti: operazioni vegetative, operazioni senso-­‐motorie, operazioni intellettive[27]. Le operazioni vegetative (metabolismo, accrescimento, riproduzione) sono comuni a tutti i viventi e si svolgono in modo non intenzionale, secondo una forma innata e costante. Le operazioni senso-­‐motorie, comuni a tutti gli animali, sono non intenzionali e possono essere modificate quanto a esecuzione e a forma. Le operazioni intellettive, tipiche dell'uomo, fanno sì che un fine volontariamente perseguito possa modificare sia la forma sia l'esecuzione dell'azione intenzionale. Nell'ilemorfismo il passaggio dalla materia inerte alla materia vivente e da un livello vitale a un altro comporta un salto ontologico e quindi l'azione di una causalità capace di operarlo. Come de facto si sia realizzato nel tempo questo salto ontologico, cioè se mediante un intervento diretto del Creatore o mediante un concorso divino operante però attraverso le cause seconde, non può 50 essere stabilito in modo apodittico[28]. Quello che è importante sottolineare è la non riducibilità del vegetale all'animale e soprattutto dell'umano all'animale, perché la natura delle operazioni intellettive (cognitive e deliberative) richiede la possibilità di reflexio o reditio completa dell'anima umana e implica perciò la sua spiritualità. Purtroppo, quando si tratta di caratterizzare la vita umana rispetto alla vita puramente animale, la filosofia e la scienza moderna -­‐ come vedremo nel prossimo paragrafo -­‐ cadono nel riduzionismo più mortificante e le conseguenze di questa non comprensione della dignità ontologica e assiologica dell'uomo sono, come si può ben immaginare, devastanti. ASPETTI DEL RIDUZIONISMO ANTROPOLOGICO La sfida del riduzionismo assume toni e conseguenze drammatiche quando si pretende programmaticamente di leggere e comprendere una realtà complessa e pluristratificata come quella rappresentata dal fenomeno umano riconducendola o, meglio, riducendola a realtà più semplici e ontologicamente inferiori. Nella prospettiva della odierna mentalità secolarista e dell'invadente riduzionismo scientista, l'uomo viene ridotto al suo momento biologico e anche la cultura tende ad essere risolta in natura, così che persino l'etica, la religione, l'arte, i valori spirituali sono interpretati in chiave puramente biologica. Si tratta di una visione chiusa alla trascendenza, sia pure nella forma di autotrascendenza, alla quale sfugge completamente il senso creaturale della vita umana e la sua sacralità, cioè l'eccedenza ontologica del soggetto umano rispetto agli oggetti naturali. Alla fine il riduzionismo antropologico, assunto come premessa della ricerca e orizzonte di pensabilità, condiziona gli atteggiamenti e le scelte nei confronti delle persone. Le radici di questo modello antropologico sono rintracciabili nelle tre grandi rivoluzioni moderne che hanno tanto profondamente ferito il narcisismo dell'umanità: la rivoluzione di N. Copernico (1473-­‐1543) quella di C. R. Darwin (1809-­‐1882) e infine quella di S. Freud (1856-­‐
1939). La rivoluzione cosmologica di Copernico aveva spodestato l'uomo dal centro dell'universo e aveva fatto della sua Terra uno dei tanti pianeti intorno al Sole, infrangendo l'antica persuasione umana di occupare un posto privilegiato e dominante nel cosmo. L'illusione di conservare tuttavia un primato ontologico sul mondo subumano era stata dapprima incrinata da Charles Darwin il quale aveva mostrato che l'organismo umano non solo funziona come quello delle bestie, ma ha stretti rapporti di parentela filogenetica con le creature subumane: L'uomo -­‐ scrive S. Freud -­‐ cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse la ragione e si attribuì un'anima immortale, appellandosi ad un'alta origine divina che gli consentisse di spezzare i suoi legami col mondo animale. Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell'uomo. L'uomo nulla di più è, e nulla di meno, dell'animale[29]. Ancor più drasticamente, infine, Sigmund Freud ed i suoi seguaci hanno messo in crisi le pretese del razionalismo, svelando gli oscuri sottofondi dell'anima umana e sforzandosi di dimostrare che l'uomo, anche in ciò che sembra più squisitamente umano, il suo psichismo, non è radicalmente diverso dalle altre creature del mondo animale di cui si autoproclama, a torto, signore e sovrano. In questo orizzonte il progetto umano integrale si trova a dover subire le sfide di visioni antropologiche fortemente riduttive, che cercano di ricondurre la creature umana, nelle sue espressioni più elevate, alla pura biologicità. 51 La sfida delle neuroscienze Una delle sfide più durature e gravi alla comprensione adeguata del progetto umano è venuta dallo studio del cervello. Le premesse erano già tutte nel positivismo ottocentesco ed in particolare nel metodo e nelle teorie fisiologiche elaborati da C. Bernard (1813-­‐1878)[30]. Con il Positivismo giunse a maturità una concezione fisicista dell'uomo, che si ricollegava non solo all'empirismo di J. Locke (1632-­‐
1704) e di D. Hume (1711-­‐1776), ai sensisti francesi e a tutta la biologia meccanicista sei e settecentesca emblematicamente rappresentata dall'Homme-­‐machine di J. Offroy de La Mettrie (1709-­‐1751), ma ultimamente risaliva a Cartesio. Tenacemente avversi all'ammissione di una consistenza extrafisica dei contenuti mentali, gli scienziati positivisti professeranno un materialismo dogmatico, acritico e insieme tragico. Lo zoologo Karl Vogt (1817-­‐1895) formulerà in questo senso uno degli assiomi più crudi che esprimono il clima del tempo: "Il pensiero è secrezione del cervello come la bile è secrezione del fegato". Su uno sfondo meccanicista, alquanto meno ingenuo e metodologicamente molto raffinato, si muove anche la psicologia fisiologica di J. Wundt (1832-­‐1920), secondo il quale i processi mentali superiori non possono diventare oggetto di ricerca rigorosa, ma viene assunta a oggetto principale di studio la coscienza esaminata attraverso l'introspezione elementistica. Il dualismo in certo qual modo presente nella proposta di Wundt è del tutto superato da una delle risposte più rigorosamente riduzioniste in senso materialista al problema del rapporto fra meccanismi neurologici e mente, quella dei comportamentisti o behavioristi. L'ipotesi emessa da J. Watson (1878-­‐1958) negli anni '20 è che il comportamento umano non ha cause mentali, dal momento che il comportamento osservabile di un organismo, incluso l'organismo umano, dipende dalle risposte osservabili a determinati stimoli: le cause del comportamento stanno negli stimoli e non in un preteso mondo della mente. Ricollegandosi idealmente a queste posizioni, B. F. Skinner più tardi svilupperà una psicologia il cui ruolo è quello di catalogare le leggi che determinano relazioni casuali fra stimoli e risposte. Le asserzioni psicologiche del tipo "ho sete" significano, cioè stanno per, comportamenti e disposizioni al comportamento. "Ho sete" significa quindi "Se ci fosse acqua da bere, la berrei". Ai nostri giorni, venendo a contatto con l'incredibile sviluppo delle neuroscienze, l'eterno problema anima-­‐corpo ha assunto la forma del dilemma mente-­‐cervello. Pare essere un'evidenza che esistono contenuti mentali, che esistono la creatività e la fantasia, che esiste la capacità di elaborare le idee e di produrre simboli, ma non è chiaro che rapporto intercorra fra lo psichico e il neurologico. Una impostazione alquanto diffusa fra i cultori delle neuroscienze, di cui si è fatto influente interprete J.-­‐P. Changeux con L'homme neuronal[31], tende non solo a ridurre lo spirituale al mentale o allo psichico, ma cerca di ridurre ulteriormente il mentale al neurologico. Secondo la lettura materialista della vita psichica, il mentale non è distinto dal fisico e tutti gli stati, le proprietà, i processi e le operazioni mentali sono identici, in linea di principio, a stati, proprietà, processi e operazioni fisiche. La teoria dell'identità ha due principali declinazioni: laidentità di tipo, per cui ad ogni evento mentale corrisponde un ben determinato evento cerebrale, e la identità di occorrenza, per cui ogni evento mentale è identico a un evento cerebrale, anche se non è possibile ridurre la tassonomia della psicologia a quella della neurologia. Una lettura ancora più estrema nega che esistano realtà ed eventi mentali e che quindi il linguaggio che si riferisce ad essi è semanticamente vuoto o, al massimo, costituisce uno strumento utile per interpretare noi e gli altri, pur non designando alcuna realtà sussistente[32]. Lo studio della memoria, dei centri della parola, della visione, degli stati emotivi compiuti attraverso la Risonanza magnetica, la Tomografia emissione di positroni e altre metodiche di brain imaging che permettono di seguire in diretta il funzionamento di determinate aree cerebrali in 52 relazioni con specifiche operazioni mentali, sembra confermare una precisa localizzazione cerebrale di eventi psichici quali memoria, volizione, intellezione, emozioni, elaborazione delle sensazioni. La corrispondenza fra precisi stati mentali e modificazioni funzionali di alcuni gruppi neuronali o di intere aree cerebrali conferma la precomprensione riduzionistica che il mentale altro non sia che un modo per indicare l'effetto delle funzioni neurofisiologiche[33]. Contro coloro che, come il filosofo D. Chalmers[34], parlano del rapporto mente-­‐cervello come di hard problem e postulano una irriducibilità della mente a qualcos'altro, allo stesso modo che sono irriducibili le categorie di spazio e di tempo, D. Dennett sostiene che, una volta risolto i soft problems, gli aspetti strutturali e funzionali del cervello, avremo risolto anche il problema della coscienza[35]. Le scoperte sui neuromediatori e sui neuromodulatori del sistema nervoso centrale, gli effetti sul comportamento e sul tono dell'umore di svariate sostanze psicotrope, gli stessi successi della psiconeurofarmacologia su patologie mentali finora ribelli a qualsiasi trattamento psicoterapico convergono a confermare una interpretazione organicista della vita psichica. La stessa medicina psicosomatica sembra aver riscoperto l'unità pluristratificata del composto umano, ma, a ben guardare essa non è altro che una variante del generale riduzionismo, perché riduce la persona all'integrazione di soma e di psiche, intendendo per psiche la somma dei contenuti mentali consci e inconsci e non certo il principio immateriale dell'esistenza umana. Si potrebbe obiettare che le modificazioni neurobiologiche accadono semplicemente in occasione e per effetto dei processi mentali, ma, con rigorosa applicazione del rasoio riduzionista, A. Damasio risponde che "i processi biologici che sembrano semplicemente corrispondere a processi mentali, in realtà sono i processi mentali: non sto negando l'esistenza della mente o affermando che, quando avremo conosciuto tutto ciò che occorre sapere sulla biologia, la mente cesserà di esistere. Penso semplicemente che la mente, sebbene preziosa e unica, sia un'entità biologica, che deve essere descritta in termini biologici"[36]. Una risposta all'antimentalismo che caratterizza molte teorie psicologiche e comportamentali a sfondo neurofisiologico è data dalle sempre risorgenti teorie dualiste. Secondo l'impostazione dualista la mente non è riducibile al cervello, ma è una sostanza non fisica, tradizionalmente detta spirito o anima. Esistono diverse versioni del dualismo fra le quali il dualismo emergentista, come quello di K. R. Popper, e il dualismo interazionista neo-­‐cartesiano, come quello di J. C. Eccles[37]. Si tratta di posizioni molto variegate e complesse che qui non possiamo certo esaminare in dettaglio, ma contro le quali vengono sollevate due principali difficoltà: se la mente è qualcosa di non fisico, ne segue che non occupa una posizione nello spazio fisico e allora riesce difficile capire come una causa non fisica possa dare un effetto comportamentale che ha come via d'uscita una alterazione fisica; in secondo luogo ci si chiede come il non fisico possa dar luogo ad un effetto fisico senza violare le leggi di conservazione della massa, dell'energia e della quantità di moto, senza cioè che si abbia una produzione di energia ex nihilo. La risposta del neurobiologo J. C. Eccles e del fisico R. Penrose è che, all'interno dei microtubuli dei neuroni, i moti molecolari implicati nell'attività neuronale devono essere immaginati come soggetti in alla meccanica quantistica e non a quella classica[38]. In altre parole, l'attività neuronale non risponde al determinismo della fisica classica, ma all'indeterminismo della fisica quantistica. Benché non sembri plausibile cercare di spiegare l'obscurum per obscurius, tuttavia è affascinante pensare che la libertà e la creatività della persona potrebbero essere riconnesse al principio di indeterminazione. 53 La sfida delle scienze cognitive L'antimentalismo ha dominato quasi incontrastato la scena antropologica sino a tutti gli anni '60 ed i suoi echi si possono rintracciare in molti dei più influenti autori e movimenti filosofici, dall'empirismo logico, a Quine a Ryle, al secondo Wittgenstein. Lo sviluppo delle scienze cognitive negli anni '70 segna una svolta nella comprensione del rapporto mente-­‐cervello e un deciso superamento delle posizioni dei comportamentisti, al punto che tale che i cognitivisti, pur non essendo in dualisti, si autodefinirono provocatoriamente mentalisti. Le scienze cognitive partono da quella che è l'architettura interna dei processi cognitivi e, per farlo, ricorrono a modelli computazionali nella presunzione che la mente umana funzioni come una elaboratrice attiva delle informazioni che le giungono tramite gli organi sensoriali, in analogia con i servo-­‐
mecanismi di tipo cibernetico. Secondo la versione classica del funzionalismo computazionale, introdotta da Hilary Putnam, gli stati o i processi mentali sarebbero identici a stati o processi computazionali della mente-­‐
cervello, ovvero, con una metafora, la mente è il softwareche gira nel nostro hardware cerebrale[39]. Ai nostri giorni lo studio delle reti neurali sta producendo in questo campo notevoli sviluppi ed evoluzioni, con un continuo rinvio dall'intelligenza naturale a quella artificiale e viceversa. Dall'interpretazione del cervello che come un sistema di interconnessioni gerarchizzate e distribuite in parallelo è scaturita la progettazione di computer a imitazione delle reti neurali e quindi dotati di flessibilità di fronte a situazioni nuove e di capacità di apprendimento, anche se tuttora più primitivi del più elementare sistema nervoso animale[40]. Se la mente pensante può essere compresa adeguatamente in termini computazionali, allora si può teorizzare che un computer potrà, presto o tardi, simulare le prestazioni dell'intelligenza umana. È ovvio, infatti, che, se il soggetto pensante funziona come una macchina si può ipotizzare che una macchina opportunamente progettata possa giungere a sviluppare un pensiero analogo a quello umano. A ben guardare, la questione è tuttavia più complessa di quanto non vorrebbero accettare i nostri sogni sull'intelligenza artificiale: prima di tutto noi non sappiamo esattamente che cosa significhi essere intelligenti e pensare, ma certo il pensare umano non può essere ridotto allo svolgimento di compiti per quanto impegnativi essi siano. Il soggetto che pensa -­‐ a meno di non far ricorso all'homunculus ovvero dello spirito nella macchina (ghost in the machine) dei dualismi ingenui[41] -­‐ non raggiunge l'autocoscienza, la percezione della propria soggettività a prescindere dal suo corpo, dalle sue sensazioni, dalle sue emozioni. Secondo la ipotesi riduzionista difesa da A. R. Damasio e G. M. Edelman, il fondamento biologico del senso del Sé può essere rinvenuto nei meccanismi cerebrali che rappresentano, istante dopo istante, la continuità di uno stesso organismo. Damasio, in particolare, ritiene che il cervello sia capace non solo di rappresentarsi il mondo esterno e di ricavarne mappe, ma anche di autorappresentare l'organismo cui esso appartiene e che interagisce con il mondo esterno. Il cervello è in grado di produrre elaborazione sia di primo, sia di secondo ordine, di elaborare, per esempio, sia la sensazione visiva, sia l'organismo che riceve ed elabora questa stessa sensazione: l'autocoscienza è un'autorappresentazione dell'organismo che interagisce con il mondo[42]. Solo accidentalmente questa autorappresentazione può servirsi di espressioni verbali e non verbali che permettono, fra l'altro, alla soggettività umana di emergere pienamente. Così l'ipotesi computazionale e rappresentazionista ritiene di eliminare per sempre il ricorso a entità immateriali e, in ogni caso, diverse dal cervello. L'uso di metafore tratte dal mondo della tecnica per descrivere e comprendere il funzionamento del sistema nervoso centrale è antico e può rivelarsi fecondo[43]. I grandi neurofisiologi hanno tratto spesso dal loro ambiente l'ispirazione per illustrare, con opportune analogie, le loro teorie 54 anatomo-­‐fisiologiche. Galeno nel II secolo d. C., pensando alla mirabile rete idrica dei Romani, paragonò il sistema nervoso centrale a una complicata rete di acquedotti; Descartes, nel XVI secolo, mentre si diffondeva in Europa la mania degli automi, spiegò in termini meccanicistici le reazioni nervose dei bruti; i medici dell'800, affascinati dalle scoperte nel campo dell'energia elettrica e del suo sfruttamento, paragoneranno il sistema nervoso centrale ad una grande centrale elettrica; noi, che viviamo immersi nel mondo dei computer, amiamo dare una spiegazione cibernetica del funzionamento della mente. Ovviamente se si tratta di metafore ed analogie, questo procedimento è corretto e può servire per illuminare questo o quell'aspetto del funzionamento del sistema nervoso centrale, se rispondono alla logica nientaltrista, diventano letture riduttive e parziali. Dire che esiste una analogia tra il funzionamento del cervello umano e il funzionamento di un computer è del tutto legittimo, mentre invece affermare che "il cervello umano non è nient'altro che un calcolatore" è riduttivo. Le scienze cognitive rischiano certamente di cadere in una forma molto raffinata di meccanicismo, ma la situazione cambia se passiamo da una considerazione banale e fisicista del cervello computazionale alla considerazione del significato informazionale delle reti neurali. In questa direzione si muove Gianfranco Basti, filosofo di stretta osservanza tomista ed esperto di cibernetica, il quale ha compiuto un interessante tentativo di porre in rapporto il tema della forma corporis con quello delle neurali, recuperando l'idea di dispositio e soprattutto recuperando il tema scolastico dell'intenzionalità rispetto a quello moderno della rappresentazione. Non si tratta quindi di creare energia, come nel dualismo interazionista, ma di produrre informazione e la mente potrebbe essere descritta come una forma che organizza la materia[44]. La sfida dell'evoluzionismo La teoria dell'evoluzione come fu proposta da Ch. Darwin nel 1859 , pur essendo nata come semplice ipotesi biologica, è diventata poco a poco una chiave di lettura di tutta la realtà ed ha sostituito una visione rigida e statica del mondo con una visione dinamica e in divenire, allargandosi ad abbracciare in un unico movimento evolutivo il cosmo stesso. La teoria della evoluzione, con tutte le sue ricadute in campo sociale, politico ed economico, ispirate soprattutto alla logica della sopravvivenza del più adatto, e con la sua carica eversiva verso antiche istituzioni e credenze è più che una teoria scientifica: essa è una vera e propria metanarrazione tipica della modernità e, come tale, si presta ad essere strumentalizzata e piegata verso usi ideologici extrascientifici. Una delle grandi sfide dell'evoluzionismo al progetto umano e motivo permanente di scandalo, sta nella affermazione della continuità fra uomo e animali. Collocata in un orizzonte empirista, questa affermazione, trapassa facilmente dallacontinuità biologica, che può essere verificata o falsificata, alla continuità ontologica che, essendo un asserto metafisico non è verificabile né falsificabile attraverso prove ed esperimenti. Tale pretesa continuità va contro una persuasione profondamente radicata nell'animo umano. I nostri antenati, infatti, nel corso della evoluzione della nostra specie, hanno sviluppato una crescente consapevolezza del loro essere, una autocoscienza che li faceva cogliere a se stessi come soggetti di fronte agli oggetti naturali. Il rapporto uomo-­‐animale è stato segnato sin dagli albori dell'umanità dalla contrapposizione, una contrapposizione nella lotta della sopravvivenza che si è tradotta nella convinzione di una ben più profonda e insuperabile contrapposizione ontologica, sul piano dell'essere. Si può dire che l'idea di uomo, nel pensiero dell'Occidente, è costruita in contrapposizione all'idea di animale: umanità e animalità appaiono come termini di una polarità irriducibile: il possesso del logos e 55 l'uso, quindi, della parola e della ragione, qualifica l'uomo e segna la sua distanza incolmabile dall'animale, che è àlogos, privo di favella e pertanto di razionalità[45]. Questa idea percorre davvero tutta la storia culturale dell'Occidente, dall'antichità greca, attraverso il cristianesimo, sino alla modernità. Se per Aristotele l'uomo si distacca e si differenzia dalla sua base animale perché appunto dotato di razionalità (l'uomo è zoòn logikòn o animal rationale), la fede giudeo-­‐cristiana riconosce, pur nella comune origine creaturale e terrestre, l'incomparabile superiorità dell'uomo sull'animale, essendo l'uomo dotato di uno spirito vitale che lo assomiglia, come divina imago, al Signore e ne giustifica il compito dominativo sulle altre creature[46]. Nella concezione scientifica del mondo propria della modernità non c'è dubbio che l'animale esista per il servizio e il benessere dell'uomo e sarà il meccanicismo che caratterizza il nascere della biologia moderna a fornire una base "scientifica" allo sfruttamento animale[47]. Preparata idealmente da antesignani sette e ottocenteschi e sorretta scientificamente dagli apporti delle scoperte nel campo dell'evoluzione, dell'etologia, della sociobiologia, una delle novità filosofiche più significative degli ultimi decenni è stato l'emergere della cosiddetta tematica animalista. La filosofia animalista sottopone ad analisi critica le categorie di umanità e animalità, per verificarne la consistenza e l'adeguatezza teoretica rispetto agli attuali parametri scientifici, e riflette sulla relazione uomo/animale, tradizionalmente interpretata in termini antinomici, partendo dall'assunto opposto che cioè questa antinomia è insostenibile e interrogandosi sul significato di natura umana o razionale in quanto opposta a natura animale[48]. Un tema preso di mira dai filosofi animalisti per mostrarne l'insostenibilità dal punto di vista scientifico è quella dellacomplessità mentale, argomento principe tradizionalmente usato dai sostenitori di una prassi di esclusione assoluta degli animali dal mondo morale. Nella prospettiva dell'antropologia riduzionista l'esse è appiattito sul bios e viene negata aprioristicamente l'esistenza di realtà spirituali nell'uomo, per cui si cerca di ricondurre le facoltà superiori dell'uomo (razionalità, autocoscienza, libertà) a semplici dinamismi psichici. Una volta esclusa la dimensione spirituale dell'uomo, la demarcazione fra umanità e non umanità o animalità diventa evanescente. Non solo infatti la nostra vita mentale non è considerata altro che un effetto dell'attività del sistema nervoso centrale, ma si può anche scientificamente dimostrare che essa si svolge su una struttura largamente comune alle altre specie: i dati più recenti offerti dalla neurofisiologia comparata, dimostrano che esiste una reale somiglianza e continuità delle funzioni neurofisiologiche fondamentali in tutti gli animali pluricellulari, uomo incluso, e che le somiglianze crescono -­‐ come è intuibile -­‐ con il crescere della posizione di una certa specie nella scala zoologica. La continuità a livello delle strutture neurologiche e le omogeneità di funzionamento, fanno pensare che debba esistere una vera continuità anche tra le funzioni mentali che queste strutture e funzioni sottendono e, in particolare, si può legittimamente pensare a una continuità fra sensibilità, intelligenza, autocoscienza umana e sensibilità, intelligenza, autocoscienza animale[49]. Non esiste perciò una barriera invalicabile tra umani e non umani e diventa possibile confrontare le esperienze psichiche tra specie diverse sulla base dell'accertata similitudine delle proprietà fondamentali dei neuroni, delle sinapsi e dei meccanismi neuroendocrini. La visione delle relazioni biologiche e ultimamente ontologiche fra uomo e animali, generata dall'evoluzionismo estremo di matrice darwiniana, ha ricevuto conferme non solo dalla paleontologia, l'anatomia comparata e la genetica, ma anche -­‐ come vedremo più avanti -­‐ dall'etologia che, studiando il significato del comportamento, delle motivazioni, della comunicazione degli animali, ha cercato di evidenziarne elementi significativi di continuità col comportamento umano e ha portato a rafforzare, di conseguenza, l'idea dell'affinità e della 56 continuità dell'uomo con le altre specie animali. Ne consegue un'antropologia che non teme di umiliare la dignità umana nel considerare Homo sapiens sapiens una specie fra le altre e un'etica che, negata la sacralità della vita umana, non riesce più a cogliere la differenza assiologica fra vita umana e vita animale[50]. La posizione della teologia cattolica e del Magistero sull'evoluzionismo applicato all'uomo è stata molto circospetta e non è questa la sede per entrare nel dettaglio[51]. Oggi, superati, mediante un'accorta purificazione epistemologica, i pregiudizi materialisti e immanentistici presenti nelle versioni correnti dell'evoluzionismo e risolti, mediante una ermeneutica raffinata, i più ardui ostacoli antievoluzionistici contenuti nelle fonti della Rivelazione, resta la questione davvero fondamentale di comprendere come la persona umana, nella sua unità di anima e di corpo, possa emergere da realtà ontologicamente inferiori. Secondo l'interpretazione proposta da Karl Rahner -­‐ che resta ancor oggi una delle letture più penetranti -­‐ si deve pensare a un autosuperamento della creatura che è reso possibile attraverso il concorso di Dio che non opera accanto all'operare creaturale, ma che è causa di quello stesso operare[52]. Questa visione dell'uomo e dell'evoluzione umana che, pur rispettando la multidimensionalità dell'uomo e la distanza ontologica fra la realtà umana e non umana, ci fa tuttavia sentire parte integrante del nostro universo materiale risponde a un bisogno profondo del cuore umano, sempre teso fra mondanità e trascendenza. Gli esseri intelligenti non sono frutto di pura casualità -­‐ come pretende il riduttivismo biologico -­‐ ma il traguardo del divenire del cosmo. Se nella lezione di Teilhard de Chardin l'evoluzione del cosmo e dei viventi risponde a una direzione di movimento che punta al traguardo della Noosfera sino al punto Omega[53], secondo i fautori del cosiddetto principio antropico, nella sua versione forte, il cosmo è strutturato fin dall'inizio in modo tale da ammettere la comparsa nel suo seno, a un qualche stadio, di esseri capaci di coglierne l'intima intelligibilità[54]. "Il cosmo-­‐ commenta Saturnino Muratore -­‐ è inteso come un grande complicatissimo laboratorio che sta eseguendo un programma, la produzione della vita, anzi, della vita intelligente ... Questo insperato recupero dell'Anthropos all'interno di una lettura scientifica del cosmo rappresenta un'autentica svolta nei confronti di quella rivoluzione copernicana che aveva dato origine alla modernità occidentale"[55]. La sfida della genetica Gli stupefacenti progressi della genetica, la scoperta della probabile base genetica non solo dei caratteri fisici ma anche delle disposizioni a contrarre malattie, dei tratti temperamentali, di certe inclinazioni normali e devianti, la possibilità di leggere il programma genetico dell'uomo e, virtualmente, di ciascuno di noi, la prospettiva di poter intervenire e manipolare questo stesso programma attraverso l'ingegneria genetica, stanno provocando profonde ripercussioni nella nostra considerazione dell'uomo, delle sue scelte e dei suoi comportamenti. La biologia sta chiarendo la cascata di eventi che può spiegare le relazioni fra predisposizione genetica e comportamenti. I geni codificano infatti proteine con funzioni diverse: se ci sono alterazioni genetiche, per esempio, nelle proteine che costituiscono i recettori implicati nella risposta nervosa o che sono coinvolte nella metabolizzazione dei neuromediatori, possono aversi turbe psichiche e comportamentali legate all'alterato equilibrio dei neuromediatori. Nel caso della tossicodipendenza, per esempio, è stato provato che nel causare tale condizione concorrono diversi fattori di tipo socio-­‐culturale, psicologico e biologico che interagiscono fra loro secondo modalità non ancora pienamente chiarite. Esistono indizi scientificamente provati, benché di significato ancora piuttosto incerto, che porterebbero a ipotizzare l'esistenza -­‐ almeno in alcuni soggetti -­‐ di una sorta di predisposizione biologica all'assunzione di droghe, analogamente a quanto è stato supposto per l'assunzione di alcool negli alcoolisti. Tuttavia la 57 semplice e inoppugnabile osservazione che persino un soggetto diventato tossicodipendente possa interrompere permanentemente, se opportunamente aiutato e motivato, l'assunzione compulsiva della droga, ci porta a ritenere che tale predisposizione non agisce in modo deterministico o almeno che non sia sufficiente a spiegare da sola il sorgere del comportamento di abuso[56]. "Il fenomeno della tossicodipendenza -­‐ scrive lo psichiatra V. Andreoli -­‐ è l'insieme di tre fattori: sostanza, consumatore, ambiente sociale in cui l'incontro tra sostanza e consumatore si attua. Qualsiasi valutazione fatta ignorando uno di questi elementi conduce ad un errore riduzionistico. Vi può essere il riduzionismo farmacologico, quello psicologico ed infine quello sociologico. Ognuno di questi atteggiamenti tende a minimizzare o neutralizzare le altre componenti"[57]. Certamente, anche ridimensionando il determinismo genetico verso comportamenti anomali o devianti, resta la percezione che la nostra libertà sia probabilmente più condizionata di quanto di solito non si sospetti. Sappiamo che la libertà umana è una realtà in via di definizione ed emerge concretamente come frutto della dialettica fra determinazione e non determinazione, ma le spinte deterministiche -­‐ dopo la scoperta della base genetica di tante inclinazioni e comportamenti -­‐ operano ad un livello strutturalmente così intimo e profondo da chiederci se davvero si aprono spazi adeguati per l'esercizio della libertà. L'ingegneria genetica costituisce uno strumento molto potente per allargare le nostre conoscenze nel campo delle scienze della vita, dall'embriologia, alla fisiologia, alla patologia. L'impiego delle sonde molecolari, permettendo di riconoscere la sequenza e la posizione dei geni sui cromosomi, ha aperto la possibilità di analizzare interi genomi (mappatura). L'obiettivo più ambizioso è la mappatura dell'intero genoma umano normale e della individuazione delle principali alterazioni genetiche alla base di patologie umane: a questo stupefacente progetto, detto progetto genoma, si stanno dedicando decine di istituti di ricerca in tutto il mondo coordinati a livello internazionale[58] Una forma estrema di riduzionismo, strettamente connesso con i progressi della genetica, è dato da una nuova disciplina, la sociobiologia[59]. Secondo la definizione data dal suo fondatore, E. O. Wilson, la sociobiologia è "lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale"[60]. Essa cerca di spiegare ogni comportamento, specialmente quello sociale, sia degli animali, sia dell'uomo con le sole risorse della biologia in una prospettiva evoluzionista che integra i dati della genetica e quelli dell'etologia. La biologia ci insegna che ogni specie è caratterizzata da un certo patrimonio genetico che viene trasmesso in modo invariante alla progenie, ma, all'interno di una stessa specie e quindi nell'ambito di un'informazione sostanzialmente omogenea, possono esistere genotipi che presentano leggere diversificazioni. Il processo selettivo che sta alla base dell'evoluzione consiste sostanzialmente nella sopravvivenza e nella riproduzione differenziale dei diversi genotipi: in un certo ambiente un certo genotipo può rivelare una maggiore idoneità biologica e quindi una migliore capacità di sopravvivenza e di riproduzione.La selezione naturale, dunque, si riferisce primariamente alla sopravvivenza dei geni e non alla sopravvivenza dell'individuo. Lasciando da parte le critiche di natura scientifica mosse a Wilson e ai suoi seguaci, dal punto di vista filosofico il limite di fondo della sociobiologia sta nel suo esasperato e programmatico riduzionismo: essa dà un'importanza esclusiva agli aspetti genetici dell'evoluzione sociale e sottovaluta gli aspetti extragenetici che, nella specie umana, determinano invece quella seconda natura che è la cultura. Non sfugge al riduzionismo neppure la proposta, per altri versi affascinante, di Dawkins. Correggendo l'idea di Wilson che la cosa più importante dell'evoluzione sia il bene della specie invece che il bene dell'individuo e quindi dei suoi propri geni, Dawkins ritiene "una qualità predominante da aspettarsi in un gene che abbia successo è un egoismo spietato. Questo egoismo del gene provocherà, in genere, egoismo nel comportamento dell'individuo ... Tuttavia esistono circostanze speciali in cui un gene può raggiungere le proprie mete egoistiche favorendo una 58 forma limitata di altruismo a livello dei singoli animali"[61]. Egli è d'altra parte ben conscio che "una società umana basata soltanto sulla legge del gene, una legge di spietato egoismo, sarebbe una società molto brutta in cui vivere"[62]. Per fortuna, però, anche se la natura biologica non sempre ci aiuta, la nostra specie può cercare di opporsi ai disegni dei geni egoisti. Infatti, accanto ai replicatori naturali, i geni, sono apparsi, con l'uomo, replicatori culturali, detti da Dawkins memi o unità di imitazione assunte per apprendimento (es. parole, teorie, norme, melodie ecc) la cui evoluzione e diffusione può essersi attuata in un certo modo perché è vantaggioso per lui. Forse Aristotele avrà soltanto ancora due o tre dei suoi geni in viaggio per il mondo, ma i suoi memi sono ancora molto diffusi nell'umanità e continuano a influenzare le nostre scelte, giudizi, comportamenti. A ben guardare, tuttavia, gli esseri umani diventano così semplici supporti dei memi, come prima erano stati i supporti dei geni egoisti[63]. Una delle grandi sfide della genetica e delle discipline che ad essa si appellano sta in questa riduzione di tutto l'agire umano alle leggi del vantaggio selettivo sia esso popolazionistico o individuale e quindi nella difficoltà di spiegare come la libertà, così apprezzata dai nostri contemporanei, possa emergere e sopravanzare il determinismo del gene tiranno. ANTROPOLOGIA E BIOLOGIA Di fronte alle sfide del riduzionismo antropologico la filosofia cristiana afferma la differenza dell'essere umano rispetto ad ogni altro essere e quindi la sua eccellenza assiologica, come si legge in un famoso testo di Gaudium et Spes dedicato a descrivere i costitutivi dell'uomo: Corpore et anima unus, homo per ipsam suam corporalem condicionem elementa mundi materialis in se colligit ... Homo vero non fallitur, cum se rebus corporalibus superiorem agnoscit ... Interioritate enim sua universitatem rerum excedit[64]. "L'uomo è uno nel corpo e nell'anima", egli è uno e insieme duale perché, in quanto unitas multiplex, totalità unificata, non è riducibile né alla sua biologicità animale né alla sua razionalità. Il pensiero cristiano, sin dai primi tentativi di pensare la fede da parte dei Padri, ha ritenuto irrinunciabile l'affermazione dell'eccedenza dell'uomo rispetto alla sua base o dimensione o componente biologica e materiale e ha trovato conveniente esprimere questa eccedenza ricorrendo al theologoumenon dell'anima. La parola anima, da comprendersi in relazione con la categoria biblica di imago Dei, prima ancora che rispondere a una categoria ontologica definita, è lo strumento linguistico appropriato per indicare la diversità dell'uomo e la sua eccedenza costitutiva rispetto allo strato animale. Professare l'esistenza dell'anima umana è quindi un'affermazione della singolarità dell'uomo e costituisce un creditum che solo in seconda istanza si tematizza razionalmente in uno scitum. L'eccedenza ontologica permetteva alla Tradizione fondare con sicurezza l'eccellenza assiologica dell'uomo (sacralità della vita, in quanto vita di persona, anima comeprincipium agendi e ratio essendi, dignità della persona). Giovanni Paolo II nell'enciclica Veritatis splendor insegna, collocandosi nell'orizzonte della filosofia aristotelico-­‐tomista, che "l'anima spirituale e immortale è il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui egli esiste come un tutto -­‐ "corpore et anima unus" -­‐ in quanto persona. Queste definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa la risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì il legame della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà corporee e sensibili"[65]. Non si può dire che l'uomo possieda un corpo od uno spirito o che l'uomo sia uno spirito che usa un corpo: l'uomo è corporeo, l'uomo è uno spirito incarnato. Perciò il suo corpo non è semplice corpo oggettuale (Körper), ma corpo di una persona, è corpo vissuto (Leib) condizione stessa dell'esistere personale ed epifania della persona stessa [66]. Il rapporto del soggetto umano con 59 il suo corpo è complesso e non può essere descritto in modo strumentale o possessivo, secondo una lettura oggettuale della formula anima utens corpore, però neanche la formula antropologica secondo la quale " l'uomo è il suo corpo" può essere accettata senza spiegazioni. "L'uomo è anche più del suo corpo; vivendolo lo trascende. Questa trascendenza non comporta, almeno nella classica visione tomista dell'uomo, alcun dualismo di anima e di corpo: l'essere uomo è caratterizzato da una specifica "unitotalità". Pur sperimentando una certa tensione tra queste due dimensioni del suo esistere, egli è sempre e insuperabilmente unità di spirito e di corpo, in ognuna delle sue decisioni e delle attività con cui realizza se stesso, agisce nel mondo e comunica con gli altri"[67]. Secondo l'interpretazione tomista, che in questo punto molto si differenzia dall'impostazione genuinamente aristotelica[68], il composto umano, come ogni altra sostanza, deriva l'actus essendi dalla sua forma, che per l'uomo è una sostanza spirituale, l'anima, a sua volta attuata da un atto di essere. L'anima riceve l'esse mediante l'opera creatrice di Dio e partecipa il suo essere al corpo o, meglio, riceve il corpo nella comunione del suo stesso atto di essere. L'anima, in quanto forma sostanziale, non viene ad informare un corpo di per sé individuato, perché, essendo una forma in senso stretto, essa è destinata ad informare non un determinato corpo, ma la materia prima. "Così si afferma -­‐ spiega Karl Rahner -­‐ che ciò che noi chiamiamo corpo non è altro che l'attualità dell'anima stessa nell'altro della materia prima, l'alterità autooperata dell'anima stessa, come sua espressione e simbolo"[69]. In tal modo viene salvaguardata sia la originalità ontologica del composto umano rispetto ad ogni modalità di esistenza creata, sia l'unità del composto umano, che risulta attuato da un unico atto di essere, sia infine l'immortalità dell'anima, vale a dire l'eccedenza ontologica della persona rispetto alla corruttibilità legata alla mondanità e alla temporalità. Alcune delle pagine più penetranti sul rapporto fra spirito-­‐materia, rapporto che soggiace senza identificarvisi del tutto alle discussioni antropologiche della tradizione filosofica su anima e corpo, sono state scritte da K. Rahner, che più volte è tornato sull'argomento[70]. Egli parte da una analisi ontologica sulla natura del simbolo che gli permette di definire il corpo come un simbolo, una espressione, una autoattuazione dell'anima, per cui ciò che noi diciamo corpo non è altro che l'attualità dell'anima stessa nella materia prima, materia prima che viene da lui identificata con la vuota spazio-­‐temporalità; "il corpo è già spirito, colto nel momento in quel momento dell'autoattuazione in cui la spiritualità personale perde se stessa allo scopo di poter incontrare, in maniera diretta e tangibile, il diverso da sé"[71]. Dialetticamente, quindi, la non identità dell'anima e del corpo (quella che potrebbe dirsi la dualità), dipende in ultima analisi dall'unità di spirito e di materia nell'uomo, per cui la materia è già spirito e lo spirito ha la materia come momento costitutivo intrinseco. Nella prospettiva dell'unità vigente fra spirito e materia è possibile cogliere il senso della vita corporea per la persona nella sua totalità. La struttura biologica fondamentale della persona umana è, al pari di ogni altro vivente, di tipo organismico. Il medium fra vita personale integralmente presa e vita biologica, in un'antropologia realista come quella cristiana, è dato appunto dalla nozione di organismo autoorganizzato che abbiamo introdotto parlando della vita in generale[72]. Dall'inizio della vita organismica di ciascuna unità biologica individuale sino alla sua disgregazione irreversibile in quanto unità organizzata, si svolge la vita della persona[73]. In un organismo complesso come quello umano, il compito di mantenere l'adeguata unità organizzativa è svolto nelle fasi embrionali dal genoma e dai sistemi di comunicazione intercellulare, cui subentra progressivamente l'encefalo (cervello, tronco e cervelletto) nonché -­‐ insieme con esso e in via gerarchicamente subordinata -­‐ il sistema immunitario e il sistema endocrino. Esiste perciò una piena simmetria fra l'inizio della vita al concepimento, con la comparsa dell'unità autorganizzata dello zigote, e la fine della vita, con la scomparsa delle unità 60 autorganizzata, indipendentemente dalle strutture anatomo-­‐fisiologiche preposte al mantenimento di quello specifico livello organizzativo[74]. La dottrina tomista permette di comprendere e giustificare razionalmente la nozione biologica di vita e di morte in quanto mantenimento e perdita irreversibile, rispettivamente, dell'unità funzionale di un oggetto naturale, e di spiegare in modo soddisfacente e non dualista il rapporto intercorrente fra il mantenimento di questa organizzazione e la presenza dell'anima spirituale e quindi fra mantenimento della funzionalità organismica e presenza personale[75]. Secondo Tommaso, l'insieme degli spiriti corporei costituisce la causa dispositiva per cui un organismo animale diviene un tutto. Essi, come totalità unica, sono il principio che dispone in unità le singole membra in relazione al tutto vivente (causa dispositiva attiva): in virtù di tale capacità unificante le parti diventano organi di un corpo in potenza alla vita[76]. Nei confronti dell'unione dell'anima al corpo essi costituiscono invece la causa dispositiva passiva, dal momento che l'organismo biologicamente umano offre la materia apte disposita ad essere informata dall'anima spirituale ovvero ladispositio passiva all'animazione[77]. L'anima infatti è destinata al corpo ed è atta ad unirsi, come unica forma corporis, alla materia prima (unibilitas). Questa unione è però possibile solo se si realizza un substratum biologico adeguato, capace cioè di agire come un tutto, e la stessa unione viene meno e ne consegue la morte della persona se viene meno la causa dispositiva passiva, cioè l'unità organica operata dagli spiriti corporei, tale unione diventa impossibile. La nozione di causa dispositiva spiega egregiamente il rapporto fra inizio della vita della persona e infusio dell'anima spirituale e fine della vita della persona e secessio dell'anima spirituale dal corpo[78]. Nel definire la persona, la filosofia cristiana evita sia le impostazioni naturalistiche o attualistiche, che legano il riconoscimento di una presenza personale alla verifica di caratteristiche semplicemente animali (come la percezione del dolore) o ritenute qualificanti per l'essere umano (come l'autocoscienza o la relazionalità), sia le impostazioni anti-­‐naturaliste che non ritengono rilevanti i dati biologici per definire lo statuto ontologico dell'essere umano e rifiutano l'idea che si possa ancorare lo statuto etico della persona su qualsiasi dato empirico. Il personalismo ontologico non sottovaluta la rilevanza del dato biologico, ma ricerca una determinazione sostanziale e non attualistica dell'essere persona. In questa ottica i signa personae non sono trascurati, ma si ritiene che l'essere persona o anche, se si vuole, il diventare persona non possono essere argomentati sulla base dei dati empirici, ma all'interno di una concezione dell'essere e dei suoi gradi di perfezione. Ci muoviamo lungo la linea classica che non si accontenta di una definizione nominale o convenzionale di persona, né di una descrizione delle sue operazioni, ma tenta di coglierne l'elemento costitutivo, di raggiungerne l'ultima verità e la radice essenziale. La persona possiede un suo actus essendi che la rende ontologicamente incomunicabile e insieme possiede una comunicabilità intenzionale nell'ordine dell'operare, cioè una apertura trascendentale al conoscere, all'amare, al dialogare, al Tutto. Boezio, in questa prospettiva, aveva definito la persona rationalis naturae individua substantia, e con lui Riccardo di san Vittore rationalis naturae individua existentia e soprattutto san Tommaso individuum subsistens in rationali natura. Possiamo enucleare dalle definizioni due elementi essenziali nel costituire la persona: l'individualità sussistente e la natura razionale o spirituale. Tommaso spiega che "individuum autem est quod est in se indistinctum, ab aliis vero distinctum" e ne conclude che persona è ciò che in una certa natura è distinto, per cui, parlando della natura umana, "persona ... significat has carnes, et haec ossa, et hanc animam, quae sunt principia individuantia hominem"[79]. Il personalismo ontologico infatti non trascura il livello somatico, ma anzi lo presuppone, perché la sostanza individuale umana è anche corporea: l'individualità biologica, a partire dal momento in cui si stabilisce, entra a costituire l'individualità personale 61 dell'individuum subsistens. Nello stesso tempo, però, il personalismo ontologico riesce a cogliere aspetti più vasti e intimi del semplice essere umano biologico perché intravede nella individualità biologica radicarsi la profondità della persona. È la proposta di una antropologia integrale che comprende e insieme trascende il semplice livello biologico, superando le secche del riduzionismo ed aprendosi ad una comprensione adeguata della persona. In questo modo di concepire la persona, l'essere umano (assunto in senso biologico) è indissociabile dall'essere persona(l'essere umano in senso metafisico) nel rispetto delle distinzioni frai diversi livelli o strati dell'esistente concreto. Si può parlare, con P. Prini, di un personalismo biologico o -­‐ forse meglio -­‐ ontobiologico, in cui l'orizzonte biologico è integrato da una ontologia relazionale così che "ciò che costituisce l'essenza dell'uomo come persona ... è coestensivo, nella sua vicenda terrena, all'intera storia del suo organismo vitale"[80]. VALENZA ETICA DEI DINAMISMI BIOLOGICI Una conseguenza importantissima dell'unitotalità della persona è che l'integrità e i dinamismi biologici del corpo umano non sono indifferenti dal punto di vista etico. In base all'antropologia cristiana, "le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana"[81]. La legge naturale di cui parla la teologia cattolica non è detta naturale in riferimento alla natura biologica che accomuna l'uomo con gli altri viventi, ma in riferimento alla natura della persona umana, "che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale sia biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine"[82]. La norma morale si fonda ultimamente sulla persona, perchè il bene da perseguire o conservare è un bonum humanum, il bene colto dalla persona e nella persona come apertura alla piena autorealizzazione. Come appare chiaramente in tema di regolazione artificiale della natalità e di fecondazione artificiale, il criterio di liceità di questi e di altri interventi sulla vita è dato dalla tutela del bene umano autentico e quindi dalla salvaguardia dei valori umani essenziali, includendo tra questi anche i valori corporei perché "nell'uomo non è possibile scindere il biologico dall'umano"[83]. Fermo restando questo principio, ci si chiede tuttavia, di fronte ad alcune tecnologie innovative, dove finisca un legittimo e talvolta doveroso aiuto alla natura (adiuvatio naturae) e dove inizi una inaccettabile sostituzione di essa (substitutio naturae). Già Platone, nel Protagora, aveva sottolineato che l'uomo, essendo la creatura più inerme e sprovvista di risorse naturali, ha bisogno di sviluppare la sua téchne[84], che è dunque da ritenersi conseguenza dell'indigenza dell'uomo, ma anche espressione della sua superiorità ontologica su ogni altra creatura terrestre. In linea con questa tradizione di pensiero, ma con la consapevolezza propria dell'uomo moderno, José Ortega y Gasset, nella Meditaciòn de la técnica, indicava nella tecnica il mezzo per la liberazione dell'uomo dai vincoli e dalle servitù naturali e per il dispiegarsi delle sue infinite possibilità. Per merito della tecnica l'uomo può occuparsi di se stesso e dedicarsi ad una serie di realizzazioni non biologiche, che non sono imposte dalla natura, che egli inventa per sé[85]. Innestandosi sul discorso di J. Ortega y Gasset e di P. Alsberg[86], A. Gehlen afferma che la tecnica è necessaria all'uomo per la sue stesse carenze biologiche, perché l'uomo è un essere carente (Mängelwesen), privo di una forma data una volta per tutte, privo, rispetto agli animali, di specializzazioni, privo di un ambiente (Umwelt) che gli sia naturalmente e istintivamente corrispondente[87]. L'uomo è naturalmente un essere tecnico, in quanto è per la sua natura biologica portato a modificare il mondo (Welt) che trova di fronte a sé, secondo una sua progettualità e secondo i suoi bisogni e desideri. Questa plasticità umana nei confronti del 62 mondo, questa capacità di riorientarsi e ripensarsi, permette all'uomo di superare la sua innata incompiutezza e, appropriandosi del mondo, appropriarsi di se stesso. Il concetto di plasticità, introdotto da Gehlen in aperta polemica con l'antropologia di ispirazione etologica elaborata da K. Lorenz, non si sottrae a una domanda di capitale importanza per il nostro tema. L'uomo, sin dagli albori della sua presenza sulla Terra, ha dimostrato di essere la creatura più plasmabile a livello comportamentale, capace di adattarsi a situazioni ambientali nuove e a lui sfavorevoli, modificando opportunamente le sue abitudini e intervenendo con tecniche più o meno sofisticate sull'ambiente per renderlo più vivibile e sicuro. Tale sorprendente capacità di immaginare, progettare e rendere diversi da come sono il mondo e anche se stessi, riconducibile (ma non riducibile) all'incredibile plasticità del sistema nervoso centrale umano, costituisce uno dei tratti etologicamente distintivi dell'uomo rispetto agli altri animali, al punto tale che ci si è chiesti se l'uomo abbia una natura nel senso in cui la possiedono gli altri viventi, o se la sua natura sia di non avere una natura data, ma essere la creatura sempre in fieri. L'uomo, afferma J. M. Buchanan in sintonia con la tradizione empirista, è l'essere che è capace di diventare differente; mentre l'animale è naturale, l'uomo è insieme naturale e artificiale (artifactual) o, meglio un animale artificiale legato da condizionamenti naturali. "Noi -­‐ egli scrive -­‐ siamo e saremo, almeno in parte, quello che noi faremo essere noi stessi. Noi costruiamo i nostri esseri, anche se entro limiti"[88]. I limiti entro i quali ci autocostruiamo sono biologici e culturali, individuali e sociali, e questi limiti o dati sono l'equivalente di quello che per un animale è la natura, così che "nella misura in cui gli individui sono rigidamente vincolati da regole di condotta i modelli di comportamento sviluppati culturalmente, questi elementi entrerebbero a far parte dell'uomo naturale o, per meglio dire, dell'uomo non artificiale"[89]. Non possiamo addentrarci nella vexata quaestio del rapporto fra natura e cultura nollo strutturare l'uomo, ma è chiaro che le diverse precomprensioni antropologiche si riflettono drammaticamente nel giudizio da dare su alcune applicazioni biomediche nel campo della vita e della salute umana, come l'ingegneria genetica applicata all'uomo, la fecondazione in vitro, la selezione embrionale. Ci si chiede, in pratica, se la progettualità e la plasmabilità dell'uomo includano anche le strutture e i dinamismi corporei e, in caso di risposta affermativa, in quale misura. Si scontrano qui due concezioni antropologiche opposte: da una parte la tendenza a considerare il corpo umano come un oggetto biologico grezzo, un dato naturale, ancora avulso dalla sfera della umanità, ma capace di diventare umanamente significante se investito di un progetto e di un senso; dall'altra la tendenza a riconoscere al corpo una sua consistenza, una sua finalizzazione indipendentemente e previamente all'essere inserito in un progetto, prima cioè di una qualsiasi appropriazione di esso da parte del soggetto. Nel primo caso il corpo sarà di per sé disponibile, trovandosi i limiti a questa disponibilità in motivi estranei al corpo, come, per esempio, nel diritto di autonomia del soggetto. Nel secondo caso il corpo potrà essere giudicato disponibile, ma solo nella misura in cui lo consente la salvaguardia del naturale biologico, assunto come normativo: all'interno di questa posizione si collocano anche i diversi biologismi. Se alcuni infatti rivendicano la totale autonomia della libertà dalle dimensioni somatiche della persona e il diritto di manipolare secondo i propri bisogni e i progetti la vita, sino a poterne programmare l'inizio e la fine, altri, all'interno di una concezione dell'etica di ascendenze sociobiologiche, professano un autentico biologismo perché ritengono che la regola etica sia il naturam sequi, intendendo la natura in modo strettamente scientifico e descrittivo, per cui tutto ciò che accade in natura può essere assunto come guida e giustificazione per l'agire umano[90]. La prospettiva biologica ed evoluzionista, che tenta di risolvere la vita morale in termini di selezione e competizione darwinistica, ribalta il dato empirico in norma etica e con questo cortocircuito metaetico cade in una vera fallacia naturalista. L'essere 63 oggettivistico studiato dalle scienze, per le opzioni gnoseologiche sottese, è un essere povero, colto nella sua fattualità empirica, un essere svuotato di densità ontologica per il quale vale la famosa aporia di D. Hume (1711-­‐1776) segnalante l'impossibilità di passare da questo essere espropriato a un corrispondente dover essere, dai giudizi di fatto, a conseguenti giudizi di valore[91]. L'etica cattolica, pur nelle sue diverse declinazioni, riconosce la valenza etica delle strutture naturali, ma prende accuratamente le distanze dal naturalismo o dal biologismo, dal momento che la natura di cui si parla è una natura compresa e interpretata attraverso la mediazione antropologica: è la natura della persona. La legge morale naturale, che è la legge della creatura ragionevole, trascende il dato empirico e quindi il biologico, ma allo stesso tempo lo implica e non può eluderlo, perché non si può separare la persona dalla natura né opporle antiteticamente. L'uomo è infatti una realtà pluridimensionale o pluristratificata, una realtà complessa nella quale si correlano in mutua pericoresi natura e persona, la dotazione comune di strutture e dinamismi dati e la singolarità irripetibile del soggetto[92]. Da tale pericoresi fra natura e persona discende la grande rilevanza dei risultati delle scienze della natura per orientare e delimitare il processo interpretante e, in dipendenza da questo, la normatività. Il criterio etico per qualsiasi intervento sull'uomo non sarà infatti da ricercarsi nella natura come semplice datum, ma nella persona compresa nella sua complessa articolazione ontologica. La persona esiste nella sua natura biologica, la singolarità della persona sussiste nella ripetitività della natura e il corpo rappresenta il punto di convergenza e di incontro di queste diverse dimensioni dell'esistere umano. La stessa percezione di sé come soggetto, quel senso dell'identità personale che costituisce l'asse portante del nostro mondo interiore, quella originaria autocomprensione di sé come distinti da altri e quindi liberi, si sviluppa attraverso la coscienza del proprio corpo. Il corpo, che biologicamente è datum, viene vissuto, compreso e interpretato e si dischiude nella autotrascendenza della persona come singolarità incomunicabile che si apre all'alterità e come libertà che si attua nella storicità. In tale prospettiva, l'integrità biologica diventa eticamente rilevante come condizione dell'identità personale: l'uguaglianza, connessa con la natura biologica, si trova a svolgere il compito di assicurare la singolarità personale per cui -­‐ conclude K. Demmer -­‐ "una disuguaglianza creata artificialmente corre al contrario il pericolo di sminuire i naturali presupposti della libertà, sia interni che esterni, introducendo vincoli che sono d'impedimento al prodursi pieno della singolarità personale"[93]. Potremmo dire perciò che ogni atto che coinvolge i processi naturali può diventare un'invasione dello spazio intangibile della persona nella sua uguaglianza e nella sua singolarità e tradursi in un dominio non sulla natura, ma sull'uomo. Se il corpo è un corpo compreso e interpretato, se la natura rivela la sua normatività soltanto attraverso comprensione e interpretazione, si deve certamente ammettere una immanente plasmabilità del corpo, una intrinseca disposizione del corpo umano a corrispondere alla singolarità interpretante. Tale plasmabilità dovrà però comporsi con la tutela dell'integrità e, in ultima analisi, dell'identità personale: i dati corporei sono flessibili, ma non indefinitamente e sarebbe contraddittorio se un uomo, per attuare la sua soggettività, si autonegasse nella propria identità essenziale attraverso unvulnus all'integrità corporea o addirittura alla sua sussistenza. Ogni intervento sull'uomo sarà dunque un interpretare sensato se rispetterà la verità integrale della persona, la sua uguaglianza e la sua singolarità, il datum e l'unicum, se riconoscerà insomma la sua eccedenza e rispetterà la sua eccellenza. 64 [1] Della sterminata letteratura sull'origine della vita, vedere per esempio: DAVIES P., Da dove viene la vita, Mondadori, Milano 2000. [2] Sull'evoluzionismo dal punto di vista scientifico: FUTUYMA D. J., Evolutionary Biology, Sinauer, Sunderland 1998; RIDLEY M., Evolution, Blackwell, Cambridge 1966; WILLIAMS G. C., Adaptation and Natural Selection, Princeton 1966. [3] Sulla controversa questione dell'evoluzione umana, vedere l'intervento di mons. F. Facchini. Cfr. FACCHINI F., Evoluzione, uomo e ambiente. Lineamenti di antropologia, UTET, Torino 1988; ID., Le origini dell'uomo, Jaca Book, Milano 1990. [4] WILSON E. O., Consilience, Alfred Knopf, Nw York 1998 (trad it. L'armonia meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza, Mondadori, Milano 1999, 4-­‐5). [5] Non entriamo nella questione se l'arché degli ionici sia da intendersi in senso riduzionista e quindi si tratti del rimando a un principio strutturale che costituisce il tessuto portante del reale o se non si tratti piuttosto della ricerca di unprincipio metafisico che possa render conto del reale stesso. [6] Per la classificazione dei riduzionismi: SEARLE J. R., The Rediscovery of Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992 (trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994, 128-­‐
130). L'espressione "nothingbuttery theory" si trova in: MACKAY D. M., Information, Mechanism and Mind, Cambridge (Mass.) 1969. [7] C'è discussione sulle regole di conversione, ma sono usualmente accettate le due condizioni di E. Nagel: la prima è che ogni termine della teoria ridotta deve essere definito per mezzo dei termini della teoria riducente e la seconda è che ogni proposizione della teoria ridotta deve poter essere derivata da un insieme di proposizioni della teoria riducente. Cfr. NAGEL E., The Meaning of Reduction in the Natural Sciences, in STAUFER R. T. ed., Science and Civilisation, 1949, 99-­‐138; ID., The Structure of Science, New York 1961, 345-­‐349. [8] FORNERO G., Riduzione, in ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, Torino 19983, 934. [9] SEARLE J. R., La riscoperta, 128. [10] Questo spiega l'opzione riduzionista di filosofie nativamente antimetafisiche come l'empirismo, il sensismo, il positivismo e il neopositivismo. [11] Presentazioni sintetiche della filosofia della vita: BASTI G., Filosofia dell'uomo, Studio Domenicano, Bologna 1995, 105-­‐196; LUCAS LUCAS, L'uomo spirito incarnato. Compendio di filosofia dell'uomo, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, 29-­‐48; LA VERGATA A., Filosofia e biologia, in ROSSI P. dir., La filosofia, vol. 2, Torino 1995, 99-­‐182 (soprattutto 151-­‐169); MUNSON R., Meccanicismo e vitalismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. 4, Roma 1988, 65-­‐76; VANNI-­‐
ROVIGHI S., Elementi di filosofia, vol. 3, La Scuola, Brescia 1963, 73-­‐104. A prescindere dal valore intrinseco delle due posizioni, dal punto di vista teologico tanto il meccanicismo quanto il vitalismo sono compatibili con la fede nelle creazione e con una apertura alla trascendenza, anche se spesso l'interpretazione meccanicista della vita si inscrive in una visione materialista e antispiritualista. [12] DESCARTES R., Traité de l'homme (1664), in Oeuvres et lettres de Descartes, Paris 1952, 873. Sul meccanicismo cartesiano, vedere: BONICALZI F., Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell'anima, Jaca Book, Milano 1987. [13] CRICK F., Of Molecules and Men, Seattle-­‐London 1966 (trad. it. Uomini e molecole. È morto il vitalismo?, Bologna 1970, 10). [14] Cfr. SIMPSON G. S., This View of Life, New York 1963. In questa linea l'emergentismo materialista di A. I. Oparin, di J. B. S. Haldane, di M. Prénant. 65 [15] MONOD J., Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Paris 1970 (trad. it.Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, Milano 1970). [16] PRIGOGINE I., Dall'essere al divenire, Torino 1986. [17] Cfr. DRIESCH H., Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre, Leipzig 1905, 109: "La vita non è ... una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e la biologia è una scienza indipendente". [18] Cfr. ELSASSER W. M., Atom and Organism, Princeton (NJ) 1966; POLANYI M., Life's Irreducible Structure, "Science" 160 (1968), 1308-­‐1312. [19] CASSIRER, Storia della Filosofia Moderna, vol. 4/1, Torino 1978, 326. [20] MELINA L., Questioni epistemologiche relative allo statuto dell'embrione umano, in PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Identità e statuto dell'embrione umano, Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, 88. [21] Un tentativo molto interessante per caratterizzare la vita dal punto di vista dell'organizzazione è la teoria dell'autopoiesi: MATURANA H., VARELA F., De maquinas y seres vivos. Una teoria sobra la organizaciòn biològica, Editorial Universitaria, Santiago1972 (trad. it. Macchine ed esseri viventi. L'autopoiesi e l'organizzazione biologica, Astrolabio, Roma 1992); IID., The Tree of Knowledge: The Biological Roots of Human Understanding, Boston 1988. [22] Sui singolari aspetti termodinamici del vivente, vedere il classico: SCHRÖDINGER E., What is Life? The Physical Aspects of the Living Cell, Cambridge University Press, Cambridge 1944 (trad. it. Che cos'è la vita?, Adelphi, Milano 1995). Cfr. MURPHY M. P., O'NEILL L. A. J. eds, What is Life? The Next Fifty Years. Speculations on the Future of Biology, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Lo stato di equilibrio termodinamico per un vivente corrisponde, infatti, alla morte dell'individuo biologico: quando infatti un corpo morto, non produce più calore col metabolismo, si pone in equilibrio con la temperatura ambientale e si raffredda. [23] ARISTOTELE, De anima, II, 1, 403 b 16. [24] Cfr. TOMMASO D'AQUINO, De potentia, q. 10, a. 1: "Est autem duplex operatio. Quaedam quidem transiens ab operante in aliquid extrinsecum ... Alia vero est operatio non transiens in aliquid extrinsecum, sed manens in ipso operante ... Primum autem operationum genus commune est viventibus et non viventibus; sed secundum operationum genus est proprium viventis". [25] BASTI G., Filosofia dell'uomo, 113. Uno di più affascinanti tentativi di dare "una interpretazione ontologica dei fenomeni biologici" in: JONAS H., The Phenomenon of Life. Toward a Philosophical Biology, New York 1966 (trad. it.Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Torino 1999, cit. pag. 3). [26] La forma sostanziale di ogni vivente è detta anima dagli Antichi, ma i Moderni riservano questo nome all'anima umana. Con l'eccezione dell'anima umana, le forme sostanziali degli enti corporei si corrompono con la corruzione delle parti materiali che esse organizzano. [27] Cfr. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 18, art. 3 in corpore. [28] Secondo Tommaso è possibile passare dalla materia inerte alla più semplice materia vivente per generazione spontanea perché la causalità generale, derivante da Dio attraverso le cause seconde (i cieli della cosmologia medievale), può produrre il salto ontologico nella materia, se questa è già disposta ad accogliere la formalità sopravveniente. Cfr. S. Th. I, q. 91, art. 2, ad 2: "Sufficit autem virtus caelestium corporum ad generandum quaedam animalia imperfectiora ex materia disposita" (cfr. S. Th. I, q. 45, art. 8, ad 3; I, q. 71, art. un., ad 1). [29] FREUD S., Una difficoltà della psicanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1976, vol. 8, 660. [30] BERNARD C., Introduction à l'étude de la médecine expérimentale, Paris 1865. Cfr. FEDERSPIL G., SCANDELLARI C., L'evoluzione storica della metodologia in medicina, "Federazione 66 Medica" 44 (1991), 481-­‐490; GRMEK, M. D.,Raisonnement expérimentale et recherches toxicologiques chez Claude Bernard, Paris-­‐Genève 1973 (trad. it. Psicologia ed epistemologia nella ricerca scientifica. Claude Bernard: le sue ricerche tossicologiche, Milano 1976). [31] CHANGEUX J.-­‐P., L'homme neuronal, Librairie Arthème Fayard, Paris 1983 (trad. it. L'uomo neuronale, Feltrinelli, Milano 1983). [32] Cfr. CHURCHLAND P. M., Matter of Conscioussness. A Contemporary Introduction to the Philosophy of Mind, MIT Press, Cambridge (Mass) 1984; CHURCHLAND P. S., Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind-­‐Brain, MIT Press, Cambridge (Mass) 1986. [33] Si veda, in questo senso: CRICK F., The Astonishing Hypothesis. The Scientific Search for the Soul, Touchstone/Simon and Schuster, New York 1994 (trad. it. La scienza e l'anima, Rizzoli, Milano 1994). [34] CHALMERS D. J., The Puzzle of Conscious Experience, "Scientific American" 273 (1995), 80-­‐
86. [35] DENNETT D., Consciousness Explained, Little, Brown and Company, Boston 1991 (trad. it. Coscienza. Che cosa è, Rizzoli, Milano 1993); ID., Kinds of Minds (trad. it. La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza,Milano1997). [36] DAMASIO A. R., Mente, coscienza e cervello, "Le Scienze" 63 (1999), 101. [37] ECCLES J. C., POPPER K. R., The Self and its Brain, Berlin-­‐ New York 1977 (trad. it. L'io e il suo cervello, Roma 1981); ECCLES J. C., Evolution of the Brain. Creation of the Self, Routledge-­‐
London-­‐New York 1989 (trad. it. Evoluzione del cervello e creazione dell'io, Roma 1990). [38] PENROSE R., The Emperor's New Mind.. Concerning Computers, Minds, and the Laws of Physics, Oxford University Press, Oxford 1989 (trad. it. La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano 1992); ID., Shadows for the Mind. An Approach to the Missing Science of Conscioussness, Oxford 1994 (trad. it. Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Milano 1996). [39] PUTNAM H., Minds and Machines, in HOOK S. ed., Dimensions of Mind, New York 1960. [40] CHURCHLAND P., SEJNOWSKI T. R., The Computational Brain. Models and Methods on the Frontiers of Computational Neuroscience, MIT Press, Cambridge (Mass) 1992 (trad. it. Il cervello computazionale, Il Mulino, Bologna 1995); EDELMAN G. M., Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York 1987 (trad. it. Darwinismo neurale: la teoria della selezione dei gruppi neurali, Einaudi, Torino 1996). [41] Il problema del Sé viene tradizionalmente risolto postulando l'esistenza di un homunculus pensante che sarebbe il soggetto ultimo dell'autocoscienza, ma questo sposta il problema dal cervello all'homunculus e non tiene in nessun conto il ruolo della corporeità e delle emozioni nell'elaborazione intellettuale. Cfr. DAMASIO A. R., Descartes' Error, Emotion, eason and the Human Brain, Grosset-­‐Putnam, New York 1994 (trad it. L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1996). [42] Cfr. DAMASIO A. R., The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciuosness, Harcourt Brace 1999; EDELMAN G. M., Bright, Air, Brilliant Fire. On the Matter of the Mind, Basic Books, New York 1992 (trad. it.Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993); KOSSLYN S., Image and Brain. The Resolution of the Imagery Debate, Boston 1994. Partendo dal presupposto che l'autocoscienza è autorappresentazione, si riduce un problema metafisico a un problema gnoseologico. L'autocoscienza è invece frutto della reditio completa dello spirito, resa possibile proprio perché lo spirito è, per definizione, immateriale e inesteso. Per lo sviluppo dell'argomento si veda: BASTI G.,. Il rapporto mente-­‐corponella filosofia e nella scienza, Studio Domenicano, Bologna 1991, 23-­‐61. [43] Sull'uso delle metafore: KUHN T. S., La metafora nella scienza, Milano 1983. [44] BASTI G., Il rapporto mente-­‐corpo, 106. 265. 67 [45] Sulla storia del rapporto uomo-­‐animale: BONDOLFI A., Rapporti uomo-­‐animale. Storia del pensiero filosofico e teologico, "Rivista di Teologia Morale" 21 (1989), 57-­‐77; 107-­‐123 (ricca selezione bibliografica); CASTIGNONE S., LANATA G. curr., Filosofi e animali nel mondo antico, Pisa 1994. [46] Il tema del dominium terrae é di solito connesso con la superiorità ontologica dell'uomo, creato a immagine del Signore: CONIGLIARO F., L'interpretazione del dominium terrae, in PUCCI R., RUGGIERI G. curr., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, 167-­‐201; KROLZIK U., Die Wirkungsgeschichte von Genesis 1, 28, in ALTNER G. cur., Ökologische Theologie. Perspektiven zur Orientierung, Kreuz Verlag, Stuttgart 1989, 149-­‐163 (trad. it. "Dominium terrae". Storia di Genesi 1, 28, "Rivista di Teologia Morale" 22 (1990), 257-­‐
267). Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae, n. 42, in AAS 87 (1995), 446. [47] Si noti, però, che il macchinismo cartesiano è stato recentemente rivisitato: COTTINGHAM, A Brute to the Brutes? Descartes and the Treatment of Animals, "Philosophy" 53 (1978), 551-­‐558. MARCIALIS M. T., La questione dell'anima delle bestie ovvero la razionalità senza soggetto, "Rivista di Storia della Filosofia" (1993), 83-­‐100. [48] Per un primo approccio: BATTAGLIA L., Etica e diritti degli animali, Roma-­‐Bari 1997; CASTIGNONE S. cur., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, Bologna 19882; REGAN T., P. SINGER eds., Animal Rights and Human Obligations, Englewood Cliffs 1976 (trad. it., Diritti animali, obblighi umani, Torino 1987); SINGER P. ed., In Defence of Animals, Oxford 1985 (trad. it. In difesa degli animali, Roma 1987). [49] Cfr. ALLEN C., BEKOFF M., Il pensiero animale, Milano; DENTON D., The Pinnacle of Life. Consciousness and Self-­‐Awareness in Humans and Animals, St. Leonards (Australia) 1993; GRIFFIN D. R., The Question of Animal Awareness, New York 1976 (trad. it. L'animale consapevole, Torino 1979); VALLORTIGARA G., Altre menti. Lo studio comparato della cognizione animale, Bologna 2000. [50] Questa posizione è stata sviluppata in due studi molto discussi: RACHELS J., Created from Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford-­‐New York 1990 (trad. it. Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Milano 1996); SINGER P., Rethinking Life and Death 1995 (trad. it. Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano 1996). [51] Una sintesi storico-­‐teologica: MOLARI C., Darwinismo e teologia cattolica, Roma 1984. Si veda il numero monografico di "Concilium" 36 (2000), 1 su Evoluzione e fede. Il 24-­‐ 10-­‐1996, il Santo Padre ha inviato una Lettera allaPontificia Accademia delle Scienze che contiene un'apertura all'evoluzionismo moderato. Si vedano i commenti: MURATORE S., Magistero e darwinismo, "Civiltà Cattolica" 148 (1997), I, 141-­‐145; VILLANUEVA J., Una riabilitazione dell'evoluzionismo? Elementi per un chiarimento, "Acta Philosophica" (1998), 127-­‐148. [52] RAHNER K., OVERHAGE P., Das Problem der Hominisation, Freiburg 19632 (trad. it. Il problema dell'ominizzazione, Brescia 1969). [53] Vedere, oltre ovviamente ai testi del gesuita francese, alcuni studi d'insieme: GIBELLINI R., Teilhard de Chardin: l'opera e le interpretazioni, Brescia 19842; SMULDERS P., La visione di Teilhard de Chardin, Torino 1967. [54] Sul principio antropico: BARROW J. D., TIPLER F. J., The Anthropic Cosmological Principle, Oxford 1986; BERTOLA F., CURI U. eds., The Anthropic Principle, Cambridge 1993; BREUER R., The Anthropic Principle, Boston 1991; GALE G., Il principio antropico, "Le Scienze" (1982), 62-­‐
73; MASANI A., Il principio antropico; in COYNE G. V., SALVATORE M., CASACCI C. edd., L'uomo e l'universo, Città del Vaticano 1987, 4-­‐21; MURATORE S., L'evoluzione cosmologica e il problema di Dio, Roma 1993; RONDINARA S., Il principio antropico e l'unità dell'universo, "Nuova Umanità" 12 (1991), 39-­‐53. Critici sul valore del principio: GALLENI F., Scienza e teologia. Proposte per una sintesi feconda; Queriniana, Brescia 1992, 44-­‐51; STRAFELLA F., Le obiezioni al principio 68 antropico, in ANCONA G. cur.,Cosmologia e antropologia. Per una scienza dell'uomo, Padova 1995, 30-­‐40. [55] MURATORE S:, L'origine e l'evoluzione della vita. Puntualizzazioni epistemologiche, "Rassegna di Teologia" 38 (1997), 213. [56] GERRA G., Drogati si nasce? Percorsi nell'infanzia-­‐adolescenza prima della tossicodipendenza, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 18: "Se qualcosa di biologico dovesse realmente influenzare l'individuo nella sua pulsione verso le sostanze -­‐ conclude G. Gerra -­‐ si tratterebbe di un semplice cofattore, cioè di un componente parziale determinante il comportamento, non della causa assoluta: è facile immaginare quante possibili influenze ambientali e culturali vadano a modificare nell'uomo le spinte ricevute dalla natura e si sommino con la sua struttura biologica". [57] ANDREOLI V. et al., Tossicodipendenze, Masson, Milano 19942, 1-­‐2. [58] Per approfondire: BROVEDANI E., Progetto genoma. Aspetti tecnico-­‐scientifici, prospettive e implicazioni etiche, "Aggiornamenti sociali" 40 (1989), 487-­‐507; TRENTIN G., Progetto Genoma. Questioni etiche della conoscenza e manipolazione del patrimonio genetico, "Credere oggi" 17 (1997), 4, 37-­‐54; WILKIE T., La sfida della conoscenza. Il progetto genoma e le sue implicazioni, Milano 1995; ZUCCO F., Responsabilità etica e ricerca scientifica: il caso della mappatura del genoma, in DI MEO A., MANCINA C. curr., Bioetica, Laterza, Bari 1989, 217-­‐230 [59] Sul rapporto fra sociobiologia e morale: DE FEO A. M., L'etologia di K. Lorenz e la sociobiologia di E. O. Wilson. Due paradigmi per un'etica naturale evolutiva, Roma 1990. [60] E. O. WILSON, Sociobiology. The New Synthesis, Cambridge (Mass.) 1975 (trad. it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna 1979). [61] DAWKINS R., The Selfish Gene, Oxford 1976 (trad. it. Il gene egoista, Mondadori, Milano 1995, 4-­‐5). [62] Ibid., 5. [63] La tesi corrente è che la trasmissione dei dati culturali (incluse le norme morali) avviene in modo lamarckiano, cioè istruttivo, e non attraverso meccanismi selettivi di tipo darwiniano, ma si stanno facendo strada modelli biologici di trasmissione della cultura: CHANGEUX J.-­‐P., Ragione e piacere, Milano 1995; CHANGEUX J.-­‐P-­‐, RICOEUR P., La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Milano1999; SPERBER D., Il contagio delle idee, Milano 1999. [64] CONC. EC. VATICANO II, Cost. Past. Gaudium et Spes, n. 14. [65] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Veritatis splendor, 6-­‐8-­‐1993, n. 48, in AAS 85 (1993), 1172. [66] La distinzione fra Körper e Leib, già presente in A. Schopenhauer (1788-­‐1860), si trova nel cuore della filosofia di E. Husserl (1859-­‐1938) e fu variamente ripresa dalla sua scuola fenomenologica e dall'esistenzialismo. Vedere: BÜCHLI E.,Corporeità e conoscenza. Nota sulla posizione della filosofia fenomenologica del Novecento, in AAVV, Il corpo in scena, Milano 1983, 69-­‐85; FERGNANI F., Il corpo vissuto, Milano 1979. [67] GATTI G., Morale sessuale, educazione dell'amore, ElleDiCi, Leumann (To) 1988, 50. [68] GILSON E., Elements of Christian Philosophy, New York 1960 (trad. it. Elementi di filosofia cristiana, Milano 1964, 297-­‐323); LOBATO A. cur., L'anima nell'antropologia di S. Tommaso, Milano 1987; PEGIS A. C., St.Thomas and the Problem of the Soul in the Thirteenth Century, Toronto 1934; VANNI-­‐ROVIGHI S., L'antropologia filosofica di S. Tommaso d'Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1965; VERBEKE G., L'unité de l'homme: St. Thomas contre Averroé, in RPhL58 (1960), 220-­‐249; WEBER E. H., L'homme en discussion à l'Université de Paris en 1270. La controverse de 1270 à l'Université de Paris et son retentissement sur la pensée de St.Thomas d'Aquin, Paris 1970. [69] RAHNER K., Zur Theologie des Symbols, in Schriften zur Theologie/4, Einsiedeln 1960, 305. [70] Soprattutto vedere: RAHNER K., Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin,München 19643; ID., Zur Theologie des Todes, Quaestiones disputatae 2, 69 Freiburg 19632 (trad it. Sulla teologia della morte, Brescia 19662); ID., Die Einheit von Geist und Materie im christlichen Glaubensverständnis, in Schriften zur Theologie/6, Einsiedeln 1965, 185-­‐
214 (trad. it. L'unità vigente tra spirito e materia nella concezione cristiana, in Nuovi saggi/1, Roma 1968, 257-­‐295). [71] RAHNER K., Teologia dell'esperienza dello Spirito, Brescia 1978, 515. [72] Sul rapporto fra individualità e organismo: JONAS H., I fondamenti biologici dell'individualità, in ID., Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Bologna 1991, 277-­‐302. [73] Cfr. SGRECCIA, Corpo e persona, in RODOTÀ S. cur., Questioni di bioetica, Laterza, Bari 1993, 113-­‐122. [74] Risultano perciò infondate le accuse mosse alla bioetica cattolica sulla pretesa incoerenza fra i paradigmi interpretativi usati per illustrare l'inizio e la fine della vita. Cfr. MORI M., Aborto e trapianto: un'analisi filosofica degli argomenti addotti nell'etica medica cattolica recente sull'inizio e sulla fine della vita, in MORI M. cur., Questioni di bioetica, Milano 1988, 103-­‐148. [75] Sull'inizio e la fine della vita: PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998; WHITE R. J. et al. eds, The Determination of Brain Death and Its Relationship to Human Death, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992. [76] TOMMASO D'AQUINO, Quaestio disputata De Anima, 9, resp. ad 6. [77] ID., Summa Theologiae I, q. 76, art. 7 ad 2. Cfr. ARISTOTELE, De anima II, 1, 412 a 10. 22-­‐30. [78] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Ai Partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla "Determinazione del momento della morte", 14-­‐12-­‐1989, Insegnamenti, vol. 12/2, 1527: [La morte] "sopravviene quando il principio spirituale che presiede all'unità dell'individuo non può più esercitare le sue funzioni sull'organismo e nell'organismo i cui elementi, lasciati a se stessi si dissociano. Certo questa distruzione non colpisce l'essere umano intero. La fede cristiana -­‐ e non solo essa -­‐ afferma la persistenza, oltre la morte, del principio spirituale dell'uomo". [79] TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, ad 4, concl. [80] PRINI P., Il corpo che siamo, Torino 1991, 57. [81] GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor, n. 50, in AAS 85 (1993), 1173-­‐1174. Cfr. CONGR. DOTTR. FEDE, Istruz.Donum Vitae, 22-­‐2-­‐1987, Introduzione, 3, in AAS 80 (1988), 74. Sul tema delle inclinationes naturales vedere PINCKAERS S., Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Milano 1992, 468-­‐532 (con ampia bibliografia). [82] GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor, n. 50. Cfr. LUCAS LUCAS R., Natura e libertà, in LUCAS LUCAS R. ed.,"Veritatis Splendor". Testo integrale e Commento filosofico-­‐teologico tematico, Cinisello Balsamo 1994, 268-­‐286; VALORI P., La "natura" norma della moralità, "Aquinas" 27 (1984), 317-­‐325. Uno status quaestionis sul tema della legge naturale: CHIAVACCI E., Legge naturale, in COMPAGNONI F. et al., Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, 634-­‐647. [83] LUCAS LUCAS R., Fondazione antropologica dei problemi bioetici, "Gregorianum" 80 (1999), 697-­‐758 (cit. p. 702). [84] PLATONE, Protagora, 321 C. [85] ORTEGA Y GASSET J., Meditaciòn de la técnica (1939), in Obras completas, t. 5, Madrid 1970, 317-­‐375. [86] ALSBERG P., Das Menschheitsrätsel, Dresden 1922. [87] GEHLEN A., Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, 1940 (trad. it. L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983); ID., Die Seele im technischen Zeitalter, 1957 (trad. it. L'uomo nell'era della tecnica, Milano 1984). Cfr. FADINI U., Antropologia filosofica, in ROSSI P. dir., La Filosofia, vol. 1, Torino 1995, 514-­‐520. 70 [88] BUCHANAN J. M., Natural and Artifactual Man, in ID., What Should Economists Do?, Indianapolis 1979, 94: "We are, and will be, at least in part, that which we make ourselves to be. We construct our own beings, again within limits. We are artifactual ...". [89] Ibid., 95: "For the extent that individuals are rigidly bound to culturally evolved rules of conduct or modes of behavior, these elements would make up part of natural man, or, better stated, nonartifactual man". [90] Un esempio è la bioetica globale professata dall'antropologo B. Chiarelli, per il quale la bioetica è "una scienza biologica e naturalistica con rilevanze ecologiche", in cui il criterio etico decisivo è il mantenimento della configurazione ecologica empiricamente indagabile: CHIARELLI B., Bioetica globale, Pontecorboli, Firenze 1993. [91] L'aporia o legge di Hume fu evidenziata dall'empirista scozzese in A Treatise of Human Nature (book 3, part 1, sect. 1) e fu riproposta col rigore della filosofia analitica da MOORE G. M., Principia Ethica, Cambridge 1903. Cfr. CARCATERRA G., Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall'essere, Milano 1969; SCARPELLI U., Etica senza verità, Bologna 1982. [92] Ripercorriamo l'illuminante itinerario di DEMMER K., Deuten und handeln. Grundlagen und Grunfragen der Fundamentalmoral, Freiburg 1985 (trad. it. Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, Cinisello Balsamo 1989, 125-­‐161); ID., Identità personale e integrità biologica, in AAVV., La mente umana, Roma 1984, 217-­‐239; si vedano anche le riflessioni, nella linea dell'antropologia trascendentale: RAHNER K., Zum Problem der genetischen Manipulation, in Schriften zur Theologie/8, Einsiedeln 1967, 386-­‐327 (trad. it. Il problema della manipolazione genetica, in Nuovi Saggi/3, Roma 1969, 371-­‐373). [93] DEMMER K., Interpretare, 129. 71 FIORENZO FACCHINI
Evoluzione, emergenza e trascendenza dell'uomo Lo studio dell'uomo, nelle sue origini e nel suo sviluppo, dispone di una documentazione fornita da vari settori della scienza, particolarmente dalla paleontologia, dalla preistoria, dalla biologia evolutiva. La visione antropologica attuale, sviluppatasi nel quadro delle scienze della natura, porta a riconoscere nell'uomo, sul piano fenomenologico, delle peculiarità che non si ritrovano in altre specie e non rientrano negli orizzonti della scienza empirica, per cui non sarebbe possibile spiegarle con i parametri di riferimento in uso nella scienza. In particolare il comportamento umano fa emergere schemi e modelli che non si ritrovano in altre specie, la cui interpretazione si sviluppa e va ricercata in altro ordine di conoscenze, come quello propriamente filosofico. Si può parlare legittimamente, oltre che di evoluzione, di emergenza dell'uomo in un senso anche più ampio di quello riferibile a qualunque specie e, ancora, di trascendenza dell'uomo, per quanto si ricava da comportamenti che vanno oltre la sfera strettamente biologica evolutiva, sia considerata sul piano fisico che su quello sociale. L'identità dell'uomo sotto il profilo biologico e culturale, presenta aspetti che appaiono strettamente congiunti nel passato e nel presente e rappresentano il background per qualunque considerazione sull'uomo. EVOLUZIONE UMANA Per l'uomo, come per le altre specie, si ammette una evoluzione da forme precedentiche hanno preparato la sua comparsa sulla terra. L'evoluzione, come fenomeno caratteristico dei viventi, è suggerita da varie osservazioni relative sia al passato che al presente. Lo studio dei fossili, l'anatomia comparata, la genetica molecolare mettono in evidenza caratteristiche biologiche di specie estinte e di specie viventi che possono spiegarsi ammettendo una parentela, cioè una evoluzione. Come ha rilevato Giovanni Paolo II nel messaggio inviato alla Pontifica Accademia delle Scienze nell'ottobre del 1996, si può parlare non più di ipotesi, ma di teoria evolutiva "progressivamente impostasi all'attenzione dei ricercatori a seguito di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere". La loro coerenza con il supposto fenomeno evolutivo giustifica la sua accettazione nel campo scientifico. Ciò non significa che noi conosciamo tutti i meccanismi, le modalità, i passaggi dell'evoluzione biologica. La spiegazione darwiniana secondo la sintesi moderna attraverso l'interazione tra cambiamenti a livello genetico e selezione naturale operata dall'ambiente deve avere giocato un ruolo importante se non decisivo. Essa è sostenuta da molti studiosi (Simpson, Monod, Jacob, Mayr, Dobzhansky, Ayala, ecc.), sulla base di quanto si osserva a livello microevolutivo, come unica causa di tutto il processo evolutivo. Ayala riconosce alla selezione naturale un ruolo di "creazione" delle diverse specie: La selezione naturale è un processo creativo che può rendere ragione della comparsa di vere novità" (1). Tuttavia tale spiegazione non viene ritenuta da altri studiosi come sufficiente per rendere ragione della formazione delle grandi direzioni evolutive in tempi relativamente brevi e per la crescita della complessità delle strutture viventi. Grassé (1979) afferma: "Occorre cercare fuori dalla mutazione la fonte del flusso evolutivo... fare appello a un meccanismo diverso dalla mutazione è imperativo per tutti i sistemi che pretendono di spiegare l'evoluzione".(2) 72 In ogni caso occorre distinguere tra evoluzione biologica e darwinismo. L'evoluzione è una teoria che sostiene un processo evolutivo, il darwinismo è una spiegazione sui meccanismi di tale processo che può essere ritenuta non sufficiente anche da chi ammette un'evoluzione. Uno dei punti di grande discussione rimane quello di un disegno generale dell'evoluzione, un problema però che appare più di ordine filosofico che scientifico. In ogni caso, anche in una visione improntata a eventi casuali non può escludersi che un disegno possa essersi comunque realizzato. (3) Pur nella inevitabile incompletezza, il paradigma evolutivo viene utilizzato comunemente nella biologia moderna, per la quale costituisce una chiave interpretativa di fenomeni passati e attuali. Secondo Ayala "Darwin ha completato la rivoluzione copernicana estendendola al mondo dei viventi" (4). Anche per l'uomo si può affermare che l'evoluzione rappresenta la spiegazione più plausibile della documentazione fossile che si possiede, come pure delle somiglianze e delle differenze a livello morfologico e biomolecolare rispetto agli altri viventi, in particolare rispetto ai Primati nel cui alveo si ammette si sia formata la prima forma umana. Ciò può essere ritenuto, anche se gli sviluppi filetici che hanno portato alla forma sono non ancora del tutto chiariti. L'interazione fra mutazioni genetiche e ambiente ha segnato il cammino evolutivo verso l'uomo e dopo la comparsa dell'uomo, ma vi sono trasformazioni in tempi relativamente brevi per le quali non è facile trovare una spiegazione con il semplice modello della teoria sintetica dell'evoluzione. Basti pensare al processo di cerebralizzazione che ha portato in poco più di due milioni di anni a triplicare le dimensioni del cervello. La comparsa della forma umana è stata dunque preparata da un lungo processo evolutivo sviluppatosi sul ceppo dei Primati. A qualunque livello morfologico si ponga la soglia umana si osserva una serie di trasformazioni che possono essere interpretate come una preparazione alla comparsa della forma umana. E' nell'ambito degli Ominoidei del Terziario, circa 4-­‐5 milioni di anni fa, che si osservano forme, oggi non più esistenti, caratterizzate da un tipo di locomozione non legato all'ambiente forestale, ma a un ambiente aperto, e tendente al raddrizzamento della colonna vertebrale e al bipedismo (5). E' stato osservato che l'evoluzione incomincia dai piedi (Leroi-­‐Gourhan); forse si potrebbe dire che incomincia dal la colonna vertebrale, come ha rilevato Coppens (6). Adattamenti in questa direzione sono presenti negli Australopiteci di 3-­‐4 milioni di anni fa, scoperti in Etiopia e Kenya (Australopithecus ramidus, Australopithecus anamensis, Australopithecus afarensis), ai quali viene riconosciuta una locomozione bipede, anche se non perfetta. Sono state descritte numerose specie di Australopiteci (ramidus, anamensis, afarensis, bahr-­‐el-­‐gazalensis, africanus, robustus, Boisei, aethiopicus,), vissute in Etiopia, in Kenya, Tanzania, Chad, Sud Africa, raggruppabili in forme arcaiche, gracili e robuste (7). La relazione filetica degli Australopiteci con le forme più antiche del genere Homo, viene vista diversamente dagli studiosi. La forma più antica del gen. Homo, da individuarsi in Homo habilis, sarebbe da ricollegarsi all'A. arcaico (o afarense) o all'A. africano o a una forma piuttosto antica (A. anamense di circa 3,9 milioni di anni fa) che sembra più chiaramente orientata al bipedismo nella morfologia degli arti. (8) La vita degli Australopiteci si svolgeva essenzialmente in ambiente aperto, ma per alcuni, quelli più antichi, come le forme arcaiche, doveva esserci grande familiarità con l'ambiente arboreo, come si ricava dalla conformazione degli arti superiori. Sono state segnalate pietre scheggiate trovate in giacimenti di Australopiteci, ma la scheggiatura non era praticata in modo sistematico e progressivo, come si avrà con le forme umane. 73 Homo habilis viene identificato in un Ominide vissuto 2-­‐2,5 milioni di anni fa, in cui alcune caratteristiche morfologiche e funzionali (bipedismo meglio definito, aumento della capacità cranica, presenza di aree cerebrali deputate al linguaggio articolato) come pure alcuni comportamenti (lavorazione sistematica della selce, organizzazione del territorio) inducono molti Autori a ritenerli l'espressione più antica dell'umanità (9). Anche il livello morfologico di Homo habilis presenta una certa variabilità. Vi sono forme meno cerebralizzate (da 670 a 720 cc), come quelle di Olduvai di circa 1,8 milioni di anni fa, e altre più cerebralizzate (circa 800 cc) , come Homo habilis del Turkana di due milioni di anni fa, per il quale è stata proposta la denominazione "Homo rudolfensis". Il livello di Homo habilis, o più genericamente del gen. Homo, è documentato due milioni-­‐due milioni e mezzo di anni fa in altre regioni dell'Africa, oltre alla Tanzania e al Kenya (Etiopia, Sud Africa, Malawi), anche se non tutti i reperti riferiti a tale livello accompagnati da segni di cultura. Homo habilis evolve con il tempo nell'Africa orientale in una forma caratterizzata da una maggiore cerebralizzazione e da un progresso nella fabbricazione delle industrie litiche e nella organizzazione del territorio. E' il livello definito comeHomo erectus (le più antiche forme africane sono denominate modernamente Homo ergaster) ed è individuabile intorno a 1,6 milioni di anni fa in Africa. Esso si diffonde ed evolve durante centinaia di migliaia di anni in Europa e in Asia, dove pare si sia portato in epoca molto antica (oltre un milione di anni fa). In Europa i più antichi giacimenti che hanno fornito reperti sono segnalati a Dmanisi, in Georgia (tra 1,8 e 1,6 milioni di anni fa), in Spagna a Atapuerca (800.000anni fa), a Ceprano, nel Lazio (800.000 anni fa). Le antiche forme di erectus europeo vengono ricollegate a Homo ergaster dell'Africa (a meno che non sia giunto prima Homo habilis) e vengono considerate antenati dei Neandertaliani europei (se non anche dell'Uomo moderno) attraverso l'Uomo di Heidelberg. Le forme asiatiche più antiche sono rappresentate dai Pitecantropi e dal Sinantropo. La continuità evolutiva tra Homo habilis e Homo erectus è tale da rendere sempre meno fondata la loro distinzione a livello di specie. Altrettanto dicasi per gli ultimi per le forme di erectus di 200.000-­‐100.000 anni quando si assiste a una evoluzione verso l'uomo moderno o Homo sapiens in Africa. La distinzione delle specie fossili in habilis, erectus esapiens ha sempre più un valore classificatorio più che biologico, perché si tende a vedere in esse stadi morfologici (Jelinek, Coppens, ecc.) (10). L'Uomo anatomicamente moderno (Homo sapiens sapiens) si diffonde dall'Africa in tutto l'Antico Continente, probabilmente con qualche mescolanza non di grande rilievo con rappresentanti di erectus, specialmente nell'Asia sudorientale e nell'Europa orientale. Il popolamento dell'Australia da parte di Homo sapiens risale a circa 50.000 anni fa, quello dell'America a vari momenti dell'ultima glaciazione (tra 35.000 e 10.000 anni fa), specialmente attraverso lo stretto di Behring. Come già accennato, si ammette per le prime forme umane un unico ceppo, ricollegabile a Primati non umani e oggi individuabile nell'Africa, ma per l'umanità attuale (Homo sapiens sapiens) si fronteggiano due teorie: essa potrebbe essere collegata a forme di erectus evolutesi parallelamente nei diversi continenti (ipotesi della continuità) oppure a forme provenienti dall'Africa 100-­‐200.000 anni (ipotesi della sostituzione). Quest'ultima gode attualmente di maggiore favore, anche se vari Autori ammettono qualche incrocio con forme precedenti, come si ricaverebbe da reperti paleontologici di alcune regioni (Europa orientale, Est asiatico) (11). Le ricerche sul DNA antico in reperti neandertaliani suggerirebbero che essi non hanno contribuito alla formazione del genoma dell'uomo moderno. Sempre sul piano biomolecolare le ricerche sui Primati attuali non umani e sull'uomo suggeriscono che la differenziazione dei Primati antropomorfi asiatici (Orango) dal ceppo africano risalga a 10-­‐12 milioni di anni fa; più recente, intorno a 5-­‐6 milioni di anni, sarebbe la separazione della linea umana da quella che ha 74 portato alle Antropomorfe africane. Tra i dati biomolecolari e quelli paleontologici vi è un certo accordo sull'ordine dello sviluppo filetico, minore accordo sui tempi di separazione delle diverse linee (12). EMERGENZA DELL'UOMO L'evoluzione umana è caratterizzata dalla emergenza della forma umana. Bene individuabile nelle fasi più recenti (Homo sapiens), la sua identificazione è oggetto di discussione per le fasi più antiche. Gli inizi sono avvolti nell'oscurità. "L'uomo entra in punta di piedi nella scena della terra, notava Teilhard de Chardin -­‐ quando lo vediamo è già una folla." Il vero problema è costituito dalla continuità e dalle discontinuità. Entrambe debbono essere ammesse. Si può essere più attenti all'una o alle altre. Ciò spiega perché sulla individuazione della soglia umana non vi è universalità di vedute, anche se la maggior parte dei paleoantropologi (Tobias, Piveteau, Jelinek, Coppens, etc.) è incline e riconoscere nel livello diHomo habilis le più antiche forme umane (13). Al di là del dibattito sull'epoca della comparsa dell'uomo ci si può chiedere che cosa caratterizzi la forma umana sul piano biologico e su quello fenomenologico, in base cioè alla documentazione che può essere fornita dai fossili. Sul piano biologico, cioè in base allo sviluppo morfologico-­‐funzionale, oltre al bipedismo, deve esserci una certa organizzazione cerebrale che consenta il linguaggio e attività psichiche di livello intellettivo umano. Le dimensioni del cervello hanno la loro importanza (alcuni Autori individuano in 700-­‐750 cc il "Rubicone" cerebrale per l'uomo). L'esistenza di un legame tra psichismo e organizzazione cerebrale è difficile da contestare almeno a livello di specie. Del resto ha osservato Bergson: " La coscienza (noi diremmo lo psichismo) non sgorga dal cervello, ma cervello e coscienza si corrispondono perché misurano ugualmente, l'uno grazie alla complessità della propria struttura e l'altra grazie all'intensità del suo risveglio, la quantità di scelte di cui l'essere vivente dispone" (14). La cerebralizzazione è stata proposta da Teilhard de Chardin e da altri come un parametro per seguire l'evoluzione: "La differenziazione nervosa si distacca come trasformazione significativa. Essa dà un senso e per ciò stesso contemporaneamente prova che esiste un senso nell'evoluzione" (15). Tuttavia la individuazione di quella che può essere ritenuta soglia cerebrale minima per l'uomo resta assai problematica. Secondo Piveteau (1993): "in una simile ricerca il criterio anatomico può essere solo un fattore di indecisione: il criterio psichico è certamente quello preponderante" (16). In ordine a ciò resta il fatto che la differenziazione delle aree cerebrali connesse con il linguaggio (area di Broca e Wemicke), può assumere un evidente interesse. Ora tali aree sono state individuate nell'endocranio di Homo habilis (Falk, Tobias) (17). Sul pano comportamentale occorre guardare alle manifestazioni che possono essere interpretate come cultura. Dove c'è cultura c'è l'uomo. Ma che cosa caratterizza il comportamento culturale? Il comportamento culturale, in qualunque livello evolutivo lo si consideri, deve avere due caratteristiche essenziali che appaiono strettamente connesse fra loro e rivelano un'intelligenza astrattiva: la progettualità e la simbolizzazione. Progettualità significa capacità di agire intenzionalmente mediante la predisposizione di determinati atti per raggiungere un fine. Progettualità significa originalità, capacità innovativa, sia che si esprima nella lavorazione della selce, che nella organizzazione del territorio o nella manipolazione degli alimenti. È' quello che avviene nella tecnologia. La intenzionalità rivela la 75 nozione del tempo, perché il soggetto elaborando immagini del passato si proietta sul futuro che riesce a prefigurare. Anche nel mondo animale si ritrovano delle tecniche, a volte di elevata perfezione, ma sono regolate biologicamente e non presentano innovazioni e progressi. Non si notano i segni di una capacità astrattiva capace di proiettarsi sul futuro. Nelle sue manifestazioni a carattere intenzionale l'uomo rivela anche capacità di scelta e quindi di autodeterminazione, di libertà. Un aspetto che lo colloca su un piano di valori e quindi morale. La simbolizzazione è l'altra caratteristica del comportamento umano in quanto culturale. Essa consiste nell'attribuire a un segno, a un suono o a un oggetto, un valore, un significato che va oltre il segno. Mediante la simbolizzazione vengono arricchite di significato e di valore le realizzazioni della tecnica. Il contenuto simbolico è evidente quando ci si trova di fronte a rappresentazioni artistiche o di significato religioso (simbolismo spirituale) o quando ci si riferisce al linguaggio umano e alle varie forme di comunicazione sociale (simbolismo sociale). Ma anche ai prodotti della tecnica si può riconoscere un valore simbolico. Ciò che viene ottenuto con la tecnica, oltre a rispondere a un progetto, assume un valore di segno o di richiamo a qualche utilizzazione o impiego. Lo strumento rimanda alla funzione alla quale è destinato e assume un significato nell'immaginario dell'uomo. I prodotti della tecnica vengono quindi ad assumere un valore simbolico. Si può parlare di simbolismo funzionale. Homo symbolicus è tale in quanto uomo, creatore di strumenti e di arte, capace di comunicare il proprio mondo interiore in vari modi (18). Vi sono buoni argomenti per sostenere che le prime manifestazioni a carattere culturale si siano avute con Homo habilis. Le espressioni culturali che si osservano per la fase di Homo habilis paiono caratterizzare, sia pure in forma elementare e semplice, il comportamento e l'ambiente di vita. Sono segnalate anche pietre scheggiate o utilizzate dagli Australopiteci, ma il significato che esse hanno nel contesto di vita, è molto diverso da quello delle forme del gen. Homo di 2-­‐1,5 milioni di anni fa, come sono diverse da quelle dei Primati attuali. Per questi le realizzazioni strumentali non sono essenziali per la sopravvivenza e il rapporto con l'ambiente (Kitahara Frisch, 1984) (19). Il livello umano dell'artefatto è dato dal progetto che esso esprime e dal significato che assume nel contesto di vita e per la sopravvivenza. Coppens (1991), pur ritenendo l'Australopiteco capace di fabbricare utensili, riconosce che tale fabbricazione "aveva un carattere anedottico". "Con l'uomo gli strumenti diventano permanenti, numerosi, diversificati". 20). Ed è proprio per questo sviluppo della cultura che l'uomo è andato avanti nella evoluzione e gli Australopiteci si sono estinti. Alcuni studiosi sostengono che la nascita del pensiero simbolico si sia avuta solo con l'uomo anatomicamente moderno ( oHomo sapiens sapiens) intorno a 40.000-­‐30.000 anni fa, quando vengono segnalate le prime manifestazioni dell'arte mobiliare e parietale (21). Altri prendono la pratica della sepoltura, risalente al Paleolitico medio e superiore (da circa 90.000 anni fa) come segno di psichismo umano (22). Leroi-­‐Gourhan proponeva la distinzione tra pensiero tecnico, che peraltro riconosceva anche agli Australopiteci, e pensiero simbolico, proprio solo di Homo sapiens (23). Nell'interpretazione da noi proposta l'attitudine simbolica dell'uomo è da ritenersi connaturale con la forma umana, anche se la documentazione a noi pervenuta per le forme più antiche riguarda essenzialmente le espressioni del simbolismo funzionale. Alla sfera della simbolizzazione sono da ricondurre comportamenti intenzionali di carattere tecnologico documentati dagli strumenti, dal modo di realizzarli (scelta del materiale, tecnica impiegata) e dal significato che assumono i manufatti nel contesto di vita, come pure dall'organizzazione dello spazio abitativo o di frequentazione (es. per la caccia, per la protezione) e dalla domesticazione 76 del fuoco, documentata almeno mezzo milione di anni fa. Lo strumentario e l'organizzazione del territorio, orientati alla sussistenza e alla vita del gruppo familiare, costituiscono un sistema simbolico di relazioni che si sviluppa nel corso della storia evolutiva dell'uomo. Queste attività, praticate per lungo tempo da Homo erectus e in forma ancora elementare da Homo habilis, hanno rappresentato vere strategie adattative nel rapporto con l'ambiente (24). Mediante sistemi simbolici di comunicazione e di organizzazione l'uomo si esprime, vive e trasmette il suo immaginario. Ci troviamo di fronte a un simbolismo funzionale e sociale: Homo oeconomicus, Homo technologicus, Homo faber, in quanto Homo symbolicus. Più recenti appaiono alcune manifestazioni di simbolismo spirituale (sepolture, raffigurazioni artistiche). Va però notato che segni di simbolismo spirituale si vanno segnalando anche per epoche assai più antiche del Paleolitico superiore quando compare l'uomo anatomicamente moderno. Recentemente sono stati segnalati documenti di attività simbolica che portano più indietro nel tempo (es. un manufatto di epoca musteriana (tra 100.000 e 50.000 anni fa) trovato a Tata in Ungheria; alcuni bifacciali acheuleani trovati a Norfolk che portano al centro l'impronta di gusci di molluschi; una costola di bovide di epoca rissiana con incisioni intenzionali, un frammento di tibia di elefante trovato a Bilzinsgleben risalente a 400.000 anni fa con segni intenzionali di non facile interpretazione e altri ancora (25). TRASCENDENZA DELL'UOMO L'emergenza dell'uomo, rivelata sul piano comportamentale dalla capacità progettuale e dalla simbolizzazione, cioè dalla cultura, appare come una discontinuità rispetto al mondo fisico e biologico. Le realizzazioni culturali dell'uomo sono rivelatrici dell'umano, di ciò che è specifico e peculiare dell'uomo in quanto uomo e non in quanto animale. Sul piano filosofico si può parlare di discontinuità ontologica, perché investe la natura spirituale dell'uomo. Ma anche a livello sperimentale, come ha rilevato Giovanni Paolo II nel messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze dell'ottobre 1996, si possono cogliere "molti segni delle specificità dell'essere umano". Si tratta di osservazioni sul piano fenomenologico che si basano su manifestazioni rivelatrici dell'umano, cioè dello psichismo proprio dell'uomo, in definitiva delle espressioni della cultura. La cultura, pur inserendosi o avendo rapporti con la sfera biologica, si caratterizza come extra-­‐
biologica o meta-­‐biologica, nel senso che realizza un trascendimento rispetto alle leggi o modalità puramente biologiche del comportamento. Infatti, anche quando può avere qualche relazione con bisogni di ordine biologico, si realizza fuori da ogni determinismo biologico o comportamentale e, come è stato più sopra rilevato, è segno di libertà o autodeterminazione. Ciò risulta particolarmente evidente nelle manifestazioni del simbolismo spirituale e sociale. Secondo Dobzhansky (1969) nella storia della vita si sono avuti due grandi momenti di " crisi" nella storia dell'evoluzione in forza dei quali, pur conservandosi leggi e modalità organizzative della fase precedente, c'è stato un avanzamento oltre il piano organizzativo precedente e si è realizzato un nuovo livello. L'Autore propone di chiamare questi nuovi momenti come "trascendimenti evolutivi". Un primo trascendimento si è avuto nel passaggio dalla non vita alla vita. Non sono state rinnegate le leggi della chimica, ma si sono instaurate modalità organizzative e di rapporto con l'ambiente. "L'evoluzione cosmica trascese se stessa generando la vita". Un secondo momento di trascendimento si è avuto con la comparsa dell'uomo: "l'evoluzione biologica trascese se stessa dando origine all'uomo", afferma ancora Dobzhansky. Non vengono annullate le leggi che regolano i viventi, ma le modalità organizzative della società umana si pongono su un altro piano. "L'evoluzione organica si sovrappone a quella organica..; l'evoluzione culturale si sovrappone a quella biologica e inorganica" (26). 77 In questo modo di vedere l'evoluzione, che richiama per vari aspetti la concezione di Teilhard de Chardin di cui Dobzhansky era ammiratore, l'Autore non vuole attribuire un significato filosofico o mistico al termine trascendimento. "Trascendere significa superare i limiti, o andare al di là delle possibilità normali, abituali, già provate di un sistema". Del resto ciò non è neppure necessario, mantenendosi sempre sul piano fenomenologico o empirico, anche se una spiegazione va ricercata sul piano ontologico. A mio modo di vedere il termine trascendimento può essere impiegato correttamente per l'uomo, rimanendo sempre sul terreno scientifico, per due ragioni. 1. L'attività che l'uomo realizza mediante la cultura, anche strumentale, è fuori da schemi biologici prefissati e costanti, è posta liberamente, con modalità innovative che si basano sull'esperienza individuale ed è in grado di opporsi alla selezione naturale. Ciò però non come avviene per qualunque altra specie che fa fronte a condizioni ambientali nuove mediante le sue varianti genetiche, ma proprio contrastando con altri mezzi, non biologici, le forze selettive dell'ambiente sia difendendosi da tali forze sia modificando l'ambiente. Ciò rappresenta una novità assoluta nella storia della vita. Sotto questo aspetto lo sviluppo della specie umana rappresenta sul piano evolutivo "un paradosso", in quanto la selezione naturale avrebbe prodotto un essere capace di contrastarla con modalità che non rientrano più nel gioco naturale della competizione degli esseri viventi con l'ambiente. In questo modo la selezione naturale viene rallentata o anche annullata. Un caso unico nel mondo dei viventi, si direbbe "un?anomalia", spiegabile con l'intervento della cultura, cioè di un fattore che non si ritrova nelle altre specie (27). 2. L'altra espressione del trascendimento è data dall'arricchimento di valori e di significato, non connessi con il bisogno biologico, nelle risposte che l'uomo è in grado di realizzare a bisogni biologici, come pure da comportamenti che non sono direttamente legati alla sfera biologica, quali si osservano nelle manifestazioni del simbolismo spirituale. L'uomo è in grado di interiorizzare le risposte ai bisogni biologici attribuendo ad esse altri valori connessi con il mondo interiore della persona o con la sfera sociale. Così, l'abitazione non ha solo funzione protettiva, di rifugio, ma è simbolo e mezzo di coesione della famiglia; l'abito non è solo per la protezione del corpo, ma può avere un significato estetico, sociale o di pudore; il pasto non soddisfa solo l'esigenza del cibo, ma è momento di comunicazione; la sessualità non è solo genitalità, ma amore, ecc.. Se poi ci si riferisce alle manifestazioni del simbolismo spirituale (arte, religione, gratuità) il carattere trascendente è anche più evidente. Il trascendimento pone in una condizione di trascendenza sia che venga inteso in senso comportamentale che in senso filosofico. Ciò va affermato per l'uomo preistorico come per l'uomo attuale. In ogni caso anche rimanendo sul piano fenomenologico si deve parlare di modalità di comportamento che non sono regolate da leggi biologiche e rientrano nella sfera dell'autodeterminazione dell'uomo in base a scelte di valore. L'identità dell'uomo non è paragonabile a quella di qualunque altra specie, perché ha peculiarità che vanno oltre il piano biologico. Quanto alla spiegazione della natura di tale trascendenza e delle sue cause occorre portarsi oltre gli aspetti fenomenologici, su un piano propriamente filosofico. CONCLUSIONI L'uomo è fatto della stessa "stoffa" dell'universo e degli altri viventi: atomi, molecole, cellule. Questi elementi acquistano coscienza nell'io dell'essere umano. E' questa una novità assoluta nel mondo dei viventi. Un evento casuale la comparsa dell'uomo o finalistico? Nella visione 78 darwiniana la comparsa di ogni specie è un evento fortuito, del tutto casuale e attraverso eventi casuali si sarebbero formate le diverse linee evolutive, compresa quella dell'uomo. E' il problema del finalismo e della casualità nel processo evolutivo, sul quale si è sviluppato un ampio dibattito anche perché il problema non è soltanto scientifico, ma anche filosofico, specialmente se ci si riferisce a un disegno generale nell'evoluzione. Non sarebbe da escludere che un disegno superiore possa essersi realizzato con il concorso di eventi accidentali, nel gioco tra i grandi numeri e la casualità, come ha notato Teilhard de Chardin, o per l'intreccio di eventi genetici casuali, specialmente macromutazioni, e della selezione, operanti su programmi biologici che via via si formano (28). Certamente l'uomo appare come un evento culminante nel processo evolutivo, il punto più alto della complessità biologica, segnato dalla presenza di elementi nuovi: la coscienza, lo psichismo riflesso. Osserva Piveteau: " la nascita del pensiero riflesso non si può considerare un fatto accidentale; costituisce al contrario il tratto fondamentale della storia della vita". Lo stesso Autore continua: "L'uomo aveva creduto, un tempo, di essere il centro del mondo; poi gli sembrò di non avere nessuna misura con la natura, trovandosi sperduto in un angolo dell'universo. La paleontologia gli restituisce, in una nuova forma, una preminenza in cui non credeva più" (29). Ciò si accorda con quanto viene enunciato dal principio antropico suggerito dall'astrofisica che sembra reintrodurre nell'interpretazione scientifica dell'universo l'idea di finalismo(30). Il pensiero umano, espresso nel comportamento, costituisce un momento emergente nella evoluzione rispetto alle forme che non hanno questa attitudine e sembra farsi coscienza anche del mondo infraumano. Emergenza evolutiva e trascendenza dell'uomo sono in stretto rapporto fra loro. A prescindere dalle cause e dalle modalità, emerge ciò che trascende un certo livello, per cui il carattere trascendente del comportamento umano diventa criterio per riconoscere l'emergenza dell'uomo in ciò che lo caratterizza in modo peculiare e unico. Mentre sul piano morfologico si osserva una certa continuità evolutiva tra forme non umane e forme umane, pur nelle innovazioni, segnate soprattutto dalla cerebralizzazione, sul piano comportamentale si riconoscono aspetti di discontinuità, anche se le manifestazioni agli inizi possono apparire elementari. Per quanto si riferisce al confronto tra uomo e antropomorfe attuali non manca chi sostiene che le differenze siano soltanto di ordine quantitativo; tuttavia è difficile negare il trascendimento che complessivamente contraddistingue il comportamento umano. Più arduo può risultare l'identificazione della specie umana alle sue origini. A questo riguardo ci sembra importante distinguere tra attitudine alla cultura, espressa nella progettualità e nella simbolizzazione, e le sue manifestazioni. Mentre l'attitudine può essere ritenuta una costante dell'uomo da quando si è avuta la sua presenza, le manifestazioni presentano una progressione nel tempo sia che riguardino lo sviluppo delle tecnologie (strumentali, abitative, alimentari) nel rapporto con l'ambiente sia che si esprimano in una maggiore complessità dei sistemi simbolici nell'organizzazione e nella vita sociale (31). Emergenza e trascendenza contraddistinguono l'uomo di ogni luogo e di ogni tempo. Di qui la comune identità e la fondamentale uguaglianza, radicata sul piano biologico e variamente espressa nelle culture dei popoli attraverso l'attitudine culturale che li accomuna. 79 (1) AYALA J.F., Darwin's devolution: design without designer, in RUSSEL R.J., STOEGER W.R., AYALA F.J., (eds.),Evolutionary and molecular Biology: Scientific Perspectives on divine Action: Vatican Observatory Publications: Vatican City State and Center for Theology and Natural Sciences: Berkeley, CA, 1998: 101-­‐116. (2) GRASSE' P., L'evoluzione del vivente, Milano: Adelphi, 1979. (3) La teoria evolutiva è conciliabile con la fede cristiana. L'evoluzione non è in contrasto con la creazione. L'evoluzione suppone la creazione, come ha osservato Giovanni Paolo II (Discorso in occasione del Congresso Internazionale su Fede cristiana ed evoluzione; Osservatore Romano, 27.4.1985). Tuttavia sono da tenere fermi due punti: 1) tutta la realtà è creata da Dio e corrisponde a un suo disegno in qualunque modo si sia realizzato; 2) lo spirito non può derivare da un animale, ma è creato direttamente da Dio. Circa il disegno generale nella evoluzione e alcuni aspetti di ordine teologico cf. ARNOULD J, La teologia dopo Darwin, Brescia, Queriniana, 2000; AYALA F.J., 1998, cit.; GALLENI L., Scienza e Teologia, Brescia, Queriniana, 1992; FACCHINI F., Le origini dell'uomo: vedute scientifiche e attuali e istanze teologiche,Rivista di Teologia dell'evangelizzazione, 2000, gennaio-­‐giugno 2000: 127-­‐145. E' da rilevare la posizione di Ayala che parla di un disegno senza disegnatore, in quanto ogni teleologia sarebbe prodotta dalla selezione naturale. Io direi che il disegnatore c'è, ma è nascosto dietro le leggi della chimica, della fisica, della biologia e dei grandi numeri. (4) AYALA, 1998, cit.; AYALA J.F., Evolution and rationality: Natural selection, Teleology an Novelty, in FACCHINI F. (a cura di), Scienza e conoscenza. Verso un nuovo Umanesimo, Ed. Compositori, Bologna, 2000: 137-­‐149. (5) L'origine africana della linea umana può essere affermata non soltanto in base alla documentazione fossile, ma anche da ricerche sui Primati viventi. Gli studi biomolecolari sui Primati non umani viventi e sull'uomo suggeriscono che la differenziazione delle Antropomorfe asiatiche (Orango) dal ceppo africano sia avvenuta 10-­‐12 milioni di anni fa; la separazione della linea umana da quella che ha portato alle Antropomorfe africane (Gorila, Scimpanzè) sarebbe più recente, risalendo a circa 5-­‐6 milioni di anni fa. Ma recenti scoperte di fossili che paiono orientati verso la linea umana risalenti a circa 6 milioni di anni fa nel Kenya (v. Nota 8) riapre il dibattito sull'epoca della divergenza. C'è un certo accordo tra i dati biomolecolari e quelli paleontologici sull'ordine delle separazioni filetiche, ma non sui tempi. (6) COPPENS Y., L'originalité anatomique et fonctionelle de la premiére bipedie, Bull. Acad. Natle. Mèd., 175, 7, 1991:977-­‐993; COPPENS Y., L'évolution des Hominidés, de leur locomotion et de leur environnements, in COPPENS Y., SENUT B., (eds.), Origine de la bipedie chez les Hominidés, Paris, Ed. CNRS, 1991: 295-­‐301. (7) Cf. COPPENS Y., Le genou de Lucie, Paris, Odile Jacob, 1999; FACCHINI F., Evoluzione umana e cultura, Brescia, La Scuola Editrice, 1999. Recentemente Recently nel Kenya è stata scoperta una nuova forma australopitecina (Kenyanthropus) vissuta 3,3 milioni di anni fa. (8) FACCHINI, 1999, cit.; SENUT B., GOMMERY D., Le bipedie degli Ominidi, Nuova Secondaria, Brescia,15 maggio 1999: 26-­‐30. Recentemente sono stati segnalati nelle colline di Tugen, vicino al Lago Baringo nel Kenya, nuovi reperti (frammenti di omero, femore, mandibola), riferiti a vari individui, denominati dapprima "ancetre du Millenaire" e poiOrrorin tugenensis, che sarebbero vissuti circa 6 milioni di anni fa e mostrano un orientamento verso il bipedismo molto prima degli Australopiteci arcaici, come Lucy (cf. Science, 23 febr. 2001, p. 1460-­‐1461) (9) FACCHINI F., Il cammino dell'evoluzione umana. Milano, Jaca Book, II ed. 1995. Secondo Falk and Tobias lo sviluppo delle aree cerebrali di Broca e di Wernicke per il linguaggio articolato nell'emisfero sinistro può essere osservato nell'endocranio di Homo Habilis (FALK D., Cerebral cortices of East African early Hominids. Science, 222, 1983:1072-­‐1074; TOBIAS Ph., The brain of 80 Homo habilis: a new level of organisation in cerebral evolution, Journal of Human Evolution, 16, 1988:741-­‐761; TOBIAS Ph., The evolution of the brain, language and cognition, in FACCHINI F., (ed.) The first humans and their cultural manifestations, Abaco, Forlì, 1996:87-­‐94). (10) JELINEK J., Was Homo erectus already Homo sapiens sapiens? In FEREMBACH D. (Ed.), Le processus de l'Hominisation, Ed. C.N.R.S., Paris, 85-­‐90; COPPENS Y., 1999, cit. (11) Sul problema dell'origine di Homo sapiens cf. fra gli altri: BRAUER G., SMITH F., (Eds.), Controversies in Homo sapiens evolution, Balkema, Rotterdam 1992; AYALA F.J., The myth of Eve:molecular biology and human origins,Science, 270, 1995: 1930-­‐1936; CONDEMI S., I Neandertaliani e l'origine dell'uomo moderno, Nuova Secondaria, Brescia, 15 maggio 1999:30-­‐35; WOLPOFF M. H., HAWKS J., FRAYER D. W., HUNLEY K., Modern human ancestry at the peripheries: a test of the replacement theory, Science, 291, 12 January, 2001, 293-­‐297. (12) KRINGS M, STONE A., SCHMITZ R.W., KRAINITZKI H., STONEKING M., PAABO S., Neandertal DNA sequences and the origin of modern humans. Cell. 90, July ,1997: 19-­‐30; OVCHINNIKOV I., GOTHERSTROM A., ROMANOVA GALINA P., KHARITONOV V., M., LIDEN K. & GOODWIN W., Molecular analysis of Neanderthal DNA from the northern Caucasus. Nature,404, 3° march 2000, 490-­‐493. (13) TOBIAS Ph. Recent advances in the evolution of the Hominds with especial reference to brain and speech, in CHAGAS C., (ed.), Recent advances in the evolution of Primates, Pontificia Academia Scientiarum, Città del Vaticano, 1983: 85-­‐140; PIVETEAU J., La comparsa dell'uomo, Jaca Book, Milano, 1994(tr. it. L'apparition de l'homme, Oeil, Paris, 1986); COPPENS Y., Le singe, l'Afrique et l'homme, Fayard, Paris, 1983; Le genou de Lucie, Odile Jacob, 1999. (14) BERGSON H., L'evoluzione creatrice, La Scuola, Brescia, 1983. (L'évolution créatrice, 1971) (15) TEILHARD DE CHARDIN P., Le phénomène humain, Ed. Seuil, Paris, 1955. (16) PIVETEAU J., La comparsa dell'uomo. Jaca Book, Milano, 1994. (tr. it. L'apparition de l'homme. O.E.I,.L., Paris, 1986). (17) FALK, 1983, cit.; TOBIAS, 1984, 1996, cit. (18) FACCHINI F., Il simbolismo nell'uomo preistorico. Aspetti ermeneutici e manifestazioni, Rivista di Scienze Preistoriche, XLIX, 1998, 651-­‐671; Symbolism in Prehistoric Man, Collegium antropologicum, Zagreb, 24, 2, 2000. (19) KITAHARA FRISCH J., Ethologie animale et image de l'homme, Nouvelle Revue Théologique, 106, 1984: 235-­‐20. (20) COPPENS, 1991, cit. (21) DAVIDSON I., NOBLE W., The Archaeology of perception. Traces of depiction and language, Current Anthropology, 30, 1989, 125-­‐155.; LINDLY J.M., CLARK G.A., Symbolism and modern human origins, Current Anthropology, 31, 1990: 233-­‐261. (22) MARCOZZI V., I problemi della origine dell'uomo e la paleontologia, Gregorianum, 59, 3, Pont. Univ. Gregoriana, 1978, 511-­‐535. (23) LEROI-­‐GOURHAN Y, Le fil du temps. Ethnologie et Prehistoire. Fayard, Paris, 1983. (24) cf. FACCHINI F., Planning Capacity and Symbolism as survival Strategies, in H. ULLRICH, (Ed), Hominid evolution.Lifestyle and survival strategies,Ed. Archaea, Gelsenkirchen/Schwelm, 1999: 517-­‐525. (25) FACCHINI F., 1998, cit. (26) DOBZHANSKY Th., Le domande supreme della biologia,De Donato, Bari, 1969. (tr. The Biology of ultimate concern,New York, 1967). (27) FACCHINI F., Determinismo, indeterminismo, finalismo nella storia dell'uomo. In ARECCHI T., (Ed.), Determinismo e complessità. Nova Spes e Armando, Roma, 181-­‐195. (28) Intorno al finalismo vedi nota 3. 81 (29) PIVETEAU J. 1994, cit. (30) Le costanti fisiche che regolano l'universo sono tali da assicurare che vi siano osservatori, per cui l'universo è così organizzato in vista della comparsa di esseri intelligenti che possano conoscerlo. E' questa la versione forte del principio antropico che sembra però difficile da dimostrare. Se invece ci si limita ad affermare che le costanti che regolano i rapporti fra gli astri sono tali da consentire la vita sulla terra il principio è espresso nella forma debole, ma in questo caso appare come una semplice constatazione. (cf. DALLA PORTA N., SECCO L., Il principio antropico in fisica e cosmologia,dell'uomo. Il futuro dell'uomo, 18, 2, 1991:61-­‐110). (31) Lo sviluppo della cultura può essere rappresentato in un sistema cartesiano da segmenti di retta che si susseguono l'un l'altro, sfasati nel tempo, mantenendo la medesima pendenza. In questa rappresentazione la pendenza esprime la medesima, fondamentale attitudine alla cultura, mentre le vasriazioni di distanza dall'asse dell'ascissa (che rappresenta il tempo) corrisponde alle innovazioni o discontinuità culturali nella evoluzione culturale. In vicinanza dell'origine il segmento di retta (che corrisponde alla derivata) ha una lieve pendenza (le manifestazioni elementari della cultura) e si origina molto vicino all'ascissa, ma col tempo la distanza dall'ascissa aumenta sempre più in relazione allo sviluppo delle espressioni culturali . (cf. Facchini F., Premesse per una Paleoantropologia culturale, Jaca Book, Milano, 1991). Alcuni Autori propongono una curva esponenziale per rappresentare l'evoluzione culturale, ma così non sono rappresentate le discontinuità che si osservano nello sviluppo culturale e l'attitudine alla cultura in quanto costante dell'uomo. 82 MARIA LUISA DI PIETRO, ELIO SGRECCIA LA VITA DELLO SPIRITO NELLA CORPOREITÀ: PERSONA E PERSONALITÀ Verso la sconfitta etica? "L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo [...] nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza"[1]. Il n. 23 della Lettera Enciclica "Evangelium vitae" ci introduce a queste brevi riflessioni sulla persona umana e sulla natura e sul valore del corpo umano, partendo da un inconfutabile dato di fatto: la chiusura della realtà umana in una visione intramondana e il perseguimento del solo benessere materiale hanno portato, tra l'altro, alla distorsione della lettura del rapporto tra la persona e il suo corpo con alcune inevitabili conseguenze. Da una parte, il disprezzo del corpo fino a legittimarne la "cosificazione" (la sperimentazione non terapeutica su embrioni umani o su soggetti già nati; la compravendita di organi; la prostituzione), o la violazione (la violenza fisica, psichica, morale), o la soppressione (l'aborto; l'eutanasia; l'omicidio; il genocidio). Dall'altra, l'esaltazione del corpo, oggetto nella sua esteriorità di cure ma in modo da penalizzare l'interiorità della persona, sì da dare l'impressione di una "bellezza" fatta solo di apparenze. Basti pensare al corpo utilizzato come mezzo di seduzione o curato in modo ossessionante (dal salutismo al culturismo), nel tentativo forse di risolvere con "l'apparire" un profondo senso di frustrazione. Ma conseguenza ancor più grave, perché alla base delle suddette scelte, è l'estraniazione del corpo umano dall'agire morale o, per meglio dire, la "destituzione" del corpo umano nelle questioni della legge naturale. "Una libertà -­‐ si legge al n. 48 della Lettera Enciclica "Veritatis splendor" -­‐ che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l'abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono come dei presupposti o preliminari, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla persona, al soggetto e all'atto umano. I loro dinamismi non potrebbero costruire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni "fisici", detti da taluni "pre-­‐morali". Farvi riferimento, per cercarvi indicazioni razionali circa l'ordine della moralità, dovrebbe essere tacciato di fisicismo o di biologismo. In un simile contesto la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione nell'uomo stesso"[2]. Una "distorsione" della lettura del rapporto tra la persona e il suo corpo: non è una novità nella riflessione antropologica di sempre, ma è una novità che si presenta in tutta la sua drammaticità nella nostra epoca, perché "quando il corpo umano, considerato indipendentemente dallo spirito e dal pensiero, viene utilizzato come materiale alla stregua del corpo degli animali [...] si va incontro inevitabilmente ad una terribile sconfitta etica"[3]. Le chiavi di lettura Tra le ragioni di una distorta lettura del rapporto tra la persona e il suo corpo vi possono essere, da una parte, la diversità e la parcellizzazione delle chiavi di lettura, e, dall'altra, un uso diversificato della stessa chiave di lettura. 83 a. Diversità e parcellizzazione delle chiavi di lettura. A conclusione di questa prima riflessione, diremo che non è possibile "pensare l'uomo" solo da un punto di vista, da un'angolazione, ma che tutto ciò che le scienze sia sperimentali sia non sperimentali ci mettono a disposizione è utile e necessario per conoscere questa realtà tanto misteriosa quanto complessa. Riteniamo, però, necessario scindere prima le diverse chiavi di lettura sì da mettere in evidenza come un approccio parcellare non sia di per sé sufficiente.[4] La prima chiave di lettura è quella basata sul metodo sperimentale, che si avvale, come è noto, di un preciso itinerario: l'osservazione dei fenomeni, l'ipotesi interpretativa, la verifica sperimentale e la valutazione del risultato della sperimentazione. Questo itinerario metodologico, che ha una sua validità intrinseca, consente l'accumulo di conoscenze sicché lo sperimentatore successivo può avvalersi dei risultati, positivi o negativi che siano, ottenuti dallo sperimentatore precedente ed apportare, a sua volta, nuovi contributi utilizzando la medesima metodologia. Tuttavia il metodo sperimentale ha un suo limite intrinseco che è costituto dal fatto che deve per forza poggiarsi su dati empirici, suscettibili di essere osservati, computati, comparati, senza riuscire a guardare "al di là". Ne consegue che il metodo sperimentale è di per sé riduzionista della realtà. Nell'ottica del metodo sperimentale, si cerca di comprendere il corpo attraverso lo studio della struttura (anatomia), delle funzioni (fisiologia), della struttura cellulare (biologia e biochimica), dei meccanismi regolatori e attivatori (neurologia e immunologia), della struttura degli organi e delle loro funzioni e di una varietà di malattie, menomazioni[5]. E' sufficiente, però, questo tipo di conoscenza del corpo umano che non tiene conto della soggettività della persona, che riduce l'uomo ad un insieme di manifestazioni estrinseche? O che, addirittura, nega l'esistenza umana se i dati empiricamente rilevati non corrispondono a criteri biologici tra l'altro arbitrariamente fissati[6]? Ed un corpo umano, spogliato della sua umanità e individualità, può essere considerato ancora un corpo umano? Una chiara risposta a questo interrogativo viene formulata al n. 3 della Istruzione "Donum vitae", ove si legge: " Il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni, né può essere valutato alla stregua del corpo degli animali, ma è parte costitutiva della persona che attraverso di essa si manifesta e si esprime"[7]. Quindi, se la conoscenza sperimentale comporta di necessità la considerazione dei soli aspetti fisico-­‐biologici del corpo umano e l'astrazione dalla soggettività che lo abita, si rende necessario percorrere altre strade per inglobare questa soggettività primariamente esclusa ma che si manifesta in modo "prepotente" nel e mediante il corpo. La seconda chiave di lettura è quella propria della tecnica, che contribuisce a modificare e spesso a migliorare le condizioni di vita dell'uomo: una tecnica che ha oramai pervaso e "impregnato" il nostro modo di vivere. "Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi. Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo pensano ancora di rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell'uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza"[8]. Queste osservazioni mettono in evidenza quanto la tecnica abbia "guadagnato" oramai sull'uomo: sulla sua mente e sul suo corpo. Il corpo frammentato e parcellizzato nelle sue 84 singole componenti e scorporato nelle sue singole funzioni fino a perderne la visione unitaria; la mente espropriata della sua soggettività. "La tecnologia diventa parte del corpo, non fisico ma mentale: protesi della soggettività. E in questo farsi parte, la tecnologia permette al corpo di giocare nuove parti: ruoli prima impossibili. Quali divengono i confini della corporeità, e come si rappresenta la corporeità, quando essa si mescola alla tecnologia in modo co-­‐sostanziale, come possibilità stessa di espressione della soggettività?"[9]. Prima di valutare le conseguenze della tecnica, c'è da chiedersi -­‐ in prima istanza -­‐ quale sia lo "sguardo" della tecnologia, ovvero del sapere che accompagna la tecnica, al corpo umano. E', senz'altro, lo sguardo del dominio, dell'utilità e dell'efficienza: dai risultati positivi ma anche negativi, soprattutto quando si riduce il corpo a mero strumento e ad oggetto di manipolazione. Alla base di tutto, la profonda crisi che sta attraversando la scienza pura e non solo quanto tecnica, crisi che trae la sua origine nell'avere identificato lo scopo della "scienza" come tale con l'opera tecnologica. In questo orizzonte, la scienza è intesa essenzialmente come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico e fa, invece, allontanare l'uomo dalla ricerca della verità: anzi la verità diviene superflua e talora viene esplicitamente rifiutata. Il successo tecnico diviene esso stesso "verità" e il progresso umano viene misurato soltanto in base al progresso della scienza e della tecnica, senza attenzione , come già detto, al valore "uomo". Il mondo a livello scientifico è così ridotto ad un semplice complesso di fenomeni manipolabili e oggetto della scienza è solo una connessione funzionale che viene analizzata unicamente proprio in relazione della sua funzionalità[10]. La terza chiave di lettura è quella antropologico-­‐filosofica, che guarda al corpo umano nella sua globalità al fine di indagare sulla sua realtà, sul suo valore, sulla sua dignità. Anzi lo sguardo penetra in profondità, superando la fisicità per scoprire quale è la realtà ontologica dell'individuo umano. La quarta, ed ultima, chiave di lettura é quella della teologia, che si integra -­‐ senza confondersi -­‐ con quella antropologico-­‐filosofica: "Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell'uno conosciamo con la ragione naturale, nell'altro con la fede divina; per l'oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall'alto. La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell'ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (cfr 1Gv 5,9; Gv 5,31-­‐32)"[11]. La riflessione teologica, dunque, pur tenendo criticamente presenti le conclusioni della riflessione filosofica, studia il corpo alla luce della Rivelazione che Dio ha fatto di sé in Cristo, trasmessa dalla Sacra Scrittura e insegnata dalla Chiesa. Quattro chiavi di lettura, dunque, che consentono di indagare secondo quattro angolature diverse un'unica realtà: l'individuo umano. Quattro chiavi che, se usate singolarmente, possono dare una lettura non esaustiva della realtà umana e non rispondere alla domanda fondamentale: "Come dobbiamo comportarci nei confronti della persona umana?". Quattro chiavi di lettura che esigono di essere integrate e gerarchizzate attorno ad un valore centrale di riferimento, la persona, anche se la "serratura" della piena comprensione può essere aperta dalla chiave antropologico-­‐filosofica e dalla chiave teologica, senza trascurare, però, le acquisizioni delle altre discipline. Solo così sarà possibile compiere quel "passaggio, tanto 85 necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento": la ricerca antropologico-­‐filosofica e teologica, dunque, come modalità per trascendere il fenomeno, da cui comunque si deve attingere per cogliere il vero significato della persona umana. b. Differenti conclusioni con la stessa chiave di lettura Che la stessa chiave di lettura possa condurre a conclusioni differenti emerge dall'analisi a livello antropologico-­‐filosofico. E' noto, infatti, che la domanda sul rapporto tra la persona e il suo corpo ha ricevuto nel tempo almeno due risposte: dualista e duale[12]. La risposta dualista affonda, come è noto, le radici nel dualismo platonico, prima, e nel dualismo cartesiano, poi. Al riconoscimento della sostanzialità dell'anima si oppone nel dualismo platonico la svalutazione del corpo ritenuto un aspetto transitorio ed accidentale dell'esistenza umana. L'anima, infatti, è preesistente al corpo, è imprigionata in esso a causa di una caduta e possiede un'indipendenza assoluta rispetto al corpo; solo l'anima è l'elemento immutabile e divino, chiamato alla contemplazione delle idee, mediante l'ascesi volontaria con cui l'uomo muore alla materia. Per il dualismo cartesiano, il corpo (res extensa) è unito concretamente e fisicamente all'anima (res cogitans) attraverso l'epifisi, ma le due realtà differiscono per essenza e per valore. La distinzione tra res cogitans e res extensa pone l'eterogeneità sostanziale nell'uomo tra il pensiero e il corpo ridotto a estensione e moto locale. Un'interpretazione in entrambi i casi dualista, ma con alcune differenze: per Platone il corpo è non-­‐essere, mentre in Cartesio si fa strada la necessità di una fondazione della scienza dei corpi; inoltre, a differenza del dualismo platonico, il dualismo cartesiano non conduce necessariamente alla fuga dal mondo e al disprezzo delle realtà temporali[13]. Dal dualismo platonico e, soprattutto, dal dualismo cartesiano hanno preso le mosse, da una parte, il dualismo moderno, che si è dovuto poi confrontare con la questione del rapporto tra il corpo e l'anima (rapporto di mera accidentalità, come nel caso dell'occasionalismo di Geulinex e di Malebranche), e, dall'altra, il monismo sia materialista (l'unica sostanza è il corpo, mentre lo spirito è l'insieme delle sue funzioni) sia spiritualista (l'unica sostanza è lo spirito, mentre il corpo è solo frutto di una conoscenza empirica). Ma, soprattutto, ha preso le mosse una concezione organicistica e funzionale del corpo umano, un corpo considerato nel complesso di tessuti, organi e funzioni: il che non si può escludere se la chiave di lettura è quella del metodo sperimentale, ma che non esaurisce, come già detto, la totalità della conoscenza del corpo umano. Ed il corpo, definito come materia estesa, qualificabile dalle coordinate spazio-­‐temporali (il corpo occupa un determinato spazio e ha una determinata continuità nel tempo), diventa una realtà che l'uomo può possedere e manipolare e di cui può disporre. "Il filosofo che ha formulato il principio del "Cogito, ergo sum": "Penso, dunque esisto", ha pure impresso alla moderna concezione dell'uomo il carattere dualista che la distingue. E' proprio del razionalismo contrapporre in modo radicale nell'uomo lo spirito al corpo e il corpo allo spirito [...] La separazione nell'uomo tra spirito e corpo ha avuto come conseguenza l'affermarsi della tendenza a trattare il corpo umano non secondo le categorie della specifica somiglianza con Dio, ma secondo quelle della sua somiglianza con tutti gli altri corpi presenti in natura, corpi che l'uomo utilizza quale materiale per la sua attività finalizzata alla produzione di beni di consumo"[14]. Anche la lettura del rapporto persona-­‐corpo da parte dei Padri della Chiesa è stata ampiamente influenzata dal dualismo platonico: infatti, pur affermando l'unità dell'uomo e la chiamata alla salvezza di tutto l'essere, i Padri hanno corso il rischio di ridurre l'uomo alla sua anima. Anche lo stesso Sant'Agostino: per Sant'Agostino -­‐ scrive Gilson -­‐ "l'uomo non è un'anima separata, né un 86 corpo separato; ma un'anima che si serve di un corpo"[15]. Il suo intento è di difendere sia l'immortalità dell'anima sia l'unità dell'uomo, continua Gilson, ma di fatto non riesce a giustificare l'unità. Un primo superamento del dualismo platonico è l'ilemorfismo aristotelico, che presenta, però, una difficoltà: l'incapacità di giustificare l'immortalità dell'anima. "L'ilemorfismo aristotelico cedeva l'anima come la forma del corpo. Quindi due erano i principi sostanziali dell'unità dell'uomo: materiale (corpo) e formale (anima). Con ciò si salva bene l'unità dell'uomo, la quale è sostanziale e non accidentale, però si mette in pericolo l'immortalità dell'anima, giacché l'anima è l'atto o la forma. Ma l'atto o la forma non è realtà sostanziale, bensì appartiene ai principi dell'essere. Quindi l'atto o la forma cessa di esistere con la morte dell'uomo. In altre parole: la forma del corpo umano dura finché non cessa l'unione tra anima e corpo"[16]. Nella lettura di San Tommaso d'Aquino, invece, l'anima umana è sì la forma del corpo (materia), ma una forma speciale che possiede e dà sostanzialità. "Omne compositum ex materia et forma est corpus" [17]; "anima rationalis est forma in homine, qua corpus est corpus"[18]; "una enim et eadem forma est per essentiam, per quam homo est ens actu, et per quam est corpus, et per quam est homo"[19]: così S. Tommaso esprime l'unità essenziale dell'uomo. Un'unità di corpo e anima che è sostanziale, intima e strettissima: le dimensioni vegetativa, animale e spirituale della vita personale non sono giustapposte tra loro, in una combinazione accidentale che le lasci estranee l'una all'altra, ma l'anima razionale investe, trasfigura e trasferisce in un orizzonte nuovo tutta la corporeità umana. Essa perciò non è corporeità solo materiale, ma è corporeità personale: "è il corpo permeato anzitutto (se così ci si può esprimere) da tutta la realtà della persona e della sua dignità"[20]. L'uomo è, dunque, unità grazie alla sua forma che sostanzializza e spiritualizza il corpo: "L'uomo è persona nell'unità del corpo e dello spirito. Il corpo non può essere mai ridotto a pura materia: è un corpo spiritualizzato, così come lo spirito è tanto profondamente unito al corpo da potersi qualificare uno spirito corporeizzato" [21]. L'io-­‐spirituale dell'uomo è, allora, un io-­‐spirituale in un corpo: il suo essere corpo coincide con il suo essere spirituale. Ne consegue che nella persona umana non coesistono due realtà -­‐
spirituale e corporea -­‐, e il corpo non è una parte o un settore dell'uomo: il corpo è espressione -­‐ segno -­‐ di tutto l'uomo che solo attraverso di esso ha la possibilità di essere e di esistere. A sua volta il corpo può essere a giusta ragione definito umano proprio perché prende significato dalla sua connessione con la persona e perché è animato da un'anima spirituale, quella stessa anima per cui conosciamo e siamo liberi. Corpo o corporeità? La stessa chiave di lettura può, dunque, portare a due diverse soluzioni: per quale ragioni dobbiamo propendere per una soluzione piuttosto che per l'altra? Essere corpo significa "occupare" uno spazio e un tempo, provare caldo o freddo, avvertire la sete e la fame: ma questo medesimo "corpo", se un corpo umano, può essere anche in grado di pensare, di ragionare, di volere liberamente. E' l'esperienza che ci conduce ad una soluzione duale. "L'esperienza ci attesta la profonda unità dell'uomo: io che sento freddo e ho mal di capo ho il concetto della giustizia e dimostro l'esistenza di Dio. Tale unità si spiega soltanto se si ammette che il principio delle nostre attività, lo stesso principio per cui conosciamo intellettivamente, sia forma sostanziale del corpo. S. Tommaso usa due argomenti per dimostrare questa tesi: uno positivo e uno negativo. Quello positivo procede così: l'uomo, hic homo, quello che mangia, beve e veste panni, quest'uomo che sono io, è un corpo: io sono un corpo. Ora ciò per cui il corpo esercita la sua attività è la sua forma sostanziale. Infatti, per operare, bisogna essere, e per 87 operare in un determinato modo bisogna essere in un determinato modo, bisogna avere una determinata natura; e il principio per cui il corpo ha una determinata natura -­‐ quindi anche una determinata attività -­‐ è la forma sostanziale. Ora fra le varie attività dell'uomo (fra le attività mie) v'è la conoscenza intellettiva. Dunque il principio dell'attività intellettiva è forma sostanziale dell'uomo: è la forma sostanziale del corpo [...] L'argomento negativo addotto da S. Tommaso è questo: trovatemi voi un altro modo di unione fra il principio intellettivo e il corpo, che spieghi la profonda unità della vita umana nelle sue varie manifestazioni"[22]. Quanto fin qui detto può essere riassunto nella nota espressione di Marcel: "Je suis mon corps"[23]. Ma come sottolinea Riva, questa affermazione di Marcel non deve di certo portare alla conclusione che "siamo solo corpo": "Tornando, infine, al predicato mon corps, si è osservato come l'indice possessivo veicoli l'intimità, la solidarietà ed il mutuo riconoscersi di soggettività e corporeità. Non bisogna però dimenticare che non si tratta d'una identificazione bensì d'una reciproca vicinanza del corpo e dell'io. Per ciò stesso è mantenuta nel mon, oltre che nell'unità dei termini in questione, la loro distinzione. E' dunque in virtù del mon attribuito precedentemente, in sede di rilievo fenomenologico, dal soggetto al corpo che si rende possibile la predicazione je-­‐suis-­‐mon corps. Il possessivo, infatti, prolunga la sfera della soggettività avvicinando ciò che era distante"[24]. Una riflessione questa che ci porta ad analizzare le due espressioni solitamente utilizzate per indicare il rapporto tra la persona e il suo corpo: "io ho il corpo"; "io sono il mio corpo". In una visione dualista è senz'altro escluso un rapporto persona-­‐corpo basato sulla categoria dell'avere: se il corpo è un tutt'uno con l'anima, non si può pensare a due elementi, uno che funge da soggetto e possiede, e l'altro che funge da oggetto e viene posseduto. E', però, soddisfacente basare il rapporto corpo-­‐persona sulla categoria dell'essere un corpo? Non si rischia di esaurire tutta l'esistenza personale nell'essere un corpo? Perché l'uomo possa avere interiormente coscienza della presenza del corpo e percepirne la sua unità, egli deve necessariamente trascendere il suo corpo e, quindi, non può identificarsi in toto con esso. Se l'uomo si identificasse, in toto con il proprio corpo, per quale ragione, ad esempio, si cerca nell'altro, al di là dell'aspetto esteriore del suo corpo, "qualcosa" di cui quel corpo è manifestazione? Guardando, infatti, il corpo umano, io cerco ciò che non è visibile e non è empiricamente dimostrabile: il pensare e il volere di quella persona che mi si manifesta attraverso quel corpo. "... questo insieme osservabile dall'esterno -­‐ scrive Karol Wojtyla in Persona e Atto -­‐ non esaurisce del tutto la realtà del corpo umano, come quella del corpo degli animali delle piante. Il corpo possiede anche una sua propria interiorità..."[25]. Ed ancora (a pag. 235): "L'appartenenza del corpo all'io soggettivo non consiste in un'identificazione con esso. L'uomo non è il proprio corpo ma "possiede" il proprio corpo. Il possesso del proprio corpo condiziona la sua oggettivazione negli atti, e allo stesso tempo si esprime attraverso tale oggettivazione. L'uomo in modo particolare è consapevole di possedere il proprio corpo, allorché, nell'azione, si serve di esso come un mezzo obbediente per esprimere la sua autodeterminazione". Premesso che la categoria del "possesso" utilizzata da Wojtyla per esprimere il rapporto persona-­‐corpo-­‐atto non corrisponde alla categoria dell'avere nel rapporto corpo-­‐persona[26], è opportuno soffermarsi sull'affermazione "l'appartenenza del corpo all'io soggettivo non consiste in un'identificazione con esso": in altre parole, la persona è più del suo corpo. Ed allora, l'espressione che meglio esplicita questa peculiare costituzione dell'uomo è: "Io sono una corporeità". Già la filosofia fenomenologica ha sottolineato la diversità tra i termini "corpo" e "corporeità": in fondo, la distinzione introdotta da Husserl prima tra Korper e Leib, ove Korper indica il corpo come semplice oggetto e Leib indica il corpo vissuto o la coscienza del proprio corpo[27], e da 88 Scheler poi tra Geist (il mondo dello spirito), Ich (il mondo psichico), Korper (il mondo fisico) e Leib (la forma unitaria di tutte le sensazioni organiche), prelude a questa chiarificazione. "Il mio corpo può [...] apparirmi anche come un corpo fra i corpi, può in qualche modo essere oggettivato, ma mai totalmente [...] Posso toccare la mia destra con la sinistra e farne oggetto della mia percezione ed ecco che una parte di me, la mano sinistra, si sottrae all'oggettivizzazione: è toccante, è già soggettività"[28]. E così, mentre "corpo richiama la scissione classica di corpo e anima di origine greca e indica, almeno nel linguaggio comune, una parte della persona: la componente corporea in quanto distinta dalla componente spirituale... Corporeità indica l'intera soggettività umana sotto l'aspetto della sua condizione corporea in quanto costitutiva della sua identità personale. Storicamente infatti non esiste una persona umana che non sia al tempo stesso un io-­‐spirituale e un io-­‐corporeo; la corporeità è in questo senso l'espressione, il riflesso visibile e l'attuazione dell'essere umano, uno e indiviso. Corporeità è una nozione più ampia di corpo; in quanto tale la corporeità inerisce alla totalità della persona e interferisce nella sua interiorità e nel suo rapportarsi agli altri nel mondo"[29]. Questa corporeità manifesta a pieno la sua umanità: l'uomo è diverso dall'animale -­‐ afferma Knapp -­‐ in virtù della sua corporeità. "L'uomo -­‐ scrive Hengstenberg -­‐ non è solo un organismo animale con l'aggiunta della coscienza che lo sopraeleva. E' l'unico essere che ha un corpo, mentre nell'animale si può parlare solo di organismo [...] L'essere rivolti all'oggettività (o senso) ha cooperato nella morfologia della membra e degli organi umani, e lo stesso vale per il corpo"[30]. Ma già Scheler aveva contestato la definizione dell'uomo come "animale razionale", sostenendo che le differenze che separano l'uomo dall'animale riguardano anche il corpo[31]. Fin qui l'analisi del rapporto persona-­‐corpo con uno sguardo alla "persona": ma anche uno sguardo al rapporto interpersonale può evidenziare come l'individuo sia nel contempo un'unità inscindibile di anima e di corpo. Si pensi all'esperienza dell'incontro con l'altro, che avviene sempre attraverso il corpo ma che non si ferma alla dimensione corporea. "Ad esempio, se noi riteniamo peculiare della persona l'autocoscienza, non abbiamo però esperienza diretta dell'autocoscienza ma la deduciamo dai comportamenti altrui che sono sempre comunque mediati dal corpo. Infatti l'Io che ha l'autocoscienza è lo stesso che si sposta, che ha caldo, che ha freddo. Senza riferimento al corpo non c'è possibilità di relazione con l'altro. L'altro è per me innanzitutto il suo corpo anche quando non è soltanto un corpo (il ricordo è sempre il ricordo di un volto)"[32]. Attraverso il corpo si esprime la persona: il corpo manifesta la persona nella sua visibilità; il corpo -­‐ come ha scritto Giovanni Paolo II -­‐ è "sacramento" della persona, ovvero manifestazione visibile di una realtà invisibile[33]: la realtà invisibile e interiore della persona si esprime e si realizza mediante la realtà visibile ed esteriore del corpo. Attraverso la sua corporeità la persona umana può esprimersi, comunicare con gli altri, entrare in rapporto con loro, donarsi ed accogliere l'altro. Questa mediazione sociale del corpo è uno degli aspetti sottolineati dal pensiero di G. Marcel: se l'esistenza umana è tale in quanto è un "essere con" altri, essere aperti agli altri, ciò è possibile attraverso la corporeità e il suo linguaggio[34]. Il corpo è "presenza" di fronte agli altri, è sintesi del passato, presente e futuro: da qui la necessità del reciproco riconoscimento come persone e di comune-­‐unione. Il corpo come "espressione", e quindi come cultura, civilizzazione, capacità di trasformazione del mondo e della materia; il corpo come mediazione per la realizzazione della persona; ma il corpo anche come mediazione per conferire al mondo significati sempre nuovi, trascendendo di continuo le proprie esperienze e i precedenti significati: "Il corpo proprio è nel mondo come il 89 cuore nell'organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta interamente, forma con esso un sistema [...] il corpo è il nostro mezzo generale di avere un mondo"[35]. Se il corpo mi manifesta la persona, esprime la persona, ne consegue che il corpo ha un "linguaggio" che mi consente il riconoscimento. "Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa"(Gen. 2,23), esclama l'uomo alla vista della donna. Carne della mia carne: è il corpo rivela l'uomo in modo così evidente da poter essere subito riconosciuto. "L'omogeneità somatica e il dinamismo in essa svelato, nonostante la diversità della costituzione legata alla differenza sessuale, sono così evidenti che l'uomo (maschio) la esprime subito riconoscendo un altro uomo (femmina) simile a lui"[36]. Il corpo assume così un valore simbolico: esso comunica con il linguaggio delle emozioni e dell'affettività significati che la coscienza è chiamata, poi, a riconoscere e ad interpretare. Un linguaggio, che prescinde da ogni manipolazione dell'uomo: "Il pianto spontaneo di un neonato esprime una domanda di aiuto, prima ancora che egli ne sia cosciente. Così il gesto di una stretta di mano o di un bacio si collocano al confine tra natura e cultura: là dove le convenzioni hanno dato forma variata ad elementi profondamente radicati nella natura e perciò ricorrenti nelle diverse culture. Insomma: il linguaggio è sì opera dell'uomo, ma non arbitraria; esso parte da un dato naturale, che implica significati spontanei, quali regole universali della comunicazione, radicate nella corporeità"[37]. Sulla "primordialità" del linguaggio del corpo si sofferma Giovanni Paolo II nelle Catechesi sull'amore umano: "Il corpo umano non è soltanto il campo di reazioni di carattere sessuale, ma è, al tempo stesso, il mezzo di espressione dell'uomo integrale, della persona, che rivela se stessa attraverso il linguaggio del corpo. Questo linguaggio ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta di rapporti reciproci tra l'uomo e la donna"[38]. Nella relazione interpersonale il linguaggio del corpo può comunicare con due modalità: esprimendo la verità della persona (linguaggio "primordiale" o oggettivo"); o comunicando ciò che la persona vuol dire attraverso il proprio corpo (linguaggio "soggettivo"). Con il linguaggio oggettivo è il corpo che parla -­‐ "Abbiamo qui in mente in primo luogo il linguaggio in senso oggettivo: i Profeti paragonano l'Alleanza al matrimonio, si riportano a quel sacramento primordiale di cui parla Gen 2,24 nel quale l'uomo e la donna diventano, per libera scelta, una sola carne"[39] -­‐; il linguaggio soggettivo è successivo alla lettura e all'interpretazione da parte del soggetto del linguaggio oggettivo e, quindi, all'assunzione nella verità o nella falsità della specificità di questo linguaggio -­‐ "Tuttavia è caratteristico del modo di esprimersi dei Profeti, il fatto che, supponendo il linguaggio del corpo in senso oggettivo, essi passano, ad un tempo, al suo significato soggettivo..."[40]. Da qui l'appello di Giovanni Paolo II affinché vi sia una lettura ed una espressione soggettiva del linguaggio del corpo ma in tutta la sua verità oggettiva: "L'uomo e la donna svolgono nel linguaggio del corpo quel dialogo che -­‐ secondo Genesi 2,24-­‐25 -­‐ ebbe inizio nel giorno della Creazione. E appunto a livello di questo linguaggio del corpo -­‐ che è qualcosa in più della sola reattività sessuale, e, che come autentico linguaggio delle persone, è sottoposto alle esigenze della verità, cioè a norme morali obiettive -­‐ l'uomo e la donna esprimono reciprocamente se stessi nel modo più pieno e più profondo, in quanto è loro consentito dalla stessa dimensione somatica della mascolinità e femminilità: l'uomo e la donna esprimono se stessi nella misura di tutta la verità della loro persona"[41]. La vita dello spirito nella corporeità 90 "Unità di anima e corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la sua condizione corporale gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di loro toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore"[42]. L'uomo, dunque, come "luogo" di sintesi tra natura biologica e trascendenza; l'uomo come novità, ontologica e di valore, nel mondo materiale. Quest'uomo che, pur scrutabile con gli stessi criteri utilizzati per altre specie viventi, è l'unico dotato -­‐ in forza dello spirito -­‐ di intenzionalità. Il corpo umano inventa, infatti, movimenti, gesti, ed è sempre aperto a nuove possibilità; il corpo umano è capace di apprendere significati attraverso i sensi e di comunicare significati; il corpo umano è aperto all'apprendimento ed è coinvolto nel processo conoscitivo e affettivo. "Quando diciamo che l'uomo è una persona vogliamo dire che egli non è solamente un pezzo di materia, un elemento individuale della natura, così come sono elementi individuali nella natura un atomo, una spiga di grano, una mosca, un elefante. L'uomo è sì un animale e un individuo, ma non come gli altri. L'uomo è un individuo che si guida da sé mediante l'intelligenza e la volontà; esiste non solo fisicamente, c'è in lui un esistere più ricco e più elevato, una sopraesistenza spirituale nella conoscenza e nell'amore. E' così in qualche modo un tutto, e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo, in cui il grande universo può, tutto intero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante l'amore può darsi liberamente ad altri esseri che per lui sono come altri se stesso, relazione questa, di cui non è possibile trovare l'equivalente in tutto l'universo fisico. In termini filosofici ciò vuol dire che nella carne e nelle ossa umane c'è un'anima che è uno spirito e che vale più dell'universo tutto intero. La persona umana, per dipendente che sia dai più piccoli accidenti della materia, esiste per l'esistenza stessa della sua anima che domina il tempo e la morte. E' lo spirito che è la radice della persona"[43]. Un'intenzionalità che non sarebbe possibile se non fosse sostenuta da una natura d'essere: l'uomo non potrebbe aprirsi e tendere a ciò che trascende la materialità del mondo, se in esso stesso non vi fosse un nucleo metafisico spirituale, non soggetto ai determinismi delle realtà finite[44]. La dignità della persona e la sua irriducibilità all'ordine della semplice natura biologica sono rilevabili -­‐ come abbiamo visto -­‐ attraverso più vie, che mettono, però, in evidenza quale sia il loro reale fondamento: un soggetto spirituale, ontologicamente cosciente e libero, indipendentemente dal fatto che coscienza e libertà possano poi estrinsecarsi. D'altra parte, l'uomo stesso percepisce questa "irriducibilità" e "distanza" dal mondo materiale -­‐ "La sostanza materiale, ed anche il nostro corpo considerato nelle sue proprietà puramente fisiche, è estesa nello spazio ed è composta e quindi divisibile nelle sue particelle elementari (almeno dal punto di vista matematico). Il cervello umano è composto e realmente divisibile in milioni e milioni di parti. La sostanza materiale può anche venire percepita sensibilmente -­‐ anche se solo indirettamente attraverso i suoi accidenti -­‐, ad essa appartengono peso, colore, ecc. Tutte queste determinazioni sono evidentemente prive di senso in rapporto al soggetto cosciente immediatamente vissuto delle nostre esperienze e dei nostri atti. Questo soggetto non può essere esteso nello spazio, avere nello spazio delle parti che siano esterne ad altre parti, essere composto e divisibile miliardi di volte"[45] -­‐, ma nello stesso tempo vive i limiti e l'ambiguità di essere uno "spirito corporeizzato". Limite che l'uomo sperimenta nel dolore e nella malattia: l'Io che vive, sente, capisce, soffre, spera, è spirituale e corporeo insieme: il corpo malato -­‐ scrive Focault -­‐ racconta l'uomo e ne rende evidente la sua finitezza[46]. Anche per la normale dipendenza da ritmi biologici, fisiologici e psicologici. Un limite che rende ancor più manifesto il suo essere spirituale-­‐corporeo, perché sottolinea ancor di più il divario tra le aspirazioni umane e le possibilità reali. 91 Ambiguità che si sperimenterebbe, secondo Scheler, soprattutto nell'esperienza del pudore[47]. Lo sguardo o l'atteggiamento dell'altro potrebbe, infatti, violare la sacralità del corpo, facendo sentire l'individuo a disagio, "ridotto" a mera fisicità, espropriato del suo essere persona. Il pudore è una reazione, una protesta del corpo contro questa forma di cosificazione: è il tentativo di tutelare la dignità e l'intimità della persona e di riportare l'attenzione dell'altro verso il vero livello di comunicazione interpersonale, gli occhi[48]. La teologia della corporeità La chiave di lettura fin qui utilizzata è, dunque, quella antropologico-­‐filosofica che pone la questione della corporeità non a livello biologico ma ontologico: questo consentirà, poi, di distinguere tra ciò che rispetta e ciò che viola la dignità della persona non solo sulla base di criteri biologici quanto in ragione di significati insiti nella corporeità umana. Vi è, come già detto, un'altra chiave di lettura, quella della teologia che consente di cogliere la verità sull'uomo a partire dall'esperienza umana illuminata dall'incontro con Cristo, Figlio di Dio fatto uomo. "Al di fuori di un tale contesto non si può parlare di teologia del corpo. E dal momento che tutta la rivelazione trova la sua pienezza in Gesù di Nazareth, il paradigma centrale della teologia del corpo è Gesù il Cristo, il quale non solo rivela Dio all'uomo, ma rivela l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione"[49]. La lettura alla luce della Rivelazione di Dio consente, inoltre, di evidenziare quanto sia grande la realtà corporea: il corpo è dono del gesto creativo di Dio; il corpo è il "luogo" dell'Incarnazione; il corpo è il "mezzo" della Redenzione. Sono queste le tappe fondamentali della storia della Salvezza e a queste tre tappe si collega solitamente lo studio teologico del corpo. Uno studio che "se per un verso riguarda un ambito particolare del sapere teologico, per l'altro permette di proclamare l'unità del disegno divino, dalle origini al suo centro e al suo fine ultimo: dal corpo creato da Dio al Corpo assunto dal verbo incarnato e introdotto nella gloria della Trinità con la sua resurrezione fino al corpo della Chiesa, al corpo e al sangue di Cristo nell'eucarestia, al corpo del battezzato divenuto tempio dello spirito, al corpo di Maria assunto in cielo fino alla resurrezione dei nostri corpi [...] L'intera economia della salvezza è attraversata, dall'inizio alla fine, da un reale e concreto spessore corporeo"[50] L'uomo è creato da Dio in anima e corpo -­‐ "All'origine di ogni persona umana v'è l'atto creativo di Dio: nessun uomo viene all'esistenza per caso; egli è sempre il termine dell'amore creativo di Dio"[51] -­‐ e il suo essere ad immagine e somiglianza di Dio non riguarda solo lo spirito ma anche il corpo: anzi, è proprio attraverso il corpo che si manifesta il mistero di Dio, attuando quell'incredibile sintesi tra immanenza e trascendenza. L'essere corpo è così importante per Dio che si è fatto corpo per venire tra gli uomini: "il Verbo si è fatto carne ed ha posto la sua dimora in mezzo a noi" (Gv 1,14). "Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato..." (Ebr 10,5ss): la grandezza di Dio si riversa, così, nella fragilità di un corpo umano, elevandolo ad una nuova dignità e riscattandolo dal peccato. Non vi è mai disprezzo del corpo umano da parte di Dio, ma valorizzazione al punto da assumere la natura umana per manifestarsi al mondo, e vivere e raccontare la Sua Storia. Anche la Redenzione di Gesù Cristo passa e si realizza nel corpo, attraverso il corpo -­‐ il dono di Gesù Cristo fatto uomo si realizza attraverso il dono del Suo corpo e del Suo sangue -­‐, così come la Resurrezione. La corporeità non è, allora, "solo una condizione provvisoria e caduca dell'uomo, perché l'attesa escatologica della salvezza conosce il perfezionamento dell'uomo come tale, nella sua totalità unificata, quindi anche nel suo corpo. Certo non sappiamo -­‐ e per la nostra salvezza non è affatto necessario saperlo -­‐ come sarà "il corpo spirituale" (1Cor 15,44); il corpo glorioso; sappiamo però che il fatto che sia glorioso non è a detrimento della realtà del corpo: 92 nell'escathon il corpo umano diventa il segno e il luogo della rivelazione totale e della realizzazione piena della salvezza, e pertanto della stessa personalità umana"[52]. Un altro tassello manca, però, nell'analisi della teologia della corporeità e che consentirebbe di evidenziare un'altra dimensione fondamentale della corporeità, l'essere dono. "Se ogni essere creato, proprio perché creato, porta impresso il sigillo dell'amore di Dio ('ogni creatura porta in sé il segno del dono originario e fondamentale'), l'uomo porta impresso tale sigillo in una maniera tutta sua, originale, propria, tale cioè che lo differenzia dagli esseri infraumani: lui, lui solo sa di essere dono; è l'unica creatura che è capace di comprendere il senso stesso del dono nella chiamata dal nulla all'esistenza. Ed egli è capace di rispondere al creatore con il linguaggio di questa comprensione"[53] Gesù Cristo vive questa dimensione del dono della corporeità fino al massimo delle sue manifestazioni: il dono del Corpo e del Sangue nell'Eucarestia, il dono di Sé per la salvezza dei fratelli. La dimensione sponsale del corpo Il luogo ove la persona umana sperimenta questa dimensione del dono è soprattutto la corporeità sessuata, l'esperienza cioè di essere uomo o di essere donna: un'esperienza intrinseca alla vita umana. La corporeità umana è segnata, infatti, originariamente dalla differenza sessuale che, partendo dalle sue componenti biologiche, risulta radicata nella struttura ontologica della persona: "Fino all'ultima cellula il corpo maschile è maschile e il femminile femminile ed analogalmente l'intera esperienza ed autocoscienza empirica. Questo all'interno di una natura umana identica in entrambi la quale però in nessun punto emerge neutrale, al di là della differenza dei sessi, come in luogo di possibile comprensione"[54]. La persona, dunque, attua la sua costituzione ontologica esistendo sempre e soltanto come uomo o come donna, senza che questo però scavi un abisso incolmabile dal momento che unico è il fondamento, l'esistere come persona umana: "Il testo jahvista del capitolo secondo -­‐ scrive Giovanni Paolo II -­‐ ci autorizza a pensare prima solamente all'uomo in quanto, mediante il corpo, appartiene al mondo visibile, però oltrepassandolo, poi, ci fa pensare allo stesso uomo, ma attraverso la duplicità del sesso [...] La mascolinità e la femminilità sono [...] due differenti incarnazioni, cioè due modi di essere corpo dello stesso essere umano, creato ad immagine di Dio"[55]. Nella corporeità sessuata si manifestano tutte quelle dimensioni a cui abbiamo fatto già cenno: la corporeità come manifestazione della persona, come relazione, come intenzionalità, come limite. E così come la corporeità non esaurisce tutta l'esistenza personale, anche la corporeità sessuata non esprime tutta la persona né la persona è necessitata ad esprimere la totalità delle proprie capacità sessuali. Essere donna non equivale, allora, necessariamente ad essere moglie o madre, così come essere uomo non vuol dire essere necessariamente marito e padre. Se così non fosse, non si spiegherebbe d'altra parte la scelta della verginità: l'aver scelto di vivere la propria sessualità senza un'attività genitale, per potenziare la capacità di donazione, di Amore e di impegno verso gli uomini e verso Dio, non rende certamente né meno uomini né meno donne. L'essere sessuati, dunque, come espressione della persona, intimamente orientata all'Amore e al dono: ed è su questa dimensione che ci soffermiamo, con particolare attenzione alla relazione uomo-­‐donna nella coniugalità. Infatti, l'uomo e la donna, pur sperimentando nella corporeità sessuata il limite di non essere in se stessi tutta l'umanità, hanno nel contempo la consapevolezza di essere e di esistere con e per qualcuno "L'uomo e la donna diventano quello che sono unicamente nella reciprocità di un faccia a faccia corporeo che li impegna l'uno e l'altro; parimenti essi sperimentano quello che sono soltanto in 93 questa reciprocità. Si è se stessi solo per l'altro: ecco cosa significa, fondamentalmente, la sessualità"[56]. Si è se stessi solo per l'altro: è questa la chiave di lettura della dimensione del dono -­‐ o dimensione sponsale secondo la definizione di Giovanni Paolo II -­‐ della corporeità: attraverso il corpo "l'uomo-­‐persona diventa dono e -­‐ mediante questo dono -­‐ attua il senso stesso del suo essere e del suo esistere"[57]. Nella dimensione sponsale la capacità del dono supera poi il limite della relazione uomo-­‐donna nell'apertura al dono totale di sé ad una nuova esistenza. Anzi nel farsi "dono per il dono", l'uomo e la donna ripropongono e ricostruiscono il mistero stesso della Creazione: "L'uomo e la donna, unendosi tra di loro così strettamente da divenire una sola carne, riscoprono per così dire, ogni volta e in modo speciale, il mistero della Creazione, ritornando così a quella unione nell'umanità che permette loro di riconoscersi reciprocamente come la prima volta, di chiamarsi per nome [...] Il fatto che divengono una sola carne è un potente legame stabilito dal Creatore, attraverso il quale essi scoprono la propria umanità, sia nella sua unità originaria, sia nella dualità di una misteriosa attrattiva reciproca"[58]. Se, dunque, la lettura della corporeità sessuata viene condotta alla luce del disegno divino sull'uomo e sulla donna e sulla loro relazione originaria, si coglie con maggiore pienezza il significato della dimensione sponsale del corpo per la quale la persona è chiamata a divenire sempre di più, nell'amore e nel dono di sé, quello che è fin "dall'origine": dono[59]. "Non è bene che l'uomo sia solo" (Gen 2,18): per questo motivo Dio crea la donna e la conduce all'uomo. Egli la "riconosce": "Finalmente essa è osso delle mie ossa e carne della mia carne" (Gen 2,23), scoprendo così un "tu" che gli è uguale e complementare, un tu che ha atteso da sempre perché l'uomo non può che esistere se non in "relazione con" qualcuno che sia uguale e di pari dignità. "Nella creazione della donna -­‐ scrive Giovanni Paolo II nella Lettera alle donne -­‐ è inscritto sin dall'inizio il principio dell'aiuto: aiuto -­‐ si badi bene -­‐ non unilaterale ma reciproco. La donna è il completamenti dell'uomo, come l'uomo è il completamento della donna: donna e uomo sono tra loro complementari [...], non solo dal punto di vista fisico e pischico, ma ontologico. E' soltanto grazie alla dualità del maschile e del femminile che l'umano si realizza appieno"[60] E già qualche anno prima, soffermandosi su questo mistero dell'unità/dualità, così scriveva: "Seguendo la narrazione del libro della Genesi, abbiamo constatato che la definitiva creazione dell'uomo consiste nella creazione dell'unità di due esseri. La loro unità denota soprattutto l'identità della natura umana; la dualità invece, manifesta ciò che, in base a tale identità costituisce la mascolinità e la femminilità dell'uomo creato"[61]. Dal riconoscimento al dono/accoglienza: "... e saranno una sola carne" (Gen 2,24). La sessualità, inscritta nel corpo, è invito alla reciprocità nella comunione, resa possibile dal fatto di possedere un'uguale identità umana ma di essere anche differenti. Persona e personalità L'uomo, dunque, come unità inscindibile di anima e di corpo: ma qualsiasi corpo umano, anche se malato o deforme, allo stadio di poche cellule o privo di coscienza, è corpo di un essere umano? Quegli embrioni fecondati e congelati in provetta sono altro che un grumo di cellule? Quell'uomo incapace di comunicare è ancora un uomo? In altre parole, quegli esseri umani, in cui non è ancora evidente una morfologia umana completa o non si sono estrinsecate alcune capacità o funzioni, sono persone umane? La nozione di "persona" è stata elaborata, come è noto, da parte della Chiesa cristiana per risolvere questioni di natura cristologica e trinitaria, al fine di caratterizzare e di sottolineare, in particolare, le caratteristiche spirituali della natura umana: ne è derivato un modo di leggere 94 l'uomo ad immagine del Creatore: "... non basta definire l'uomo come individuo della specie homo (neppure homo sapiens). Il termine 'persona' è stato scelto per sottolineare che l'uomo non si lascia rinchiudere nella nozione 'individuo della specie umana'; che c'è in lui qualche cosa di più, una pienezza e una perfezione d'essere particolari, che non si possono rendere altro che con la parola persona"[62]. La stessa etimologia greca del termine persona (prosopon; in latino: persona), che -­‐ come è noto -­‐ indicava la maschera che adoperavano gli attori antichi nelle rappresentazioni teatrali, nascondendone il volto e facendone risuonare forte la voce (per-­‐sono= suonare in tutte le direzioni), sta a significare ciò che viene rappresentato in scena ma che va nel contempo al di là delle apparenze. Persona è, allora, l'uomo in quanto "maschera" o "parola" dell'Essere, in quanto capace di percepire un appello morale incondizionato e di pensare l'infinito, in quanto dotato di uno sguardo libero e capace di riconoscimento.[63] E proprio in questo senso che il termine ha, poi, perso l'antico significato di "maschera" per essere identificato -­‐ nelle dispute teologiche -­‐ con il termine greco ipostasis (in latino: substantia; in italiano: sostrato, fondamento) ovvero ciò che è opposto alle sue apparenze. Ma -­‐ fatto sconcertante -­‐ si è tentato poi di trasformare una nozione, elaborata per approfondire e compendiare le caratteristiche più elevate della natura umana (intelletto, autocoscienza, volontà, libertà, creatività, attività simbolica, comunicatività) a prescindere dal fatto che fossero tutte e sempre presenti in ogni singolo essere umano, in un criterio di discri-­‐
minazione fra gli esseri umani, suscettibile di negare a molti di loro lo stesso diritto alla vita. In altre parole, pur essendo univoca l'interpretazione etimologica del termine persona, le domande "Che cosa è la persona?" e, di conseguenza, "Chi è persona" hanno, invece, ricevuto almeno due diverse risposte: quella dell'orientamento funzionalistico-­‐attualistico e quella dell'orientamento sostanzialista. L'orientamento funzionalistico-­‐attualista subordina l'esistenza della persona umana, e quindi di un soggetto titolare di diritti, al riconoscimento della presenza di alcune caratteristiche e/o alla realizzazione di alcune funzioni, riducendo tutto l'uomo a dati empiricamente dimostrabili. Per l'orientamento sostanzialista, invece, l'essere persona non dipende dal grado di presenza di certe caratteristiche o dalla realizzazione di alcune funzioni bensì da una posizione d'essere, cioè dalla natura ontologica (essenza) di determinati individui, costante in loro. Ne consegue che dall'identica essenza scaturisce il valore uguale di ogni persona, in modo indipendente dal possesso attuale di certe proprietà o funzioni. Essenza, che Boezio definisce come rationalis naturae individua substantia: ed è proprio il genitivo rationalis naturae che indica tutta la novità che fa la persona. La differenza che permette di denominare persona un individuo è, dunque, la ragionevolezza senza che questo comporti, però, come conseguenza che "l'essere persona o il divenirlo siano accertabili solo funzionalmente o empiricamente" quanto piuttosto che siano "argomentabili razionalmente entro una concezione dell'essere e dei suoi gradi di perfezione"[64]. In altre parole, la persona non perde la propria struttura d'essenza per il fatto di non esercitare, ad esempio, l'autocoscienza e l'autodeterminazione: questo perché la natura ontologica può anche manifestarsi in una serie di capacità, attività e funzioni, caratterizzanti della razionalità, ma non è riducibile ad esse. Pertanto un individuo umano possiede la natura razionale (ed essere con ciò stesso persona) anche senza manifestare tutte, sempre e nel grado massimo, dette caratteristiche. Ed allora il divenire persona ("sinolo" di anima e corpo), come possesso del proprio statuto ontologico radicale, "non è un processo, ma un evento o atto istantaneo per cui si è stabiliti nell'essere persona una volta per tutte (la fecondazione), mentre la personalità è qualcosa che si acquisisce processualmente attraverso l'effettuazione di atti personali secondi"[65]. 95 Dire, invece, che è persona solo chi è dotato di coscienza, di razionalità, o che possiede determinate caratteristiche corporee, non consente di dare una definizione reale di questa realtà, in quanto viene posto l'accento solo su un accidente ontologico, una qualità seconda, e non sul carattere essenziale. E, mentre le qualità accidentali sono sempre soggette a cambiamento, le caratteristiche essenziali ci sono o non ci sono: l'essere umano è persona perché è, nella sua essenza, di natura spirituale -­‐ Uno spirito "corporeizzato"; un corpo "spiritualizzato" -­‐ e non perché ha una maggiore o minore capacità di coscienza, di autocontrollo, di relazionalità, etc. "In ultima analisi [...] l'argomento, povero ma decisivo, per stabilire chi è uomo e chi non lo è, è quello di guardare all'origine: l'essere umano è colui che nasce da altri esseri umani [...] L'esperienza della privazione, nel segno del non ancora e del non più, è il segno della finitezza umana e del carattere evolutivo/involutivo di ogni vivente: prendere sul serio questo dato empirico significa comprendere che la disarmante semplicità dell'argomento con cui si afferma che uomo è comunque e sempre colui che nasce da altri uomini è la condizione per procedere a qualsiasi ulteriore e più approfondita definizione dell'uomo"[66]. Solo se inizia ad esistere e se ci saranno le condizioni fisiologiche e ambientali adeguate, quell'uomo potrà sviluppare quelle caratteristiche biologiche, psicologiche e relazionali che non sono "fondamenta" del suo essere persona (lo è già fin dalla fecondazione e lo rimane fino alla morte) quanto piuttosto "mattoni" che servono per costruire la sua personalità. Se per essere persona è sufficiente possedere una natura umana, quando tale natura comincia ad esistere? Quando questa corporeità così essenziale ha inizio? E quando cessa di esistere? Gli apporti della biologia e della genetica mettono in evidenza come il primo atto indispensabile e biologicamente evidente affinché si formi un essere umano è -­‐ come per migliaia di altri esseri -­‐ la fusione di cellule altamente specializzate e teleologicamente programmate, la cellula uovo o lo spermatozoo[67]. Dall'istante in cui lo spermatozoo entra in contatto con la cellula uovo e si affonda nel suo citoplasma, parte una nuova catena di attività la quale indica, in modo evidente, che i due gameti non operano più come se fossero due sistemi tra di loro indipendenti, ma che invece si è costituito un nuovo sistema che agisce come un'unità. E' l'unità definita zigote o embrione unicellulare che, già distinto da altri enti, opera come una unità individuale ed è intrinsecamente orientato ad una ben definita e precisa evoluzione. Tali caratteristiche, individuazione e orientamento, sono determinate dal genoma o patrimonio genetico di cui lo zigote è dotato. Grazie al genoma, lo zigote va incontro ad uno sviluppo che è individuale, coordinato, continuo e graduale. Uno sviluppo, quello embrionale, che si svolge -­‐ tranne nel caso di impedimenti intrinseci o estrinseci -­‐ senza interruzioni, e in cui ogni fase successiva necessità della presenza della precedente in un concatenarsi inestricabile di eventi. Non è, allora, plausibile porre l'inizio della vita umana in un momento diverso dalla fecondazione. Questa inscindibilità della vita biologica dalla vita personale continua poi per tutta l'esistenza dell'individuo umano, perché la vita dell'organismo è vita della persona sempre. Da quando e finché c'è vita umana in atto -­‐ in senso unitario e unificante -­‐, questa è vita di un solo soggetto, di una persona umana: con la fecondazione inizia questa attività convergente che, guidata e coordinata dal genoma, porta in sé un progetto tutto da realizzare; con la morte si ha la cessazione della vita dell'organismo nella sua unità e coordinazione. Infatti, per sapere quando un uomo è morto non è sufficiente individuare la perdita della capacità di pensare, volere, relazionarsi con il mondo, ma si vanno a ricercare quei segni che possono indicare che l'organismo ha cessato di essere una totalità unificata di funzioni[68]. Certo, si potrebbe ribattere: "la nostra finitezza umana non consente di attingere informazioni ad un livello che supera la mera fisicità". Questo, però, non sminuisce la corporeità: anzi, ne mette ancor più in evidenza il significato e il valore. 96 La centralità del corpo Il dibattito attuale sulla persona riguarda sia la fase iniziale sia la fase terminale della vita: passando attraverso la dicotomia tra essere-­‐persona ed essere-­‐corpo si cerca di giustificare azioni che di per sé sono moralmente illecite, ma che si vogliono in modo utilitaristico "stipare" in una zona franca. Separando nell'uomo lo spirito dal corpo, si sta, infatti, cercando di trasformare in diritto ciò che in effetti è un delitto (aborto, eutanasia, etc.). Ma prima ancora si sta perdendo la consapevolezza che si compie un omicidio non solo quando si uccide un corpo umano perfettamente formato ( da alcuni considerato "persona" solo in questo caso), ma anche quando si uccide un essere umano che non manifesterebbe ancora o non più i "caratteri" della persona. La dignità che deriva dall'essere un corpo personale non si commisura, però, al grado di sviluppo corporeo, bensì dal suo "esserci" o "non esserci": "Il nostro dovere e la responsabilità verso una persona non si commisurano sulla riuscita delle sue membra o sulla felicità delle sue reazioni intersoggettive e sociali... bensì sulla realtà stessa della sua presenza nel mondo"[69] Qualsiasi attentato, qualsiasi sopruso alla persona deve necessariamente passare attraverso il suo corpo, perché la sua esistenza non può essere che corporea: "io mi posso ritrarre in me dalla mia esistenza e renderla esterna. Scacciare da me la sensazione particolare ed essere libero nei ceppi. [...] per gli altri, io sono nel mio corpo [...]. La violenza fatta da altri al mio corpo è una violenza fatta a me"[70]. Quali le conseguenze sul piano dell'etica? Innanzitutto, l'indisponibilità del proprio e dell'altrui corpo: "l'uomo -­‐ scrive Kant -­‐ ha il possesso su di sé e non può fare del suo corpo ciò che vuole. In quanto parte del proprio sé, è con il corpo che l'uomo costituisce una persona. Egli non può trasformare la propria persona in una cosa"[71], né disporre della propria persona come di una cosa: "non gli è consentito vendere un dente o un'altra parte di sé"[72]. L'unica giustificazione ad un intervento sulla corporeità umana è il beneficio che ne potrebbe derivare in termini di vita e di salute per quello stesso individuo; così come l'unica modalità di disporre della propria corporeità è quella del dono, gratuito, volontario, che non arrechi danno al soggetto agente e che sia agito in vista di un vantaggio per la vita del beneficiario[73]. Il corpo umano non deve essere, dunque, oggetto di interventi che "troppo disprezzano il corpo umano", ma neanche di interventi che "troppo lo esaltano", perché l'uomo è "tenuto a considerare buono e degno il proprio corpo"[74]. Certamente non bisogna dimenticare che per il credente, la vita del corpo, pur essendo un valore fondamentale sul quale cioè si fondano gli altri valori, non è però un valore assoluto "tanto che gli può essere richiesto di abbandonarlo per un bene superiore; come dice Gesù, chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà (Mc 8,35)"[75]. La vita, comunque, è una "realtà sacra che viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità"[76] e "nessun uomo può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire"[77]. In secondo luogo, bisogna tenere presente che ogni relazione è essenzialmente relazione che pur mediata dalla corporeità porta con sé la ricchezza della totalità della persona. Di questo si deve rendere conto, ad esempio, il medico, il cui intervento sul corpo umano non potrà non tenere presente questa ricchezza e questo legame: è atto di una persona su un'altra persona con la mediazione del corpo[78]. Altro esempio: i coniugi -­‐ nella relazione sessuale-­‐genitale -­‐ non possono non riconoscere reciprocamente il valore di persona presente nell'altro. Non si ha solo l'unione di due corpi, ma attraverso i corpi di due persone. Anzi, in una lettura teologica, attraverso il riconoscimento dell'essere persona dell'altro, i coniugi sentono addirittura di essere partner del Creatore stesso, partecipe del Suo amore fecondo ed 97 unitivo. Il coniuge riconosce in sé e nell'altro coniuge il dono di un amore trascendente e di una responsabilità procreante, riconosce che la vita dell'eventuale figlio è dono del Creatore prima ancora di essere frutto dell'amore coniugale. Pertanto il coniuge avverte che l'atto coniugale non è un gesto qualsiasi e che la procreazione non è semplicemente riproduzione, che non può essere pertanto né contraffatto né contraddetto nella sua struttura. Ed, infine, la centralità e la continuità della corporeità umana potrebbero essere la base di partenza per il riconoscimento e la difesa dei diritti dell'uomo al di là delle disquisizioni sulla persona umana. D'altra parte, la stessa "Donum vitae" nel chiedere il rispetto del "diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano dal momento del concepimento alla morte", fonda tale diritto non sul riconoscimento della presenza o meno nell'embrione di un'anima spirituale ma sul suo essere una realtà biologica. "Certamente -­‐ si legge al n. I.1 -­‐ nessun dato sperimentale può essere per sé sufficiente a far riconoscere un'anima spirituale: tuttavia le conclusioni della scienza sull'embrione umani forniscono un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe persona umana?". [1] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica "Evangelium vitae", 25 marzo 1995, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1995. [2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica "Veritatis splendor", 6 agosto 1993, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1993. [3] Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie, 2 febbraio 1994, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1994, n. 19. [4] A questo proposito così scrive F. D'Agostino: "Il pensiero scientifico è giunto invece ad una impasse. Nessuna delle sue posizioni culturali tipiche rende realmente ragione della corporeità: né nel pensiero fisico-­‐scientifico che ha dissolto il corpo e la materia nell'impalpabile dell'energia, né quello psicologico-­‐psicoanalitico, che vede sì la corporeità, ma attraverso la mediazione di un dato francamente metafisico come quello dell'inconscio [...], né quello antropologico-­‐culturale" (F. D'Agostino, I diritti di indole biofisica, in G. Concetti (a cura di), I diritti umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, p. 760). [5] R.M. Zaner, Body, in W. Reich (ed.), Encyclopaedia of Bioethics (revised edition), Simon & Schuster -­‐ Mac Millan, New York 1995, pp. 293-­‐298. [6] Si pensi a tal proposito al dibattito sullo statuto dell'embrione umano. Come è noto, secondo alcuni autori l'inizio dell'esistenza individuale umana va posticipato ad epoche successive alla fecondazione quando si rendono evidenti alcune caratteristiche biologiche (dopo 21-­‐22 ore; dopo il 14^ giorno, epoca in cui si forma la stria primitiva, etc,). Sull'argomento vedi: K. Dawson, Fertilization and moral status: a scientific perspective, in Singer P., et al. (eds), Embryo experimentation, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 43-­‐52; R. Di Menna, Umanizzazione e animazione del concepito umano, in AA.VV., Scienza e origine della vita, 98 Orizzonte Medico, Roma 1980, pp. 36-­‐72; J.F. Donceel,Immediate animation and delayed hominization, Theological studies 1970; 31: 76-­‐106; N.M. Ford, When did I begin? Conception of the human individual in history, phylosophy and science, Cambridge University Press, Cambridge 1988; J.M. Goldening, The brain-­‐life theory: towards a consistent biological definition of humaneness, Journal of Medical Ethics 1985; 11: 198-­‐204; M.F. Goodman, What is a person?, Humana Press, Clifton N.J. 1988; C. Grobstein, Biological characteristics of the preembryo, Annals of the New York Academy od Science 1988; 541: 346-­‐348; A. McLaren, Prelude to embryogenesis, in Ciba Foundation, Human embryo research: yes or no?, London, Tavistock 1986, pp. 5-­‐23; Ruff W.,Individualitat und Personalitat in embryonalen Werden. Die Frage nach dem Zeitpunkt der Geistbeseelung, Theologie und Philosophie 1970; 45: 25-­‐49. [7] Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione "Donum vitae", 22 febbraio 1987, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1987. [8] U. Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 34. [9] M. Tallacchini, Il corpo e le sue parti. L'allocazione giuridica dei materiali biologici umani, Medicina e Morale 1998; 3: 504. [10] A. Strumia, L'uomo e la scienza nel Magistero di Giovanni Paolo II, Piemme, Casale Monferrato 1987. [11] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica "Fides et ratio", 14 settembre 1998, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1998, n. 9. [12] Per un'analisi del pensiero filosofico sulla corporeità, si veda: A. Ales Bello, L'analisi della corporeità nella fenomenologia, Studium 2000; 3/4: 481-­‐494; M. Bizzotto, Corporeità. Approccio filosofico, in G. Cinà, E. Locci, C. Rocchetta, L. Sandrin (a cura di), Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, Ed. Camilliane, Torino 1997, pp. 257-­‐265; C. Bruaire, Filosofia del corpo, Paoline, Milano 1975; J. Haldane, Bioethics and Philosophy of the Human Body, in L. Gormally (ed.), Issues for a Catholic Bioethic, London: The Linacre Center, 1999: 77-­‐89; R. Lucas Lucas, L'uomo spirito incarnato, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993; V. Melchiorre, Il corpo, La Scuola, Brescia 1984; Id., Corpo e persona, Marietti, Genova 1987; P. Prini, Il corpo che siamo, SEI, Torino 1991; A. Rigobello, La corporeità propria come luogo dello stupore originario, Studium 2000; 3/4: 495-­‐507; W. Schultz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. La corporeità, Marietti, Genova 1988, vol. III. [13] D. Tettamanzi, Bioetica. Difendere le frontiere della vita, Piemme, Casale Monferrato, 1987, p. 105. [14] Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie..., n. 19. [15] E. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia 1969, p. 225. [16] I. Fucek, Prospettive teologiche ed etiche in tema di corporeità umana, Medicina e Morale 1990; 5: 933-­‐948. [17] Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, ESD, Bologna 1984, q3, a2, sed c. [18] Id., Questiones disputatae: De spiritualibus creaturis, Gregorianum, Roma 1964, a 3,5; sed c. [19] Id., Summa Theologiae..., q 76, a 6,1. [20] Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1985, LV, p. 223. [21] Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie..., n. 19. [22] S. Vanni Rovighi, Elementi di Filosofia, La Scuola, Brescia 1982, vol. III, pp. 164-­‐166. [23] G. Marcel, Journal de métaphysique, Gallimard, Paris 1927, II, p. 252. [24] F. Riva, Corpo e metafora in Gabriel Marcel, Vita e Pensiero, Milano 1985, pp. 120-­‐121. [25] K. Wojtyla, Persona e atto, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1980, p. 230. [26] Sempre a p. 235 di Persona e atto così si legge alla nota 63: "Riallacciandosi alle opinioni qui riportate, l'autore desidera osservare che quando in questo studio afferma che l'uomo non è il 99 proprio corpo, ma possiede il proprio corpo, si basa sulla convinzione che l'uomo è se stesso (cioè persona) nella misura in cui possiede se stesso; e, in questo senso, anche nella misura in cui possiede il proprio corpo". [27] Ancor prima di Husserl così scriveva Rosmini: "Noi possiamo percepire il nostro corpo con una percezione 'extrasoggettiva', ossia con quel tipo di percezione che coglie anche gli altri corpi e cioè tutti i corpi che costituiscono per l'uomo un che di oggettivo, oppure con una percezione 'soggettiva' con un sentimento fondamentale 'del proprio sé'". E così quando "noi percepiamo il nostro corpo nella seconda maniera, cioè per quel sentimento fondamentale cui dà a noi l'essere vivi, noi percepiamo il nostro corpo come una cosa con noi; egli diventa in tal modo, per l'individua unione con lo spirito nostro, soggetto anch'egli senziente: e con verità si può dire ch'egli è da noi sentito come senziente. Quando all'incontro noi percepiamo il nostro corpo nella prima maniera, cioè alla maniera medesima onde percepiamo gli altri corpi esterni pe' nostri cinque sensi, allora il corpo nostro come tutti gli altri è fuori del soggetto, è un diverso dalle nostre potenze sensitive: non lo sentiamo più in quanto è anch'egli senziente, ma puramente ne' suoi dati esteriori, in quanto è atto ad essere sentito, ad eccitare in noi le sensazioni , e non a riceverle" (A. Rosmini, Nuovo saggio sulle origini delle idee, vol. II, sez. V. p. V. CIII, art IX, Milano 1972, citato da: V. Melchiorre, Il corpo, La Scuola, Brescia 1984, pp. 7-­‐8). [28] Melchiorre, Corpo e persona..., p. 41. [29] C. Rocchetta, Per una teologia della corporeità, Ed. Camilliane, Torino 1990, p. 99. [30] H.E. Hengstenberg, Philosopische Antropologie, Pustet, Munchen-­‐ Salzburg 1984, p. 81; p. 82. [31] M. Scheler, Zur Idee des Menschen, in Ges. W., vol. 3, Franke, Bern 1955, pp.176-­‐178. [32] A. Pessina, Bioetica. L'uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 90. [33] Giovanni Paolo II, Catechesi sull'amore umano..., XIX, pp. 90-­‐92. [34] G. Marcel, Homo viator, Aubier, Paris 1945. [35] M. Merleau-­‐Ponty, La struttura del comportamento, Bompiani, Milano 1963. [36] Lucas Lucas, L'uomo spirito incarnato..., p. 200. [37] L. Melina, Maschio e femmina li creò: teologia del corpo e differenza sessuale, in M.L. Di Pietro ( a cura di), Educare all'identità sessuata, La Scuola, Brescia 2000, p. 91. [38] Giovanni Paolo II, Catechesi sull'amore umano..., CXXIII, p. 467. [39] Ibi., CIV, p. 401. [40] Ibidem. [41] ID., Catechesi sull'amore umano..., CXXIII, p. 468. [42] Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale "Gaudium et spes", in Enchiridion Vaticanum, I, Dehoniane, Bologna 1985, n. 14, pp. 791-­‐813. [43] J. Maritain, I diritti dell'uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 4-­‐5. [44] J. De Finance, Conoscenza dell'essere. Trattato di ontologia, PUG, Roma 1993, pp.455-­‐473; G. Salatiello, Identità maschile e femminile in una lettura antropologica, in Di Pietro (a cura di), Educare alla identità sessuata..., pp. 73-­‐86. [45] J. Seifert, Essere e persona, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 328-­‐329. [46] M. Focault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1977, pp. 222ss. [47] M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore, tr. it. A. Lambertino, Guida, Napoli 1978. [48] C. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, Torino 1978, pp. 161-­‐178. [49] Rocchetta, Per una teologia della corporeità..., p. 97. Cfr. anche: Giovanni Paolo II, Catechesi sull'amore umano...; A. Scola, Il mistero nuziale. 1. Uomo-­‐donna, PUL-­‐Mursia, Roma 1998. [50] Rocchetta, Per una teologia della corporeità..., p. 98. 100 [51] Giovanni Paolo II, La vocazione cristiana dei coniugi può esigere anche l'eroismo, 17 settembre 1983, inInsegnamenti di Giovanni Paolo II, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1983, vol. VI/2 (1983), p. 562. [52] Tettamanzi, Bioetica..., pp. 113ss. [53] ID., La sessualità umana: prospettive antropologiche, etiche e pedagogiche, Medicina e Morale 1984; 2: 141. [54] H.U. von Balthasar, Le persone nel dramma: l'uomo in Dio, Jaca Boook, Milano 1982, vol.II, p. 345. [55] Giovanni Paolo II, Catechesi sull'amore umano..., VIII, p. 54. [56] A. Janniere, Antropologia sessuale, Gribaudi, Torino 1969, pp. 115-­‐116. [57] Giovanni Paolo II, L'uomo-­‐persona diventa dono nella libertà dell'amore, 16 gennaio 1980, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II...., vol. III/1 (1980), p. 148. [58] ID., Catechesi sull'amore umano..., X, p. 63. [59] Sull'argomento cfr. anche: Wojtyla, Amore e responsabilità..., pp. 84-­‐89; 107ss. [60] Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1995, n. 7. [61] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica "Mulieris dignitatem", 15 agosto 1988, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1988, p. 58. [62] Wojtyla, Amore e responsabilità..., p. 12. [63] Sull'argomento "persona" cfr.: P. Cattorini, Dieci tesi sullo stato vegetativo persistente, Medicina e Morale 1994; 5: 927-­‐954; T.H. Engelhardt Jr., Manuale di Bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991; L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino 1996; V. Possenti, La bioetica alla ricerca dei principi: la persona, Medicina e Morale 1992; 6: 1075-­‐1096. [64] V. Possenti, La bioetica alla ricerca dei principi: la persona, Medicina e Morale 1992; 6: 1081. [65] Ibi., p. 1088. [66] A. Pessina, Bioetica. L'uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 91. [67] A. Serra, R. Colombo, Identità e statuto dell'embrione umano: il contributo della biologia, in Pontificia Accademia per la Vita, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 106-­‐158.Sull'argomento, vedi anche: AA.VV., Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1998; P. Caspar, Individuazione genetica e gemellarità: l'obiezione dei gemelli monozigoti, Medicina e Morale 1994; 3: 453-­‐467; Centro di Bioetica, Università Cattolica del S. Cuore, Identità e statuto dell'embrione umano (22.6.1989), Medicina e Morale 1989; 4 (suppl.); R. Colombo R., Individualità biologico-­‐
molecolare dell'uomo e statuto biologico dell'embrione, in Galbiati D., Eligio P., Ricci R.A., Rigamonti G., Sindoni E. (a cura di), Scienza ed etica alle Soglie del terzo Millennio, Società Italiana di Fisica, Bologna 1993, pp. 303-­‐311; R. Colombo, Statuto biologico e statuto ontologico dell'embrione e del feto umano, Anthropotes 1996; 1: 133-­‐162; A. Serra, Quando è iniziata la mia vita?, La Civiltà Cattolica 1989; 3348: 582ss.; A. Serra, Per uno statuto integrato dell'embrione umano. Alcuni dati della genetica e dell'embriologia, in Biolo S. (a cura di), Nascita e morte dell'uomo, Marietti, Genova 1993, pp. 55-­‐105. [68] Sull'argomento esiste una vasta letteratura. Cfr. tra l'altro: Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte nell'uomo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1991; J. De Dios Vial Correa, E. Sgreccia (eds.), The dignity of the dying person, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2000. [69] A. Poppi, Etiche del Novecento, Ed. Scientifiche , Napoli 1993, p. 253. [70] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1974, p. 70. [71] I. Kant, Lezioni di etica, Laterza, Roma-­‐Bari 1984, p. 189. 101 [72] I. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-­‐Bari 1991, II, p. 279. [73] E. Sgreccia, Manuale di Bioetica. I. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 159-­‐166; ID.,Corpo e persona, in S. Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Roma-­‐Bari 1993, pp. 113-­‐122. Cfr. anche: X. Dijon, La réconciliation corporelle. Una étique du droit médical, Ed Lessius, Bruxelles 1998. [74] Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes..., n. 14. [75] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica "Evangelium vitae"..., n. 47. [76] Ibi., n. 2. [77] Ibi., n. 47. [78] K. Jaspers, Il medico nell'età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1991. 102 ANDREAS LAUN LA LEGGE NATURALE Nel 1947 H. Rommen parlò di una "eterna ricorrenza" della legge naturale, ed in effetti questo è un argomento che "ricorre" continuamente, indipendentemente dal modo in cui se ne parla. E sebbene solitamente si rifiuti, in modo sprezzante, di discutere di legge naturale, nondimeno la questione si ripresenta quasi di sua propria iniziativa, in particolare quando le persone sono costrette a subire il male che è stato ideologicamente o legalmente legittimato (per esempio sotto Hitler o il comunismo). Qual è la natura di questa domanda sulla legge naturale? In cosa consiste e a cosa alludono le persone quando la formulano? Perché continua a ripresentarsi e qual è il suo significato? Innanzitutto vorrei chiarire il concetto, per poi fare una considerazione sulla posizione della legge naturale all'interno della teologia morale cattolica. Successivamente vorrei esaminare alcuni problemi specifici, e infine trarre delle conclusioni. IL TRIPLICE SIGNIFICATO DELLA LEGGE NATURALE L'espressione "legge naturale" può essere usata per indicare tre diverse "cose", una distinzione utile per qualunque discussione sull'argomento: La legge naturale come "legge di ragione" Se come cristiano si pensa alla rivelazione e alla possibilità di distinguere ciò che è morale e giusto per mezzo di essa, allora la legge naturale è ogni lex in senso morale e legale, che una persona è in grado di riconoscere in base alla sua naturale capacità di ragionamento. La legge naturale è allora sinonimo di legge di ragione e in quanto tale opposta ad un comandamento o ad una legge che è stata rivelata da Dio. Il termine naturalis indica lo strumento grazie al quale la lexviene riconosciuta -­‐ vale a dire la ragione. L'espressione "legge naturale" in questo senso contrasta con "morale rivelata" o "legge rivelata" e non tiene conto della domanda se o in che senso esista una morale impartita grazie a o basata sulla rivelazione. La legge naturale come "legge superiore" Nel secondo significato, parliamo di legge naturale che contrasta con la legge umana in senso più stretto. [1] Questo tipo di legge naturale è "legge" in un senso più limitato e non include la più comprensiva lex morale. E', per così dire, solo "metà" del concetto sopra descritto. Così, anche qui si applica lo stesso principio: non è richiesta nessuna rivelazione per riconoscerla. Le leggi dell'ordinamento giuridico umano dovrebbero conformarsi a questo senso di legge naturale. Essa è la legge superiore, su di essa le leggi meramente umane sono fondate e da essa vengono limitate. Se questo senso di legge naturale, per una qualche ragione, non viene rispettato a favore di leggi esclusivamente umane, le conseguenze risultano talvolta disastrose. Un'altra espressione per "legge naturale" avente questo significato -­‐ e in un senso più oggettivo e più facilmente comprensibile nell'ottico dello sviluppo sociale -­‐ è "diritti umani". Si potrebbe anche solo, o più esattamente, parlare di "legge Divina", ma è sempre una legge Divina che può essere riconosciuta dalla ragione. 103 "Legge naturale" come forma specifica dell'etica naturale La terza accezione di legge naturale è quella cui ci riferiamo quando ne parliamo in base alla tradizionale terminologia scolastica. Tale significato include non solo l'altra "metà" del primo concetto (=la lex morale che è riconosciuta dalla ragione), ma allo stesso tempo una forma particolare di etica filosofica, il cui assioma base è: bonum est secundum naturam agere. O anche: bonum est secundum rationem agere. O, mettendola ancora in un altro modo: il bene è ciò che èconveniens naturae o conveniens rationi. In altre parole, Lex naturalis indica non solo una morale riconoscibile naturalmente, ma anche il modo in cui essa è dimostrata. LA "LEGGE NATURALE" OGGI? Oggigiorno, i primi due significati di "legge naturale" sono normalmente riconosciuti, sebbene con una riserva che fa apparire questo "riconoscimento" estremamente opinabile. La legge naturale nel senso attuale di diritti umani? Per quanto riguarda la "metà legale" del primo significato di "legge naturale": la gente parla molto di "diritti umani" e, in forza di questi, avanza rivendicazioni, ma il fondamento di questi "diritti umani" si va sempre più smarrendo a seguito della perdita di (fede in) Dio. In conseguenza a questo allontanamento da Dio, anche l'Uomo si perde, nel senso che in lui non si riconosce più l'immagine di Dio, ed in lui si vede solo "un organismo tra gli altri". Da ciò ne deriva che l'uomo possiede tutt'al più "diritti animali", ma non ha più il sacro diritto alla vita e la protezione della sua integrità. I veri diritti umani possono solo essere basati sul riconoscimento dell'Uomo come persona e, in termini religiosi, in quanto "immagine di Dio". Il passo nell'Evangelium Vitae che spiega tale connessione -­‐ che la perdita di Dio conduce alla perdita dell'Uomo -­‐ è forse il più importante e il più appassionante dell'intera enciclica. [2] Le conseguenze di tale "perdita dell'uomo a seguito della perdita di Dio" sono note a tutti i qui presenti. La reale situazione relativa al riconoscimento dei diritti umani si chiarisce fulmineamente pensando alla degenerazione di tale concetto attraverso la proclamazione di un diritto umano all'aborto o ai "matrimoni" omosessuali. La legge naturale come etica naturale oggi? La situazione della legge naturale nel senso di etica non è molto migliore: perché l'etichetta "etica naturale" è usata moltissime volte in riferimento a quelle teorie relativistiche, largamente diffuse, che non meritano l'onore di essere chiamate "etica". Vengono molto meglio descritte come una distruzione ideologicamente infiorettata dell'etica, come Giovanni Paolo II ha affermato molto chiaramente in Veritatis Splendor. [3] Basta soltanto rendersi conto di quanto spesso oggi la gente parli in un modo estremamente nebuloso di idee personali, di valori o di un cambiamento di valori. La legge naturale scolastica nel senso di una etica precisa Non è passato molto tempo da quando il "fondamento della legge naturale dell'etica" -­‐ ovverosia, la legge naturale nel terzo significato dell'espressione -­‐ era il tipico modo di pensare cattolico di 104 tutti i teologi morali, tuttavia oggi si è sviluppata una situazione completamente diversa. Almeno nei paesi di lingua tedesca non c'è quasi nessun teologo morale che possa essere descritto come un rappresentante della "legge naturale" nel senso della scolastica. LA LEGGE NATURALE ALLA LUCE DELLA TRADIZIONE E DEL MAGISTERO DELLA CHIESA Pensatori pre-­‐cristiani come Cicerone hanno già chiaramente distinto l'esistenza di una lex naturalis nel primo e nel secondo significato dell'espressione. W. Waldstein, membro di questa Accademia, lo ha dimostrato in modo definitivo in molti dei suoi lavori. [4] Ancora più importante di questa dimostrazione storico-­‐filosofica è il ricordare che la legge Naturale è una porzione essenziale dell'esplicito insegnamento delle Sacre Scritture ed è, dunque, una parte del credo cattolico: In Romani 2, 14seg.. leggiamo: "Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono conforme alla Legge, pure non avendo Legge, sono legge a se stessi; portano il dettame della Legge scritto nei loro cuori: ne dà testimonianza la loro coscienza ..." [Versione Standard Rivisitata] Allo stesso modo il Concilio: "Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato." [Gaudium et spes, §16, Flannery] Per quanto la legge naturale, nei due primi significati dell'espressione, sia essenziale per la concezione cattolica del mondo, di certo non si deve sostenere che la Chiesa voglia limitare le argomentazioni dei filosofi e dei teologi cattolici alla "legge naturale della Scolastica". La critica è possibile e, almeno riguardo a certi rappresentanti di questa corrente di pensiero, anche necessaria. LO SVILUPPO DELLA TEOLOGIA MORALE CATTOLICA IN RELAZIONE ALLA COMPRENSIONE SCOLASTICA DELLA LEGGE NATURALE Nel 1968 Humanae Vitae esplose come una bomba e sollevò una considerevole ondata di proteste tra i teologi, che furono seguiti da molti laici ed anche da dichiarazioni di chiese in cui i loro autori episcopali tentarono quello che si rivelò essere, nel suo effetto finale, un vano tentativo di conciliare la fedeltà al Papa e l'acquietamento dei contestatori. Ma ovviamente l'ondata di proteste contro l'Humanae Vitae rifluì -­‐ fu il più profondo attacco da parte della Chiesa Cattolica allo spirito del tempo. I non-­‐cattolici videro in essa la conferma dei loro pregiudizi contro la Chiesa, strinsero le spalle e se ne allontanarono. Ma a quell'epoca tra molti cattolici iniziò un processo di scisma. Quanto questa spaccatura sarebbe stata estesa e profonda può essere compreso, ad esempio, dalle richieste della deplorevole "Kirchenvolksbegehren" (= il movimento "Noi siamo la chiesa"), da tutte le idee eretiche che vengono promosse nelle facoltà teologiche cattoliche, e può essere visto in tutti gli eventi che rendono un reale scisma sempre più possibile e verosimile. Contemporaneamente accadde qualcos'altro: nella solitudine del lavoro erudito iniziò un processo nell'ambito della teologia morale, che può essere comparato alla demolizione e alla ricostruzione di una vecchia casa. Tutti gli elementi strutturali della teologia morale tradizionale furono sottoposti, uno ad uno, a quello che inizialmente era un legittimo esame critico. Tuttavia, 105 nell'opinione degli autori, quegli elementi non passarono l'esame! Di conseguenza furono demoliti, sostituiti da nuovi e ricostruiti. Più precisamente: dalla parte del soggetto fu sviluppata una idea modificata di "coscienza", dalla parte dell'oggetto si affermò l'idea del cosiddetto "soppesare i beni" proveniente dall'etica anglosassone, che fu sostituita dal sopracitato principio di legge naturale (secundum naturam agere). [5] Inoltre, si tentò di mostrare (all'interno della discussione sul cosiddetto proprium christianum) che la rivelazione, in effetti, non aveva affatto contribuito all'elaborazione di specifiche norme comportamentali. Che un "effetto collaterale" di ciò fosse un cambiamento nel significato del Magisterium della Chiesa non deve sorprendere. Una autorità che richiede obbedienza fu trasformata in una "guida" [o "fonte di linee-­‐guida"], che si prometteva "di prendere sul serio". Ma non si poteva più parlare di "obbedienza" nel senso proprio del termine, in quanto fu denigrata come "immaturità". Al suo posto fu introdotto il giudizio "personale", cercando di rendere la sua dignità inespugnabile sulla base di una "coscienza" individuale. Anche in riferimento a gravi peccati come l'aborto si parlava esclusivamente di "giudizio di coscienza", che doveva essere trattato con rispetto -­‐ come uno scudo contro le rivendicazioni del Magisterium. E così la ricostruzione della lex naturalis fu completata, una ricostruzione così radicale che a stento si potrebbe immaginare qualcosa di più radicale. Con questo nuovo tipo di "etica" (se di "etica" si tratta!) "incidenti" intellettuali -­‐ perché così fu considerata Humanae Vitae -­‐ non potevano in futuro accadere di nuovo. Quando a questi teologi morali vengono rivolte domande sulla "legge naturale" essi l'accettano alla lettera nel citato primo significato dell'espressione. Naturalmente è estremamente discutibile se, ciò che essi descrivono come lex naturalis, esprima la stessa realtà come è intesa sia nella tradizione, sia dal Magisterium della Chiesa. Essi dicono: l'etica teologica è interamente fondata sulla ragione. E' la ragione che, entro le possibilità della natura umana, crea significato e norme. [6]In questo senso tale nuovo tipo di etica è lex naturalis. Ma sebbene essi approvino la "legge naturale" come sinonimo di etica basata sulla ragione (nel loro senso dell'espressione), negano altrettanto fervidamente che sia un tipo di etica che possa oggettivamente acquisire le sue norme dalle strutture dell'essere. Perché, secondo loro, la possibilità di un talesecundum naturam agere fu definitivamente confutato nei dibattiti che si svolsero tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta. Per esporre la questione cautamente: si può dimostrare che il tipo di teologia morale appena delineata esista, sebbene non sia facile provare che esista nella sua forma "pura". Le principali caratteristiche di questo modo di pensare sono comuni a tutti coloro che appartengono a gruppi che potrebbero essere descritti come "moderni" teologi morali. LA CRITICA DELLA LEGGE NATURALE NEL TERZO SIGNIFICATO DELL'ESPRESSIONE (SECUNDUM NATURAM AGERE) Questo non è il luogo per delineare tutte le obiezioni che a quell'epoca furono sollevate contro la comprensione scolastica della legge naturale e che -­‐ come in una reazione a catena -­‐ portarono al suo declino. Ma vorrei ricordare quelli che mi sembrano essere i due argomenti più importanti, dal momento che criticano validamente un certo modo di concepire la legge naturale da parte della scolastica. 106 Dall'essere all'obbligo? Basandosi sulle argomentazioni di D. Hume e C.G. Moore si sostiene che un obbligo non può derivare dal [semplice] essere; il dovere verso un certo agere non è mai la conseguenza dell'"essere". Tale obiezione è particolarmente e chiaramente visibile nella cosiddetta accusa di biologismo, che viene ripetutamente sollevata contro la Humanae Vitae: perché le strutture biologiche dovrebbero essere inviolabili e perché è proibito intervenire soltanto per la motivazione che "sono ciò che sono"? Le strutture biologiche sono qualcosa di fondamentalmente diverso dalle norme morali! [7] Ed anche quando si aggiunga che Dio è il creatore di queste leggi biologiche, non ne consegue che esse abbiano un valore normativo, perché ciò porterebbe a ridicole ed assurde conseguenze, come prova il seguente esempio tratto dalla storia del pensiero umano: Dio creò gli uomini con la capacità di farsi crescere una barba. Egli, dunque, voleva che gli uomini si facessero crescere la barba. Ne consegue pertanto che chiunque si rade agisce contro il volere di Dio. Ma agire contro il volere di Dio è peccato. Non è sufficiente ridere di questo esempio. Si deve anche essere in grado di mostrare perché la conclusione, che suona così logica, è falsa. "Realizzazione di sé come norma etica originaria?" Innanzitutto devo spiegare meglio il principio sopra citato -­‐ agere sequitur esse. Quale esse non deve seguire (sequere) al fine di agire bene? La natura umana, è la risposta; anche questo è il significato dilex naturalis: naturalis ci dice da dove vengono le norme morali, vale a dire dalla natura umana, dall'essere dell'Uomo come egli è. Tommaso D'Aquino risponde alla domanda che segue da questa: "Come riconosciamo la natura umana?" con il concetto di inclinationes naturales: ciò che è conforme alla "natura" noi lo riconosciamo sulla base delle inclinationes naturales; ciò a cui esse sono preposte ci mostra ciò che è buono e conforme al volere di Dio. Tommaso nomina come inclinationesdi base le seguenti: la inclinatio a preservare il proprio essere, la inclinatio a preservare la specie, la inclinatio verso il riconoscimento e verso la collettività. [8] Ciò sembra ragionevole: dopo tutto sarebbe incompatibile con la bontà del Creatore aver dato all'Uomo inclinationes che non fossero preposte al bene. Quando l'Uomo segue le sue inclinationes naturales agisce bene e realizza il suo essere, che in tal modo giunge a perfezione; questo è ciò che "realizzazione di sé" significa per lui. Ci sono due riserve a tale interpretazione dell'agere sequitur esse o all' actus moralis hominis sequitur inclinationes naturae humanae. La prima obiezione: la natura umana come noi la conosciamo è stata distorta dal peccato, è una natura vulnerata. Le sueinclinationes non derivano affatto solamente da Dio. Alcune derivano dal peccato e conducono a peccare. Si pensi solamente, da una parte, alle tante inclinazioni peccaminose che colpiscono tutte le persone (orgoglio, indolenza ...), e alle specifiche inclinazioni al peccato come l'omosessualità o la cleptomania dall'altra. La seconda obiezione è che, seppure la nostra natura fosse come Dio l'ha creata, l'amore sarebbe la realizzazione di tutti i principi morali e sarebbe determinante in ogni atto morale. Ma l'amore riguarda l'altra persona. Tommaso descrive l'amore di Dio come deum amare propter se ipsum. Do ciò segue che anche se il bene morale è la perfezione della natura umana, la natura del bene non può consistere nell'impegnarsi a raggiungere la realizzazione di sé. 107 "NATURA COME FATTI NEUTRI" E "ESSERE CHE HA VALORE COME PARTE DEL PIANO DI DIO" Non c'è via d'uscita al dilemma in cui la legge naturale neo-­‐scolastica è andata ad impegolarsi. C'è un pregiudizio nell'affermazione "Non si può desumere un obbligo dal semplice essere", vale a dire il pregiudizio che "non può esistere l'essere con contenuto normativo" [9] , e che tutto l'"essere" non è nulla più di un semplice "fatto", privo di qualunque valore, sostanza neutra ad uso della libertà umana. L'asserzione opposta è: l'Essere è affatto privo di valore; il valore è una proprietà dell'essere stesso, inestricabilmente legato ad esso. Tendo verso l'opinione che l'asserzione di "essere senza valore" è una conseguenza dell'ateismo: come può il mondo contenere valori che ci legano moralmente quando è solo un prodotto della cieca sorte? In questo caso la formula Agere sequitur esse si chiarifica in modo decisivo: Agere sequitur bonum nell'essere. Perciò non è un dovere morale portare la barba, perché ciò è solo un fatto, ma senza valore morale (al contrario del valore estetico ...)! Di conseguenza nessun dovere deriva dalle leggi biologiche in quanto tali (= biologismo), ma esse derivano in realtà dal corpo umano, perché la persona è presente tramite esso ed in esso. Quando nella teologia morale cattolica parliamo del "piano di Dio" che impone un dovere su di noi, ciò che intendiamo dire è precisamente questo: dovremmo riconoscere quell'essere che è "buono" (nel senso di moralmente significativo). L'ETICAMENTE BUONO: LA REALIZZAZIONE DI SÉ DELL'INDIVIDUO O LA TRASCENDENZA DELL'AMORE? Abbiamo sentito: secondo Tommaso c'è un dovere seguire le inclinationes naturales allo scopo di conoscere ciò che è moralmente buono. Ma da ciò non deriva che la gratificazione di queste inclinationes di per sé sia già buona. Il pensiero può anche essere espresso nel modo seguente: le inclinationes naturales sono un principio euristico, che ci mostra come guardare nella giusta direzione in cui si trovano tali beni moralmente significativi che rendono la nostra azione di valore morale. [10] La legge naturale compresa in questo modo è conforme alla vasta corrente di etica personalista [11] , che da una parte è rappresentata da D. von Hildebrand e Josef Seifert, e dall'altra da K. Wojtyla e dalla scuola di Lublino nella sua interezza. L'atto morale è una risposta al bene di un'altra persona, che va oltre la sfera dell'interesse personale, che "trascende" il proprio tornaconto. Nelle parole di Hildebrand: l'atto morale è una "risposta di valore". Applicando ciò all'amore: se Dio si deve amare propter se ipsum, allora consegue che, per la sua immagine, persona est affirmanda propter se ipsam. [12] Data la rilevanza di tale percezione, Giovanni Paolo II ripetutamente cita l'insegnamento del Concilio: "l'Uomo è in terra la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso;" egli "può pienamente ritrovarsi solo attraverso un dono sincero di sé." [13] Ciò significa: non realizzazione di sé o trascendenza, non realizzazione di sé attraverso la trascendenza (come se fosse il mezzo allo "scopo" della realizzazione di sé!), ma realizzazione di sé come (Hildebrand direbbe: superabundante) conseguenza della trascendenza altruista [14] nel dare generosamente se stesso nell'amore. 108 Questa trascendenza dell'amore, come dono di se stesso all'altra persona, per se stessa si addice ad ogni atto morale. InVeritatis Splendor si dice: "l'origine e il fondamento del dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona ... la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere sempre affermata per se stessa." [15] CONCLUSIONE -­‐ UN RINNOVAMENTO DELLA LEGGE NATURALE Non può essere negato: Alcuni degli autori neo-­‐scolastici hanno favorito un duplice fraintendimento della lex naturalis. -­‐Il fraintendimento che l'essere di per sé -­‐ che essi senza notarlo hanno concepito privo di valore -­‐ potrebbe essere il fondamento delle norme morali (una variante di tale errore è il biologismo), e -­‐Il fraintendimento che un atto etico è per sua natura incurvatus in se, il che vuol dire, in ultima analisi, che è sempre diretto verso la propria felicità e la realizzazione del proprio sé. Il concetto neo-­‐scolastico di legge naturale ha subito il fuoco della critica e da esso ne emerge purificato e rafforzato. Difatti, ora, due dei suoi aspetti sono divenuti chiari: 1)All'Uomo spetta una dignità unica. L'atto morale d'amore risponde proprio a tale dignità -­‐ propter se ipsum. 2) Il fondamentale atto morale è l'amore. Esso trascende l'egoismo dell'individuo nell'appagamento delle sue inclinationes. O nelle parole di Hildebrand: l'Uomo realizza se stesso quando non cerca di realizzare se stesso, ma ama l'altra persona propter se ipsum. LA FEDELTÀ DELLA LEGGE NATURALE ALLA REALTÀ La crisi della legge naturale deriva dalla crisi seguita alla pubblicazione della Humanae Vitae. Ed è per questo che, nella sezione finale, vorrei mostrare quanto legittimo e conforme alla "legge naturale" sia il metodo argomentativo dellaHumanae Vitae. Perché è proibita ogni possibile forma di contraccezione? Si può comprenderlo solo in riferimento al "significato eccezionale" dell'atto matrimoniale (Giovanni Paolo II) o alla sua intima ratio [16] . Quando si comprende ciò, si comprende anche il comandamento morale a cui si riferisce. Qual è questo "significato eccezionale" secondo l'insegnamento della Chiesa? La risposta è: L'unione sessuale è un completo donarsi nel linguaggio del corpo (= essere) -­‐ pertanto richiede il voto matrimoniale (= agere). [17] L'unione sessuale non è fertilità e amore, ma l'unione di amore fertile -­‐ la fertilità appartiene a questo amore (= essere). Tale connessione deve dunque essere rispettata (= agere). Ne deriva che la contraccezione non è solo un atto contro la fertilità ma anche contro l'amore. [18] L'unione sessuale è preposta al possibile concepimento di un bambino e pertanto ad una misteriosa cooperazione con Dio, che crea l'anima immortale (= essere). Dunque, deve essere rispettata (= agere). Chiunque comprenda il "significato eccezionale" dell'abbraccio coniugale percepisce anche che non è automaticamente ciò che dovrebbe essere secondo il piano di Dio. Non fa parte della santità coniugale "astenersi il più possibile dall'unione sessuale", ma il renderlo ciò che dovrebbe essere in conformità al volere di Dio. A questo scopo gli sposi hanno bisogno di quei poteri che "scaturiscono dallo Spirito Santo, che purifica, ravviva, rafforza e perfeziona i poteri dello spirito umano." Perché è solo lo Spirito, "che rende vivi, la carne non è di alcuna utilità." [19] In questo Spirito -­‐ cito Giovanni Paolo II -­‐ l'unione sessuale è caratterizzata da un'alta "dignità e santità". [20] 109 Questo è totalmente nuovo? Sì, perché nella storia della Chiesa non è stato mai percepito in modo così chiaro come dall'attuale papa. No, perché nella storia ci sono stati sorprendenti esempi di ciò. In particolare vorrei ricordare un passo di Tommaso d'Aquino che mi ha profondamente commosso: in risposta alla questione sul perché il matrimonio sia un sacramento, sebbene non conduca alla sofferenza di Cristo, ma porti gioia, Tommaso risponde: il Matrimonio è un sacramento. E' vero che non conduce un cristiano alla sofferenza di Cristo, ma lo unisce all'amore con cui Cristo ha sofferto per la sua Chiesa. [21] Se mi domandate cosa è la legge naturale, darò una risposta generale ed una specifica. Nella risposta "generale" cito San Tommaso: A motivo della sua ragione l'Uomo, in parte, comprende il piano Divino -­‐ e Tommaso chiama ciò "partecipazione" (participatio) di una creatura dotata di ragione alla Divina legge lex naturalis. [22] La risposta specifica è: In essa l'Uomo riflette sul "significato eccezionale" non solo dell'unione coniugale, ma della sua stessa natura nella sua interezza; egli prende "parte" alla legge Divina -­‐ non alla cieca, tuttavia, come un animale, ma con la capacità di comprendere. Anche i salmi ci dicono cosa sia la legge naturale: innanzitutto io prego (con le parole del "salmo dei teologi morali"![23] ) "Apri i miei occhi e io considererò le meraviglie della tua legge" Poi medito e considero: "Ti ringrazio perché sono stato formato in modo stupendo; meravigliose sono le Tue opere. Tu conosci molto bene l'anima mia; la mia ossatura non ti fu nascosta, quando venivo formato in segreto, ricamato nelle profondità della terra. I tuoi occhi hanno visto la mia sostanza, ancora informe." [24] Dico: "Mediterò sui tuoi precetti, considererò i tuoi sentieri." [25] Poiché i miei soli sforzi non sono sufficienti: "Signore, insegnami i tuoi statuti." [26] Faccio l'esperienza: "Beati coloro ... che camminano secondo le leggi del Signore! Mi delizierò nei tuoi comandamenti."[27] Pertanto: "Osserverò i tuoi statuti." [28] A causa della mia debolezza io prego: "Non farmi deviare dai tuoi comandamenti!" [29] Riconoscere ciò che è meraviglioso nella creazione di Dio, e percepire l'eco di tale portento nella portento nella propria coscienza-­‐ questa è la legge naturale. 110 [1] Cfr. Seifert J., Wie erkennt man Naturrecht?, Heidelberg 1998. Con contributi di R. Buttiglione, F. Bydlinsky, Th. Mayer-­‐Maly, J. Seifert, e W. Waldstein. [2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, Vaticano, 1995, n. ?. [3] Veritatis splendor, n. 4 parla "di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale". [4] P.es. Waldstein W., 'Das Naturrecht und die Grundlagung seiner Erkenntnis im Römischen Recht,' in Seifert J. (a cura di), Wie erkennt man Naturrecht?, Heidelberg 1998, 35-­‐63. spec. 55): In questo brano l'autore cita Cicerone De Republica3, 3: "Est quidem vera lex recta ratio naturae, diffusa in omnes, constans, sempiterna, quae vocet ad officium jubendo, vetendo a fraude deterreat; [...] huic legi non abrogari fas est neque derogari ex hac aliquid licet neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus, neque est quaerendus explanator aut interpres Sextus Aelius (Loeb: eius alius), nec erit alia lex Romae, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit, unusque erit communis quasi magister et imperatur omnium deus, ille legis huius inventor, disceptator, lator; cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas poenas, etiamsi cetera supplicia, quae putantur, effugerit." [5] Ciccone L, '30 anni dalla pubblicazione dell'enciclica Humanae Vitae,' in: Familie et vita, V, 2/2000, pp. 85-­‐106, spec. 87: "Il dibattito (i.e. sull'Enciclica Humanae vitae) [...] finì per portarsi ben oltre i confini del problema di partenza, giungendo a mettere in questione anche problemi di portata fondamentale, come, ad esempio: la concezione di legge naturale, la competenza del Magistero in materia [...]." [6] Questo è anche il modo in cui Veritatis splendor descrive i nuovi principi morali. [7] Il biologismo, o almeno il pericolo di scivolare in esso, è anche posto ogniqualvolta si crede necessario individuare caratteristiche comuni tra uomo e animali, per poter riconoscere il 'naturale'. Ciò è valido anche per J. Messner quando sostiene che il concetto di bene morale potrebbe essere reso riconoscibile dall'analisi di ciò che è che costituisce un buon cavallo (cfr. Laun A., Die naturrechtliche Begründung der Ethik in der neueren katholischen Moraltheologie, Vienna 1973, p. 68; Messner J., Das Naturrecht, 4° ed., Innsbruck 1960, 35). [8] Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae I-­‐II 94 2c. [9] Waldstein W., 'Naturrecht und naturalistischer Fehlschule,' in Fides et jus, Festschift G. May, Regensburg 1991, pp. 33-­‐58, spec. 35. [10] Tale interpretazione mi sembra che sia anche contenuta in Veritatis splendor n. 48, quando si afferma: " È alla luce della dignità della persona umana -­‐ da affermarsi per se stessa -­‐ che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente incline." [11] Cfr. il resoconto di ciò in J. Seifert, 'Johannes Paul II. über die Ehemoral: Seine Lehren und die Hintergründe in einer personalistischen Philosophie der Sexualität,' in A Ordem, Rio de Janeiro 1997, pp. 125-­‐151. [12] Cfr. ibidem, p. 136, da cui è tratta la citazione. [13] Gaudium et spes, n. 24 (Flannery). In questo brano di GS si trova una nota che fa riferimento a Luca 17, 33: "Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, ma chi la perderà la preserverà." Così nostro Signore Gesù già, in essenza, formulava il principio di Hildebrand (più sotto). [14] Senza che questo "altruismo" sia inteso nel senso di '"amour pur" di Fénelon! Cfr. Laun A., [...]. Eichstätt 1993, 188 seg. [15] Veritatis splendor, n. 50. [16] Humanae vitae, n. 12. [17] Familiaris consortio, n. 11. 111 [18] Si dovrebbe fare una distinzione tra atti sessuali di persone che si amano, ed atti sessuali che sono un'espressione di amore corporale! Le coppie sposate possono amarsi, senza che i loro atti sessuali siano un'incarnazione dell'amore (p.es. perché praticano la contraccezione). Questo è valido anche per gli omosessuali: la loro relazione può per molti aspetti possedere le caratteristiche dell'amore, senza che le loro attività sessuali siano "amore" -­‐ anche se in tali atti essi si comportano l'uno nei confronti dell'altro in modo premuroso ("amorevole"). [19] Giovanni Paolo II, Die Erlösung des Leibes, Vallendar 1985, p. 345. E' inusuale sostenere che gli sposi hanno bisogno dello Spirito Santo per consumare il loro matrimonio? No, perché già in Tommaso d'Aquino (Suppl. 42 3 c) troviamo l'affermazione: Senza grazia gli sposi non possono consumare il loro matrimonio "convenienter". [20] Giovanni Paolo II, Die Erlösung des Leibes, Vallendar 1985, pp. 233, 236. "Quando l'uomo [...] nel matrimonio dà un significato alla propria condotta, che corrisponde alla verità fondamentale del linguaggio dell'amore, allora anche lui è 'nella verità'. Nel caso opposto egli mente e falsifica il linguaggio del corpo." [21] Tommaso d'Aquino, S.Th. Suppl. 42 1 ad 3. "Matrimonium [...] conformat Christo quantum ad caritatem per quam pro Ecclesia sibi in sponsam conjugenda passus est." In modo simile, in Francis de Sales (Philothea III,38) troviamo l'affermazione: "Tutto" è "sacro" nel matrimonio. [22] Tommaso d'Aquino, S. Th. I-­‐II, 91, 2c. [23] Sal. 119, 18 seg. (RSV). [24] Sal. 139, 14-­‐16a (Nuova Versione di King James). [25] Sal. 119, 15 (RSV). [26] Sal. 119, 64 (RSV). [27] Sal. 119, 1b, 47a (RSV). [28] Sal. 119, 8a (RSV). [29] Sal. 119, 10b (RSV). 112 VINCENZA MELE
PER UN'ECOLOGIA PERSONALISTA TRA ANTROPOCENTRISMO ED ECOCENTRISMO Con il termine di ecologia personalista, ho inteso riferirmi al pensiero filosofico ecologico generato dal personalismo ontologicamente fondato, rifuggendo dagli estremismi dell'antropocentrismo forte e dell'ecocentrismo. Per delineare quindi la fisionomia di una ecofilosofia personalista ho percorso tre momenti di riflessione: un primo momento per collocare concettualmente l'antropocentrismo moderato all'interno del panorama dell'etica ambientale; un secondo momento per analizzare le posizioni ecofilosofiche generate dall'ecologia, ed un momento conclusivo per tracciare i lineamenti di un'ecofilosofia ad ispirazione personalista. ETICHE DELL'AMBIENTE La letteratura di etica dell'ambiente offre un panorama molto ampio di riflessione. Risulta quindi estremamente complesso un tentativo di classificazione delle varie posizioni filosofiche, che sappia essere chiarificatore ed al tempo stesso non eccessivamente semplificante, per una materia così complessa e variegata. A questo scopo, mi è sembrato utile proporre una doppia classificazione, guardando all'argomento da una duplice prospettiva. La prima riguarda le modalità di argomentazione filosofica dell'etica ambientale, ovvero i suoi presupposti metaetici; la seconda si colloca ad un livello eminentemente pratico e guarda alle qualità assiologiche della natura. La prima classificazione presenta il vantaggio, a mio avviso, di schematizzare una materia così complessa; la seconda ha invece il proposito di differenziare più in dettaglio le varie posizioni, permettendo di specificare maggiormente le diverse sfaccettature dei termini antropocentrismo, biocentrismo ed ecocentrismo, termini comunemente utilizzati nell'etica ambientale. [1] Seguendo l'analisi proposta da Bartolommei, le diverse posizioni teoriche in etica ambientale sono state classificate rispetto all'antropocentrismo/biocentrismo/ecocentrismo, individuando quattro posizioni principali:antropocentrismo forte, antropocentrismo debole, biocentrismo debole, biocentrismo forte ecocentrismo.[2] In riferimento alla modalità di argomentazione filosofica,[3]le diverse impostazioni in tema di etica ambientale possono essere ricondotte ai seguenti modelli: obiettivismo razionalista, ontologia della natura, femminismo o ginomorfismo, antropomorfismo e teismo. Nel modello dell'obiettivismo razionalista il valore è conferito alla natura mediante un atto attributivo da parte dell'uomo, sulla base della valutazione delle conseguenze negative sulle generazioni future a causa di un agire umano distruttivo e irresponsabile nei confronti della natura. Il giudizio etico si fonda quindi sulla ragione umana che valuta rischi e benefici a lungo termine. In questo modello fondativo si collocano alcune posizioni utilitariste e dell'etica della comunicazione. Il modello dell'ontologia della natura considera la natura portatrice di un valore intrinseco. All'interno di questo modello fondativo si possono rinvenire il neoaristotelismo, il paradigma della sacralità della vita, e l'olismo. Il modello antropomorfico attribuisce alla natura un valore in analogia al valore dell'essere umano. Il giudizio etico si fonda sull'estensione del valore morale dall'uomo agli altri esseri 113 viventi (moral extensionism), in quanto capaci di sentire piacere e dolore. La posizione antropomorfica si può rintracciare all'interno di alcune posizioni utilitariste e dell'etica dei diritti. Il modello femminista, nelle sue infine sfaccettature, assume come punto di partenza argomentativa l'analogia fra maschilismo e distruzione della natura. La griglia argomentativa delle diverse tipologie di femminismo varia a seconda dell'interpretazione antropologica dell'identità femminile[4]. Nell'orizzonte teista il valore è conferito alla natura da un atto creativo di Dio ed è riconosciuto dalla ragione umana, aperta alla verità . Il giudizio etico si fonda quindi sulla metafisica. Il teismo sta alla base del personalismo ontologicamente fondato[5]. In riferimento all'ordine di valore intrinsecamente posseduto dalla natura o ad essa attribuito, possiamo adottare le seguenti definizioni: la natura come risorsa, la natura come totalità di esseri viventi e non viventi che interagiscono reciprocamente, la natura come comunità biotica, la natura come luogo di dispiegamento dell'essere, la natura come manifestazione della gloria di Dio. Il concetto assiologico di natura come risorsa, che nella sua valenza etica possiamo definire risorsismo etico, si riconduce alla matrice filosofica dell'utilitarismo quindi ad un'etica antropocentrica forte, secondo l'accezione comunemente utilizzata nell'etica ambientale. Un esempio di impostazione antropocentrica che definirei forte[6] è l'etica ambientale di John Passmore.[7] Secondo l'autore, gli unici valori del mondo naturale sono quelli riconducibili all'umanità ed ai suoi bisogni, ragion per cui alla natura non viene riconosciuto alcun valore intrinseco. La responsabilità dell'uomo per la natura dipende dal fatto che gli esseri umani sono causa di cambiamenti per la biosfera e che questi cambiamenti danno luogo a un problema morale, perché pongono a serio rischio il futuro della specie umana . L'ambiente è quindi considerato come un valore-­‐risorsa per l'uomo, sia nel senso materiale, sia in quello estetico. Il concetto assiologico di natura come totalità di esseri viventi e non viventi che interagiscono reciprocamente, si riconduce alla matrice filosofica dell'olismo, quindi ad un'etica ecocentrica. L'etica ecocentrica è quell'etica ambientale che attribuisce un valore intrinseco alla natura come totalità, presa nel suo insieme; il valore della totalità della natura è ritenuto cioè maggiore del valore di ogni singola parte. L'etica ecocentrica trova le sue radici nell'ambito della scienza ecologica, ovvero della deeep ecology movement secondo l'accezione del filosofo norvegese Arne Naess.[8] Naess distingue le shallow ecologies movements dalla deep ecology movement. Le prime sono rappresentate dai tradizionali modelli filosofici applicati all'etica dell'ambiente e si ispirano a modelli antropocentrici, legati cioè a punti di vista di utilità umana; la deep ecology movement, al contrario, vuole introdurre in filosofia il punto di vista della natura ed è generata dall'ecologia scientifica, come vedremo più avanti. L'etica ecocentrica trova anche le sue radici filosofiche all'interno del femminismo. Secondo la definizione proposta da Ynestra King "l'ecofemminismo é un movimento che consta di posizioni teoriche ed agire pratico, promosso dalle donne che ritengono di dover compiere un compito speciale in questi tempi pericolosi. Da quando le donne hanno visto i segni della distruzione ecologica e dell'annientamento atomico, si sono immediatamente rese conto della connessione esistente tra la violenza patriarcale contro le donne, la violenza contro le persone in genere e la violenza contro la natura. Le donne hanno una percezione profonda e specifica di questo sia per la loro natura, sia per la loro esperienza di donne." [9] 114 L'obiettivo ecofemminista é quindi antipatriarcale, antimilitarista ed ecologista [10] Nell'opera dell'americana Mary Daly [11]si può rinvenire l'elaborazione di alcuni elementi di una variante di pensiero ecofemminista, che definirei pseudospiritualismo ecologista. Secondo la teoria della filosofa, le donne avrebbero una natura radicalmente diversa dagli uomini, che le renderebbe capaci di vivere una vera vita, piena di forza e alimentata da una dinamica comunione con gli animali, la terra e le stelle. Agli uomini mancherebbe tale capacità perché sarebbero per natura dei parassiti che sfruttano le portatrici e le creatrici della vita, costruendo delle pantomime necrofile della vera vita e della vera comprensione. La natura femminile, secondo Daly, sarebbe una natura buona, capace di generare i legami profondi dell'amicizia; risvegliando tale natura le donne potrebbero creare una coscienza unitaria per risanare la creazione. La maschilità spuria e parassita sarebbe invece la fonte del male, causa di un mondo fallace di illusione, che rovescia tutti i veri principi e distende una rete di morte sul tessuto della vita. I problemi del mondo e della società umana sarebbero, quindi, causati dal comportamento arrogante maschile e dai valori a sostegno del patriarcato, che sarebbe stata e sarebbe tuttora la forza più potente del mondo. La liberazione delle donne, continua Daly, verrà dalle stesse donne, se sapranno spezzare le catene della falsa coscienza che le tiene legate, con l'obiettivo di far emergere il mondo della vita ginocentrica, oggi sommerso dal sistema patriarcale di menzogna e di morte. La rinascita femminile sarebbe il punto di arrivo di un viaggio in un luogo di puro intuito, incontaminato da linguaggio, cultura, presenza o aspettative maschili, attraverso l'uso fantasioso e innovativo del linguaggio, la riflessione sull'esperienza, mediante la quale le donne sviluppano un vero e proprio nuovo organo della mente, e la primaria attenzione al simbolismo ginocentrico e multidimensionale della "O", nel cui ambito le femministe amanti della vita possono rinvenire il principio di base ecofemminista, ovvero che ogni cosa é connessa con ogni altra cosa. Paradossalmente le varianti ecofemministe, che sostengono tale nesso si autodefiniscono spiritualiste. La dimensione spirituale é ridotta in effetti all'energia sessuale femminile, una sorta di vitalismo, fra l'altro pericolosamente connesso alla magia, che unirebbe le donne fra di loro e con le altre forme viventi, fungendo da principio di interconnessione, e che abiliterebbe la donna a celebrare ed amare la vita. La celebrazione della sacralità della vita, in tale contesto teoretico, non avrebbe ragione di essere nella trascendenza, ma nella immanenza femminile, ovvero nella quotidianità della vita delle donne. La riscoperta della sacralità della vita rende ragione dell'ecologismo conseguente, in quanto é in celebrazione della sacralità della vita che vengono rispettate tutte le forme vitali esistenti sulla terra e la terra nella sua globalità, in quanto animata dal principio femminile d'interconnessione. Il limite evidente di queste posizioni é di aver ridotto lo spirito alla materia, in altre parole eliminando le differenze tra spirito e materia non é la materia ad assurgere a livello spirituale, ma lo spirito ad abbassarsi a livello di mera materia. Anche la donna paga le conseguenze di tale riduzionismo perché in effetti scompare dall'orizzonte della trascendenza[12]. Il concetto assiologico di natura come comunità biotica, che genera l'etica biocentrica, ovvero quell'etica ambientale che pone al centro di riferimento valoriale il singolo essere vivente, si riconduce a diverse matrici filosofiche: ad esempio all'utilitarismo di Peter Singer e al paradigma della sacralità della vita di Albert Schweitzer, riletto più recentemente da Kennet Goodpaster. Tuttavia la valenza filosofica del biocentrismo nei due casi è sostanzialmente diversa: il primo è un biocentrismo edonista, che trova cioè le sue ragioni nel evitare il dolore ad ogni essere 115 vivente; il secondo è un biocentrismo che, invece trova le sue ragioni nel principio che ogni forma di vita va rispettata perché sacra. Peter Singer [13]è il sostenitore dell'utilitarismo della preferenza o degli interessi . Il principio guida dell'etica di Singer e' quello dell'uguale ed imparziale considerazione degli interessi attuali e futuri. Gli interessi si riferiscono al desiderio di evitare il dolore, soddisfare i bisogni primari, sviluppare le proprie capacita', godere di rapporti amichevoli, essere liberi di realizzare i propri progetti. La condizione di possibilita' minimale per avere interessi o preferenze e' essere in grado neurofisiologicamente di provare piacere e dolore. La norma etica che ne consegue è la seguente: prendere in considerazione gli interessi di tutti i soggetti capaci di averne, combattendo ogni forma di discriminazione (razzismo, sessismo, schiavismo, specismo), estendendo biocentricamente il principio di uguaglianza. Goodpaster[14], al contrario, ritiene che la capacità di sentire piacere e dolore non sia un fine in sé, ma una strategia di sopravvivenza, perché grazie ad essa si possono evitare rischi di vita. Ogni tentativo di legare la soglia di rilevanza morale a questo o a quell'attributo risulta arbitrario. E' il principio di rispetto della vita, afferma Goodpaster, l'unico principio etico obiettivamente riconoscibile. In natura, quindi, tale principio, può essere contraddetto, soltanto per garantire la sopravvivenza. Il concetto assiologico di natura come luogo di dispiegamento dell'Essere, partorito all'interno di una concezione filosofica definita neoaristotelica, è espressione di un etica ontocentrica. La denominazione di etica ontocentrica è stata attribuita all'etica di Hans Jonas[15] Il teleologismo di Jonas, in antitesi alla concezione darwiniana, rinviene nell'evoluzione naturale un finalismo che ha il suo culmine nell'essere umano. Jonas individua cioè un principio di continuità nella natura che va dall'organismo alla mente, rifiutando ogni forma di riduzionismo dualistico (matera/interiorità-­‐libertà; natura/uomo; mente/corpo). Il telos della natura, che è un valore, afferma Jonas, richiede previamente che la natura esista, ovvero che ci sia vita. Jonas radica quindi l'imperativo di mantenere in vita la natura sull'ontologia della biologia[16]. Il concetto di natura come manifestazione della gloria di Dio, che trova le ragioni all'interno del personalismo ontologicamente e teologicamente fondato, è una etica definita nella letteratura ambientale, antropocentrica debole o moderata, per differenziarla appunto dall'antropocentrismo forte. La fisionomia dell'antropocentrismo debole o moderato è delineata nei testi di Elio Sgreccia e Maria Beatrice Fisso: " L'uomo rappresenta il vertice dell'universo, proprio per questa sua posizione di preminenza non deve essere attribuita all'uomo la medesima rilevanza morale all'uomo e ad altre entità naturali. Il recupero dell'equilibrio con la natura non si ottiene equiparando l'uomo agli altri esseri ma cambiando in primo luogo il suo modo di pensare ed agire nei riguardi di tutte le entità non umane. Esiste anche una gradazione nell'importanza delle varie entità nella natura, che finisce con il ripercuotersi anche sul valore morale da attribuire loro. Questa diversità è insita nella Natura stessa, all'interno della quale esiste una struttura gerarchica, di cui l'uomo è al vertice"[17] Come giustamente afferma M. Faggioni, l'etica dipendente dalla visione giudeo-­‐cristiana è propriamente un'etica teologica, che potrebbe essere definita etica dell'amministrazione. Tale etica, infatti, fonda e giustifica la responsabilità per la natura sul concetto del mondo come dono divino affidato all'essere umano, che deve rendere conto a Dio stesso della sua amministrazione del mondo. L'etica ambientale cristiana, continua Faggioni, prendendo le distanze dall'arroganza dell'antropocentrismo forte ed evidenziando la non assolutezza del dominio umano sulla creazione, è un teocentrismo, piuttosto che un antropocentrismo, fondante un dovere di saggio utilizzo dei beni naturali da parte dell'uomo[18]. 116 Le diverse qualità assiologiche della natura sostanziano una diversità di baricentro per i diversi modelli di etica ambientale: l'uomo, per l'antropocentrismo forte e moderato; l'essere vivente per il biocentrismo; la totalità della terra per l'ecocentrismo; la scala dell'essere per l'ontocentrismo. DALL'ECOLOGIA ALL'ECOFILOSOFIA Come giustamente ha indicato il filosofo norvegese A. Naess, va distinta l'ecologia come scienza dalla ecologia come sistema filosofico[19]. Ritengo si possa definire ecologia scrictu sensu quel tipo di sapere che fa uso di metodi scientifico-­‐matematici per spiegare il mondo come realtà biofisica, mentre più precisamente si debba intendere con il termine ecofilosofia il tipo di sapere che, prendendo le mosse dall'ecologia scientifica, offre un modello interpretativo a valenza epistemologica, antropologica, e prescrittiva. L'ecofilosofia, in altre parole è il prodotto di natura filosofica dell'ecologia come scienza. Nella letteratura scientifica, il termine ecologia viene per la prima volta utilizzato dal biologo tedesco Ernst Haeckel (1866), per indicare lo studio dell'interdipendenza e dell'interazione tra gli organismi viventi (animali e piante) ed il loro ambiente (materia inanimata)[20]. Come giustamente fanno notare gli storici, l'idea di ecologia è nata molto prima del suo nome. La sua storia moderna ha infatti avuto inizio nel XVIII secolo, quando essa si configurava come un metodo più ampio per osservare la struttura della vita sulla terra: un punto di vista che cercava di descrivere tutti gli organismi viventi come un insieme interagente, spesso definito l'economia della natura, nozione proposta da Linneo.[21] Il merito di Haeckel non fu soltanto quello di attribuire un nome nuovo alla cosidetta economia della natura, ma anche quello di voler applicare a questa scienza, che si basava sui concetti di relazione e contesto, il metodo predittivo delle scienze fisiche. Fin dai suoi albori, quindi l'ecologia scientifica è portatrice di due anime, espressioni di una doppia natura: olistica e riduzionistica.[22] Con Haeckel nasce quindi la I fase di pensiero scientifico ecologico, che possiamo definire fase premoderna o fase dell'ecologia ambientale. Nel 1893 John Burdon Sanderson innalza l'ecologia al rango di una delle tre parti della biologia, accanto alla fisiologia ed alla morfologia, definendola la filosofia della natura. Nei primi quarant'anni di vita, l'ecologia pian piano si è allontanata dall'egemonia botanica per approdare ai concetti di ecologia animale (Charles Elton), ecosistema (Arthur Tansley )[23] e biosfera (Vladimir Vernadskij )[24] . In questa prima fase, l'ecologia si presenta come una scienza che mira a tradurre in modelli matematici e equazioni fisiche la complessità del mondo vivente e delle sue relazioni con l'ambiente, incarnando un anima riduzionistica piuttosto che olistica. Con l'ipotesi Gaia di James Lovelock [25] si può dire che abbia inizio nel 1979 la II fase della scienza ecologica, la fase dell'ecologia moderna ovvero dell'ecologia globale L'idea di Gaia venne proposta da James Lovelock. Lovelock, chimico e medico, ha ipotizzato l'esistenza di un meccanismo di autoregolazione della Terra e della vita che essa contiene. Insieme, la vita e la terra formerebbero un sistema che avrebbe la facoltà di mantenere la superficie terrestre in uno stato propizio al proseguimento dell'esistenza degli esseri viventi. Gaia, Lovelock afferma, è un entità complessa , comprendente la biosfera terrestre, gli oceani e la terra; l'insieme costituisce un sistema cibernetico di retroazione, che cerca un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita del nostro pianeta. Il mantenimento di condizioni relativamente 117 costanti mediante un controllo attivo può essere descritta in modo soddisfacente con il termine di omeostasi. Nel momento in cui l'ecologia allarga i suoi confini per proporre modelli interpretativi del reale diventa ecofilosofia. L'ecofilosofia originariamente è stata un prodotto dell'ecologia scientifica, prodotto la cui fisionomia rappresenta quindi l'emergenza del paradigma ecologico in contesti diversi da quello scientifico. In questa prospettiva, possiamo interpretare i due modelli ecofilosofici partoriti sostanzialmente dall'ecologia scientifica, che sono l'ecofilosofia scientista e l'ecofilosofia olista. Il modello scientista è espressione dell'anima riduzionista della scienza ecologica, al contrario il modello olista è espressione della sua anima olistica. Il modello ecofilosofico scientista Il modello scientista trova la sua origine nella teoria scientifica dell'ecologia ambientale.[26] Il termine ambiente in questo caso viene utilizzato per indicare il modello di scientificità proprio delle scienze fisiche. Secondo l'approccio scientifico dell'ecologia ambientale, infatti l'ecologia si rivela come una scienza che si avvale di modelli matematici, capace di offrire strumenti e metodi di analisi, simulazioni, coefficienti, indici, e indicatori per la valutazione del rischio. L'ecologia ambientale adotta uno sguardo meccanicista nei confronti della natura-­‐ambiente. La natura reificata ridotta a mera res extensa, esaurita alla sola dimensione quantitativa, resta priva di legami di origine e significato con la soggettività. Questo fatto di per sé comporta l'impossibilità per la teoria scientifica dell'ecologia ambientale di costituire un adeguato supporto teoretico-­‐fondativo ad un modello filosofico. Pur tuttavia, la teoria scientifica dell'ecologia ambientale, intende assumere valenza filosofica, quando pretende di convertire le leggi ecologiche in norme morali. Il momento prescrittivo viene espresso nelle famose leggi dell'ecologia di Barry Commoner: ogni cosa è in relazione con tutte le altre; ogni cosa va in qualche direzione;non esistono in natura consumi gratuiti; la natura conosce il meglio ("nature knows best"), dove il superiore grado di conoscenza raggiunto dalla natura espresso dalla scienza ecologica riguarderebbe il sapere pratico[27] Il modello ecofilosofico, così delineato, rimane imbrigliato nella rete delle maglie della fallacia naturalistica, non riuscendo a superare l'impasse fra essere e dover essere. Il modello ecofilosofico olistico Il modello ecofilosofico olistico trova la sua origine nella teoria scientifica dell'ipotesi Gaia. Il termine olismo è stato coniato nel 1926 dall'uomo politico sudafricano Jan C.Smuts per indicare la tendenza generale della natura a raggruppare ordinatamente in ogni settore e fase della realtà, unità strutturali in complessi dotati di proprietà qualitativamente nuove rispetto alle componenti.[28] Il termine non nasce quindi nel contesto proprio della scienza ecologica. In ambito ecologico, l'olismo determina un cambiamento di prospettiva dall'ontologia dell'oggetto ad un ontologia del campo, nel cui ambito gli interi sono superiori alle parti, e le relazioni sono più reali degli enti: " una specie è in effetti la somma delle reazioni adattative all'ambiente che la specie ha sviluppato nel tempo".[29] 118 Nell'ontologia di campo, gli organismi individuali sono considerati come formazioni momentanee di energia, piuttosto che come oggetti materiali con struttura stabile: " ogni essere vivente è una struttura dissipativa, per questa ragione , esso non .rimane in se stesso e non appartiene a se stesso, ma è soltanto il risultato di un continuo flusso di energia nel sistema."[30] I concetti di entità-­‐oggetti sono utili per gli scopi umani, ma gli enti in realtà sono sono momentanee entità in campi di energia, materia e informazione. Anche gli esseri umani sono "nodi nella rete della vita". L'olismo ecofilosofico trova la sua espressione completa nella deep ecology, il cui esponente più noto è Arne Naess.[31] La filosofia di Naess, si basa alcuni postulati concettuali: -­‐ il rifiuto dell'immagine dell'uomo-­‐nell'ambiente a favore dell'immagine relazionale a tutto campo. Gli organismi sono nodi della rete biosferica o del campo di relazioni intrinseche; -­‐ l'egualitarismo biosferico, in linea di principio. Per il ricercatore ecologico, l'eguale diritto a vivere e a realizzarsi pienamente è un assioma valoriale intuitivamente evidente ed ovvio; -­‐ i principi di diversità e di simbiosi. La diversità accresce le potenzialità di sopravvivenza, le chance di nuove forme di vita, la ricchezza delle forme ." Vivi e lascia vivere" è un principio ecologicamente più potente che non "tu" o "io". Quest'ultimo tende a ridurre la molteplicità dei tipi di forme di vita ed inoltre a provocare distruzione all'interno delle comunità della stessa specie; -­‐ la posizione anticlassista I principi dell'egualitarismo ecologico e della simbiosi sostengono entrambi la stessa posizione anticlassista; -­‐ la lotta contro l'inquinamento e l'esaurimento delle risorse. Questo principio, afferma Naess, deve essere rispettato solo congiuntamente agli altri presupposti; -­‐ la complessità, che va distinta dalla complicazione. La teoria degli ecosistemi contiene un importante distinzione tra ciò che è complicato, essendo privo di qualsivoglia Gestalt o principio unificatore, e ciò che è complesso. Gli organismi, i modi di vita e le interazioni nella biosfera in generale manifestano una complessità sconcertante, che rende inevitabile il fatto di pensare in termini di grandi sistemi e contribuisce ad un'acuta e stabile percezione della profonda ignoranza umana circa le relazioni biosferiche e quindi l'effetto delle interferenze; -­‐ l'autonomia locale ed il decentramento. Il significato di questo postulato è di natura politica: per gestire i problemi ecologici bisogna rafforzare l'autogoverno locale e l'autosufficienza materiale e mentale[32]. L'ecofilosofia di Naess non rimane imbrigliata nelle maglie della fallacia naturalistica, in quanto il trait d'union fra fatti e valori è di natura sostanzialmente psicoantropologica: l'essere umano, facendo esperienza del mondo, si intuisce in continuità con la totalità della realtà esterna. Naess suggerisce un ampliamento dell'autopercezione dell'io in direzione ecosistemica: la soggettività stessa è pensata come luogo di ricapitolazione dell'evoluzione naturale. Noi siamo-­‐dice il filosofo qualcosa di più dei nostri singoli io, non siamo solo frammenti minuscoli ed impotenti. Identificandoci con unità più vaste prendiamo parte alla loro creazione e preservazione, pertanto condividiamo la loro grandezza. I molteplici io si sviluppano fino a diventare dei sé sempre più grandi, proporzionali all'ampiezze ed alla profondità dei nostri processi di identificazione. L'ontologia della Gestalt è il background teoretico del momento prescrittivo. 119 L'ONTOLOGIA RELAZIONALE QUALE STRUTTURA METAETICA PER UNA DEFINIZIONE DI ECOFILOSOFIA Dalla letteratura di etica ambientale mi sembra traspaia una sorta di salto teoretico dalla teologia della natura all'antropocentrismo moderato. In altre parole, mi sembra che il personalismo ontologicamente fondato che sostanzia l'etica antropocentrica moderata, dia per scontato il momento di riflessione ecofilosofica. Ovviamente, nel contesto teoretico del personalismo la natura non è una semplice risorsa in senso economico , non è neppure una totalità di esseri viventi e non che interagiscono reciprocamente , perché nella totalità indistinta degli esseri si perderebbe la specificità dell'humanum, non è neppure una comunità biotica, perché questo sarebbe il segno di una degradazione antropologica. Che cosa è allora la natura nell'ordine assiologico, ovvero come si traduce in termini filosofici la natura come gloria di Dio? E' necessario, a mio avviso, elaborare un'ecofilosofia che sia un trait d'union fra teologia, personalismo ed etica. Tale ecofilosofia mi sembra possa trovare le sue radici nell'ontologia relazionale. Nella Bibbia è chiaramente affermata un'antropologia di relazionalità che non consente di immaginare l'uomo senza Dio e la natura senza l'uomo[33] La Bibbia -­‐afferma Antonio Bonora non considera mai il cosmo quale entità separata ed indipendente dall'uomo, né l'uomo come disgiunto dal cosmo, ma come eventi che accadono sotto un'immancabile azione divina e non come semplici dati o come pezzi accostati di un meccanismo cosmico[34]. La relazionalità, dice Bellino, ha il suo fondamento nell'ontologia: la vita stessa è apertura, comunicazione, relazione[35]" la pulsione di vita, seminata nella nostra natura irriga ogni minima piega della nostra esistenza. Ed è pulsione inesorabile di relazione, di co-­‐essenza: divenir e tutt'uno con l'essenza oggettiva (posta-­‐davanti) del mondo: tutt'uno con la bellezza della terra, l'infinitezza del mare, il sapore dei frutti, il profumo dei fiori. Un solo corpo con l'altro. L'altro costituisce l'unica possibilità perché la nostra relazione con il mondo abbia una reciprocità. E' il logos (verbo e ragione) di ogni essenza oggettiva. Logos che si rivolge a me e mi invita alla coessenza universale. Mi promette il mondo o kosmos della vita e lo straordinario ornamento o kosmena della totalità. Nella sola relazione"[36] Sul piano metaecologico, il pensiero dell'interconnessione si potrebbe dire che attinga le sue radici nell'ontologia relazionale, ontologia che si traduce in antropologia personalista e comunionale:"essere è in realtà inter-­‐essere, non poter essere solo in virtù di noi stessi , dover inter-­‐essere con ogni altra cosa"[37]. L'uomo moderno, afferma Mounier, è l'uomo che ha perduto il senso dell'Essere, che non si muove che tra cose, e cose utilizzabili, destituite dal loro mistero. Ma l'uomo, la vita, l'essere non sono res, oggetti, definibili una volta per sempre essenzialisticamente . Sono eventi. Una denuncia simile nei confronti del mondo moderno proviene anche da Martin Heidegger. Viene offerta una lucida analisi del pensiero del Filosofo su questi aspetti da Umberto Galimberti, nel commento alla lettera sull'umanesimo :"Se l'uomo, come esserci è apertura all'essere, non è l'uomo a decidere dell'essere, come pretendono la scienza e la tecnica moderna, ma è l'esserci dell'uomo a essere deciso dall'essere. Dire che l'essere è l'ethos dell'uomo significa dire che l'uomo dimora e soggiorna nell'essere. La dimora ed il soggiorno intervengono come elementi essenziali nella definizione dell'uomo che non può scegliersi altra dimora perché,in quanto apertura all'essere, se vuole essere uomo deve soggiornare nelle sue vicinanze".[38] 120 Mi sembra che l'uomo moderno per ristabilire l'armonia con la natura debba innanzitutto risvegliare la dimensione relazionale della propria coscienza, riscoprire un modo di rapportarsi con il mondo che non conduce alla sua appropriazione, ma allo stare insieme ad esso. Stare insieme al mondo é accoglierlo come tale, e riconoscerlo come creato. Questa relazione è frutto di uno sguardo "amoroso", contemplativo ed insieme sollecito. Lo sguardo contemplativo è lo sguardo attento di Simone Weil: "uno sguardo anzitutto attento, in cui l'anima si svuota di ogni contenuto proprio per accogliere in sé l'essere che essa vede così com'é nel suo aspetto vero. Soltanto chi è capace di attenzione è capace di questo sguardo" [39] L'attenzione è un atto che coglie la verità. E' un atto che lascia parlare l'essere. In quanto atto che coglie la verità, è un atto di pensiero."L'attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all'oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero, ma ad un livello inferiore, e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti ad utilizzare. Il pensiero, rispetto a tutti i pensieri particolari preesistenti, deve essere come un uomo su una montagna, che fissando lontano scorge al tempo stesso sotto di sè, pur senza guardarle, molte foreste e pianure. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l'oggetto che sta per penetrarvi"[40] Lo sguardo amoroso oltre che attento è anche sollecito, ovvero specificamente rivolto all'oggetto della cura: la sollecitudine è infatti ciò che unisce, lega i due poli della relazione. Prendersi cura del creato significa riconoscere l'essenzialità di un peculiare legame dell'essere umano con la creatura, riconoscere in essa una certa sintonia con il nostro essere. Importanti chiavi interpretative di un'ecofilosofia, o filosofia globale del rapporto uomo-­‐natura generata dall'ontologia relazionale, analogamente a quanto indicato per l'epistemologia, sono l'attenzione e la cura. L'attenzione rivela una dimensione essenziale del creato: il suo essere mistero e dono. Lo sguardo attento è luogo di una relazione che fa trasparire l'essere dell'altro come irriducibile all'io, la differenza fra me ed altro da me. La cura rivela un'altra dimensione essenziale del creato: il suo essere evento. "L'avvenimento -­‐dice sempre Mounier segna l'incontro dell'universo con il mio universo ... L'avvenimento è precisamente ciò che io non creo, la catastrofe, l'invito ad uscire fuori dal mio essere. La rivelazione dell'universo qui ancora termina con un dono"[41]. L'evento fa emergere il dinamismo dell'essere, la ricerca di un compimento nella relazione di cura con l'altro, relazione che porta a compimento, non solo l'altro, ma anche me, nelle rispettive irriducibili differenze. In questo senso, possiamo interpretare il concetto di unità espresso nella Carta della Terra " Noi siamo la terra, popoli, piante, e animali, piogge e oceani, respiro della foresta e corrente del mare. Onoriamo la terra, casa di tutte le cose viventi. In tutta la nostra diversità noi siamo uno"[42]. La prima e più immediata espressione di relazione dell'uomo con l'ambiente è la relazione di cura con l'ambiente-­‐casa, relazione che Sally Gadow, ad esempio, chiama "inerenza"[43]. L'inerenza secondo Gadow, sta ad indicare che l'esistenza umana da un lato sempre struttura il mondo che la circonda, dall'altro non è mai indipendente e avulsa da esso. L'ecosistema, ella afferma, è una rete astratta di spazi, mentre l'inerenza concretizza lo spazio nel luogo. Lo spazio concretizzato nel luogo, viene chiamato "casa". L'ecologia diventa quindi la logica della casa, un ideale d'inseparabilità dell'uomo interconnesso con specifici tempi e luoghi L'ecologia come logica della casa-­‐afferma Gadow sostanzia uno specifico modello etico: un'etica dell'inerenza, ovvero della cura nei confronti del luogo in cui viviamo. Il luogo, ella afferma, 121 significa situazione, paesaggio di significati non tracciati, di memorie e attese, conosciuti soltanto a chi è vissuto e vive nella casa.[44] Nella nostra cultura occidentale, la perdita del significato di ambiente-­‐casa, mi sembra possa ritenersi uno dei segni fondamentali della crisi ecologica. Da molti autori, fra cui Vittorio Hosle[45], l'interpretazione di tale crisi viene ricondotta al dualismo antropologico di matrice cartesiana, che deprezzando la natura fisica dell'uomo quale res extensa drasticamente contrapposta alla res cogitans, deprezza parimenti l'intero mondo di res extensae della natura. In questa prospettiva, l'ecologia come filosofia della casa sembra trovare le sue radici, in un'antropologia non dualistica, che rivalorizzi la corporeità, e quindi l'ambiente in continuità con il corpo. La continuità fra corpo ed ambiente-­‐casa emerge ad esempio dalla lettura dei seguenti brani del filosofo Virgilio Melchiorre: "l'uomo ha potuto vincere l'angoscia dell'elemento naturale appunto nel raccoglimento della casa, del campo, del giardino: raccoglimento della terra e dell'aria, del fuoco e della luce; raccoglimento che vince l'ostilità apparente dell'elemento, lasciandone anzi emergere la parentela e l'intimità col proprio corpo, portandolo a cospirare con quella centralità che noi siamo e per cui si costituisce un mondo. L'insieme delle cose, che arricchiscono la dimora e che in essa sono diversamente disposte, è appunto ordinato in questa cospirazione dell'ambiente e dell'io corporeo, e in tal senso costituisce appunto già un mondo: non a caso uno dei significati di mundus, diceva di un insieme ordinato e degli ornamenti raccolti per il corpo del guerriero o per quello della donna "[46] Fino a questo punto, ho tracciato i lineamenti possibili di una ecofilosofia che si radica in un ontologia relazionale, avvalendomi dei concetti di attenzione e cura quali chiavi interpretative. Mi sembra, tuttavia, di individuare nel contesto finora elaborato una doppia defaillance. La prima riguarda la fisionomia dell'ecofilosofia. I concetti di attenzione e cura , quali chiavi interpretative di un'ecofilosofia fondata su un'ontologia relazionale, delineano una filosofia del rapporto uomo-­‐ambiente nello spazio ristretto del qui, e nel tempo limitato dell'oggi. Tale modello interpretativo lascia, cioè, un ampio vuoto per quanto riguarda la filosofia di un rapporto uomo-­‐ambiente dilatato nello spazio e nel tempo, vuoto che si ripercuote in un'etica miope responsabile solo nei confronti delle nicchie ecologiche e della attuale generazione umana . La seconda defaillance riguarda le chiavi interpretative. L'antropocentrismo moderato del personalismo filosoficamente e teologicamente fondato, come fanno notare Sgreccia e Fisso, chiama in causa una specificità del dover essere dell'uomo, chiamato ad essere custode della natura "L'uomo per la sua superiorità è obbligato a rispettare la Natura con il ruolo di custode indispensabile di essa. Tale ruolo implica la possibilità di conferire diversa rilevanza alle diverse entità naturali, senza ridurle mai a delle semplici cose di cui servirsi a proprio piacimento"[47]. Il concetto di custodia, che Sgreccia e Fisso propongono, mi sembra possa costituire un'ulteriore chiave interpretativa di un'ecofilosofia fondata sull'ontologia relazionale, non solo per mettere maggiormente in evidenza la dimensione teologica del rapporto uomo natura la natura è un dono di Dio che l'uomo non deve dominare, ma custodire, ma anche per giustificare sul piano fondativo un'ecofilosofia che allarghi i suoi orizzonti nello spazio e nel tempo. La natura non va distrutta, non va strumentalizzata, nè sperperata , è un patrimonio che va custodito. La custodia sta ad indicare la necessità di protezione ed insieme di fruttificazione del creato. Come dice S. Weil : " Possa l'universo intero, da questo sasso ai miei piedi fino alle più remote stelle, esistere per me ogni momento come Agnese per Arnolfo e la cassetta per Arpagone. Se io 122 voglio il mondo può appartenermi come il tesoro appartiene all'avaro, ma è un tesoro che non si accresce"[48] Proteggere e fruttificare la natura è quindi la prospettiva etica: tale difficile equilibrio si realizza innanzitutto se permane quale obiettivo fondamentale il permanere della terra come habitat per la vita umana. Una delle maggiori sfide che l'ecologia oggi pone all'etica delle società industrializzate riguarda appunto la responsabilità per le future generazioni. Come fa notare Jonas, il nuovo potere della scienza e della tecnica chiama in causa una nuova responsabilità nei confronti del futuro dell'umanità "L'uomo non più semplicemente estremo esecutore, ma anche potenziale distruttore dello sforzo teleologico della natura, deve farsi carico nel suo volere dell'affermazione dell'essere, e nel suo potere della negazione del non essere. Il futuro dell'umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell'era della civiltà della tecnica divenuta, modo negativo, onnipotente"[49] Jonas, come sappiamo, radica la responsabilità dell'uomo nei confronti delle generazioni future sull'ontologia della biologia. Quale può essere invece, se può esservi, una base teoretica della responsabilità nei confronti dell'umanità futura, radicata nell'ontologia relazionale ? La relazione è ricerca di senso, ma insieme prospettiva di immortalità ed aspirazione d'infinito. Il tempo cronologico della finitudine umana può essere sublimato nella temporalità cosmologica della natura: come nell'alternanza dei cicli stagionali la vita sulla terra permane, così il genere umano sopravvive all'uomo, col permanere del mondo. La relazione in una prospettiva diacronica si realizza quindi nella possibilità di una vita umana futura, e la vita della terra è la condizione necessaria perché tale possibilità possa realizzarsi. Tale è, ad esempio, il punto di vista della filosofia ecologica di Hannah Arendt :il tempo cronologico della finitudine umana è sublimato nella temporalità "infinita" del mondo che continua, indissolubilmente legato alla vita della terra. L'obiettivo più profondo e ricco della speranza umana afferma la filosofa è l'eternità, il superamento della morte, ed il modo per acquistare l'immortalità è la generazione. Nell'amore per il mondo continua la filosofa trovano spazio l'amore per la vita e l'amore per la terra. Perché il mondo delle persone sopravviva è necessario curare la terra; la terra è quindi la quintessenza della condizione umana. Senza la terra non può esserci la vita, e la vita è il legame fra mondo e terra. La vita rende possibile la nascita, la nascita è l'inizio dell'iniziatore, quindi è l'inizio del mondo che continua. [50] Quando Hannah Arendt stendeva "Vita Activa", afferma Alessandro Dal Lago nella Prefazione a "Vita Activa" -­‐l'ecologia era solo un settore specializzato delle scienze naturali, e i primi manifesti dell'ondata ecologica (che si sarebbe ingrossata a partire dagli anni Settanta) non erano ancora stati scritti. Hannah Arendt , oltretutto non derivava la prognosi sulla distruzione dell'ambiente da ricerche specializzate, ma da una riflessione sul senso dell'agire umano. Era estraneo al suo modo di pensare qualsiasi assunto organicistico e vitalistico preliminare a una definizione della relazione tra uomo e cosmo. D'altra parte in questo saggio come in altri il concetto di natura non svolge alcun ruolo educativo o idilliaco; esso si riferisce in primo luogo alla nascita. Il nesso natura-­‐nascita ci permette di riflettere sull'insensatezza di un processo che si potrebbe riassumere come distruzione consapevole o non dei luoghi della nascitasiano essi le abitazioni costruite dall'uomo nel corso dello sviluppo culturale, oppure la terra su cui esse poggiano oppure il cielo che le sovrasta. In questo senso distruggendo la natura la società umana distrugge la condizione fondamentale della propria nascita e quindi della propria libertà".[51] 123 L'ecofilosofia di Hannah Arendt è quindi un'ecofilosofia squisitamente antropocentrica, che guarda all'uomo come unico soggetto di valore nell'ecosistema, ma riconosce la relazione profonda esistente sul piano esistenziale fra agire dell'uomo e vita della natura. Il concetto di custodia, come già detto, chiama in causa oltre che il mantenimento e la protezione anche la fruttificazione della natura. La fruttificazione richiede un agire umano che sappia armonizzare il pensiero nella prospettiva dell'avere con il pensiero nella prospettiva dell'essere, la logica strumentale con lo sguardo contemplativo. Perseguire questo equilibrio di difficile realizzazione richiede un ampio spazio di esercizio delle virtù, innanzitutto della virtù della prudenza (che deve valutare caso per caso nella specificità della situazione e con lungimiranza, guardando anche alla vita umana futura), poi della virtù della temperanza (che deve proteggere l'uomo dall'ingordigia della logica dell'avere) e last but not least la virtù della giustizia, una virtù che ci fa allargare la prospettiva dello sguardo all'umanità intera esistente sulla terra, una giustizia che si alimenti al fuoco della solidarietà umana. La prospettiva filosofica dell'ontologia relazionale sottolinea particolarmente e specificamente questa dimensione di solidarietà, in quanto "segno" concreto e reale di relazione fra gli uomini. Sarebbe una contraddizione in termine un'ecofilosofia radicata nell'ontologia relazionale che non promuovesse la solidarietà fra i popoli. Il concetto di custodia, radicato nell'ontologia relazionale, deve adottare uno sguardo ampio oltre che lungo, uno sguardo cioè che sappia abbracciare tutte le nicchie ecologiche, tutti gli ambienti-­‐
casa esistenti nel mondo. Illuminanti mi sembrano in questo senso le parole di Giovanni Paolo II:" la terra è essenziamente un'eredità comune, i cui frutti devono essere a beneficio di tutti." Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e i popoli" ha riaffermato il Concilio Vaticano II (Cost. Gaudium et spes..). Ciò ha dirette implicazioni per il nostro problema . E' ingiusto che pochi privilegiati continuino ad accumulare beni superflui dilapidando le risorse disponibili, quando moltitudini di persone vivono in condizioni di miseria a livello minimo di sostentamento. Ed è ora la stessa drammatica dimensione del dissesto ecologico ad insegnarci quanto la cupidigia e l'egoismo individuali o collettivi siano contrari all'ordine del creato, nel quale è inscritta la mutua interdipendenza"[52]. 124 [1] Per una classificazione delle etiche ambientali, si vedano i testi: SGRECCIA E., FISSO M.B., Medicina e morale 1996, 6: 1057-­‐1082; IDEM, Medicina e Morale 1997, 1:57-­‐74. [2] La distinzione antropocentrismo-­‐biocentrismo-­‐ecocentrismo si veda il testo: BARTOLOMMEI S., Etica e ambiente,Milano:Guerini 1989. [3] Un' utile classificazione dell'etica ambientale sulla base delle diverse modalità di argomentazione filosofica è contenuta nel seguente testo: DELLAVALLE S. L'umano e il naturale in IDEM (a cura di), Per un agire ecologico,Milano: Baldini e Castoldi 1998:11-­‐56. [4] Sulla correlazione identità femminile-­‐bioetica, è utile il riferimento al testo: MELE V., La bioetica al femminile , Milano: Vita e Pensiero 1998:32-­‐40. [5] Per un'analisi completa del personalismo ontologicamente fondato e la bioetica, si veda: SGRECCIA E., Manuale di bioetica Volume I Fondamenti ed etica biomedica, Milano: Vita e Pensiero 1999. [6] La scelta di indicare John Passmore quale esponente dell'antropocentrismo forte, a differenza di quanto più spesso viene indicato in letteratura, è motivato dal fatto che l'antropocentrismo cosiddetto forte o cowboy ethics, che si basa sull'assunto che le risorse della natura siano inesauribili e tutte al servizio dei consumi umani, mi sembra possa avere soltanto un valore storico e non sia più rappresentato a livello di letteratura di etica dell'ambiente. Ho preferito quindi attribuire all'antropocentrismo utilitarista la connotazione di antropocentrismo forte (nonostante venga spesso definito come debole) per differenziarlo maggiormente dall'antropocentrismo moderato ad impronta personalista [7] PASSMORE J., Eliminare le sciocchezze. Riflessioni sulla frenesia ecologica, DELLAVALLE (a cura di) ., Per un agire ecologico...p.247-­‐278. [8] NAESS A., The shallow and the deep ecology, Long-­‐range Ecology Movement .A Summary. Inquiry, 1973;16:95-­‐100. Per un interessante commento alla classificazione di Naess si veda: TALLACCHINI M., (a cura di) Etiche della terra Antologia di filosofia dell'ambiente , Milano:Vita e Pensiero 1998. [9] KING Y., The eco-­‐feminist perspective in CALDECOTT L., LELAND S. (eds) Reclaiming the Earth: women speak-­‐out for life on earth ,London: The Women's Press, 1983:120-­‐137. [10] IDEM, Toward an ecological feminism and a feminist ecology, in IDEM ( a cura di) Radical Environmentalism,Belmont: Wadsworth Publishing Company, 1993:70-­‐79. [11] Per un panorama del pensiero di Mary Daly, si veda: DALY M., Beyond God the Father: toward a philosophy of women's liberation, Boston: Beacon Press ,1974. [12] MELE , La bioetica al femminile... [13] SINGER P., Practical Ethics, trad.it. Etica Pratica, Liguori, Napoli 1989. [14] Un commento alla filosofia di Goodpaster si trova in:TALLACHINI, Etiche della terra ...p.37 [15] FOPPA C., L'essere umano nella filosofia della biologia di Hans Jonas:qualche aspetto, in PELLEGRINO P. (a cura di) Bari: Milella 1995. [16] FURIOSI M.L, .Hans Jonas ed il suo contributo alla fondazione della bioetica , in Atti del Congresso Internazionale"I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica", Roma 7-­‐8 settembre 2000, in corso di pubblicazione. [17] SGRECCIA, FISSO Etica dell'ambiente , Milano:Vita e Pensiero 1997:41. [18] FAGGIONI M., L'uomo è ancora signore del creato? Tracce di etica ambientale in "GS", Antonianum 1995;70:429-­‐472. [19] SALIO G., Ecologia profonda ed ecosofia, -­‐introduzione al libro di NAESS A, Ecosofia, Como:Red, 1994: 7-­‐20. 125 [20] Per uno studio storico dell'ecologia si vedano: DELEAGUE J.P., Storia dell'ecologia Una scienza dell'uomo e della natura, Napoli: CUEN 1994; WORSTER D., Storia delle idee ecologiche, Bologna: il Mulino 1994. [21] DELEAGUE., Storia dell'ecologia...p.24-­‐33. [22] TALLACCHINI, Introduzione.Una scienza per la natura, una filosofia per la terra , in: TALLACCHINI ., (a cura di)Etiche della terra...p.15. [23] CALLICOT J.B., The metaphysical implications of ecology, Environ. Ethics 1986, 4:301-­‐316. [24] DELEAGUE., Storia dell'ecologia...p.197-­‐221. [25] LOVELOCK J., Gaia:a new look at life on earth, New York: Oxford University Press 1979. [26] MIGLIETTA G., MELE V., L'interesse per l'ecologia nella formazione della bioetica generale. Modelli antropologici di riferimento per l'elaborazione di un'etica ambientale, in Atti del Congresso Internazionale "I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica", Roma 7-­‐8 settembre 2000, in corso di pubblicazione. [27] COMMONER B.,The closing circle:nature, man and technology, New York: Alfred A. Knopf, 1972, p.41. [28] LA VERGATA A., Filosofia e biologia, in ROSSI P. (a cura di), La filosofia vol.II La filosofia e le scienze,Torino:Garzanti 1996, p.155. [29] CALLICOTT J.B. , The metafisical implication of ecology, Environ.Ethics, 1986,12:301-­‐316. [30] Una interessante e sintetica messa a fuoco dell'olismo si trova in : GADOW S., Existential ecology:the human/naturalworld, Soc.Sc.Med., 1992, 4:597-­‐602. [31] NAESS, Ecosofia ... [32] Ibidem. [33] AUTIERO A., Una speranza per il nostro pianeta, in POLI C., TIMMERMAN P. (a cura di), L'etica nelle politiche ambientali, Padova: Gregoriana Editrice, 1991: 91. [34] BONORA A., L'uomo coltivatore e custode del suo mondo in Genesi 1-­‐11, in CAPRIOLI A., VACCARI L. ( a cura di)Questione ecologica e coscienza cristiana, Brescia: Morcelliana, 1988 :157. [35] Un interessante analisi della prospettiva dell'ontologia relazionale si può trovare in: BELLINO F., La storia della bioetica e la svolta pedagogica attuale, in Atti del Congresso Internazionale "I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica", Roma 7-­‐8 settembre 2000, in corso di pubblicazione. [36] I brani di YANNARAS CH., sono riportati e commentati in: BELLINO, La storia della bioetica ... [37] Il riferimento a NHAT HANH T, si trova sempre in BELLINO, La storia della bioetica.. [38] GALIMBERTI U., Invito al pensiero di Heidegger, Milano: Mursia 1989:68-­‐69 [39] I brani di Simone Weil commentati sono ripresi da : MELE , La bioetica al femminile...p.85-­‐
89 [40] Ibidem [41] Ibidem [42] BELLINO, La storia della bioetica... [43] GADOW, Existential ecology...p.601. [44] Ibidem [45] HOSLE V., Filosofia della crisi ecologica, Torino:Einaudi, 1992:53-­‐55. [46] MELCHIORRE V., Corpo e persona, Genova: Marietti, 1991:129. [47] SGRECCIA E., FISSO M.B., Etica dell'ambiente, Medicina e Morale, 1997; Suppl.3: 41 [48] WEIL S., L'ombra e la grazia, Milano: Rusconi, 1985:128. [49] JONAS H., Il principio responsabilità, Torino: Einaudi, 1990:37. 126 [50] Per una analisi del rapporto amore per il mondo, nascita e mondo in Hannah Arendt si vedano: RICCI SINDONI P.,Hannah Arendt. Come raccontare il mondo, Roma, Studium 1995; MELE V., La bioetica al femminile...p.75-­‐76 [51] DAL LAGO A., La città perduta Introduzione, in ARENDT H., Vita activa, Milano: Bompiani, 1991: XXVI-­‐XXVII. [52] GIOVANNI PAOLO II, Pace con Dio creatore. Pace con tutto il creato n.8. Il messaggio de Papa per la giornata mondiale della pace 1990, ripreso da: AaVv. La responsabilità ecologica, Roma: Studium, 1990:194-­‐195. 127 MAURO COZZOLI
LA LEGGE NATURALE A DIFESA DELLA VITA Le ragioni e i limiti della difesa della vita fisica La vita ha sempre interpellato la morale in ordine alle possibilità e alle condizioni d'intervento su di essa, alla obbligatorietà e ai limiti della sua tutela. Queste interpellanze si sono fatte oggi più pressanti, complesse e urgenti, in ragione dei progressi biomedici e della loro traduzione biotecnologica, con l'enorme carico di questioni che le crescenti possibilità manipolatrici e invasive pongono e si trascinano. E' legittimo il loro impiego? E' anche doveroso? Lo è in ogni caso? Quali sono e da che cosa sono determinati i limiti d'intervento e di difesa della vita? Alla morale compete offrire risposte. Risposte non soltanto normative, intese cioè a tracciare i confini del lecito e dell'illecito e a configurare gli obblighi e la loro vigenza. Ma anche -­‐ ed oggi diciamo ancor più -­‐ motivate: intese cioè a dare ragione delle norme, in modo da essere trovate non solo vincolanti ma anche credibili. E questo non nell'ambito del proprio credo, delle proprie tradizioni o del proprio ethos, ma su scala mondiale, al cui livello si pongono oggi le questioni bioetiche suscitate dal progresso biomedico e biotecnologico e acuite dalla ventata secolaristica e relativistica che ha investito e problematizzato il senso e il valore della vita. Siamo in presenza di una delle grandi sfide alla mondializzazione dell'etica. E' una sfida per la Chiesa, chiamata a dischiudere la via della salvezza a tutti gli uomini sulla strada della vita morale[1]. E' in questa prospettiva che il magistero della Chiesa e la teologia ritrovano, ripensano e rilanciano la perenne attualità della natura umana e della legge naturale come fonte e criterio d'intelligenza etica, d'intelligenza in particolare della verità della vita e dei suoi obblighi morali. Qui vogliamo delinearla e proporla in ordine alle ragioni e ai limiti della difesa della vita fisica. A un duplice livello di riflessione: fondativo, il primo, inteso ad accreditare la natura e la legge naturale come principio e fondamento di eticità;normativo, il secondo, inteso a configurare gli obblighi morali che ne conseguono. Al fine di illuminare la rilevanza e l'attualità per la Chiesa della via della natura e della legge naturale alla conoscenza del progetto di Dio sulla vita, ho scelto di corredare e suffragare questo studio con una documentazione attinta al magistero della Chiesa, al suo più alto livello d'insegnamento. NATURA E LEGGE NATURALE Nella temperie culturale che ha investito e travolto il concetto ed ogni riferimento alla natura e alla legge naturale, occorre ritrovarne il senso genuino e pregnante, riscattandole dalle distorsioni del passato e dai fraintendimenti del presente. Una più attenta e attualizzante considerazione è doverosa e possibile per l'intelligenza, provocata oggi dalle istanze ineludibili e dalle sfide radicali della complessità, della storicità e della prassi. La teologia e la Chiesa non rifuggono da esse, ma si pongono in ascolto vigile e dialogico. Prestando attenzione alle critiche, molte delle quali legittime e stimolanti, e a partire da queste, dobbiamo prima di tutto mostrare la fondatezza logica ed epistemologica d'ogni richiamo etico e bioetico in specie alla natura e alla legge naturale. NATURA E VITA Natura e vita sono termini correlativi. La natura abbraccia la vita ed ha nella vita la sua manifestazione nobile e più insigne. La vita, a sua volta, è comprensibile nell'orizzonte di senso 128 della natura[2]. Senza questo costitutivo richiamo alla natura, essa tende a perdere ogni elemento di significazione e differenziazione ed ogni valenza immutabile e perenne. Diventa un elemento della cultura, relativo al fluttuare delle opinioni, delle sensibilità e delle ideologie. Senza relazione all'ontologia, vale a dire all'essenza cioè all'essere (essenza da esse) che la sostanzia e che la natura esprime, la vita diventa una variabile relativa a tutto e a tutti. Così perdiamo un senso unitario e condiviso di questo bene basilare e primario. Ciascuno se ne modella il proprio. Il che è sintomo di un regresso, perché discordare sulla vita allontana le coscienze, impedendo la condivisione, la comunicazione e la reciprocità. Per quanto il concetto di natura possa passare per il vaglio della critica, come è avvenuto nel nostro tempo, non possiamo prescindere da essa e relegarla all'archeologia semantica, quasi una nozione d'altri tempi. Perdere il riferimento alla natura è smarrire l'habitat ermeneutico della vita ed esporla a tutte le espropriazioni e ideazioni di senso. Porsi nel contesto e nell'alveo veritativo della natura significa accostare e comprendere la vita attraverso una fenomenologia di penetrazione del dato ossia di lettura meta-­‐fisica, in grado di doppiare l'evento sperimentale e descrittivo, attraverso un conoscere di senso e di valore. In tal modo la vita che sottostà a tutti gli esseri viventi assume rilievo. L'unica vita, che fa di un essere un vivente, si diversifica secondo lo statuto ontologico di ciascuno. La natura è la via all'essere e perciò alla verità originaria e specifica delle "specie" viventi. Non basta un approccio empirico e descrittivo. Questo coglie gli elementi sperimentali e superficiali: importanti e indispensabili in ordine a un sapere scientifico e tecnico, ma insufficienti e inadeguati a percepire la sostanza e il valore. Per questi occorre un'intelligenza meta-­‐empirica, in grado di penetrare il dato (l'empiria) e cogliere la natura (la physis), l'essenza di ogni vivente, e affermarne la dignità secondo la specie. Questo oggi va detto in modo esplicito e convinto. Perché la dittatura del sapere empirico e l'antimetafisica del pensiero dominante sbarrano le porte ad ogni intelligenza in termini di natura, sbilanciando sulla cultura ogni discorso concernente il significato, la dignità e il valore. Con il risultato di un generale appiattimento delle forme di vita, delle cui sporgenze di senso e di valore decide autonomamente e arbitrariamente l'uomo: questi diventa il padrone e l'arbitro della vita. Non può essere diversamente quando la vita è svuotata d'ogni oggettività e relativizzata all'opinare dei soggetti. Si produce così lo scivolamento dalla natura alla cultura. Questa è "fatta" dall'uomo, è perciò relativa all'uomo: soggetta alle sue sensibilità e disponibilità. La natura invece è "fatta" prima, da una sapienza creatrice che chiama l'uomo all'ascolto contemplativo e conoscitivo[3]. Non si tratta di contrapporre natura a cultura, ma di arginare la deriva culturale cui è sottoposta oggi la "verità della vita" e di suffragare le debite istanze culturali cui la vita non può essere sottratta. Senza dubbio nel passato la riflessione sulla vita ha conosciuto uno sbilanciamento sul versante della natura, con scarsa attenzione ai risvolti culturali. La metodologia era pressoché deduttivistica, potendo disporre di assai pochi e spesso incompleti e inadeguati contributi scientifici e fenomenici. La riflessione risentiva dell'astrattezza di un discorso in termini di essenze, sostanze e accidenti. Ma il congedo dalla natura, a beneficio di un metodo esclusivamente induttivo della verità e della dignità della vita, la priva di referenti valoriali, abbandonandola alla congerie di aporie in cui s'impiglia oggi il discorso sulla vita o alla pochezza e indifferenza di senso con cui da molti è considerata. La vita trae significato e valore dalla natura, ma trova forma concreta e storica nella cultura, in cui di volta in volta e di contesto in contesto fa risplendere o adombra il suo valore. La cultura è un habitat di presupposti, opinioni e disposizioni che lo sviluppo scientifico, da una parte, e la comunicazione mass-­‐mediale, dall'altra, vanno ispessendo e globalizzando. Dalla qualità della cultura dipende in buona parte la permeabilità della natura alle coscienze. La verità della natura senza la mediazione della cultura viene a mancare, oggi specialmente, del supporto immediato e pervasivo di comunicazione. Per 129 questo il risvolto e il tramite culturale non solo non può essere trascurato ed eluso, ma dev'essere acquisito alla coscienza e alla responsabilità di ogni riflessione e amore per la vita. LA VITA UMANA Abbiamo fin qui parlato della vita tout court, in riferimento alla natura che la significa. Ma è proprio la natura a stagliarne e differenziarne le forme, a farne risaltare la forma eminente e singolare: quella umana. E' nell'umano che la vita raggiunge ed esprime la dignità e il valore più elevato, ma di una elevazione trascendente a motivo di una discontinuità o disomogeneità rispetto ad altre forme di vita La vita vegetale e quella animale appartengono al mondo degli elementi, ovvero degli esseri predeterminati, la cui vita è interamente segnata e preordinata dalla natura. Questa, attraverso un complesso di induzioni e reazioni vegetative (nelle piante) e psico-­‐fisiche (negli animali), presiede all'attività e al ciclo vitale di ciascun organismo. Le stesse pulsioni, istinti, sensazioni e sentimenti negli animali rispondono a tale predeterminazione. A differenza della vita umana, la quale s'eleva con lo spirito sulle forme pre-­‐umane di vita. Dire spirito è dire libertà, mediante cui il vivente umano è in grado di assumere la propria vita (e la realtà animata e inanimata che lo circonda), di indirizzarla e progettarla. Egli la comprende con l'intelligenza e decide di essa con la volontà: le due facoltà spirituali che strutturano la libertà. Con lo spirito il vivente umano sporge su ogni altro vivente. La sua vita è al vertice della gerarchia dei viventi, perché non interamente predeterminata dalla natura ma da questa "posta nelle sue mani": egli è soggetto di determinazione. Che anzi dell'individuo umano solamente si può dire che vive davvero, perché soggetto della propria vita: egli vive, non è vissuto dalla vita. Il suo spirito è il principio attivo della propria vita. Gli animali senza lo spirito magis aguntur quam agunt, perché determinati e indotti dalla loro natura. Gl'individui umani invece dalla natura sono costituiti soggetti attivi della propria vita[4]. E' la natura il principio enunciativo primo e perenne della vita umana e della sua verità, perché rivelativo dell'essenza, della qualità sostanziale e perciò caratterizzante e immutabile. Senza questo ancoraggio logico ed epistemologico alla natura, la vita umana è in balia delle ideologie di turno e delle opinioni dominanti. Non potendo far valere una verità assiale ossia sostanziale, cui articolare ogni concrezione e risvolto culturale, la vita umana subisce gli sbilanciamenti delle tendenze e delle preferenze socio-­‐culturali. Essa è compresa e definita a partire da queste, piuttosto che dall'ontologia qualificativa del vivere umano. Nella disaffezione e nella disabitudine delle intelligenze al conoscere metafisico, in grado di raggiungere la verità trascendentale, si mantiene un profilo conoscitivo più modesto e debole, di tipo descrittivo, determinato da criteri di efficacia, convenienza e soddisfazione[5]. Allora si fa strada una concezione indifferenziata della vita, incapace di cogliere e salvaguardare il valore e la dignità singolari della vita umana, rispetto ad altri viventi. Al punto di equiparare la vita animale o di talune specie animali alla vita umana o da disconoscere la dignità umana della vita in determinati stadi del suo sviluppo o condizioni del suo essere al mondo. QUALE NATURA? Natura è termine che si è venuto caricando di una pluralità di significati, così da essere preso e adoperato con accezioni diverse e non previamente chiarite e condivise nell'ampio dibattito che si è acceso intorno ad essa in epoca contemporanea. Il che è fonte di non pochi equivoci e incomprensioni. La presa di distanza e l'abbandono della natura come fonte del conoscere è in buona parte da attribuire al malinteso concettuale. Cui si è abbondantemente prestato -­‐ come abbiamo rilevato -­‐ un uso astrattivo ed essenzialistico, vale a dire astorico e disincarnato del 130 concetto di natura da parte dei suoi tradizionali fruitori: un concetto assai più speculativo che significativo, come tale alieno dalle frequentazioni conoscitive dell'uomo pratico e concreto di oggi. Sostanzialmente la nozione di natura ha subito due radicali sbilanciamenti o riduzioni. Il primo di tipo spiritualistico, tendente a concepirla come un ordine di essenze astratte, incapace di cogliere appieno e dar conto della concretezza esistenziale, individuale, corporea, sociale, storica e cosmica del vivere umano (come anche del disegno storico-­‐salvifico del Dio biblico e dell'evento cristologico). Così da comprendere e accreditare l'uomo e la sua vita secondo una concezione sbilanciata sulle dimensioni e facoltà spirituali. La natura dell'uomo coinciderebbe essenzialmente con l'anima. Il secondo sbilanciamento e riduzione è di tipo fisicistico, in senso sia cosmologico che biologico. Nel primo senso la natura coincide con ciò che chiamiamo il creato, il quale abbraccia tutto il mondo infraumano dell'universo inanimato, vegetale e animale. Verso questa accezione e forma della natura c'è oggi una sensibile e crescente attenzione, propagata e acuita dalla questione ecologica: dal bisogno di salvaguardare le risorse e gli equilibri ecosistemici dall'accresciuto e progressivo potere di sfruttamento dell'uomo. E' questo il senso e l'ambito che il termine natura evoca generalmente e immediatamente nell'immaginario collettivo: natura come mondo allo stato brado e spontaneo, non sfruttato e contaminato, e perciò come contesto di vita per l'uomo. Nel secondo senso la natura viene a coincidere con la vita fisica dell'uomo, vale a dire con le espressioni corporee del vivere umano, così che naturale è ciò che è conforme alla composizione anatomica o alla dinamica fisiologica dell'organismo umano. Esso si oppone ad artificiale: ciò che supplisce, integra o sostituisce un organo o una funzione biologica. Così, per esempio, è naturale il parto fisiologico, l'allattamento al seno, la dieta alimentare, l'astensione dai rapporti sessuali nei periodi genesiaci come metodo di regolazione della fertilità; è artificiale il parto cesareo, l'allattamento con latte confezionato, la dieta farmacologica, il ricorso ai mezzi contraccettivi[6]. Queste sono concezioni parziali e unilaterali e perciò inadeguate ad esprimere la ricchezza profonda e pregnante della natura in genere e della natura umana che ne è il fulcro e la cifra di significazione. La natura esprime il dato reale e veritativo originale e primario dell'esistenza. Così che alla sua luce noi comprendiamo l'essenza degli esistenti, conosciamo cioè la verità costitutiva di tutto ciò che è: la verità dell'essere (ontologica) e del valore (assiologica) e delle relazioni fra gli esseri. Conoscere la natura è portarsi alle radici, alle manifestazioni native della verità. Per la via dell'autocoscienza del conoscente, che s'interroga sull'essenza del proprio essere: chi sono io? E' da questa autocoscienza e dal conoscere, che essa instaura ed espande, che emerge il senso personale della natura: natura come persona. La natura affiora alla coscienza come percezione della centralità e interezza del soggetto conoscente, e delle relazioni che lo rapportano a tutti gli altri esseri. E' quanto esprime il concetto di persona, che comprende e integra tutto questo. Non si tratta di una natura astratta e disincarnata e neppure cosmologica e fisica in senso riduttivo, ma della natura della persona (personalistica): unitotalità individuale di spirito e corpo, in relazione creaturale e salvifica a Dio, in rapporto amicale e sociale con gli altri soggetti umani, in solidarietà con il mondo e con la storia. Espressione, questa, di una concezione globale della natura, integratrice di tutte le componenti e le relazioni dell'essere umano. Essa è compresa a partire dal soggetto umano e dalle sue relazioni, secondo cui prendono senso e valore gli esistenti e i legami tra essi[7]. La verità che ne emerge -­‐ la verità della natura -­‐ non è una verità derivata, un "prodotto" dell'uomo: il "risultato" di una elaborazione mentale o culturale. E' la verità costitutiva degli esseri e dei loro legami. Verità essenziale e decisiva e perciò ineludibile e inalterabile: da essa non si può prescindere e non è soggetta all'arbitrio dell'uomo. Nei suoi confronti l'uomo non ha un potere manipolatore. Si dispone piuttosto in atteggiamento di ascolto, riconoscimento e fedeltà. 131 Perché la natura non è disegno del suo ingegno e opera delle sue mani. La natura è presupposto e principio primo: "ciò a partire da cui" la mente umana argomenta ed elabora e le mani dell'uomo trasformano e plasmano. Prescindere dalla natura è attribuirsi un potere creatore della verità che l'uomo non ha. Tutte le volte che lo fa imbocca sempre una via umanamente perdente e deludente. DIO E LA NATURA La verità della natura appartiene al Creatore, che l'ha pensata e l'ha posta in essere, e ha dato all'uomo l'intelligenza per conoscerla e la volontà per farsene carico. La natura di soggetto dell'uomo è in questo suo essere non semplicemente parte della natura ma sporgente con il suo spirito su di essa, per comprenderla e assumerla. In questo l'uomo riflette la dignità personale (è "ad immagine", dice la Bibbia) di Dio. Conoscendo la natura l'uomo ravvisa il progetto creatore divino e prendendola in carico continua l'azione creatrice di Dio. E' con-­‐soggetto del progetto e dell'opera creatrice di Dio. Il che è consapevolezza esplicita e riflessa nel credente, implicita e irriflessa nel non credente. Mettersi in ascolto attento e rispettoso della natura ha un significato non solo conoscitivo ma anche religioso. Ha valenza più che noetica: ha valenza teologale. L'attenzione e fedeltà alla natura è sempre attenzione e fedeltà a Dio. La via della natura è via a Dio: via ecumenica, per tutti. Attraverso la natura Dio si rivela e parla all'intelligenza di ogni uomo ed ogni uomo risponde a Dio. NATURA E LEGGE NATURA La verità della natura non è solo diretta all'intelligenza concettuale, è rivolta anche alla ragione pratica. Essa infatti è portatrice di significati non solo teoretici, ma anche etici: significati non meramente concettuali, espressioni delle essenze, ma anche pratici, espressioni delle esigenze. In genere dalla verità interna agli enti, ai loro dinamismi e ai loro nessi, la conoscenza deriva un sapere non solo scientifico ma anche operativo. Questa è legge (metodologia) del sapere. Ora l'operatività concerne non solo il fare empirico e produttivo ma anche l'agire morale e realizzativo delle persone. Il primo è sotto l'istanza del sapere poietico, proprio del conoscere fisico. Il secondo sotto l'istanza del sapere etico, proprio del conoscere meta-­‐fisico. Il sapere poietico deriva leggi tecniche di funzionamento e produzione dai dati delle scienze empiriche o positive. Il sapere etico deriva norme morali di comportamento e azione dai significati delle scienze meta-­‐empiriche o filosofiche. Tali significati hanno valenza non solo di verità (verum) ma anche di bene (bonum), nonché di bello (pulchrum). Una fenomenologia della persona -­‐ nella integralità del suo essere individuale (in sé), creaturale e trascendente (da e per Dio), relazionale e sociale (con gli altri), cosmico e storico (nel mondo e nella storia) -­‐ mette in luce una pluralità di beni, in cui si rifrange e da cui è costellato il bene centrale della persona. In essi la persona si esprime e attraverso essi si compie[8]. Il che equivale a dire che convengono in modo originario e finalizzante alla persona: appartengono alla sua identità e alla sua realizzazione. In essi prende forma primaria la natura della persona[9]. Così abbiamo il bene, per esempio, della vita fisica, dell'integrità corporea, della sessualità, della libertà, del lavoro, del diritto, dell'amicizia, del matrimonio, della famiglia, della società, della politica, della preghiera, della fede, della cultura, dell'ambiente... Tali beni sono anzitutto ontici, nel senso che rispecchiano l'essere della persona: ciò in cui esso prende forma sotto un aspetto particolare. La morale classica li chiama beni fisici: elementi, qualità, requisiti, inclinazioni attinenti alla persona. La loro carenza è un male ontico, 132 un'anomalia fisica: la semplice mancanza di qualcosa che comunemente compete a qualcuno. Così, ad esempio, male ontico o fisico, patito da un individuo, può essere un handicap corporeo o mentale, la mancanza di lavoro, una limitazione di libertà, la perdita di una persona cara, un insufficiente grado d'istruzione. In quanto avanzano esigenze di rispetto, tali beni sono morali[10]. Come tali comportano obblighi, vincoli, doveri, responsabilità. Sono non soltanto indicativi ma anche imperativi. Essi sono valori da riconoscere, assumere, tutelare, onorare, promuovere. Così che disconoscerli, offenderli, danneggiarli, violarli è un male morale, e perciò eticamente illecito, inammissibile e colpevole: è un peccato. Il che rende cattivo o malvagio un individuo. Nessuno è riprovevole per il difetto di un bene fisico o il patimento di un male fisico: per esempio la malattia, la povertà materiale, l'analfabetismo, l'ignoranza del Vangelo. Lo si è invece per la negligenza di un bene morale e soprattutto per il compimento di un male morale: per esempio, la calunnia, l'ipocrisia, il tradimento, l'apostasia. Questo vuol dire che la natura è principio non solo di un'ontologia ma anche di un'assiologia e quindi di un'etica. Il complesso di beni morali o valori espressi dalla natura della persona, in ragione degli obblighi che avanzano, è alla base dell'etica. Essi costituiscono come l'alfabeto dell'etica: gli elementi primissimi, che prendono forma imperativa immediata nelle proposizioni apodittiche. Queste esprimono, in forma imperante o proibente, la carica di esigenza prima, generale e immediata di ciascun valore. L'esempio più significativo è costituito dal decalogo: i comandamenti della legge mosaica non sono che la traduzione imperativa primaria di ben precisi valori o beni morali[11]. Sorge e comincia a delinearsi così la legge naturale. Di questa, beni morali e proposizioni apodittiche costituiscono le espressioni originarie[12]. San Tommaso li chiama "principi primi" della legge naturale. Essi sono dati con la coscienza stessa della persona, della sua verità e dignità. Appartengono alla sinderesi, che è il nucleo originario della coscienza. La loro conoscenza non è di tipo argomentativo ma percettivo, se non proprio intuitivo. Nel senso che sono appresi con il senso stesso della persona e del suo valore. Non c'è senso della persona senza di essi ed in essi si esprime, prende forma il bene della persona[13]. Nei principi primi la norma d'azione espressa è piuttosto generica e astratta. Essi dicono molto in generale ma poco in particolare: nella concretezza, complessità e problematicità dell'agire concreto e tematico. Per cui c'è bisogno di una mediazione normativa, in risposta alle interpellanze etiche avanzate da determinate e ricorrenti questioni morali. Qui i principi primi diventano criteri e referenti di specifiche e concrete norme di comportamento, elaborate dall'autorità morale per via argomentativa. Tali norme sono di legge naturale anch'esse, essendo implicazioni logiche, determinazioni applicative di principi primi. Come tali sono dette "principi derivati" o "secondi" della legge naturale. Il carattere naturale e perciò razionale di queste norme è principio e garanzia della loro universalità. E perciò della loro comunicabilità e condivisibilità tra gli uomini, nel tempo e nello spazio. La legge naturale è il comune denominatore eticonella molteplicità e diversità delle culture[14]. Ma anche e ancor più in un mondo in via di globalizzazione, alla ricerca preoccupata del codice etico: il codice normativo del "villaggio globale" e della "casa comune". Per quante critiche e resistenze la legge naturale possa oggi incontrare, da essa uomini e popoli non possono prescindere. Della legge naturale c'è un insopprimibile e impellente bisogno, quale garanzia dei beni e dei diritti fondamentali e universali da assicurare ed esigere per tutti. 133 LEGGE DELLA PERSONA Attinta alla verità della persona come identità e come fine, la legge naturale non ha carattere precettistico o legalistico: espressione di un volontarismo eteronomico, fosse pure di provenienza teonomica. Essa cioè non è elaborata, compresa e fatta valere come un codice di atti e comportamenti comandati da qualcuno dal di fuori, fosse pure da Dio. Essa è proposta e percepita come un complesso di esigenze e compiti suscitati dalla verità della persona, che è lo stesso soggetto agente. Alla sua base c'è il logos (verità) della persona, il quale implica un axios (valore), per se stesso portatore di un deon(dovere), che prende corpo nel nomos (la legge), in vista del telos (fine) realizzativo della persona. Al principio, al centro e alla fine della legge naturale c'è la persona[15]. C'è l'essere della persona, di cui la legge naturale enuncia il dover-­‐essere, insieme ontologico-­‐realizzativo ed etico-­‐normativo: il secondo in ordine al primo, come via al primo; ed il primo come prospettiva di senso del secondo. Per questo la legge naturale non è il codice legale di un Dio legislatore e giudice, che detta all'uomo le condizioni salvifiche. Ma l'armonia e l'ordine della natura, secondo cui cioè il Creatore ha forgiato e correlato le creature e che queste rispecchiano[16]. Per questo San Tommaso non la definisce come comando (imperium) della volontà di Dio, ma come ordinamento della ragione (ordinatio rationis). La legge naturale cioè esprime un ordine normativo e vincolante, conosciuto ed enunciato dall'intelligenza[17]. Il che mette in luce e in primo piano la valenza antropologica della legge naturale: legge dell'intelligenza, norma razionale[18]. Ma in filigrana si scorge lo sfondo teologico. Usando rettamente della ragione l'uomo entra in sintonia con la sapienza creatrice divina. In questo senso la legge naturale è il riflesso nella coscienza e nell'intelligenza dell'uomo della legge eterna (la stessa legge naturale come essa sta nella mente del Creatore)[19]. Essa è -­‐ come la dice S. Tommaso -­‐ " partecipazione della legge eterna nella creatura razionale"[20]. Dio dunque non comanda all'uomo la sua legge ma gli ha dato l'intelligenza per cercarla, conoscerla e farla propria[21]. Il che accredita una comprensione personalista non precettistica, una fondazione autonoma non eteronoma della legge naturale. Il suo significato è profondamente umano ed insieme divino. Il Dio della legge naturale non è il legislatore e giudice delle eteronomie divine, ma il creatore e redentore dell'autonomia del soggetto etico[22]. La stessa rivelazione e la fede avvalorano questa valenza antropologica e impianto personalista della legge naturale. Esse non sono principio di un volontarismo biblico, che congeda la ragione etica, ma della novità etica cristiana: di nuovi richiami e contributi, propri della parola e della grazia, alla coscienza e intelligenza dell'uomo. Il che è messo in evidenza specialmente dal principio della creazione e dal principio cristologico. Il primo sta a richiamare l'appartenenza della natura alla storia della salvezza: questa incomincia già con la Genesi, vale a dire con la creazione, la quale è integrata a pieno titolo nell'alleanza di Dio con l'uomo. Il principio cristologico sta a significare la partecipazione della natura umana alla natura divina: con l'incarnazione il Figlio di Dio assume la natura dell'uomo, e con la risurrezione la eleva alla vita di Dio. Insieme i due principi stanno a mostrarci come l'ordine soprannaturale della grazia non sia un ordine appositivo o disconoscitivo dell'ordine della natura, ma di riconoscimento, assunzione, redenzione ed elevazione di questo. La legge naturale è la legge che Cristo non è venuto ad abolire ma a portare a compimento nella sua pienezza di senso e di esigenza. La legge nuova (legge della grazia, legge di carità, legge dello Spirito Santo, legge di perfezione e di libertà) non è una legge altra e aliena alla legge naturale, ma il suo perfezionamento conoscitivo e operativo: è la legge naturale entro l'economia d'illuminazione e abilitazione della grazia. Gratia non tollit sed perficit naturam: la grazia non prescinde e non annulla ma compie e perfeziona la natura[23]. 134 LEGGE NATURALE E DIFESA DELLA VITA Sullo sfondo della natura si staglia e delinea la verità, il valore e la legge della vita. La natura costituisce il background di senso veritativo e normativo della vita umana. Su di esso noi comprendiamo i doveri che il bene della vita comporta in ordine alla sua tutela e promozione e nel contempo i limiti della sua difesa. Senza questo referente razionale e universale della natura, la vita umana è esposta a criteri valutativi volubili e arbitrari. Essa non risponde più alla sua valenza oggettiva ma a precomprensioni soggettive e a sensibilità culturali cangianti, alla mercé di poteri forti, manipolatori dell'opinione pubblica e della legalità democratica. Nonostante tutto la vita umana è un bene oggettivo e avanza esigenze oggettive di rispetto. Questa oggettività è configurata e garantita dalla natura e dalla legge naturale[24]. LEGGE NATURALE E BIOETICA In relazione alla vita il logos, l'axios e il deon espressi dalla natura hanno nel bios un basilare campo di inveramento. Non si può comprendere la vita umana e gli obblighi che essa crea a prescindere dalla corporeità biologica. Questa è portatrice di elementi veritativi decisivi per conoscere lo statuto ontologico ed etico della vita umana. Perché il corpo è manifestazione dello spirito e componente coessenziale del vivere umano. Nel bios corporeo prende forma visibile la vita della persona. Così che la natura corporea della persona ha valenza più che biologica: ha "significato morale"[25]. Ciò che il corpo rivela nella sua struttura organica come nelle sue dinamiche fisiologiche non è eticamente indifferente ma significativo: è rilevante in ordine alle esigenze di rispetto, tutela e promozione della vita umana come anche alla cessazione di queste esigenze[26]. Ciò sta a dire che la conoscenza e la determinazione della legge naturale nel campo della vita esige e s'avvale della razionalità biologica. E' questa, per esempio, a dirci quando incomincia la vita individuale umana e quando invece essa finisce, al fine di precisare il momento iniziale e terminale dei nostri obblighi, delle cure cioè ad essa dovute. Gli apporti delle scienze biologiche e mediche, e i loro sviluppi sono importanti per una migliore e più precisa comprensione e determinazione della legge morale naturale nel campo della vita. Il nomos che la legge naturale esprime in questo campo, il complesso cioè delle norme a tutela della vita fisica e che oggi va sotto il nome di bioetica, ha in sé e non può non avere una sua intrinseca ragionevolezza. Insegnato dalla Chiesa, non ha nulla di dogmatico, perché essa lo attinge al conoscere biologico e meta-­‐biologico, frutto dell'intelligenza verificatrice e interpretativa, empirica e valutativa, come tale comunicabile e condivisibile da ogni uomo, indipendentemente dal credo religioso. Ovviamente la Chiesa non prescinde dalla fede, dall'intellectus fidei del vangelo. Essa annuncia il "vangelo della vita", principio fontale e ispiratore del messaggio bioetico della Chiesa. Ma lo fa nell'esplicita e dichiarata persuasione del suo intrinseco e profondo significato antropologico, vale a dire umano e umanizzante e perciò razionalmente pervio ad ogni intelligenza[27]. La dignità e il destino soprannaturale della vita umana presuppone e porta a pienezza di senso e di valore tutto il significato naturale[28]. Per la Chiesa, la natura è fonte di verità come la rivelazione; e la ragione è via conoscitiva in sinergia con la fede. Così da annunciare il "vangelo della vita" sulla lunghezza d'onda della legge naturale, vale a dire del progetto creatore di Dio iscritto nella natura e intelligibile da ogni uomo[29]. "Non si tratta -­‐ precisa allora Giovanni Paolo II -­‐ di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell'essere umano"[30]. Questo lo ribadiamo per smentire il pregiudizio laicista secondo cui l'insegnamento bioetico della Chiesa e della teologia non può che essere confessionale e dogmatico, chiudendosi così 135 pregiudizialmente alle loro ragioni argomentative. Atteggiamento, questo, dissimulatore della preclusiva chiusura ad ogni intelligenza di natura e legge naturale, che non trova oggi favore e credito tra i paladini della cosiddetta bioetica laica, posta prevalentemente sotto i principi dell'efficacia e del desiderio. Un'etica della vita non può essere né laica né confessionale: dev'essere semplicemente ragionevole. Chiunque esprime valori, diritti e norme di comportamento deve poterli legittimare razionalmente. La Chiesa e la teologia lo fanno in nome della natura umana e della legge naturale. Queste sono via maestra dell'intelligenza etica, che l'umanità ha percorso da sempre e che abbandonare oggi è un regresso e una grave perdita. E' così fugata l'idea che la verità esigente della vita, illuminata dal Vangelo, vincoli i soli cristiani ed è contraddetta l'opinione secondo cui i non-­‐cristiani non avrebbero ragioni (sufficienti) per riconoscerla e adempierla: "La questione della vita e della sua difesa e promozione non è una prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forze straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità"[31]. VALORI E PRINCIPI ASSIOLOGICI E' così riconosciuta e legittimata la legge naturale, assunta a criterio logico e metodologico di un'etica della vita: in ordine alla coscienza e conoscenza del bene della vita umana e ai compiti e obblighi che ne derivano. Dire vita umana è dire la vita di un essere con dignità di persona, di cui naturalmente condivide e riflette il valore. Ne vogliamo qui configurare i valori peculiari in cui prende forma e i principi assiologici che ne esprimono le esigenze. Valore di soggetto e principio di cura e terapeuticità Anzitutto la dignità e il valore di soggetto, perché la vita non è né un concetto astratto né una cosa, oggetto di possesso. La vita non è qualcosa, è sempre qualcuno: un individuo vivente. Come tale ne rispecchia la dignità di soggetto. Un individuo umano non ha valenza di oggetto, non è comparabile e confondibile con le cose: non è, in una parola, reificabile. Perché essere spirituale: mediante il conoscere e il volere (la libertà) egli s'eleva sugli esseri pre-­‐umani, diventandone il signore. Di questa soggettività partecipa la vita d'ogni uomo e d'ogni donna, nella unitotalità di spirito e corpo (spirito nel corpo)[32] che ciascuno costituisce. Così che anche la vita corporea condivide la dignità e il valore dello spirito: corpo-­‐soggetto, non corpo-­‐oggetto: io sono il mio corpo, più di quanto non abbia un corpo. "In riferimento alla persona umana nella sua "totalità unificata", cioè "anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale", si può leggere il significato specificamente umano [non meramente fisico, materiale, biologico] del corpo"[33]. Questo è il motivo per cui il bios corporeo ha significato morale ed è fonte di moralità: ciò che il corpo rivela e in esso si compie non è eticamente ininfluente e trascurabile, ma essenziale e decisivo in ordine alla designazione del bene e ai compiti e obblighi che suscita. Prendiamo, ad esempio, il genoma biologico: questo è espressione e rivelazione di un genoma per così dire ontologico. Solo un individuo con patrimonio genetico umano può essere un soggetto umano. Non può che essere tale ed essere riconosciuto e rispettato come tale. La dignità di soggetto del corpo è anche il motivo per cui ad esso sono dovute le attenzioni e le sollecitudini proprie della persona. Nasce di qui il principio di cura e terapeuticità, che enuncia il dovere morale del rispetto del corpo e della tutela della salute propria e altrui. Curare il corpo è curare la persona. La sollecitudine terapeutica (ma anche profilattica e riabilitativa) è via 136 singolare e privilegiata di riconoscimento e reciprocità intersoggettiva. Ma è anche riconoscimento della propria soggettività, su cui nessuno ha il potere, l'arbitrio o l'indifferenza che può avere sugli oggetti. Il che vale non solo in ordine alla cura della malattia ma ancor prima al riguardo per il corpo, che non può essere trascurato né sottoposto ad alterazioni e infingimenti, a stimolatori ed eccitanti, a prove e carichi eccessivi, a condizioni di vita e di lavoro irrispettosi della persona e a lungo andare nocivi per la salute. Valore di fine e principio d'indisponibilità e inviolabilità Alla dignità di soggetto è strettamente e indivisibilmente correlato il valore di fine della vita umana. L'inoggettivabilità ne comporta ed esprime il valore non strumentale. Così da essere cercata "per se stessa", non "per altro" o "per altri". L'uomo -­‐ dice il Concilio Vaticano II -­‐ è "l'unico essere che Dio ha voluto per se stesso"[34]. La vita che egli è rispecchia questo "per sé" della persona. Per cui non è posponibile a interessi altrui, né è utilizzabile per scopi ad essa alieni. S'illumina così il valore assoluto della vita umana, nel senso di non relativo a niente e a nessuno, fuorché al Creatore. Dio, il Vivente, è l'assoluto sussistente. Il vivente umano invece è l'assoluto partecipato. Valore di fine e valenza "in sé" e "per sé" si implicano e concorrono a illuminare questo assoluto. Scaturisce di qui il principio d'indisponibiltà e inviolabilità della vita umana. Questa non ha valore di uso, così da disporre di essa come di un mezzo o da violarne l'integrità e l'esistenza come di un meccanismo cibernetico o di un mero organismo nelle mani dell'uomo[35]. Il valore di fine esclude ogni strumentalizzazione e sfruttamento ed esige che ogni ricerca, sperimentazione e intervento sulla vita debbano essere a suo beneficio; e a beneficio altrui solo nella certezza morale di tutelarla e non recarle un grave danno. Parimenti il valore finale delegittima ogni manipolazione non terapeutica dell'integrità fisica (biologica e genetica) della vita ed ogni soppressione volontaria e diretta della vita innocente. Il valore di fine decide e misura la bontà della vita umana non dal suo "modo di essere" (sosein) ma dal suo "esserci" (dasein) semplicemente: dal suo essere al mondo come vita di un individuo con dignità di persona. Così che nessuno dal di fuori -­‐ nessun potere legislativo, nessuna rivendicazione parentale, nessun consenso sociale -­‐ ha il diritto di decidere di essa, ma solo il dovere di consentirne e favorirne il decorso vitale. Malgrado non attiri lo sguardo o non appaghi il sentimento, nonostante la piccolezza, le infermità o le menomazioni, una vita umana vale sempre perché vale in se stessa, non in funzione di qualcuno o di qualcosa. Per questo va denunciata ogni violenza sulla vita, in tutte le sue forme e condizioni. In particolare -­‐ come fa il Papa nell'enciclica Evangelium vitae -­‐ va denunciata la violenza soppressiva della vita nascente e terminale. Questo a motivo dello spessore e della diffusione socio-­‐culturale che stanno assumendo l'aborto e l'eutanasia oggi: vere e proprie "strutture di peccato" contro la vita, che da delitto vanno acquisendo valenza di diritto, nell'opinione pubblica e nell'immaginario delle coscienze[36]. Valore teologale e principio di venerazione Il valore di soggetto e di fine fanno della vita umana un bene trascendente e assoluto: sporgente col suo spirito su ogni bene oggettuale e non relativo a niente e a nessuno, se non a se stessa e a Dio. Il che delinea il valore teologale della vita umana, inteso come partecipazione e riflesso della dignità e della gloria di Dio. La Bibbia l'esprime con la categoria dell'"immagine" e della "somiglianza" divina (cfr Gen 1,26-­‐27; Sir 17,3). Così che la sua bontà riveste il carattere di sacralità e santità della vita di Dio, e suscita la riverenza e il culto dovuti al santo. Il che dà 137 un'impronta e valenza religiosa agli obblighi morali verso la vita, qualificando come venerazione ogni rispetto e tutela e dequalificando come profanazione ogni oltraggio e disimpegno[37]. Parliamo di una teologalità nell'ordine della natura, non cioè attinta dalla rivelazione, e perciò intelligibile da tutti[38]. In essa è la dignità e il valore più alto della vita umana e perciò il motivo e il fondamento dell'onore e del rispetto unico e massimo che esige. L'intelligenza che lo coglie è la forma più alta e sapiente del conoscere: in grado di penetrare il dato e cogliere il valore, di penetrare il bios e riconoscere un uomo. Senza questa intelligenza, inibiti dal sapere empirico alla superficie del bios, il valore non risplende. Ma non per deficit di presenza bensì di conoscenza. Non si può fare del significato e del valore religioso della vita una conoscenza di sola fede rivelata. Significa depotenziare e sfiduciare l'intelligenza, privandola della possibilità di cogliere l'assoluto che è nell'uomo e perciò di aprirsi a tutta la verità della vita. Valore sociale e principio di solidarietà e sussidiarietà Ogni vita è unica e irripetibile nella sua individualità. Ma questa autonomia non è principio di una concezione monadica e solipsistica, bensì il dato basilare e la condizione previa di ogni apertura e relazione. Ogni vita umana viene al mondo e vive nel mondo secondo una costitutiva e vitale relazione ad altri. Esse indigens et offerens, ogni vita umana è intessuta in una rete di relazioni di dipendenza (dagli altri) e di disponibilità (per gli altri). Il che è vero a partire dalla generazione e dalla nascita e si esplica lungo tutto il decorso vitale. Ciò designa il valore relazionale e sociale d'ogni vita umana, da cui prende avvio il principio di solidarietà e di sussidiarietà. La solidarietà sta a dirci che ciascuna vita, in ragione del suo esserci, è appello e attenzione ad altri, all'interno della comunità di appartenenza: dalla famiglia alle società intermedie, dalla collettività politica all'intera comunità umana. La sussidiarietà sta a precisare la modalità ausiliaria d'ogni premura e cura della vita altrui: queste, da una parte, devono essere misurate e modulate ai bisogni di ciascuno; dall'altra, non devono sostituirsi e mortificare le legittime decisioni e capacità dei soggetti. Così, ad esempio, di una vita che viene al mondo con gravi handicap si fa carico la comunità a tutti i livelli, integrando e sostenendo gli oneri particolari che la famiglia è chiamata ad affrontare. La sua soppressione con l'aborto o con l'eutanasia è indice di un individualismo egoista e opportunista, che esclude i più deboli dalla tavola del bene comune. Solidarietà e sussidiarietà sono fondate sull'amore e sulla giustizia, che ricercano, tutelano e promuovono rispettivamente il bene e il diritto basilare e primario della vita. Esse sono ispirate e animate dall'amore ed istituite e strutturate dalla giustizia. LA MEDIAZIONE NEL VISSUTO L'assoluto che la vita significa, i valori singolari che riflette e i principi in cui questi prendono forma normativa primaria, non danno luogo a un'estetica della vita ma a un'etica della tutela concreta e possibile. Perché l'etica non è una contemplazione distaccata di valori e un'enunciazione ideale di principi, ma la mediazione di questi nella concretezza, particolarità, complessità e conflittualità del vissuto. Dove la purezza del bene e l'universalità del principio si misura con ilimiti del particolare, della condizione fisica, delle risorse insufficienti, delle conseguenze contrastanti, dei secondi effetti, delle circostanze particolari ed estreme, del logorio del tempo, nonché della libertà effettiva dei soggetti agenti. L'etica viene a trovarsi tra l'assoluto e il limite: l'assoluto che la vita umana è in se stessa (nel suo valore trascendente) e i limiti che ne contrassegnano la condizione fisica e terrena[39]. L'etica li comprende entrambi, rifuggendo e il 138 semplicismo di un'assiologia incurante del vissuto e l'opportunismo di una prassi aliena dai principi. L'etica è la scienza della mediazionedella coscienza trascendentale e ideale dei valori nella coscienza categoriale e situazionale dell'agire, dove il principio si fa norma d'azione e la coscienza si fa giudizio operativo. Non si tratta di distillare il valore e il bene o di svigorire il principio, dando luogo alla doppia etica della teoria e della prassi o a un'etica dell'accomodamento della prima alla seconda, consentendo di fatto ciò che è illecito di principio. O anche scindendo un deontologismo della norma da un teleologismo dell'atto: il primo parametrato sul dovere espresso dal valore e dal principio, il secondo sulle intenzioni del soggetto agente e sul computo delle conseguenze del suo atto. Quest'etica del "doppio binario" è una morale dissociata e dissociativa che, in presenza del limite, è disposta a disconoscere in concreto ciò che riconosce in astratto, così da consentire di fatto il male disapprovato in teoria ovvero da rinunciare in atto al bene asserito in principio. Ovviamente parliamo del bene e del male morale, che l'etica non consente di disconoscere (il primo) e di compiere (il secondo). Disconoscere il bene morale e compiere il male morale è sempre unpeccato che la morale non permette mai: non si può peccare moralmente. Questo non significa che la morale si disinteressi di beni e mali fisici. Anche di questi essa si fa carico, cercando di tutelare, promuovere e massimizzare i primi e di prevenire, fugare e debellare i secondi. Che anzi per essa un male fisico e un bene fisico, in ordine agli obblighi che avanzano e suscitano, non hanno valenza meramente fisica ma assumono già valore morale: sono un male morale da evitare o un bene morale da compiere. In quanto però un male è soltanto fisico la morale può permetterlo o tollerarlo. Se essa è tenuta a evitare e proibire ogni male morale, non altrettanto può dirsi del male fisico. Sicché mentre è sempre illecito compiere il male morale, può essere lecito permettere il male fisico. Riguardo alla vita, il valore morale compete alla persona, da cui il corpo lo deriva. Questo non lo è in se stesso, nella sua valenza biologica, ma in quanto lo riceve dalla persona. "Così -­‐ leggiamo nell'enciclica Veritatis splendor -­‐ la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere rispettata per se stessa"[40]. A significare questo è la ragione: "Alla luce della dignità della persona umana -­‐ da affermarsi per se stessa -­‐ la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata"[41]. Primo fra tutti quello della vita fisica. Così, "ad esempio, l'origine e il fondamento del dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona e non semplicemente nell'inclinazione naturale a conservare la propria vita"[42]. Per questo la salvaguardia della vita fisica non è un dovere ineccepibile e la sua privazione o menomazione non è sempre una colpa. Ma solo in quanto riflette il valore della persona: "solo in riferimento alla persona umana... si può leggere il significato specificamente umano del corpo". Motivo per cui -­‐ è l'esempio fatto dall'enciclica -­‐ "mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso (cf Gv 15,13) dare la propria vita per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità"[43]. La vita nella sua fisicità non basta da sola a identificare la persona e perciò a configurare il bene morale della vita. Questa concerne la persona, di cui la corporeità fisica è componente essenziale ma non esaustiva: "la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto"[44], non totalizza cioè la vita della persona. La non-­‐coincidenza della vita con la sua fisicità sta a significare la non-­‐coincidenza o, piuttosto, la coincidenza relativa e non assoluta del male fisico inferto alla vita col male morale. Come tale la difesa della vita fisica è condizionabile. Se la vita corporea e la sua integrità biologica costituissero comunque e sempre un bene morale non vi sarebbe limite alla loro difesa. E' il darsi della vita corporea come bene fisico (non ancora morale) e la sua manipolazione e la sua perdita come male fisico (non morale) a porre la condizione di 139 limite della sua difesa: limite eticamente accettabile e sostenibile. Perché in tal caso non difendere la vita ad ogni modo o compiere una manipolazione o costrizione non costituisce un male morale. Semplicemente si tollera un male fisico inevitabile (o non si consegue un bene fisico). Da questa basilare distinzione sono informati alcuni principi orientativi dell'agire determinato e concreto. Essi mirano a precisare le condizioni di difendibilità della vita umana, sottraendole all'arbitrio dei soggetti e consentendo di affrontare e risolvere la situazione e il caso particolare -­‐ in ciò che presentano di singolare, complesso, conflittuale, limitato -­‐ senza né l'angoscia del dubbio né deroghe agli obblighi espressi dal bene e dal comandamento. Essi non fanno che comporre ed esprimere in sintesi applicativa presupposti, esigenze e condizioni di morale fondamentale. Questa insegna che alla moralità di un atto concorrono tre elementi (oggetto, circostanze e intenzione) e due condizioni (conoscenza e volontà). Gli elementi designano la moralità sotto il profilo della bontà o della malizia e perciò della liceità o illiceità. Le condizioni invece sotto il profilo della rilevanza etica o meno e perciò del carattere morale o pre-­‐
morale. Relativamente agli elementi, il primo a decidere la bontà o la malizia è l'oggetto proprio (il finis operis) dell'atto[45]: se questo è un bene morale l'atto è buono, se è un male morale l'atto è cattivo. In forma subordinata e integrativa concorrono le circostanze in cui un atto è posto e le intenzioni (il finis operantis) del soggetto che lo pone. Queste incidono sulla bontà oggettiva aumentandola, diminuendola o cambiandola in male. Incidono invece sulla malizia oggettiva aumentandola o diminuendola ma non cambiandola in bene. Per questo in presenza di un atto il cui oggetto è comunque e sempre un male morale (intrinsece malum), circostanze favorevoli e intenzioni buone non valgono a legittimarlo moralmente: a cambiarlo da cattivo in buono[46]. Si danno però circostanze non accidentali ma sostanziali, in quanto incidono sull'oggetto dell'atto in modo da mutarne la specie (circumstantiae mutantes speciem) ossia la qualità intrinseca, l'essenza specifica. In tal caso la qualità morale dell'oggetto va considerata indivisibilmente dalla circostanza, nella determinazione della moralità dell'atto. Relativamente poi alle condizioni di moralità, alla rilevanza etica di un atto concorrono insieme la conoscenza attenta del suo significato (fisico e morale) e la volontà libera da coazioni e condizionamenti. Così che eticamente rilevante può dirsi l'atto conosciuto e voluto, in una parola l'atto volontario. L'atto involontario invece, per deficit di conoscenza e/o di volontà, è da considerarsi eticamente irrilevante: è un atto pre-­‐morale. Sotto il profilo degli effetti o conseguenze, è da considerarsi eticamente irrilevante e perciò pre-­‐morale l'atto volontario indiretto: l'atto a doppio effetto, il cui effetto negativo è una conseguenza seconda, prevista sì ma non voluta, semplicemente tollerata come inevitabile, dell'effetto primo e buono che è il fine vero e proprio dell'atto. PRINCIPI MEDIATORI Sulla base di questi richiami di morale fondamentale, veniamo all'enunciazione e applicazione nel campo della vita di alcuni principi da essi ispirati e motivati. Principio di legittima difesa Il principio anzitutto della legittima difesa, il quale consente di fare violenza alla vita dell'aggressore fino a sopprimerla, a determinate condizioni[47]: che la violenza dell'aggressore sia in atto e non in previsione, che si siano esperiti tutti i mezzi non violenti di dissuasione, che la 140 violenza difensiva sia proporzionata a quella aggressiva. Il verificarsi insieme di queste condizioni determina una circostanza che muta la specie dell'atto. Non si tratta formalmente e perciò eticamente di un atto di violazione e uccisione, ma di difesa di una vita. Così da non cadere sotto il comandamento "non violare la vita", "non uccidere". Ovviamente si arreca un male all'aggressore. Ma è un male fisico, non morale. Fare violenza alla vita, fino a sopprimerla, non è comunque e sempre un male morale, un intrinsece malum, e perciò un peccato. La nonviolenza è eccepibile dalla legittima difesa. La violenza è un intrinsece malum e perciò un atto da non compiere mai nei confronti della vita del giusto e dell'innocente. La vita di questi è sempre un bene morale. Così che violarla e sopprimerla è un male morale. Per questo il comandamento "non uccidere" (Es 20,13) dalla stessa Parola di Dio è precisato: "Non far morire l'innocente e il giusto" (Es 23,7). E l'enciclica Evangelium vitae puntualizza: "Il comandamento "non uccidere" ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente... In effetti l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale"[48]. Non si vede come e quando il giusto e l'innocente possano trovarsi in stato di aggressione nei confronti di alcuno. Non si vede dunque come la soppressione della loro vita possa mai non essere considerata un male morale. Principio di spendibilità Il principio di spendibilità della vita sta a dire che, in vista di un bene superiore, come l'amore del prossimo o la testimonianza della verità, la vita fisica e terrena può essere sottoposta a rischi anche elevati di logoramento, di pericolo e di perdita, senza per questo contravvenire al dovere morale di tutelare e curare la propria vita. Con questo non si disconosce il bene assoluto della vita, appartenendo questo all'intera vita della persona[49], di cui la condizione fisica e terrena è parte integrante ma non il tutto. Come parte, la vita nel tempo ne partecipa la dignità e il valore, con le esigenze di rispetto da questi avanzate e che prendono forma primaria nei principi assiologici enunciati. Ma in quanto non è il tutto(non totalizza la vita della persona) essa è relativizzabile da un bene superiore[50]. Precisa Giovanni Paolo II nell'enciclica Evangelium vitae: "La vita nel corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto..., tanto che può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore"[51] -­‐ come dice e fa Gesù nel Vangelo (cfr Mc 8,35; Gv 15,13). Il bene superiore, delineato dall'amore di Dio e del prossimo, consente e legittima il sacrificio della propria vita fisica e terrena. Questo è lecito perché, in relazione a un bene superiore, il sacrificio della propria vita è un male fisico (l'usura o la perdita di un bene fisico) non un male morale. Esso non è un atto d'incuria verso la vita, tanto meno di soppressione: un procurarsi la morte. La circostanza sostanziale del bene superiore e del suo amore ne fanno un atto di donazione, di consacrazione, di offerta: atto non solo moralmente lecito ma buono, nobile e ammirevole, la cui più alta testimonianza è il martirio[52]. Ovviamente il principio di spendibilità vale per la propria vita, non per la vita altrui. Principio di totalità Oltre i beni superiori, cui la vita fisica è relativizzabile e per il cui conseguimento è spendibile, c'è il bene della stessa vita corporea, inteso come un complesso organico, costituito dalle diverse parti che lo strutturano. Anche l'integrità fisica dell'organismo, in quanto bene della persona, assume un significato morale, che obbliga alla tutela e non alterazione di organi, tessuti e funzioni biologiche. Non però in assoluto ma relativamente al bene del tutto. Nasce di qui il principio 141 ditotalità, secondo cui la parte è per il tutto ed è legittimo manipolarla o sacrificarla per il bene del tutto. Il che trova applicazione nella terapia chirurgica. L'asportazione di un organo incurabile o la soppressione di una sua funzione, per le malattie che provoca, costituisce un male fisico eticamente lecito se non anche doveroso. Il bene del tutto dà all'atto manipolatore una finalità e un carattere terapeutico e perciò -­‐ come abbiamo visto -­‐ di tutela e promozione della persona nella sua salute. Diversa è una manipolazione arbitraria, voluttuaria o finalizzata ad altri scopi: questa configura un male morale, eticamente inammissibile. Il principio di totalità vale sul piano fisico, in ordine alla cura di una patologia su base biologica o organica. Non può essere esteso alla cura di malattie psicogeniche o di disagi psichici e spirituali. Non si può mutilare e invalidare il corpo per bisogni e scopi ad esso alieni. Pertanto non si può invocare questo principio a legittimazione della sterilizzazione antiprocreativa, della chirurgia transessuale o di certe pratiche eccessive e ossessive di chirurgia estetica[53]. Principio di beneficialità Un bene peculiare e distinto è il beneficio terapeutico che può venire ad altri dalla messa a disposizione della propria vita fisica, o dal dono di un tessuto o di un organo del proprio corpo. Il che trova applicazione nella ricerca e sperimentazione in campo biomedico e nella terapia dei trapianti da vivente. C'è qui un limite alla difesa della vita fisica e della sua integrità? Il bene che altri possono ricavarne iscrive l'atto in una finalità d'amore. Questa però non vale a legittimare né la soppressione di una vita, né una grave menomazione della sua integrità (mutilazione), né un tasso di rischio elevato per la salute, al fine di salvare o curare altre vite Il principio di inviolabilità e indisponibilità non li consente. Evitato però il pericolo di violazione e di strumentalizzazione di una vita a un'altra, consentire a un gesto d'amore terapeutico con la propria vita o con parte di essa è atto buono e lecito. Il che è legittimato dal principio di beneficialità, secondo cui ciò è possibile alla duplice condizione del tasso di rischio accettabile e dall'assoluta gratuità del gesto. La prima esige di non provocare un grave danno per la salute. La seconda di improntare l'atto al dono, escludendo ogni forma di profitto e interesse. Così non soltanto la vita fisica non subisce offesa, ma diventa "luogo" singolare e "via" e privilegiata dell'amore che dona se stesso per la vita del prossimo[54]. Principio di proporzionalità La medicina dispone di mezzi terapeutici. Il progresso biomedico e biotecnologico oggi li moltiplica in modo esponenziale. Ci sono limiti nel loro utilizzo? Si è tenuti a ricorrere a tutti i mezzi disponibili? La rinuncia contravviene sempre al principio di terapeuticità, configurando comunque un male morale? Come aprirsi una strada tra l'eutanasia passiva (per omissione di cura) e l'accanimento terapeutico (per eccedenza di cura)? Come evitare un estremo senza cadere nell'altro? Prendersi cura della vita fisica è un obbligo morale enunciato e motivato dal principio di terapeuticità. Ma la relatività della vita fisica alla condizione e al decorso temporale, chiede di accettarne i limiti e il limite ultimo della morte. Questo vuol dire che è doverosa la cura della malattia, ma non ad ogni costo. Così che è possibile rinunciare a cure particolarmente onerose e dai risultati incerti o precari. Il criterio per arbitrare rettamente tra dovere e rinuncia e pervenire a un sereno giudizio in scienza e coscienza è qui enunciato dal principio di proporzionalità nell'uso dei mezzi terapeutici. Distinguendo tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, esso afferma che ai primi si è tenuti a ricorrere sempre, mentre ai secondi si può e, per non cadere nell'accanimento terapeutico, si deve rinunciare. 142 Il rapporto di proporzione va calcolato mettendo a raffronto le condizioni del paziente e il mezzo terapeutico con i risultati sperabili. Dove c'è proporzione, nel senso che il mezzo dà sufficienti e apprezzabili risultati, il ricorso ad esso è doveroso. Dove invece i risultati sperabili sono scarsi, precari e inadeguati ai costi umani e sociali che il ricorso a una cura impone, ad essa si può e, per non cadere nell'accanimento terapeutico, si deve rinunciare. In tal caso non si compie un male morale per omissione, ma si accetta un limite fisico (da ultimo il limite della morte) che la vita porta con sé nella sua condizione biologica e temporale. La sollecitudine terapeutica considera e rispetta la vita nella concretezza dello stato e del decorso fisico di ciascun individuo, così da non sottoporla a forzature terapeutiche; senza però privarla mai delle cure ordinarie e proporzionate[55]. Principio del volontario indiretto Altamente problematico è avvertito il limite della difesa della vita in situazioni di grave conflitto, in cui la vita di un individuo non la si vede tutelabile o curabile che al prezzo di un male come la morte dello stesso individuo o di qualcun altro. E' il caso dell'eutanasia come terapia del dolore o dell'aborto per salvare la gestante. L'etica non permette mai di compiere un male morale per conseguire un bene (non sunt facienda mala ut veniant bona) (cf Rm 3,8)[56]. Tale è, ad esempio, la morte procurata a un individuo per la salvezza di un altro o per mettere fine a un malessere dello stesso individuo. Tale atto contravviene alla norma morale, che proibisce ogni soppressione volontaria e diretta della vita innocente[57]. Così precisata, sotto la proibizione della norma non cade la soppressione involontaria (per deficit di conoscenza e di consenso) e indiretta di una vita. Questa seconda eventualità è recepita e precisata dal principio del volontario indiretto o del doppio effetto. Questo chiarisce che, nel caso in cui un atto buono comporta anche un effetto cattivo, previsto sì ma non voluto né come fine né come mezzo per conseguire il fine, semplicemente tollerato come conseguenza seconda e inevitabile, tale atto si può compiere. Non essendo l'effetto cattivo né il fine oggettivo dell'atto (finis operis) né il fine soggettivo dell'agente (finis operantis), non entra nel costitutivo etico dell'atto. Come tale non costituisce un male morale ma fisico. L'atto -­‐ specificato dal suo fine diretto (oggetto proprio), che è quello inteso e voluto dall'agente -­‐ è moralmente buono e volontario. L'effetto cattivo è indiretto: come tale ininfluente sulla moralità dell'atto. Per questo la perdita di una vita embrionale o fetale, connessa ad un inevitabile intervento curativo della gestante, è considerato aborto indiretto; la morte anticipata in un malato dalla somministrazione di farmaci analgesici per la terapia del dolore è considerata eutanasia indiretta. Dal momento che la qualifica di indiretto toglie ogni valenza etica all'effetto mortale dell'atto, non si dovrebbe neppure parlare, in questi casi, di aborto e di eutanasia. Questi, infatti, hanno di per sé una connotazione morale negativa. Nei casi qui esaminati l'atto non è né abortivo né eutanasico ma strettamente terapeutico. La morte dell'embrione o del feto come dell'ammalato non costituisce il fine dell'atto, né lo strumento per conseguirlo, ma la conseguenza del fine terapeutico non altrimenti raggiungibile: l'effetto secondo, conosciuto ma non voluto (solo tollerato), di un atto oggettivamente buono. CONCLUSIONE La vita umana nella sua fase temporale e terrena -­‐ vita in un corpo biologico -­‐ è momento e condizione della vita della persona, che ha la sua pienezza nella condizione soprannaturale ed eterna. Essa partecipa e riflette il valore assoluto che ogni vita umana è in se stessa e nel contempo è connotata dalla relatività e penultimità della condizione terrena e biologica, soggetta 143 al limite e destinata a terminare con la morte. In quanto esprime quel valore assoluto, la vita terrena è un bene morale che avanza obblighi intangibili e incondizionati di difesa e di rispetto. In quanto riflette la relatività della sua condizione fisica e temporale, quegli obblighi sono relativi a questa: la difesa del bene fisico della vita conosce dei limiti. Così da diventare lecito e a volte doveroso rinunciare alla difesa della vita fisica o anche solo della sua integrità. Tali limiti sono fisici non morali. Perché il bene morale non conosce limiti: bonum faciendum. Il bene morale obbliga. Non fare il bene morale è un peccato e una colpa che l'etica non può mai legittimare. Questo vuol dire che l'etica non può porre alcun limite morale alle esigenze di difesa della vita nella sua condizione fisica e terrena: sarebbe un male morale eticamente inammissibile (malum vitandum). Può e deve invece riscontrare limiti fisici insuperabili, ammettere e accogliere i quali non implica un male morale, non è una colpa; anzi può essere moralmente doveroso. Dov'è scritto questo? Chi lo legge? E' scritto nel grande libro della vita, impaginato dal Creatore nella natura. Ed è letto dall'intelligenza, di cui il Creatore ha dotato la creatura umana, per conoscere la verità e riconoscere la legge. 144 [1] Cfr Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor [sig.: VS], 6 agosto 1993, n°.3. [2] Cfr Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae [sig.; EV], 25 marzo 1995, n° 2, 57. [3] Cfr VS n° 53. [4] Cfr VS n° 43; San Tommaso, Summa Theologiae, I-­‐II, q.90, a.4, ad 1; Quaestiones disputatae, q. XX, a.4. [5] Cfr EV 19-­‐20. [6] Sulle differenti concezioni della natura oggi cfr VS 46. [7] Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes[sig.: GS ], n° 51; VS 13. 50. 79. Per questa globalità di senso, a una migliore e più adeguata comprensione della natura contribuiscono gli apporti veritativi di tutte le scienze. [8] Cfr VS 13. [9] Cfr VS 79. [10] "Alla luce della dignità della persona umana... la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata... L'esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona..., implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e nell'arbitrio" (VS 48). Tali beni "acquistano rilevanza morale solo in quanto si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale può verificarsi sempre e solo nella natura umana" (VS 50). [11] Cfr VS 13. 79. [12] Cfr VS 79. [13] Cfr Summa Theologiae, I, q. 79, a.12-­‐13; I-­‐II, q.94, a.1. [14] Cfr VS 51. 53. [15] La legge naturale "esprime la dignità della persona umana" (VS 51), "le esigenze assolutamente irrinunciabili della dignità personale dell'uomo" (VS 96), del "valore trascendente della persona" (VS 101), della "trascendente dignità della persona umana" (VS 99). "La legge naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione Donum vitae, 22 febbraio 1987, Introd. 3; cfr Paolo VI, Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, 10). [16] Cfr VS 12, 42-­‐44. [17] Cfr S. Tommaso, Summa theologica, I-­‐II, q. 90, a. 1-­‐4. " La legge naturale altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio" (S. Tommaso, In duo praecepta caritatis et indecem legis praecepta. Prologus: Opuscula theologica, II, 1129, ed Taurinens 1954, 245). [18] Legge "iscritta nella natura razionale della persona" (VS 51); "legge della ragione" (VS 61). Cfr VS 12. 40. 42-­‐43. 72. 79. [19] Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 3; VS 40-­‐44. 72. [20] Cfr Summa theologiae I-­‐II, q.91, a.2. [21] "La luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene dal male -­‐ il che è competenza della legge naturale -­‐ non è altro che un'impronta in noi della luce divina" (S. Tommaso, Summa theologiae, I-­‐II q. 91, a.2. Cfr, ivi q. 90, a. 4. [22] Cfr VS 40-­‐41 [23] Cfr VS 24. 45 [24] Cfr EV 19-­‐20. [25] VS 49. Cfr VS 48-­‐50. 145 [26] La natura corporea della persona "non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma dev'essere definita come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore ... a usare e disporre del proprio corpo" (VS 50) [27] "In Cristo è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, ...scritto in qualche modo nel cuore di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza "dal principio", ossia dalla creazione stessa, così che...può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana" (EV 29). Come tale "il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti" (EV 101). Esso "ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente" (EV 2). [28] "Il Vangelo della vita racchiude quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento" (EV 30). [29] I cristiani sono chiamati a "mettere in risalto le ragioni antropologiche che fondano e sostengono il rispetto di ogni vita umana. In tal modo, mentre faremo risplendere l'originale novità del Vangelo della vita, potremo aiutare tutti a scoprire, anche alla luce della ragione e dell'esperienza, come il messaggio cristiano illumini pienamente l'uomo" (VS 82). [30] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001, 51. [31] VS 101. Cfr VS 77. [32] "Corpore et anima unus" (GS 14). Cfr VS 48-­‐49 [33] VS 50. Le citazioni interne al brano sono di Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, 11. [34] GS 24. [35] Cfr EV 5.39-­‐40. 53. [36] Cfr EV 4. 11. 12. 18. 24. 58-­‐67. [37] Cfr EV 9-­‐41. 53. [38] Cfr EV 2. [39] Cfr VS 2. 47. [40] VS 50. [41] VS 48. [42] VS 50. [43] Cfr VS 50. [44] EV 47, Cfr EV 2. [45] Cfr VS 79. [46] Cfr VS 80-­‐82. [47] Cfr EV 55. [48] EV 57. Cfr EV 57; VS 50; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull'eutanasia Iura et bona, 5 maggio 1980, in AAS 72 (1980) 546. [49] "L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena" (VS 2). [50] Cf EV 2. [51] EV 47 [52] Cfr EV 47 [53] Cfr Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari [sig.: COS], Città del Vaticano 1995, n.66. [54] Cfr COS 84-­‐85. 90. [55] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull'eutanasia Iura et bona, 5 maggio 1980, in AAS 72 (1980) 549-­‐551; COS 64. 65. 120; EV 65. [56] Cfr Paolo VI, Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, 14. [57] Cfr EV 57. 146 FRANCESCO D'AGOSTINO
IL RISPETTO DELLA VITA E IL DIRITTO Trattando della vita alla stregua di un mero concetto, la filosofia rispetta la propria vocazione; nello stesso tempo, però, dimostrandosi incapace di trattare tale concetto in modo adeguato, manifesta -­‐se si vuole in modo umiliante-­‐ tutti i propri limiti. Nella Logica di Jena Hegel scrive che "di fronte alla vita, il pensiero...si dissolve; per la mente l'onnipresenza del semplice nella molteplicità del sembiante è una contraddizione assoluta, un mistero impenetrabile" ( [1] ). Anche se per la scienza un termine come mistero è semplicemente insopportabile, bisogna riconoscere che l'affermazione hegeliana non è stata smentita nemmeno dal trionfo della biologia che ha contrassegnato la seconda metà del Novecento; essa ha fatto di tutto per farci perdere piena coscienza della pregnanza dell'osservazione hegeliana, ma non ne ha dissolto la valenza. Se oggi comunemente vita e vita biologica vengono usati come sinonimi, questo avviene ad onta del fatto che -­‐come giustamente osserva Sarah Franklin ( [2] )-­‐ quello della vita è un concetto caratterizzato da convinzioni antiche e consolidate quanto da incertezze recenti e vieppiù crescenti: non solo la determinazione dell'inizio e della fine della vita diviene sempre più problematica (anche per i biologi!), con ripercussioni bioetiche a tutti evidenti, ma la stessa individuazione cognitiva dell' idea stessa di vita sembra ormai esser divenuta evanescente. L'unico modo per aprire un qualsiasi discorso sulla vita, che abbia un senso per il giurista, sembra dover prendere le mosse da una constatazione antica: vita è concetto analogo, se vogliamo ricorrere al vecchio termine scolastico; o, per dirla più modernamente, è termine polisemico. Non so se i giuristi siano pienamente consapevoli di quanto sia ormai divenuto imbarazzante continuare a usare in modo univoco il termine vita, ma è ben certo che col loro notevole istinto hanno da tempo avvertito la difficoltà. Nel Convegno promosso a Roma dall'Accademia dei Lincei nel maggio 1982 (che ha visto tra i protagonisti studiosi del calibro di Santoro Passarelli, Falzea, Oppo, Pugliese, Mengoni, Rescigno, Trabucchi) anche se purtroppo non ci si è posto il problema essenziale, quello del rilievo per i giuristi di una adeguata riflessione epistemologica sulla vita, si è percepita però la necessità porre precisi limiti di competenza al discorso giuridico, decidendo di riflettere esclusivamente sulla vita materiale. Esemplare, pur nella sua ingenuità epistemologica, l' actio finium regundorum di Angelo Falzea: "Il giurista non si occupa della vita, ma della vita dell'uomo...restano fuori quadro le situazioni di non-­‐vita, ma anche le situazioni di non più vita. Per altro verso sono escluse dalla considerazione giuridica le vite non umane, immanenti o trascendenti, alle quali non di rado le leggi hanno fatto o fanno riferimento" ([3]) . Un modo aurorale di affrontare il tema della vita in una adeguata prospettiva epistemologica è intanto quello di impostarlo nelle sue valenze lessicali ([4]). In tal modo acquistiamo consapevolezza e ci facciamo carico dell'indubbia povertà del linguaggio oggi a nostra disposizione, indizio questo a sua volta di una penuria teoretica, propria di un tempo di povertà, di una dürftige Zeit, per dirla con Heidegger, quale quella nella quale stiamo vivendo. Dobbiamo allora, riflettendo sul linguaggio, sforzarne i limiti: chiediamo aiuto a un lessico lontano dal nostro, eppure sufficientemente vicino perché possa ancora parlarci e attivare il nostro pensiero. Se cerchiamo nel greco l'equivalente di vita ci troviamo di fronte a un ventaglio di possibilità. E' vita, in senso proprio, la zoé. Ed è vita il bios. Così come merita di essere tradotta con vita la parola psyché -­‐anche se su questo termine gravano affascinanti precomprensioni teologiche, che vanno però lasciate fuori da questo discorso. E alla vita si riconnettono numerosi altri termini, da phyle a soma. Siamo chiamati a riflettere sul diritto e la salvezza della vita: ma quale vita è chiamato a salvare il diritto? 147 Zoé indica innanzi tutto la vita come fenomeno fisico; allude alla vitalità che si esprime e si manifesta in tutti gli esseri organici, quella vitalità che pervade il sogno di d'Alembert ([5]), quella vitalità che percepiamo nell'esperienza, ma di cui attraverso la mera esperienza non possiamo conoscere causa, nascimento o fine (a domande siffatte danno piuttosto risposta i miti e le rivelazioni religiose). In chiave cognitiva -­‐che è quella che qui ci interessa-­‐ zoé, usando scorrettamente un termine kantiano, appare alla stregua di un trascendentale: attraverso di esso noi diamo un ordine al mondo in cui viviamo. Percependo e ponendo la distinzione vita/non vita noi elaboriamo l'idea del luogo che siamo chiamati ad occupare nel mondo; costruiamo la categoria dell'ambiente. In questa accezione il termine vita -­‐come zoé-­‐ non conosce quindi plurale; alla zoé ripugna l'individualità; possono esserci più forme di vita (il greco le designerà come bioi), ma lazoé è una soltanto; non ci possono essere più vite. E non conosce nemmeno termini antagonistici: dalla zoé si può ben distinguere ciò che non è vitale, ma tale distinzione ha una valenza non dialettica; alla zoé non ha senso contrapporre la morte, perché quelli che muoiono sono i singoli viventi, non il principio della vita ([6]). A quanto appena detto si potrebbe opporre che la nostra generazione, per la prima volta nella storia, ha elaborato la consapevolezza e percepito la possibilità che la zoé possa essere distrutta: tema apocalittico, al quale con diversa lucidità dan credito i movimenti ecologisti. Ecco apparire un primo modo di pensare alla salvezza della vita da parte del diritto: il diritto dovrebbe prendersi cura della zoé. Indipendentemente dalle sue configurazioni operative, il progetto non può che apparire nobile. Se sia epistemologicamente convincente è invece altro discorso: in una prospettiva cosmica, la vita sorge, non nasce; e come la vita è sorta, così può evidentemente anche risorgere nuovamente, dopo essere scomparsa o essere andata distrutta (darwinianamente è solo questione di tempo, ma nel cosmo darwiniano il tempo non è certamente risorsa scarsa). Il punto è che le giustissime preoccupazioni vitalistiche degli ambientalisti tendono inevitabilmente (né possiamo fargliene una colpa) a onticizzare la zoé, a smarrire la valenza trascendentale del concetto. Di fatto le lotte ecologiste sono a favore non della zoé, ma del bios, cioè delle singole specifiche forme di vita poste a rischio dalla manipolazione dell'ambiente. Ma non è attraverso il bios che si salva la zoé: diversamente da questa, infatti, il bios è costitutivamente individuale, costitutivamente plurale e costitutivamente mortale. Se così stan le cose, il compito che propriamente dovrebbe accollarsi l'ecologismo è molto più imponente di quanto non appaia a prima vista e chiederebbe radicali riformulazioni. Il precetto:salva la zoé, è semplice, intuitivo, ma purtroppo privo di contenuto cognitivo; il precetto: salva il bios, ha invece un ben preciso contenuto cognitivo, ma è mal formulato; salva i bioi è precetto epistemologicamente impeccabile, perché correttamente formulato al plurale, ma allora richiede che si determinino individualmente quali siano i bioi da salvare e se ne fornisca adeguata giustificazione. Se sia giusto o no distruggere definitivamente il virus del vaiolo, che attualmente sopravvive sotto continuo controllo solo in laboratori specializzati, è problema che concerne la difesa del bios, non dellazoé. Zoé indica la vita qua vivimus; bios la vita quam vivimus ([7]). Bios è il termine con cui la lingua greca esprime il vivente nella sua individualità empirica, vincolata ineludibilmente alla temporalità e destinata a strutturarsi tramite il corpo, ilsoma ([8]): del bios, a differenza che della zoé, è predicabile la nascita e la morte. Un'espressione come vivere la vita si esprime quindi in greco con bion zên. Si comprende quindi perché, per metafora, bios, con riferimento all'uomo, sia passato a indicare in greco la professione, il mestiere, i mezzi di sostentamento e di fortuna, perfino la dimora e il soggiorno: tutto ciò, insomma, che qualifica la vita nella sua fragile singolarità. Resta comunque fermo che il bios non ha in se stesso il proprio fondamento, né per quel che riguarda il principio della sua vitalità (che resta la zoé), né per quel che concerne il principio della sua individualità. Questa non è data dalla connessione col soma, necessaria ma 148 estrinseca, ma dalla sua connessione con la psyché. Ben si comprende perché i latini abbiano tradotto psyché con anima, perché l' animaanima i corpi, individualizzandoli (i cadaveri, diversamente dai corpi viventi, sono tutti eguali, perché egualmente inerti); ma psyché è ben più che un mero principio animatore di carattere fisico; la sua è animazione dell' individualità, che nei casi più eccellenti (come è il caso del bios umano) lo apre alla attuazione di se stesso, gli consente di riconoscersi ed affermarsi come un io; è ciò -­‐in linguaggio moderno-­‐ che gli offre e gli spalanca la dimensione del senso. Tra bios epsyché il vincolo è ontologico, non biologico, perché -­‐
con buona pace dei materialismi riduzionistici-­‐ solo ontologicamente (con uno sguardo dall'alto) si possono percepire le qualità emergenti, si può cioè percepire in un uomo vivente una unità superiore alla mera somma delle cellule che compongono il suo corpo. E' con riferimento alla psyché e non semplicemente al suo bios che l'uomo riceve un nome, che il diritto è chiamato a tutelare. Come mero dato empirico,bios, per quanto possa apparire prezioso, è anonimo e non possiede alcuna rilevanza né ontologica né assiologica: nel lamento su Cordelia morta, re Lear non piange la morte di un essere vivente, ma quella morte, la morte della figlia: "Why should a dog, a horse, a rat have life, and thou no breath at all?". E' solo perché può ricevere (dalla psyché) una identità e un senso, che il bios acquista un valore, così come può perderlo. "Per l'uomo, dice Platone attraverso Socrate, una vita (bios) non meditata non è degna di essere vissuta (biotòs)" ([9]). Quello del bios è quindi un valore estrinseco, che il biosdeve conquistare, attraverso l'acquisizione di ritmo interiore (eurythmia) ed armonia (euarmostia), che di per sé non possiede ([10]).. L'intuizione antichissima per la quale il bios dell'uomo abbisogna della polis, perché in essa soltanto si dà il nomos ([11]), riassume tutto questo discorso e ci dà l'indicazione fondamentale di cui abbiamo bisogno per tematizzare il nesso tra vita (come bios) e diritto. 1. Bios non ha dunque alcun valore intrinseco; non è realtà ultima, ma penultima. Ecco perché in ben precisi contesti, come nei Vangeli, in cui il termine vita deve essere connotato in modo assiologicamente forte e inequivocabile, non si fa cenno a bios, ma a zoé e a psyché ([12]). Ma ciò non comporta che bios sia destituito di ogni valore, perché è l'unico luogo in cui può manifestarsi la vita come psyché, cioè quella forma di individualità, che è il presupposto di ogni assiologia. E questo è un dato che ci viene evidenziato non solo dalla filosofia, ma dalla stessa antropologia culturale, quando ci mostra come è sempre e solo attraverso la realtà fisica, attraverso il bios e in particolare attraverso il corpo, e nelle forme più contraddittorie e incredibili, -­‐il corpo nutrito ed affamato, mascherato ed esibito, abbellito ed umiliato, fortificato e indebolito, rispettato e violato, sacralizzato e mutilato-­‐ che l'io (la psyché) si fa strada e si manifesta nel mondo, come dimensione di valore. Il diritto non appartiene all'ordine della natura, ma solo nell'ordine della natura può avere possibilità di operare. E' per questo che la vita che è chiamato a difendere non è il bios, ma la psyché; ma poiché la psyché non è da esso direttamente attingibile, ecco il rilievo che il bios viene ad acquistare ad ogni livello di esperienza giuridica (come peraltro anche etica). Con molta sottigliezza, S.Agostino osserva che la prima forma di espressione della nostra libertà -­‐la prima affermazione del nostro io-­‐ non si manifesta (come si potrebbe in astratto pensare) né attraverso un nobile sì a valori assoluti e trascendenti, ad es. un sì al bene o a Dio, né attraverso un altrettanto nobile no a disvalori altrettanto assoluti (come il no a Satana recitato nella formula battesimale), ma attraverso il semplice, quotidiano no a quelle forme contingenti di male che sono i delitti -­‐e il primo delitto che egli cita è il delitto contro il bios dell'uomo, l'omicidio ([13]). La psyché dice di sì a se stessa dicendo di no ad ogni attentato che minacci il bios. Di qui la caratteristica insoddisfazione che ci afferra di fronte ad ogni discorso giuridico che pretenda di avere per oggetto esclusivo il bios. Nulla ci autorizza a sacralizzarlo, come avviene in alcune ingenue forme di naturismo, che si illudono che basti formulare il precetto difendi la vita! per dare al diritto un principio adeguato di operatività. Ma nello stesso tempo nulla ci 149 autorizza a cosificarlo, quasi che il precetto: sii autonomo! implichi una disponibilità indiscriminata del soggetto su quella dimensione di se stesso che è il bios (e Kant ne era tanto consapevole da affermare che nemmeno la parte apparentemente più marginale del nostro io corporeo, nemmeno un dente, è propriamente disponibile da parte nostra). Ridurre il bios a un mero strumento dell'io (della psyché) è altrettanto ingenuo che ridurre il linguaggio a un mero strumento del pensiero. E' vero che il pensiero può deformare l'uso del linguaggio (qui si colloca il problema paradigmatico della menzogna), ma è pur vero che il malum mendacii non sta nella deformazione dell'uso del linguaggio, ma nel fatto che attraverso la menzogna inevitabilmente il pensiero deforma se stesso. Analogamente, non c'è alcun dubbio che la psyché abbia un potere sul bios, un potere che può divenire letteralmente immenso (è il caso del suicidio), ma non c'è nemmeno alcun dubbio che attraverso l'uso di questo potere la psyché corre il pericolo di perdere definitivamente se stessa. Bios e psyché sono uniti da vincoli indissolubili, ma sottili; quando questi si ispessiscono e portano la psyché ad appiattirsi sul bios cadiamo in quelle forme di materialismo ingenuo, che vedono anche negli aspetti più raccapriccianti della natura una forma di sacralità impersonale; quando invece questi vincoli si assottigliano, fin quasi a vaporizzarsi, cadiamo all'opposto in altrettanto ingenue forme di individualismo solipsistico, per le quali la volontà vuole quel che vuole e va sempre ritenuta insindacabile, purché autentica. Nell'uno come nell'altro caso il diritto non ha più alcuno spazio. Né meno che mai può avere alcuna funzione di salvezza di quella realtà sintetica, bios/psyché, alla quale ci riferiamo quando parliamo di vita umana. Contrariamente a quanto molti pensano, per il diritto la mera manipolazione del bios non è affatto intrinsecamente condannabile (dato che il bios non ha alcun valore intrinseco); è condannabile solo quando dalla sua manipolazione si rescinde il vincolo di senso che lo unisce alla psyché. A volte tale vincolo si esprime facilmente attraverso intuitivi riferimenti teleologici. Il diritto in casi come questi non trova difficoltà a focalizzare opportunamente le proprie posizioni.Un onesto allenamento atletico può anche essere materialmente più violento nei confronti del bios di una attenta somministrazione di farmaci che ne potenzino artificialmente e dolosamente le prestazioni, ma mentre questa è condannabile perché deforma la psyché dell'atleta, inducendola alla dissimulazione e all'inganno, quello può essere al contrario estremamente lodevole, quando per suo tramite la psyché (dell'atleta) raggiunge a un pieno equilibrio con se stessa. Più in generale ogni pratica medica è giuridicamente giustificata non perché benefica sempre e comunque per ilbios, ma in quanto orientata comunque a quel bene della persona, per la cui percezione il riferimento alla psyché è essenziale. Ma in altri casi nemmeno il pensiero teleologico è in grado di ben focalizzare come vada tutelato il vincolobios/psyché: è necessaria una coraggiosa affermazione ontologica, per evitare che il diritto si perda nelle antinomie apparentemente insolubili dell'esperienza empirica. Non perché non si hanno garanzie della veridicità della testimonianza (o meglio della delazione) che ne consegue, è infame la tortura. Non perché non abbia forza dissuasiva è inaccettabile la pena di morte. Non perché non riesca a prolungare obiettivamente la vita del corpo, è condannabile l'accanimento terapeutico. Non perché non possa far acquisire a chi la subisce una straordinaria vocalità, è ripugnante la castrazione. Queste pratiche possono anche produrre effetti al limite anche socialmente vantaggiosi e comunque corrispondenti esattamente alle intenzioni di chi le pone in essere: vanno rifiutate, come antigiuridiche -­‐oltre che come non etiche-­‐ non perché dannose, ma perché umiliano il nesso psyché/bios, disumanizzandolo. O, se così si preferisce pensare, perché tolgono identità al bios, appiattendolo indebitamente sul soma. 150 [1] Tolgo la citazione dal titolo del volume di E.Chargaff, Unbegreifliches Geheimnis. Wissenschaft als Kampf für und gegen die Natur, Stuttgart, 19884. [2] Nella voce Life dell'Encyclopedia of Bioethics della Georgetown University (mi riferisco alla revised edition del 1995, vol. III, p. 1345). [3] Il diritto e la vita materiale, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1984, p. 7. [4] Preziose le indicazioni che ci provengono da V.MELCHIORRE, Bios, anthropos, ethos, in "Studium", 85, 1989, pp. 19 e ss. [5] Mi riferisco, naturalmente, a DIDEROT, il cui Rêve de d'Alembert si può leggere in tr.it. in DIDEROT, Opere filosofiche, a cura di P.ROSSI, Milano 1963, pp. 194-­‐271. [6] E' per questo che nel linguaggio della spiritualità zoè passa a indicare la vita eterna. [7] Vedi MELCHIORRE, loc.cit. [8] Il bios però non si identifica col soma: questo può alterarsi (ad es. perché mutilato), senza che si alteri la sua realtà vivente (il bios). [9] PLATONE, Apologia. 38a. [10] Cfr. PLATONE, Prot., 326b. [11] DEMOCRITO, fr. 248 (Diels-­‐Kranz). [12] Prendiamo ad es. un testo notissimo, Gv 12.25: "Chi ama la sua vita (psyché) la perderà e chi odia la sua vita (psyché) in questo mondo, la conserverà nella vita (zoé) eterna. [13] In Joa. Ev., 42.10. 151 GONZALO HERRANZ
LA CULTURA DELLA VITA: UN IMPEGNO AFFERMATIVO INTRODUZIONE Quando si analizza quello che dice l'Enciclica Evangelium vitae sulla cultura della vita, si capisce che il Santo Padre si riferisce a una doppia realtà. Da una parte, il Papa ci mostra che la cultura della vita ha la sua ragion di essere nello scontro con la cultura della morte. Giovanni Paolo II vuole farci prendere coscienza di questa dimensione, necessaria e di relazione, ostile e reazionaria: la cultura della vita esiste per opporsi alla cultura della morte. Il Papa non nasconde il fatto che siamo coinvolti in un "enorme e drammatico scontro tra il bene e il male, la morte e la vita, la "cultura della morte" e la "cultura della vita"[1]. Quando fa riferimento a questo conflitto, il Papa scrive in modo caratteristico le espressioni come "cultura della morte" e"cultura della vita" tra virgolette[2]. Da un'altra parte, la cultura della vita compare nell'Enciclica come una realtà affermativa e dinamica, autosufficiente e vera, che esiste si regge in piedi per se stessa, che non necessita di essere capita come una reazione. Il papa di solito si riferisce ad essa chiamandola nuova cultura della vita per segnalarci che è qualcosa di creativo e originale, che parte da una civilizzazione di amore e verità[3]. È logico che alla prima dimensione, belligerante ed antagonista, la "cultura della vita" abbia dedicato uno sforzo intenso e prioritario nel mondo intero, così ricco di frutti come povero di mezzi. C'è un'immensa quantità di letteratura della "cultura della vita" sparsa tra il materiale stampato negli opuscoli, bollettini, giornali e libri, e tra l'informazione depositata sulla rete[4]. Molta di questa letteratura, nonostante il suo carattere polemico, abbonda di buona dottrina e comprensione verso ciò che è sbagliato, risponde con la luce alle ombre, alla rigidità con tenerezza, al pessimismo con l'apertura alla speranza. Ma non sempre le azioni ed il pensiero, da parte di chi è a favore della cultura della vita, hanno questo segno affermativo. La battaglia a favore della vita è molto dura e senza sosta, si fa contro un nemico che dispone di mezzi e risorse enormi: è, come dice il Papa, una guerra dei forti contro i deboli[5]. Data tale sproporzione di forze tra l'una e l'altra fazione, non è strano che, andando avanti nel tempo, tra molti dei lottatori a favore della vita si sia sviluppato un ethos peculiare. Nelle azioni e negli scritti di non pochi di questi si apprezzano accenti di durezza e risentimento, di asprezza e amarezza, frutto della stanchezza, delle ferite inevitabili, delle apparenti sconfitte, proprie di ogni guerra prolungata. Il pensiero di essere a favore della vita perde la sua intensità e si sviluppa la mentalità polarizzata che l'unico così importante è eliminare il nemico. Si genera così un'ideologia più di negazione che di affermazione, viene persa la capacità di stringere amicizia. Talvolta coloro che lottano per la vita possono assumere una personalità poco attraente. Così succede, in modo paradossale, che quello che è iniziato come un movimento a favore della vita si è insensibilmente trasformato in un generatore di azioni "anti-­‐": contro l'aborto o l'eutanasia, ma anche contro le single persone e, in particolare, contro potenti organizzazioni che promuovono la "cultura della morte". Nel fragore della battaglia, non è facile respingere la tentazione di impiegare le stesse armi, violente e dannose, di cui si serve il nemico. Si può perfino arrivare a dimenticare che la cultura della vita è intrinsecamente un compito di carità, un messaggio luminoso e amabile, che si sforza nel capire tutti eroicamente perché tutti vuole attrarre e, nello stesso tempo, è intransigente con l'errore che vuole respingere con razionalità e pazienza. 152 Conviene, quindi, ricordare a tutti quelli che lottano per la vita che la cultura della vita esiste non per indebolire i cultori della morte ma per salvarli, per offrire loro nuovi segni di speranza. La cultura della vita lavora per la crescita della giustizia e della solidarietà, cerca di costruire un'autentica civiltà della verità e dell'amore[6]. La cultura della vita è un impegno essenzialmente positivo. È facilmente comprensibile che, vista la violenza di questa guerra e la vicinanza del fronte di battaglia, sia stata posta meno attenzione nello scoprire i contenuti positivi della nuova cultura della vita che nel compito, apparentemente più urgente, di combattere gli errori e le strategie della "cultura della morte". Ciò nonostante, e secondo il mio parere, non c'è niente di più essenziale che studiare, tale e come lo stiamo facendo in questa VII Assemblea dell'Accademia, le questioni e i problemi che potrebbero essere chiamati gli aspetti affermativi della cultura della vita. Si tratta di impegnarci a cercare cose tanto interessanti come le seguenti: -­‐ il tono psicologico, costruttivo e attraente, che la cultura della vita deve istaurare con le sue idee e azioni; -­‐ i modi di definire e presentare la cultura della vita come una novità sempre fresca; -­‐ definire e caratterizzare il suo stile intellettuale e umano, unitario nel suo nucleo, ma adattato alle multiple varietà, che dovranno essere non solo rispettate, ma anche promosse, nelle mentalità, situazioni e luoghi; -­‐ come provvedere affinché i messaggi della cultura della vita siano sempre colmati di scienza solida e anche di comprensione e gioia, di speranza teologale; -­‐ come esplorare nuovi modi di esprimere l'entusiasmo umano e cristiano per la vita umana, senza scendere in scene di lirica o di narrativa manicheiste; -­‐ bisogna stabilire fin dove deve arrivare il buon zelo nella difesa della vita per non sprofondare nell'accanimento o il tormento; -­‐ come, rispettando la libera iniziativa e l'infinita varietà, possono essere segnalati i tempi per perseguire determinati obiettivi comuni per creare un minimo di coordinazione in mezzo alla polifonia della cultura della vita; -­‐ trovare i modi di creare una comunicazione interna, per sentirci gli uni con gli altri, al di sopra degli altri mille modi di propagare il vangelo della vita; -­‐ in particolare, bisogna stringere un compromesso solido e leale con la verità contenuta nelle scienze biologiche e umane, che mai è lecito negare o ingrandire, deformare o manipolare; -­‐ bisogna tentare in ogni caso di combinare armoniosamente la razionalità forte dei giudizi morali obiettivi con la pratica della compassione; -­‐ bisogna imparare a coniugare l'affermazione delle verità morali con l'accoglienza di coloro che sbagliano. -­‐ è preciso, infine, sviluppare con coraggio e intelligenza il triplice incarico che il Papa ci chiede nell'Enciclica di annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. Di tutto questo amplissimo ed incitante programma tematico, limiterò la mia esposizione ad offrire alcuni indizi su due dei punti: uno riguardo il compromesso incorrompibile con la verità che dovranno avere tutte le azioni nell'ambito della cultura della vita; l'altro consiste nell'offrire alcune considerazioni sul meno trattato, e forse il più difficile, dei progetti della nuova cultura della vita umana che il Papa ci segnala: come celebrare il Vangelo della vita. Ovviamente, le mie conclusioni non sono definitive. Il tema necessita di molta riflessione. Qui le offro a voi in modo che il Documento che verrà poi presentato alla VII Assemblea venga arricchito con tutte le vostre osservazioni, critiche e suggerimenti. 153 Il compromesso con la verità Una ricerca sistematica nel testo dell'Evangelium Vitae della parola "verità" e dei termini imparentati ci mostra in modo palese che il Santo Padre pone la verità come un elemento essenziale della teoria e la pratica della cultura della vita. Ci parla del valore fondamentale della verità nella diffusione del Vangelo della vita, perche è soltanto attraverso un profondo compromesso con la verità che l'uomo riesce a scoprire e a diffondere il rispetto per l'umanità di ogni essere umano. Dice il Papa, tra altre cose, che l'apertura sincera alla verità è una condizione necessaria affinché all'uomo venga rivelato il valore sacro della vita umana[7]; che tutto rapporto sociale autentico deve basarsi sulla verità[8]; che ora, più che mai, è necessario chiamare le cose per il suo nome, senza cedere alla tentazione dell'autoinganno[9]; che nella storia sono stati commessi crimini in nome della verità[10]; che la cultura nuova della vita è il frutto della cultura della verità e dell'amore[11]; che il lavoro dei costruttori della cultura della vita deve esprimere la verità compiuta sull'uomo e sulla vita[12]; che nei mezzi di comunicazione sociale deve essere rispettata una scrupolosa fedeltà alla verità[13]. E, d'altra parte, i messaggi di alcuni di quelli che militano nel campo della cultura della vita sembrano inquinati da diverse forme di mancanza alla verità: non perché gli autori si servono deliberatamente della bugia o dell'inganno, ma perché sono crollati davanti alla tentazione dell'efficienza strategica. Di conseguenza, esagerano la verità e la deformano, con la pretesa di farla diventare più dura e convincente. Altrimenti la maltrattano per farle rivelare aspetti che non sono contenuti in essa; o la rivelano solo in parte, occultandone l'altra, per eludere l'inevitabile complessità che spesso la realtà presenta. In altre occasioni, per l'urgenza della situazione o per mancanza di venerazione per la verità, vengono diffusi scritti immaturi, frutto dell'improvvisazione, creati nell'indegnazione o nell'ira, che danneggiano la causa della cultura della vita e provocano il diletto di quelli che la combattono. In queste occasioni non si manca soltanto alla verità e alla carità, ma anche alla prudenza per non aver chiesto consiglio a chi potesse offrirlo. Mai, nella costruzione della cultura della vita si dovrebbe ovviare il provvedimento di chiedere una critica costruttiva a chi può vedere il problema più serenamente e con maggiore saggezza. Le pubblicazioni scritte o le manifestazioni verbali dei seguaci della cultura della vita dovrebbero limitarsi, nei casi applicabili, alle norme di qualità che governano il mondo delle comunicazioni scientifiche e culturali. Queste norme che inizialmente si riferivano in modo quasi esclusivo a questioni di stile e correttezza, hanno incorporato nel corso del tempo e con intensità crescente, certi prerogative etiche[14]. Alcune di queste prerogative sono importanti nel nostro contesto perché interpretano un atteggiamento etico di onestà intellettuale e di integrità informativa, prerogative che proteggono contro il rischio sempre presente di fare un uso contrario dell'etica. Mai, nella costruzione della cultura della vita, si può ammettere che, come dice il cinismo ètico, la finalità giustifica i mezzi. Nella guerra a favore della cultura della vita non è valido il principio perverso del "tutto è lecito". L'etica comune della pubblicazione[15] impone certi doveri, tra i quali possono essere segnalati i seguenti: -­‐ acquisire ed esercitare una condotta giusta nei confronti dei diritti intellettuali che ci obbliga a non appropriarci dei meriti altrui attraverso il plagio o l'imitazione, ma a concedere per giustizia il premio di originalità agli ideatori di nuove idee; -­‐ comprovare la veridicità e l'esattezza dei dati che usiamo nelle nostre argomentazioni, attraverso una valutazione accurata ed una selezione critica delle fonti di informazione affidabili, ed indicando esplicitamente queste fonti; 154 -­‐ respingere ogni tentazione di fabbricare i dati, falsare le testimonianze o omettere informazione significativa; -­‐ esprimere con razionalità, moderazione e prudenza le conclusioni dei nostri discorsi, per non presentare come reale quello che è solo auspicabile, per non segnalare come vero quello che è dubbio, per non presentare come dimostrato quello che è semplicemente ipotetico; -­‐ assumere personalmente la responsabilità morale di quanto comunichiamo e diffondiamo nel contesto della cultura della vita, nella quale non c'è spazio per la diffamazione anonima; -­‐ chiedere consiglio a chi lo possa dare con competenza e generosità. Nello stesso modo in cui l'impiego degli esaminatori ha generato un salto nella qualità delle pubblicazioni scientifiche, chiedere consiglio prima di pubblicare è, nel contesto della cultura della vita, la miglior garanzia contro l'imprudenza e il soggettivismo. Chiedere e dare consiglio è un grande tesoro umano e cristiano, che salva dal pericolo, a volte troppo vicino, di lasciarsi trasportare da idee violente od ossessive, specie quando sono sbagliate o inopportune. Alcuni di questi errori etici nel campo della promozione della cultura della vita sono stati denunciati recentemente, con molta forza e prendendo esempi tratti dalla vita reale, da Roberge[16]. Il suo articolo è degno di essere letto, perché non solo fustiga le deficienze scientifiche e etiche che occasionalmente si trovano nella bibliografia pro-­‐vita, ma segnala anche alcuni difetti che contribuiscono a mantenere in uno stato rudimentale l'acquisizione di dati scientifici e la valutazione degli esperti, che sono oggi così necessari per un'azione vigorosa a favore della cultura della vita.[17] Questa è una cultura di verità e amore. Quindi solo nell'onestà intellettuale, nella ricerca della verità, nello sforzarsi ad amare e perdonare, i movimenti a favore della vita troveranno il suo spazio intellettuale ed etico. Credo che questo incomba in modo speciale sui membri della Pontificia Accademia per la Vita. Penso che abbiamo un obbligo particolare di aiutare a costruire una cultura della vita che sia solidamente fondata sulla valutazione amorosa ed intelligente, critica e gioiosa della verità della vita umana. La celebrazione del Vangelo della vita Il tema della celebrazione del Vangelo della vita è degno di considerazione, importante, ed ha bisogno di studio e sviluppo, perche è decisivo per definire il tono che dovranno prendere le altre due direzioni nell'azione evangelizzatrice della vita alla quale il Papa ci invita, l'annuncio e il servizio. Considero, inoltre, che nella comprensione profonda di quello che ci dice il Papa nei punti 83 a 86 dell'Evangelium vitae si trova il rimedio per molte delle deviazioni che possono affettare a coloro che lottano per la vita e che ho già descritto precedentemente. Senza allegria, senza la gioia dello Spirito Santo nell'anima, non è possibile costruire la nuova cultura della vita né può radicarsi in noi la coscienza umile e grata di essere il popolo per la vita. Per promuovere il necessario e profondo cambiamento culturale al quale il Papa ci avvia, dobbiamo presentarci davanti agli uomini con gesti di pacifica e umile gioia, con spirito di celebrazione. Cosa ci dice il Papa nell'Enciclica sulla celebrazione del Vangelo della vita? Il Papa consiglia -­‐ed è questo un suo esempio costante-­‐ che, quando possibile, dobbiamo cominciare le nostre riflessioni ed insegnamenti etici con alcun riferimento alle Scritture, che dobbiamo tentare di dargli un fondamento biblico[18]. Fedele al suo consiglio, il Papa da fondamenti delle Scritture a tutta la sua Enciclica. E sceglie per questo un'atmosfera di 155 celebrazione. Comincia la Lettera ricordandoci che, nell'aurora della salvezza, la nascita di un bambino è proclamata come notizia gioiosa: "Vi annuncio una grande allegria, che lo sarà anche per tutto il popolo: è nato oggi per voi, nella città di Davide, un salvatore, che è Cristo il Signore" (Lc 2, 10-­‐11). Il Papa ci segnala così che la gioia, ed in concreto la gioia messianica, costituisce il fondamento e il culmine della gioia per ogni bambino che nasce. L'allegria è nel più profondo della nuova cultura della vita[19]. Il Papa ci presenta, più avanti, la scena esaltante della Visitazione di Maria a Isabella come un'esplosione di gioia per la vita, nella quale si celebra sia la fecondità e l'attesa con l'illusione di una nuova vita, sia il valore della persona umana dal momento del concepimento[20]. All'inizio del Capitolo IV della Lettera, il Papa ci dice che le tre dimensioni, annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita, non sono inseparabili e che, all'interno della vita della Chiesa, ognuno dei lavoratori del Vangelo deve completarle secondo il proprio carisma e ministero, mettendo così insieme unità e diversità, fedeltà e spontaneità[21]. Conclude il Papa che "tutti insieme sentiamo il dovere di [...] di celebrare [il Vangelo della vita] nella liturgia e in tutta la nostra esistenza": e cioè, c'è una celebrazione relazionata con la liturgia, ma c'è un'altra che opera nel mondo, nel campo senza limiti dell'intera esistenza[22]. Quest'ultima è quella che oggi ci interessa. Non è facile riassumere quello che ci dice il Papa tra i punti 83 a 86 dell'Enciclica, nei quali tratta per esteso la celebrazione del Vangelo della vita. Ma vale la pena tentare. Quella sezione della lettera porta come motto alcune parole del Salmo 139/138: "Ti ringrazio per tante meraviglie: sono un prodigio". Questa giaculatoria di gratitudine e sorpresa dà un tono gioioso e grato a quello che segue. Con profonda intuizione psicologica e pastorale, il Papa ci ricorda che siamo inviati nel mondo come "popolo per la vita" e che l'annuncio del Vangelo della vita deve essere una celebrazione vera e genuina che attraverso i suoi gesti, simboli e rituali, si converta in un veicolo della bellezza e grandezza di questo Vangelo. Non sono piccole, quindi, le dimensioni di questa celebrazione, né dei suoi obiettivi. Inaspettatamente, il Papa ci assicura che per far sì che la celebrazione sia autentica è necessario coltivare noi stessi, e che fomentiamo negli altri, uno sguardo contemplativo del Vangelo della vita. La nuova cultura della vita esige approfondire la nostra fede, credere solidamente che il Dio della vita crea ogni uomo come un prodigio, un miracolo. Abbiamo bisogno di vedere la vita umana nella profondità della contemplazione per stupirci senza tregua della sua gratuità e bellezza, dell'invito alla libertà e responsabilità che in essa è incluso. Questo penetrante sguardo contemplativo, che è rispettoso ma non possessivo, ci rivelerà in ogni persona l'immagine vivente del Creatore, ci farà vedere in trasparenza l'intangibile dignità di ogni essere umano tante volte occulto sotto l'apparenza della malattia, la sofferenza, la vulnerabilità, o la precarietà che precede la morte. Questo sguardo contemplativo dà il suo senso a tutta vita umana, perché scopre nel rostro di ogni uomo una chiamata al mutuo rispetto, al dialogo, e alla solidarietà. La riflessione profonda sul Vangelo della vita ci deve riempire l'animo di religiosa ammirazione per ogni essere umano, ci deve far diventare capaci di venerarlo e rispettarlo. Il Papa ritorna al punto di partenza nell'affermare che è grazie a questa visione contemplativa dell'uomo che il popolo della vita può prorompere in inni di gioia, lode e ringraziamento per il dono inestimabile della vita, dono che misteriosamente comprende la chiamata di ogni uomo a partecipare, in Cristo, della vita di grazia e di una comunione senza fine con Dio Creatore e Padre[23]. Deposto così il fondamento, Giovanni Paolo II ci invita a partecipare attivamente alla celebrazione della vita ed a edificare la cultura della vita nella sua dimensione festiva. Ci offre un insieme di idee, amabili e forti che, se assimilate a fondo, potrebbero dare al nostro dialogo con gli uomini una freschezza sempre rinnovata e un'inesauribile capacità di superare i pregiudizi. 156 La prima attività in cui dovrà manifestarsi la celebrazione del Vangelo della vita è la gioia nell'Amore creatore di Dio, nella Vita divina, vivificante di per sé e creatrice della vita, dalla quale procede ogni essere vivente e dalla quale proviene l'immortalità di ogni anima. Crediamo in un Dio personale, Creatore e Datore di vita, al quale non basta semplicemente credere come ad un remoto Principio, Causa e Fondamento unico della vita. È necessario anche lodare, contemplare e celebrare Dio come Vita che vivifica ogni vita. Il Santo Padre enumera tutte le possibilità e suggerimenti idonei per celebrare la vita. Prendendo parole dal Salmo 139/138, ci invita a rallegrarci ogni giorno, nella nostra preghiera, con lodi a Dio nostro Padre che ci ha creato nel seno materno e ci ha visto e amato quando non avevamo ancora forma. Ci invita a prorompere, con le parole che servono come moto a questa sezione dell'enciclica, in ringraziamenti a Dio per la meraviglia che siamo. Citando il suo predecessore Paolo VI, il Papa ci presenta il contrasto misterioso che formano vita e morte come occasione di allegria: "questa vita mortale, nonostante le sue tribolazioni, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, è un evento bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno di essere cantato con gioia e gloria". Il Santo Padre insiste ripetutamente perche è lì che ci sono le fondamenta della cultura della vita, nell'affermare nella nostra coscienza l'idea chiara e profonda della dignità di ogni essere umano, di tutti gli esseri umani. E questa dignità, tante volte nascosta dalla malattia e l'ignoranza, deve essere, tuttavia, sempre celebrata perche in essa non manca mai una scintilla della gloria di Dio: "in ogni bambino che nasce ed in ogni uomo che vive e muore riconosciamo l'immagine della gloria di Dio, gloria che celebriamo in ogni uomo, segno del Dio vivo, icona di Gesù Cristo"[24]. Queste e altre idee che sono contenute nei punti 83 a 86 dell'Enciclica, dovrebbero essere lettura frequente per tutti quelli che lavorano nella costruzione della nuova cultura della vita. Anzi, dovrebbero venire offerte con speranza a quelli che militano nelle linee della cultura della morte, affinché possano comprendere qual è il nucleo forte dell'amore per la vita umana. Ma è arrivato il momento di chiederci che cosa è celebrare il Vangelo della vita e quale ruolo ha nella costruzione della nuova cultura. Se fosse stata assorbita completamente nella nostra anima, nella nostra coscienza morale, l'atteggiamento incondizionato di ammirazione e di gioia davanti la dignità quasi divina dell'uomo, sarebbe molto feconda e animosa la nostra attività in favore della cultura della vita che il Papa ci invita a edificare, che è una cultura che tutto abbraccia e che ha mille aspetti diversi. Io posso parlare, con una certa cognizione di causa, del ruolo che la celebrazione del Vangelo della vita ha in due aree: nella docenza della Medicina (non ho il coraggio di parlare di altri studi universitari), e nelle azioni sociali promosse a favore della vita. Sulla celebrazione del Vangelo della vita nella docenza biomedica. Paradossalmente, non mi sembra molto acuto tra molti universitari quello sguardo contemplativo del quale parla il Papa. Per cominciare, quanto poveramente ispirati e scritti sembrano la maggioranza di libri sui quali studiano i nostri alunni! Sono libri freddamente descrittivi, scritti senza entusiasmo per la vita, con un'oggettività rigida, unidimensionale, noiosamente formalista. Bisognerebbe riscrivere i trattati di Biologia e Patologia umane con un atteggiamento nuovo, un atteggiamento che unisse al rigore dell'osservazione scientifica e alla valutazione critica dei fatti e delle ipotesi i lineamenti definitivamente umani dell'ammirazione. Tante volte basterebbe introdurre nei libri e nelle spiegazioni piccole pause per lasciare spazio allo stupore e ai suoi innumerevoli motivi. Tutti saremmo migliori educatori se, nelle nostre lezioni e nei nostri libri di studio, offrissimo ai nostri alunni e lettori le opportunità per un sorriso 157 di ringraziamento per la bellezza della vita, e anche per sondare la nostra ignoranza, per fare qualche calcolo su quanto ci rimane da scoprire, dell'inesauribile speranza di arrivare a conoscere e ammirare la ricchezza della realtà vivente. Così potremmo proteggere gli studenti e professionisti delle scienze biomediche dalla terribile tentazione del tecnicismo meccanicista, dal rischio di una visione della vita come una routine, di far diventare triviale quello che è sorprendente, di far diventare un deserto il terreno affettivo. È, quindi, necessario aggiungere vita alla vita. Solo così possiamo proteggerci di fronte alla sottile narcotizzazione dello scienticismo. L'osservazione meccanicista -­‐non l'analisi scientifica dei meccanismi e processi biologici e del suo adattamento alle condizioni anomale indotte dalla malattia-­‐ ha la tendenza di registrare nella mente dello studente e del ricercatore, che solo quello meccanicamente spiegabile è reale, cosa che significa, come abitudine intellettuale, che è solo biologico quello che è morto perché il paradigma oggi vigente -­‐quello della Biologia e la Medicina molecolari-­‐ afferma che è scientificamente valido solo quello che può essere spiegato in termini di molecole. In questo modo, la biologia diventa una specie di tanatologia[25]. In tale contesto, l'insegnamento delle scienze biomediche perde l'ispirazione intellettuale e si chiude al propriamente umano e alle considerazioni etiche. Si scende nella barbarie dell'insensibilità, della cecità verso quello che è umano. L'embrione umano diventa un mero ammasso cellulare nel quale si esprimono geni e molecole modulatrici, in accordo a una meccanica dello sviluppo, che non è diversa in assoluto a quella che domina lo sviluppo di altre specie più o meno vicine. Parlare, in un corso di Embriologia medica, dell'embrione umano come un essere umano che deve essere rispettato è visto come un'eccentricità. Ammettere che nell'embrione si esprime la natura umana sembra un tradimento alla scienza. Il mero ricordo che la nostra esistenza personale è cominciata con questa umile, ma gloriosa, apparenza è rifiutato come se fosse la segnalazione di un'ascendenza indegna. Nell'insegnamento delle scienze biomediche basiche, l'assenza di riferimento all'umano vivente lascia gli studenti impreparati all'incontro con i pazienti all'inizio dei loro studi clinici: non sono stati abituati alle realtà umane della malattia e della sofferenza. È oggi frequente nello studente sperimentare una strana sensazione nell'entrare in ospedale. La potrebbero superare se leggessero l'Evangelium vitae, non soltanto perche è un'eccelsa lezione di etica medica, ma anche perche è una profonda lezione di umanità medica. Dobbiamo dire ai nostri studenti, futuri medici, che la vocazione medica ha a che fare più con uomini vivi che con molecole morte, che devono imparare a riconoscere e ad apprezzare i malati nella loro singolarità personale e nella loro integrità umana, perche è solo così che potranno trattarli in un modo veramente professionale, che sia tanto scientifico quanto umano. È necessario fomentare, come segnala il Papa, in tutti, ma particolarmente in quelli che saranno medici, l'onestà dell'intelletto, la sincerità dello sguardo, l'amore gioioso per la vita. Questo viene raggiunto con lo sguardo contemplativo del quale ci parla il Santo Padre. Esiste una perspicacia umana che permette di far diventare trasparente la realtà e di aprirla al significato, che viene nel professare lo stupore, umano e celebrativo, per la vita. Mi piace citare alcuni scritti di Lewis Thomas, un uomo la cui vita non è stata illuminata dalla luce della fede, ma che è trascorsa nella penombra della nostalgia di Dio. Thomas, oltre ad essere un patologo con uno sguardo originale e uno scrittore affascinante, è stato un uomo innamorato della vita, un testimone delle meraviglie del vivere. Ha scritto sugli esseri viventi come pochi lo hanno fatto finora. Da un articolo intitolato "Sull'Embriologia" prendo questo saggio, nel quale Thomas ci racconta quello che succede nei primi giorni della nostra vita. Descrive con tale garbo quello che succede nell'albore della vita che la lezione diventa un'esperienza intensa, indimenticabile, che lascia un segno. "Tu sei partito da una sola cellula che proviene dalla fusione di uno sperma con un oocita. 158 La cellula si divide in due, dopo in quattro, in otto e così via. E presto, in un momento preciso, avviene che, sorge una che sarà il precursore del cervello umano. La mera esistenza di questa cellula è la prima delle meraviglie del mondo. Dovremmo trascorrere le ore a commentare quell'evento. Dovremmo trascorrere l'intero giorno a chiamare per telefono gli e agli altri, in un inesauribile stupore, e darci appuntamento per parlare soltanto di quella cellula. È qualcosa di incredibile. Ma eccola, aprendosi spazio verso il suo posto in ciascuno dei mille embrioni umani di tutta la storia, di tutte le parti del mondo, come se fosse la cosa più semplice e ordinaria della vita. Se vuoi vivere di sorpresa in sorpresa, eccola qua la fonte di tutte quante. Una cellula si differenzia per produrre il massiccio apparato di miliardi di cellule, che ci è stato dato per pensare, immaginare e, come in questo caso, per rimanere stupito davanti una così formidabile sorpresa. Tutta l'informazione necessaria per imparare a leggere e a scrivere, per suonare il pianoforte, per discutere di fronte ad un Comitato del Congresso, per attraversare la strada in mezzo al traffico, o per eseguire quell'atto meravigliosamente umano come è stirare un braccio e appoggiarsi ad un albero: tutto questo è contenuto in quella prima cellula. In lei c'è tutta la grammatica, tutta la sintassi, tutta l'aritmetica, tutta la musica [...]. nessuno ha la più minima idea di come succede questo, ma la verità è che niente in questo mondo sembra più interessante. Se prima di morire -­‐concludeva Lewis Thomas-­‐ qualcuno dovesse trovare la spiegazione di questo fenomeno, io farei una pazzia: prenderei in affitto uno di quegli aerei che possono scrivere segnali sul cielo, anzi, una squadra completa di quegli aerei, e li spedirei per i cieli del mondo a scrivere segni di ammirazione, uno dopo l'altro, fino a non finire tutti i miei soldi"[26]. La ragione di aver trascritto questo lungo frammento è per il suo modo di esprimere lo stupore entusiasmato e l'amore per la vita. Dovremmo sforzarci per applicare un simile entusiasmo, stupore e amore nelle nostre lezioni e discussioni accademiche sulla vita umana, quando dobbiamo arguire in suo favore. Penso che il rispetto etico si cova, non solo nel fondamento metafisico, ma anche nello stupore biologico, nello sguardo contemplativo. Ma la cultura della vita non è fatta solo di intelligenza: esige anche amore. Nelle Facoltà di Medicina, si insegna agli studenti di medicina ad amare? Per essere un attivo promotore della cultura della vita non é sufficiente la conoscenza cordiale e intensa. Bisogna favorire l'accrescimento del carattere. La cultura della vita richiede generosità e servizio, vincere l'egoismo, avere capacità di avventura. Il Papa ricorda che è necessaria una paziente e coraggiosa opera educativa che spinga tutti e ciascuno a prendere su di sé il peso degli altri, che c'è bisogno di un continuo sviluppo delle vocazioni di servizio, in particolare tra i giovani. Quello sforzo educativo è imprescindibile e urgente nel contesto sociale di oggi, così freddo ed egoista[27]. In un'analisi della crisi di umanità che attraversa oggi la pratica della Medicina, un medico ebreo, il Prof. Shimon Glick, afferma che tale crisi è il risultato dell'impoverimento in valori morali ed etici che molte delle società democratiche occidentali hanno introdotto nei loro sistemi educativi. È sufficiente calcolare la qualità umana e morale che avranno i giovani, uomini e donne, candidati alla professione medica che sono stati allevati ed educati come bambini o adolescenti in un ambiente comodo e apertamente permissivo, abituati ad ottenere senza sforzo e immediatamente quello che vogliono e ogni volta che lo vogliono; quelli a cui è stato insegnato che l'obiettivo ultimo della vita è aspirare, con il costo morale più basso possibile, al benessere e all'autosoddisfazione. Non è da aspettarsi che questi bambini possano convertirsi in adulti morali che si abbandonino con energia generosa alla pratica della Medicina[28]. Nello stile educativo di oggi manca quasi completamente la educazione alla generosità, per l'allegria di dare e di darsi. Non viene fomentata la stima per i valori morali. L'educazione alla virtù è stata espulsa da molte università, dopo averla etichettata come mero moralismo, e si è 159 dimenticato che il meglio che un'università può offrire non è tanto il profitto tecnico ma la formazione del carattere degli studenti. Se si dovrà avverare il desiderio del Santo Padre che ogni educatore universitario sia un ricercatore dell'uomo[29], sarà necessaria la conversione, il ritorno alle radici cristiane, restituire all'università la gioia di vivere. Sotto questo aspetto, la celebrazione della vita sembra qualcosa di essenziale. Celebrazione e attivismo a favore della vita Ho già segnalato che una delle tentazioni più insidiose che minacciano i difensori della vita è di soccombere alla tentazione dell'abbattimento. Non mancano i motivi se le cose si vedono solo a livello terreno. Ma sarebbe triste che il buon sale perdesse il suo sapore, che i predicatori del Vangelo della vita diventassero amari e vendicativi, che mettessero nelle loro parole e azioni più irritazione che gioia, più rancore che speranza, più antagonismo che carità. Si capisce che per chi ogni giorno è in contatto con l'aggressività ideologica dei maltusiani e di chi controlla i centri nevralgici dell'ispirazione politica e del controllo professionale, o chi tenta di capire l'estensione e intensità della massiccia distruzione di vite umane che, con la protezione della legge, viene perpetrata oggi nel mondo, ha abbondanti ragioni per sentirsi tormentato e triste: sono molti i peccati che vengono commessi, molte le vite che vengono segate, molta l'ostinazione impenitente. Ma non dobbiamo dimenticare che questi sentimenti sono incompatibili con la nuova cultura della vita. In ogni circostanza, il Vangelo della vita è una buona notizia, piena di speranza e di promesse, che deve essere presentata con serenità e amore. E se fosse possibile con vivacità negli occhi e un sorriso sul viso, col cuore comprensivo e generoso, con pazienza, coraggio e semplicità, e senza che mai manchi un tocco di umore. Vi rammento ancora la prima pagina dell'Enciclica. In questa ci si chiede che il Vangelo della vita venga predicato con fedeltà e vigore, senza timore, ma con la gioia di una buona notizia a tutti gli uomini di tutte le epoche e culture, perche è una nuova legge di libertà, gioia e benedizione. Il Papa ci ricorda che i comandamenti di Dio non sono mai separati dall'amore, che sono sempre un regalo che viene fatto per gioia e crescita dell'uomo. È molto importante trovare la chiave tonale giusta che dovranno avere le nostre parole e i nostri lavori a favore della vita. In Veritatis splendor, giusto all'inizio, il Papa parla dello sforzo nel trovare "espressioni sempre nuove di amore e misericordia per dirigersi non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà" e ricorda che la Chiesa è esperta in umanità, una Madre e Maestra che si pone al servizio di ogni uomo, di tutti gli uomini[30]. L'attivismo a favore della vita dovrà essere inondato di gioia. Si dice nell'Evangelium vitae che il Vangelo della vita è per la Chiesa non solo una proclamazione allegra, ma anche in sé stesso è una fonte di gioia[31]. Il Vangelo della vita, così come la nuova cultura che gli è annessa, non è una convinzione politica, o un modo di giudicare la demografia o di valutare i rapporti sociali. Quello che ci deve spingere a difendere la vita è la gratitudine che sentiamo per la incomparabile dignità dell'uomo. Questa è la ragione che ci dovrà spingere a diventare partecipi del nostro messaggio agli altri uomini e donne. Spesso, quando leggo pubblicazioni di movimenti pro-­‐vita, sento la mancanza dello spirito affermativo, incoraggiante, allegro, celebrativo, che dovrebbe dare energia alle azioni pro-­‐vita. Esiste in tali pubblicazioni troppa politica di partito, eccessivi riferimenti personali ai fautori del male, esagerato localismo, esibizionismo di virtù muscolari, scatti di manicheismo. La maggior parte di queste pubblicazioni non sono molto ispiratrici. Mancano di generosità intellettuale. Ma 160 questa generosità ci serve. Anche un poco di visione universale. E la gioia per le tante meraviglie che si operano ogni giorno, in forma di conversione e pentimento. Una cosa che è chiara nel messaggio del Papa. Dopo l'Evangelium vitae l'attivismo pro-­‐vita non può che essere affermativo e rivelatore della sua ricchezza evangelica. Non può scendere mai più nel triste gioco di fare l'opposizione, di accettare la sfida di competere nell'odio o nell'altezzosità, come vogliono i suoi nemici. Penso che la celebrazione del Vangelo della vita deve basarsi su due appoggi fondamentali. Il primo, molto semplice da esprimere e, con l'aiuto di Dio, da mettere in pratica, consiste in una gioiosa e fedele accettazione degli insegnamenti del Magistero della Chiesa. Il secondo dovrà essere la solida convinzione che questo è un lavoro che durerà molto tempo, un punto fisso nell'agenda di lavoro di tutti noi. È nostro dovere cooperare a vita, ognuno con il proprio carisma e vocazione, nella divulgazione, celebrazione e servizio di questo vangelo. Dobbiamo essere lavoratori instancabili in un lavoro impegnativo e quasi interminabile. Questo significa che, per il resto delle nostre vite, ognuno dovrà dedicare una parte sostanziale del proprio tempo e sforzo in questo compito tanto duro quanto promettente. Non possiamo permettere che l'impatto dell'Enciclica si ammortizzi e estingua in pochi mesi. Andiamo per il mondo seminando con allegria questa dottrina così umana e vera, ringraziando Dio che ci permette di trarre l'amore dall'odio, la vita dalla morte. La cultura della vita deve costruirsi e pensarsi con l'aiuto della riflessione del teologo, l'astrazione del pensatore e la ricerca del sociologo. Ma anche con storie personali, con poesie e canzoni che raccontino la bellezza della vita reale, della solidità dell'amore. E che venga fatto con forza, per non lasciare un'impressione fugace, una lieve commozione dello spirito, bensì una ferita che provochi dolore ogni giorno. Dobbiamo inondare di comprensione il forte scontro tra i pro-­‐lifers e i pro-­‐choicers, non nel senso di cedere nei principi non negoziabili del rispetto sacro per la vita umana, ma aumentando la preghiera per la conversione di coloro che sono in errore, più carità per sentire verso loro un amore dolente a causa dei loro errori e pregare affinché tornino alla casa del Padre. Non possiamo dimenticare che la celebrazione del Vangelo della vita è legata all'officio sacerdotale dei seguaci di Cristo, che ha di informarla di molta misericordia e intercessione. Tutti dobbiamo fare, sotto l'influsso della grazia, uno sforzo per comprendere coloro che sono in errore ed attrarli con un amore che superi gli odi e le distanze. Il Papa ci da l'esempio, quando invoca alla conversione al Vangelo della vita le donne che sono ricorse all'aborto. La Chiesa -­‐
afferma Giovanni Paolo II-­‐ sa quanti condizionamenti possono aver avuto influenza nella loro decisione e non ha dubbi che in molti casi si è trattato di una decisione dolorosa, perfino drammatica. È vero che quello che è successo è stato profondamente ingiusto e continuerà ad esserlo. In ogni modo, non è il caso di cedere allo scoraggiamento né di abbandonare la speranza. Bisogna capire lucidamente quel che è successo e interpretarlo nella sua verità. C'è comunque ancora spazio per la grande speranza del pentimento, del perdono del Padre di ogni misericordia. Bisogna costruire, con la guida del Papa, quella nuova sociologia del perdono, della verità del pentimento, uno degli atti umani più elevati, sintesi della fragilità dell'uomo con l'amore misericordioso di Dio[32]. La nuova cultura della vita dovrà essere come la casa del padre del figlio prodigo. 161 [1] Evangelium vitae, n. 28 [2] Evangelium vitae, nn. 21, 28 (in due occasioni), 50, 87, 95, 100. [3] Evangelium vitae, nn. 6, 82, 92, 95 (tre volte), 97, 98 (quattro volte), 100. In questa seconda accezione, per sette volte, la cultura è qualificata come nuova; una volta è chiamata autentica, e un'altra ancora vera. In quattro occasioni si parla semplicemente di cultura della vita. [4] Vedere, per esempio, il sito Internet della Cultura of Life Foundation (www.culture-­‐of-­‐
life.org/links_new.htm), nella quale si possono trovare connessioni a un elevato numero di organizzazioni che militano nel campo della cultura della vita. [5] Evangelium vitae, n. 100. [6] Evangelium vitae, n. 6. [7] Evangelium vitae, n. 2. [8] Evangelium vitae, n. 57. [9] Evangelium vitae, n. 58 [10] Evangelium vitae, n. 70. [11] Evangelium vitae, n. 77. [12] Evangelium vitae, n. 95. [13] Evangelium vitae, n. 98 [14] International Committee of Medical Journal Editors. Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals. Annals of Internal Medicine 1997, 126(1):36-­‐47. [15] American Medical Association, Manual of style. A guide for authors and editors, Baltimore: Williams & Wilkins, 1998, Chapter 3, Ethical and legal considerations, pp 87-­‐172. [16] Roberge L.F., Scientific disinformation, abuse, and neglect within pro-­‐life, Linacre Quarterly 1999, 66(1):56-­‐64. [17] Connelly R. J., The process of forgiving: an inclusive model, Linacre Quarterly 1999, 66(3):35-­‐
44. [18] Smith J.E., The Introduction to the Vatican Instruction, in The Pope John Center, Reproductive technologies, Marriage and the Church, Braintree, Mass: The Pope John Center, 1988:17. [19] Evangelium vitae, 1. [20] Evangelium vitae, 45. [21] Evangelium vitae, 78. [22] Evangelium vitae, 79. [23] Evangelium vitae, 83. [24] Evangelium vitae, 84. [25] Holbrook D., Medical ethics and the potentialities of the living being, British Medical Journal 1985; 291:459-­‐462. [26] Thomas L., The medusa and the snail. More notes of a Biology watcher, New York: Bantam Books, 1980:129-­‐131. [27] Evangelium vitae, 88. [28] Glick S., Humanistic medicine in a modern age, New England Journal of Medicine 1981;304:1036-­‐1038. [29] Juan Pablo II, Discorso per il Giubileo dei Docenti Universitari. Sabato, 9 di settembre del 2000. [30] Veritatis splendor, 3. [31] Evangelium vitae, 78. [32] Evangelium vitae, 99. 162 TADEUSZ STYCZEN
VIVERE SIGNIFICA RINGRAZIARE: GRATIAS AGO, ERGO SUM Gloria Dei vivens homo Sant'Ireneo, Adversus haereses STATUS QUAESTIONIS Ringraziare significa donare? Io dico "grazie" a qualcuno quando accetto da lui un dono. La gratitudine è quindi un atteggiamento rivolto sia al dono sia al donatore. E' l'atteggiamento di accettazione del dono. Ma che cosa s'intende con accettazione del dono? Proprio come un dono non è tale, se in esso e per suo mezzo il donatore non si dona in qualche modo al destinatario, così si può dire che la gratitudine non è veramente tale a meno che il dono non sia accettato nello stesso modo con cui è accettato il donatore stesso. Che dono sarebbe quello di offrire del pane a una persona invitata a mettersi a tavola con me, se, con questo gesto, io volessi appena cogliere l'occasione per sistemare con lei degli affari? Che dono sarebbe se io condividessi il pane con qualcuno solamente perché io ne ho di troppo? Il pane acquista carattere di dono quando, spartendolo con un altro, io, in qualche modo, condivido me stesso con quella persona. Insieme al pane, io do a un altro lo sforzo di essere ciò che sono, lo sforzo in virtù del quale io sono affatto capace di invitare qualcuno nella mia dimora, di riceverlo nella mia casa, così che, facendo parte di quello che ho, io possa spartire con lui anche quello che sono. Non è per puro caso che invitando qualcuno a casa mia, io gli dica. "Vieni a trovarmi!". Mutatis mutandis, questo vale anche per l'accettazione dell'invito. Io, infatti, non lo considero come un dono, né lo tratto come tale, a meno che, nel varcare la soglia della casa, non sia sollecitato a farlo, così da donarmi alla persona che mi ha invitato, cosa che, in qualche modo, io compio nel gesto stesso di accettare il suo invito. Non era per semplice coincidenza che i Romani, insieme al saluto di benvenuto, scambiavano la parola servus con i loro ospiti. Questa parola, come ben sappiamo, non significa "servo", bensì "schiavo", ma, in questo caso, uno schiavo di propria spontanea volontà, in questo caso. Quindi donare significa affermare, in un modo particolare, la persona a cui si dona qualche cosa, a causa della persona stessa, attraverso il dono di se stessi. Similmente, ringraziare qualcuno per un dono è pure una speciale affermazione del donatore in quanto tale. Così si può parlare di vera gratitudine solo nell'ambito di un amore reciproco, disinteressato, tra la persona donante e la persona ricevente. Il dono è un segno specifico e un modo speciale per riconoscere l'amore. Perfino doni molto costosi, se dati senza l'intenzione di affermare l'altro con amore disinteressato, non meritano il nome di doni e l'accettazione di essi non merita il nome di gratitudine, anche se legata alle corrispondenti assicurazioni verbali e ai gesti convenzionali, interpretati solitamente come segni di gratitudine. Da queste osservazioni si possono trarre almeno due conclusioni: la prima, che la vera gratitudine è molto rara; la seconda, che un vero dono, tale da suscitare autentica gratitudine, capita assai di rado. Dare se stessi in un dono è una cosa difficile, un bonum arduum. Non è forse vero che quanto appare come un dono è troppo spesso un sottile atto di manipolazione di un'altra persona, un modo per acquistare simpatia o influenza, per garantire i propri interessi con l'aiuto di un altro? In altri termini, è un atto di annessione, forse addirittura di aggressione, a cui si può opporre assai scarsa resistenza; oppure, forse, fin dall'inizio, 163 entrambe le parti ritengono il dono e la corrispettiva gratitudine per esso, solo come una convenzione, una specie di gioco sociale che non comporta conseguenze morali e che termina come ogni gioco, quando i partecipanti decidono di sospenderlo. Ero solito ritenere che gli esseri umani sono in realtà incapaci di esprimere gratitudine in modo appropriato, nemmeno quando ricevono un vero dono. Non credevo le persone capaci di ringraziare Colui al quale per primo dovevano rendere grazie. Infatti, qualunque cosa una persona riceva da un'altra, la riceve, in ultima analisi, da Dio stesso. Ma agli occhi di Dio, l'uomo è una creatura estremamente indigente. Allora come può egli rivolgersi a Dio in altro modo se non per chiedere aiuto a motivo delle proprie indigenza, per una qualunque ragione che non sia egoistica? Come può quindi ringraziare Dio in modo appropriato e adeguato al dono e al Donatore? Io pensavo che per ringraziare Dio in modo appropriato e adeguato bisognava essere uguali a Lui, bisognava essere Dio stesso. Ma poiché è assolutamente impossibile ringraziare Dio in modo appropriato, mi sembrava Impossibile ringraziare chiunque altro in modo adeguato, specialmente ringraziare una persona per il dono di se stessa. Sed contra... Una scoperta nell'inno: Gloria in Excelsis Deo La mia convinzione subì una piccola rivoluzione quando incontrai la musica di Johann Sebastian Bach che scosse la mia certezza nel dubitare sulla capacità di una persona di esprimere autentica gratitudine. Voglio riprendere brevemente il tema della gratitudine da una direzione inattesa: dalla capacità, ossia, che l'uomo che è creazione di Dio e perciò bisognoso di Dio per sua stessa natura, è capace, ciò nonostante, di donarsi a Dio, dando così compimento alla sua esigenza primaria di ringraziare Dio in modo adeguato, cioè, "vere, dignum et justum est Deo gratias agere". Vorrei dimostrare che questo non solo è possibile, ma anche moralmente imperativo per l'uomo in quanto uomo. Non so esattamente quando per la prima volta entrai in contatto con Bach. Mi era già noto e avevo ascoltato la sua musica molto tempo prima di cedere alla magia dei suoi piccoli preludi per pianoforte. Li avevo suonati per la prima volta quando prendevo lezioni di piano durante gli studi teologici all'Università Jagellonica di Cracovia. Ma non ogni incontro è identico. Quello decisivo per me avvenne molto più tardi, quando sentii la Messa in si minore. Ascoltavo il disco in continuazione mentre lavoravo al testo della mia abilitazione a Lublino e quindi con attenzione divisa. Ma ogni volta che lo sentivo, ero costretto a interrompere il mio lavoro all'avvicinarsi di un brano particolare. La musica di questo pezzo assorbiva la mia intera attenzione, la mia completa concentrazione. L'ascolto della Messa era diventato per me l'attesa di questo solo brano e dalla musica di questo frammento comprendevo tutto il significato della Messa, la totalità nel frammento, das Ganze im Fragment. Quale sorpresa non provai, quando le parole irruppero improvvisamente nella mia coscienza. Esperimentai in tutta la sua potenza, quello che in un certo senso sospettavo. Sebbene in antecedenza avessi sentito l'inno Gloria in excelsis Deoinnumerevoli volte e con esso le parole gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam, fino a qual momento non avevo mai provato nella profondità della mia esistenza che cosa significasse ringraziare Dio non solo per quanto avevo ricevuto da Lui, ma piuttosto per quello che Egli mi permetteva di conoscere del Suo essere più intimo, della sua magnificenza. Infatti, io non Lo ringrazio in primo luogo per quanto Egli mi permette di esperimentare come summum appetibile, cioè per mio stesso vantaggio, ma piuttosto per quanto Egli mi permette di esperimentare come summum affirmabile, per se stesso, propter magnam gloriam Tuam.1 Forse non avrei mai scoperto la profondità di queste parole nel loro pieno significato senza Bach e il suo prodigio musicale. 164 L'anonimo autore dell'inno vi esprime la reale possibilità dell'uomo, il suo reale bisogno e obbligo di ringraziare Dio e di ringraziarLo in un certo modo. Egli non cerca di provare nulla a nessuno. Probabilmente non mostrerebbe alcun interesse per un dotto convegno sulla gratitudine. Una sola cosa conta per lui: l'atto di ringraziare. L'inno lascia supporre che egli ringrazi Dio e che Lo ringrazi in questo modo, propter magnam gloriam Tuam. Con queste parole egli testimonia quello che esperimenta. Che differenza fa che l'umiltà gl'imponga di celare a noi il suo nome, dal momento che egli esprime con le sue stesse parole la pienezza delle possibilità umane e di conseguenza le possibilità di noi tutti? Facendo così, egli non si presenta a noi in modo insolito e particolare? Nel ringraziare Dio per l'estensione della Sua Gloria, rappresentando così tutti gli uomini, egli rivela che la vera gratitudine verso Dio consiste nel gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam. Noi scopriamo per mezzo di Bach e l'ignoto autore del Gloria che è possibile fare ciò che dapprima sembrava assolutamente impossibile. Questa creatura indigente che è umana, affascinata e attratta da Dio, è capace di ringraziarLo in questo modo, di liberare dal suo intimo possibilità e aspirazioni e di trascendere se stesso. Naturalmente, ci si può chiedere se chi ringrazia Dio in questo modo, che trova questo propter, questo "a motivo di" che lo mette in sintonia con l'inno di ringraziamento, se chi ringrazia Dio per la Sua gloria, sia capace di compiere ciò con le proprie possibilità umane o se non disponga di altre possibilità ad hocche gli sono elargite da Dio stesso. Ma è davvero così importante sapere come la glorificazione di Dio sia possibile in confronto al fatto stupendo che è possibile? (Perché questo è un fatto!) Ab esse ad posse valet consequentia. Dopo tutto ogni possibilità umana è in qualche modo un dono di Dio. Non so neppure come la gratitudine verso Dio potrebbe essere separata dalla glorificazione di Dio. Forse nemmeno Bach lo sa, né egli sicuramente si pone la questione. Egli sta semplicemente in sospesa riverenza di fronte a ciò che ha scoperto. Egli si permette di lasciarsi attrarre da questa scoperta e cerca di condurre altri allo stesso senso di riverenza. Bach si lascia colmare della stessa gratitudine mostrata dall'ignoto autore delle parole gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam e incomincia egli stesso a ringraziare Dio con queste parole, come se fossero davvero sue e impresta loro la voce della sua musica. Mi ricordo di quella donna nei Vangeli, la Samaritana, che abbandona la sua brocca presso il pozzo. Ella dimentica che era venuta ad attingere l'acqua e si allontana di corsa per annunciare agli abitanti della città la buona novella ricevuta, al pozzo di Giacobbe, da un uomo sconosciuto, che le ha rivelato il mistero del donatore contenuto nel dono. Che cosa ha ricevuto da quest'incontro? Che cosa spiega il suo grido: "Venite a vedere voi stessi"? (cfr. Gv 4, 29). Non è forse il modo con cui lo sconosciuto si è rivolto a lei usando le parole: "Se tu conoscessi il valore del Dono di Dio e se tu conoscessi chi è Colui che ti ha chiesto: Dammi un sorso d'acqua"?2 Per tornare a Bach, io penso che le parole gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam, lo abbiano commosso profondamente così da non riuscire più a liberarsene né a desiderare una tale liberazione. Come avrebbe potuto desiderare di svincolarsi da ciò che rappresenta l'apice della libertà, la suprema possibilità, quella, cioè, a cui aspiriamo al di sopra di tutto? Poteva Bach, mentre creava "L'arte della fuga", l'opera più perfetta della sua vita, attribuire a Dio, suo Creatore, le seguenti parole, con una sensazione di pace e di fiducia assolute: "BACH, sei tu, Johann Sebastian Bach, proprio tu che Io ora sto per incontrare?" Così non è certo per pura coincidenza che Bach riprenda la musica del Gloria alla fine dellaMessa. Questo genio dalle infinite possibilità creative, decise di ripetere il tema alla conclusione della Messa nel: Dona nobis pacem e così il propter del Gloria diventa il finale della Messa. Ci si può chiedere: "Perché?". Voglio tentare una risposta. Egli doveva concludere la Messa in modo da lasciare l'impressione che non debba finire mai, che continui per sempre, così da trasformarsi in un canto di gratitudine e di lode senza fine, gratias agimus tibi propter magnam gloriam Tuam. 165 VERSO UNA RISPOSTA Amatus sum, ergo sum: sono amato, dunque sono Se la riflessione sul donare e ringraziare non è destinata a diventare una pura fantasticheria, essa deve basarsi sull'esperienza. Presuppongo che tutti abbiano condiviso quest'esperienza in circostanze espresse così: "Com'è bello, che meraviglia che tu sia qui", oppure, " Vorrei che tu vivessi per sempre".3 A questa categoria appartiene il più profondo dei desideri umani, quello di dare alle persone amate una risposta al loro amore, colma di gratitudine, che si può esprimere in modo paradigmatico con le parole: "Voglio appartenerti interamente e per sempre" (totus Tuus, tota Tua). Suppongo che questi sentimenti appartengano all'esperienza quotidiana di tutti noi. Ma in relazione a queste esperienze, sorgono le domande che evidenziano i difficili problemi dell'esistenza umana. E' possibile dare una risposta adeguata all'offerta di una persona amata e amante, senza prima accettare di essere dell'altro nel dono reciproco di sé? Un'altra domanda si presenta: "Io, mi appartengo abbastanza? Tu, ti appartiene abbastanza?". Certo, il fondamento più profondo di noi stessi, della nostra misteriosa esistenza, non è soggetta in alcun modo al nostro controllo. Werner Bergengrün esprime quest'esperienza nella sua poesia Zu Lehen: Ich bin nicht mein Io non sono mio Du bist nicht dein Tu non sei tuo Keiner kann sein eigen Sein Nessuno può appartenere a se stesso Ich bin nicht Dein Tu non sei Tuo Du bist nicht mein Tu non sei mio Keiner kann des anderen sein Nessuno può appartenere ad un altro Il poeta non ha forse ragione? E' proprio a partire da queste domande che il problema della gratitudine può essere considerato in tutta la sua estensione. La sua soluzione vuol dire interrogarsi e rispondere alla più profonda delle questioni sul significato dell'identità (essentia) ed esistenza (existentia) umane, anzi, sul significato dell'amore umano stesso: "Da chi dobbiamo accettare noi stessi? Chi dobbiamo ringraziare per noi stessi, cioè, per l'esperienza che-­‐noi-­‐siamo e per essere ciò che siamo?". Nulla mi rivela così profondamente e chiaramente il carattere di dono dell'esistenza quanto sperimentare la mia contingenza. Io non esistevo, ma ora io sono. Non era scontato che io ci fossi e, tuttavia, io sono venuto all'essere. Io sono, quindi, perché sono stato donato a me stesso. Non c'è nulla però che me lo rivela così profondamente e chiaramente della constatazione: "Com'è bene che tu esista!". Questa dichiarazione ci mostra quanto sia davvero contingente l'esistenza dell'altro, dell'amato, e quanto sia ancora più vero che tutto ciò che l'altro è, è un dono. Ma un dono da parte di chi? A chi dobbiamo la nostra gratitudine? Nessuno può darsi se stesso o essere dono a se stesso. Neppure il riferimento ai genitori risponde alla domanda in questione, poiché essa sorge proprio di fronte a genitori che piangono la morte del loro bambino.4 Quale grande potere è necessario e, nello stesso tempo, quale grande amore deve operare incessantemente in modo che l'uomo possa venire all'essere e alla vita? Anzi, quale grande potere opera direttamente e ininterrottamente così che l'uomo possa continuare a vivere? Non è forse necessario l'incontro dell'amore con l'onnipotenza per risolvere l'enigma del dono dell'esistenza personale? L'évidence de l'experience, come disse Leibniz, conduce, attraverso la spiegazione logico-­‐riduttiva dell'esperienza, all'unica risposta della domanda più sopra formulata, all'évidence de la raison. 166 Alla sorgente più profonda della riverenza, da cui sgorga l'esternarsi d'ogni umana esclamazione: "Com'è bene che tu esista!", sta l'atto primario del riconoscimento creativo, l'atto dell'amore personale congiunto all'onnipotenza. La "bontà dell'esistenza" è rappresentata nel libro della Genesi come conseguenza del comando divino: "Fiat!" (cfr Gn 1, 3-­‐26), un ordine che è diretto in modo unico e irreversibile ad ogni singola persona, ad ogni individuo, al punto che, senza questa persona, il mondo, nella prospettiva dell'amore assoluto e onnipotente, da quel momento in poi, semplicemente non potrebbe più essere lo stesso.5 Se noi comprendiamo a fondo e possiamo spiegare la verità del donare e ringraziare come dono reciproco di una persona ad un'altra, allora dobbiamo, innanzitutto, affermare con il patriarca Giacobbe: "Veramente c'è il Signore in questo luogo e io non lo sapevo!" (Gn 28, 16). Dio è qui in mezzo a noi e forse anche noi non lo sappiamo. La sola ragione, infatti, che io affatto sono, che possa affatto essere, è che il Creatore continuamente mi rende presente a me stesso. Io esisto solo come un dono e tu esisti solo come un dono.6 Agostino direbbe probabilmente: "Io sono amato, dunque io sono, io sono amato creativamente, dunque io sono. Amatus sum, ergo sum. 7 Il Creatore non è obbligato a creare nessuno. Egli non è obbligato a fare a nessuno il dono di esistere come persona. Egli rimane completamente libero nelle Sue decisioni. Tuttavia, quando Egli decide di creare me, di fare di me un dono a me stesso, Egli non può farlo in altro modo che donandomi anche Se Stesso. Infatti, Egli Stesso deve essere in me e deve operare in me, donando dal di dentro di me, così che io possa affatto esistere. Egli Stesso deve essere radicalmente presente in noi, intimior intimo nostro, in actu et in persona. Actiones sunt suppositorum, actus personarum. 8 Il semplice fatto che noi esistiamo è sufficiente per stabilire questa verità definitivamente: in quanto Dio Creatore fa di noi un dono a noi stessi, Egli si da a noi completamente come un dono. E' dunque giusto dire che noi esistiamo perché Dio Creatore dona se stesso a noi incessantemente, quia Deus bonus est nos sumus. Io non solo incontro me stesso, quando desidero sinceramente incontrarmi in me. Io non solo incontro te in te, quando desidero sinceramente incontrarti in te. E che cosa succede, quando desidero fare dono di me stesso ad un'altra persona o quando accetto un'altra persona nel suo donarsi a me? In che cosa consisterà allora la gratitudine adeguata e soprattutto a chi sarà dovuta? Amo, ergo sum: amo, dunque sono Il donarsi di Dio ovviamente non può essere semplicemente la comunicazione di un dono, non può essere pura informazione. E' una dichiarazione d'amore per eccellenza e un'attesa di riscontro circa l'accettazione del dono. E' una specie d'invito alla comunione nel donarsi ad un altro. L'uomo diventa, a questo punto, una teofania per eccellenza. Egli diventa colui nel quale Dio opera: il suo incontro creativo e nello stesso tempo colui che incontra Dio, colui nel quale Dio desidera essere accettato dall'uomo come dono. Ma che cosa significa tutto questo per l'autentica comprensione di me stesso e per l'autentica identificazione con me stesso in una libera e onesta auto-­‐elezione, dato il fatto che io sono e che sono colui che sono, grazie unicamente a un dono di Dio? A livello dell'essere, cioè, a livello della costituzione originale, creativa, metafisica di me stesso, ciò significa che Dio, mio Creatore, viene ad incontrarmi personalmente a partire dalla parte più intima del mio essere, per riconoscermi e accettarmi come un dono nel rispetto della verità sulla mia struttura ontica. A livello interiore, soggettivo dell'auto-­‐costituzione, cioè, la costituzione secondaria, cognitiva e moralmente creativa di me stesso, ciò significa che io non mi dischiudo come un soggetto di auto-­‐conoscenza per identificarmi così con me stesso, finché non mi comprendo come un dono del mio personale creatore, attraverso il mio stesso atto di conoscenza e nel mio stesso atto di conoscenza.9 E solo a questo punto io mi affaccio alla soglia della cosa più importante... 167 Quando io supero la dimensione entro la quale dico la verità su di me solo a me stesso (soliloquium) e mi muovo verso la dimensione nella quale io parlo di me con quella Persona che è la Verità (colloquium), la verità su di me diventa per me un divino "Tu" e io mi riconosco essere il "Suo" ascoltatore rispondente e responsabile. Ma significa, inoltre, che io sono soltanto capace di eleggere davvero me stesso come soggetto di libertà nell'atto di auto-­‐elezione, quando mi accetto come dono da parte di Dio Creatore. Solo allora io realizzo me stesso in quanto me stesso, solo allora mi appartengo e mi posseggo abbastanza per eleggere di appartenere a Lui; solo allora divento veramente me stesso, quando mi dono totalmente e completamente a Dio attraverso l'accettazione di me come Suo dono, quando io rispondo al Suo "Totus tuus" con il mio "totus Tuus". Solo quando io conformo il mio atteggiamento interiore completamente al totus Tuus, posso ringraziarLo per me stesso come dono, che posso poi restituirGli con un dono totale di me. Tuttavia, se l'accettazione di me stesso come dono di Dio è inseparabile dall'accettazione del Suo essere, come Colui che è il donatore, allora, quando io mi accetto interamente e totalmente come dono di Dio, io sono interamente e totalmente realizzato e la pienezza che esperimento viene, non tanto da me stesso, ma piuttosto, anzi, soprattutto da Dio, il Donatore. Mi avvio ora alla conclusione: cosi, quando accetto me stesso quale dono di Dio, attraverso quest'accettazione, io do a Dio non solo il mio essere intero e totale, ma con me stesso anche Dio stesso, interamente e totalmente.10 Questo non significa esattamente ringraziare Dio Creatore per la mia esistenza, in modo appropriato?11 Io credo che questa è la risposta alla domanda posta all'inizio: da parte di chi dobbiamo accettarci per essere capaci di ringraziare adeguatamente per noi stessi? Ma ancora, un uomo può davvero fare ciò che qui si sostiene e donare Dio a Dio? La logica interna del donare e ringraziare è sconvolgente, ma nello stesso tempo sorprendente e quasi sconcertante, perché, da un lato, che cosa vi è di più facile, che accettare l'iniziativa di Dio Creatore che mi dona me stesso e contemporaneamente mi dona Se stesso? Che cosa vi è di più facile che dire: "Sì, io mi accetto da te, completamente e incondiziona-­‐ tamente, e insieme accetto totalmente te, il Donatore? Con questa accettazione io desidero darmi completamente a te (totus Tuus, tota Tua, tutto per te). Ma, d'altro canto, come suona strano tutto ciò! Cosa potrebbe esserci di più sconcertante di quanto qui si vuole sostenere: il desiderio di dare Dio a Dio? Quest'asserzione di appropriatezza della gratitudine verso Dio non è, in realtà, una manifestazione dell'arroganza dell'uomo, un prodotto della sua vana immaginazione? Probabilmente non avrei potuto arrendermi a questa logica del dono e della gratitudine, se non avessi esperimentato la stessa logica nelle stupende parole di Cristo: "Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre" (Mt 12, 50; cfr. Mc 3, 5). Ma che cosa significa dire che una persona "è mia madre?". Non significa forse che questa persona mi ha donato me stesso? Non è ciò esattamente quello che fece Maria, nel momento in cui disse a Gabriele, il messaggero di Dio: Fiat mihi secundum verbum tuum? 12 Quindi soltanto se io mi accetto da Dio, quale Suo dono, e soltanto se attraverso quest'accettazione io posso donare me stesso a Dio e con me donare Dio stesso a Dio, io ringrazio Dio in un modo consono al mio essere. In secondo luogo, solo se io ringrazio Dio in questo modo per il dono di me stesso, mi appartengo completamente, mi realizzo completamente e divento autenticamente me stesso. Solo allora sono capace di ringraziare un altro per qualche cosa, responsabilmente e adeguatamente, e in modo specialissimo per il dono di se stesso. Dunque, io sono veramente vivo, quando riesco ad esprimere il mio grazie in questo modo. Gloria Dei, vivens homo! 168 IN SANCTUARIO GRATIARUM AGENDI...: ALLA RICERCA DEL TEMPIO PER L' AZIONE DI GRAZIE Quando chi cerca trova... Non dovrebbe stupire, quindi, il fatto che chi cerca la verità o la Verità è già racchiuso, fin dall'inizio, nel suo abbraccio. Chi cercherebbe la verità, se non si fosse già arreso al potere della sua magnetica influenza? Una volta avviata la sua ricerca, non si è già superata la soglia della sua dimora? "Tu non mi cercheresti, se non mi avessi prima trovato", dice B, Pascal. Questa espressione, in realtà, non sorprende, in particolare quando hai scoperto che la verità su di te che stai cercando è l'Amore Personale, quando ti sei accorto che questa verità è, invero, il Personale Infinito Amore Creante. Ecco perché Qualcuno poté dire e continuamente ripete: "Io sono la Verità" (Gv 14, 6). Tuttavia è solo quando chi, postosi alla ricerca dell'Infinito, scopre improvvisamente, lungo il cammino verso di Lui, che il nocciolo del problema ha subito un cambiamento radicale, che lo scopo non è più di trovare l'Infinito e neppure di lasciarsi trovare da Lui, ma piuttosto di ringraziarLo, è solo quando chi cerca, riconosce che unicamente donando Dio a Dio si da...se stessi a Lui, è davvero soltanto allora che si può trovare la propria totale realizzazione e la propria vera identità, anzi, è solo allora che si incomincia a vivere davvero. Ciò è veramente incredibile e stupefacente. Ma è insieme, la più grande sorpresa della vita, la più grande avventura che sia possibile. Questo fatto costituisce un evento sul cammino verso l'Infinito e contemporaneamente un evento sul cammino verso la più intima profondità del proprio essere. In principio tale occorrenza capita quasi inaspettatamente, ha luogo semplicemente sul cammino dell'uomo avviato alla propria autoconoscenza. Ma non dovrebbe, invece, diventare, in modo del tutto speciale, il suo compimento e così il massimo evento lungo i sentieri verso la sua libertà? Questa occorrenza non dovrebbe diventare l'ora della sua nascita alla vita nuova, il momento della sua decisione e opzione fondamentale? Ringraziare significa accettare il donatore della vita nel dono delle vita In realtà, il riconoscimento deIl'Infinito in me stesso, il riconoscimento del mio "Tu" in me, esige un riesame radicale di tutti i valori. Richiede che io guardi alla mia intera vita da una nuova prospettiva: io provengo dal Suo dono! Io sono Suo figlio. Il mio "Io" è iscritto in Lui per sempre!13 Egli è intimior intimo meo e per questo Io sono! Dunque, vivere, vivere realmente, significa ringraziare! Il tempo che non è speso in rendimento di grazie, è tempo perduto. E allora? Non dovremmo incominciare con una radicale "riordinamento della vita" per amore della sua melior pars, cercando il luogo più conveniente per rendere grazie? Non dovremmo incominciare a trovare la nostra Bethania, per amore dell'unum necessarium, per amore dell'unica cosa necessaria e importante nella vita? Non dovremmo incominciare a scalare "la santa montagna della Trasfigurazione e del Ringraziamento, così da trasformare tutta la nostra vita in un'incessante atto di donare Dio a Dio, in un'ininterrotto pensare totus Tuus, tota Tua, in un permanente rendimento di grazie al Padre, "in spirito e verità" (Gv 4, 24)? Dovrebbe davvero essere così! Nulla di meno e nulla di più di questo. E' proprio di questo che qui si tratta, solo che il tempio del ringraziamento al Padre "in spirito e verità", non è lontano dalla vita, non è in qualche luogo remoto. Questo tempio, in realtà, è nel centro stesso della vita! Così non è necessario darsi alla fuga, bensì ritornare alla vita, ritrovare la Sorgente! E' un ritorno al Donatore della vita nel Suo dono per eccellenza, che è il dono della vita umana: humanae vitae donum. E' la vita stessa, la vita personale di ogni uomo e di tutti gli uomini con il suo essenziale, 169 irrepetibile volto, che costituisce "il dono di Dio" . Perciò ogni vita è anche "il luogo di Dio", il luogo dove il Donatore, Donator in dono, Colui che si dona a ogni uomo, è più radicalmente attivo e più radicalmente presente in persona! Si può trovare o eleggere un luogo più adatto per ringraziare Dio del dono, in cui Egli dona se stesso? Si può trovare o scegliere un modo più appropriato per ringraziare il Donatore della vita, che mostrare rispetto per la vita personale, che è il Suo dono per eccellenza? Invero, ogni volta che una nuova vita umana è concepita, ogni volta che inizia, nasce e continua, il Padre stesso esercita la Sua Paternità, il Creatore si erige un tempio vivente, così che possiamo renderGli il nostro grazie accogliendoLo nel dono della vita e in questo modo donare Lui a Lui stesso. Di conseguenza, ogni volta che trattiamo con la vita umana, trattiamo con il Padre; trattiamo con un luogo sacro, con il tempio dell'azione di grazie. Toglietevi i calzari! E' un luogo dove il rendimento di grazie è doveroso: riconoscere in Lui il Padre di tutti i Suoi figli, in ciascuno dei Suoi figli! Qui postet capere, capiat! Chi può intendere, intenda! Ringraziare dio significa accettare il dono delle sorelle e dei fratelli Una volta riconosciuto l'Infinito Donatore e compreso chi Egli è, colui che Lo ha cercato, ritrova se stesso (nell'atto stesso di scoprire la verità su Dio e su se stesso), nella morsa di questa verità, nella morsa della verità su quell'unione che è una chiamata alla comunione personale con il Donatore Personale. Ma questa morsa non rende schiavi, al contrario, ha il potere di indicare all'uomo l'unica via che conduce all'apogeo del suo essere. Accettando di essere "condannato" a questa comunione, io non ho accettato la subordinazione di uno schiavo da parte del tiranno, bensì l'appartenenza apportatrice di vita di un figlio nei confronti del Padre. Questa appartenenza esprime la mia accettazione del legame che esiste tra me e la Sorgente vitale e quindi è l'unico modo per arrivare alla pienezza di vita, l'unico mio modo per raggiungere l'apogeo del mio essere, per esercitare la mia libertà nel mutuo scambio del dono di sé, l'unico mio modo per raggiungere la libertà nell'amore. Accettando il mio essere "destinato" a questa comunione, io ho scelto contemporaneamente, nel Padre, la comunione con tutti quelli ai quali Egli stesso ha desiderato, più che mai, di dare un volto umano, tale da essere unico tra tutti gli altri. Così ho scelto la comunione con ognuna e con tutte le mie sorelle, con ognuno e con tutti i miei fratelli. Chi ha riconosciuto che ciascuna e tutte le persone umane, senza eccezione alcuna, sono persone con cui il Creatore stabilisce un confronto personale, che ciascuna e tutte le persone sono un luogo "dove" il Creatore le incontra, vedrà pure che, da quel momento in poi, non può esserci alcun "sì" per Dio o per... se stessi, espresso in altro modo che con un "sì" per ogni "luogo", in cui la Sua eterna, irrevocabile manifestazione creatrice, unica verso ogni singolo "Io", può essere udita: Amo te, ergo es!". "Io ti amo, dunque, tu esisti!!". Ogni persona è, perciò, ... unica! Ognuna è "il santuario di Dio", una casa dell'adorazione dovuta all'infinito Creatore. Ognuna proviene da un dono e ognuna è un luogo di azione di grazie per il dono di tutte le altre persone, per l'infinito Amore di Dio verso di esse. Chi ha scoperto l'infinito dopo averLo riconosciuto in ogni persona vivente, senza eccezione, è così chiamato ad un difficile atto di gratitudine Nel ringraziare per l'accettazione del dono, si deve essere in grado di reggerne tutto il peso. Un "sì" al Donatore della vita, un "sì" di un figlio che ha riconosciuto il proprio essere, in quanto figlio di un tal Padre, troverà la trasposizione e l'interpretazione, l'espressione adatta e l'ineffabile "prova della verità", solamente in un "sì" assoluto, rivolto ad ogni persona, senza eccezione. Sarà in grado di sostenere Dio, solo colui che è riuscito a percepirLo in ogni persona, che è riuscito a sostenere tutto il rispetto dovuto a Dio, presente in ogni persona e in se stesso. Ecco che cosa significa adorare il Padre "in spirito e verità". Ecco che cosa significa rivolgersi a Dio come Abba, "Padre", mediante un'azione! Così non adorerà il Padre chi ripete continuamente: "Padre, Padre", bensì chi accetta il Padre nel Suo dono, 170 chi Lo riceve insieme con il dono, chi Lo accetta in qualunque di questi "minimi" figli Suoi. Sant'Ambrogio, grande Patrono di Milano e della Chiesa, direbbe: "Voi avete chiamato Dio, vostro Padre. Prendete, dunque, pienamente coscienza di ciò che avete fatto". Quando chi ha scoperto l'Infinito incomincia a ringraziare Dio in questo modo, quando s'impegna di portare il peso del dono appena riconosciuto, egli cambia radicalmente il corso della storia del genere umano, perfino se non avesse ancora compreso la portata di questo fatto. Egli contribuisce a costruire una civiltà autenticamente umana, egli incomincia a forgiare una nuova storia dei popoli, una storia in cui chi non è ancora nato nulla deve temere da chi è già nato, una storia in cui neppure il più debole deve avere paura del più forte. In questa storia non c'è spazio per plus vis quam veritas.Questa storia è governata e diretta solo dal principio plus veritas quam vis. E' segnata dalla prima fondamentale verità(veritas) sull'uomo: egli proviene da un dono! Questa è anche la verità circa la libera fratellanza tra gli uomini, la verità riguardante la solidarietà di ognuno per tutti, la solidarietà liberamente voluta da tutti, quale risultato della scelta del Padre, della scelta del "dono di Dio!". Che cosa se non questa verità avrebbe potuto far sì che Beethoven, completamente sordo a quel tempo, sentisse l'imperativo di cantare la sua gratitudine a Dio con le parole dell'Inno alla gioia di Schiller: "Seid umschlungen Millionen, diesen Kuß der ganzen Welt! Brüder! Überm Sternenzelt muß ein lieber Vater wohnen!"? (Siate avvolti, o voi Milioni, in questo bacio del mondo intero! Fratelli! Al di sopra della volta stellata deve abitare un Padre amoroso!). Eppure Egli è profondamente presente in ciascuno di noi, nel continuo dono che Egli ci fa di sé. Intimior intimo nostro. E' da questa profondità interiore di ciascuno di noi, dalla profondità che è più profonda di noi stessi, che Egli dona noi a noi stessi, con il potere dell'amore del Suo Bacio Creatore, inseparabile da se stesso! Infatti, in Dio tutto è Dio! Egli è più vicino a noi di quanto noi non lo siamo a noi stessi! Egli è in noi. "Seid umschlungen, Millionen, diesen Kuß der ganzen Welt!" (Siate avvolti in questo bacio...!). Ringraziare significa scoprire il sacrum nel profanum Da dove dobbiamo iniziare? Non dobbiamo, forse, incominciare da una reiterata scoperta del luogo che segna "il passaggio del Signore", transitus Domini, "il passaggio del Donatore della vita?" Non dobbiamo, forse, incominciare con una reiterata scoperta del luogo e del tempo che il Creatore stesso ha eletto, perché gli unici degni del miracolo della Creazione? Infatti sappiamo che il Creatore ha scelto, quale luogo del suo passaggio, il centro dell'unione personale dell'uomo e della donna nell' atto dell'amore sponsale che si realizza nel dono della vita a un nuovo essere umano. Per quanto possa apparire strano, sembra che molti contemporanei non riconoscano più la profondità di questo atto, sebbene, proprio a motivo di questa profondità, l' atto del dono di sé abbia ricevuto un nome assai pertinente, che evidenzia il suo carattere di dono reciproco da parte degli sposi. E' ancora peggiore il fatto che i nostri contemporanei abbiano perso l'abitudine di riconoscere, in quest'atto, l'altare dove si compie il miracolo della creazione dell'uomo. Ma ciò non cambia affatto la sostanza della cosa: questo è l'altare del Dio Creatore, l'altare del Dio dell'Amore e del Dio della Vita. Chi ha scoperto l'Infinito, è così chiamato a rivelare a tutti i nostri contemporanei il mistero del rendimento di grazie e dell'adorazione del "Padre in spirito e verità", in-­‐una caro-­‐
communione, inerente all'atto sponsale dell'amore. Infine, egli è chiamato a rivelare loro che gli sposi sono davvero ministri di Dio Creatore e dispensatori del Suo amore creante. Chi ha afferrato l'Infinito è chiamato in modo particolare ad abbattere, una volta per sempre, il tragico muro dell'equivoco che l'inconsistente civiltà tecnologica della modernità ha eretto tra il sacrum del tempio, da un lato, e il supposto profanumdella casa e del letto sponsale, dall'altro. 171 Non è forse il caso che l'adorazione del sacrum, questo grande mistero dell'adorazione del Padre e di ringraziamento a Lui, "in spirito e verità", per tale DONO, inizi proprio dove due persone sono più intimamente unite nel Suo nome? Così chi ha riconosciuto l'Infinto deve essere particolarmente sensibile alla natura sacra del momento in cui il matrimonio, nel diventare famiglia, affronta la "prova della verità" della propria identità. Colui che ha riconosciuto suo Padre in Dio deve far sì che gli altri, come pure egli stesso, si mostrino molto sensibili a questa "sacra soglia", dove si presenta la tentazione, assai pericolosa nel mondo moderno, di respingere il Donatore respingendo il dono, che Egli solo può offrire e nel quale Egli è più intimamente presente: il dono della vita. Questa tentazione è accompagnata da un'altra che non è meno perversa della prima: quella, cioè, di manipolare il Donatore imponendoGli ciò che, invece, è possibile e lecito accogliere, solo come dono Suo. Questa seconda tentazione è particolarmente perversa, dal momento che il dono di un Donatore infinito, è una persona umana e non un oggetto! Ecco, perché la protezione del carattere sacro del "luogo" del matrimonio che costituisce la soglia della vita, formata dalla libera decisione presa da due persone, è diventata oggi "la prova" e la garanzia della sopravvivenza di tutto ciò che differenzia la civiltà della vita e dell'amore dalla civiltà della morte e dell'odio. Essa è pure diventata "la prova" e la garanzia della sopravvivenza di tutto ciò che distingue la cultura autentica dalle sue mere apparenze, di tutto ciò che aiuta a riconoscere la crescita vera e di cogliere l limiti che la separano dal suo crepuscolo. Così dobbiamo incominciare a riscoprire l'atto del dono di sé! Chi commette un errore a questo riguardo, compromette la soluzione della sostanza del problema. Dobbiamo incominciare a rispettare i modi e i tempi del "passaggio del Signore", il Donatore di tutti i doni. E' così che Egli deve essere riconosciuto e accolto "in spirito e verità", come Donatore nel suo dono, come Donatore nel "Dono di Dio", Donatorem in humanae vitae dono... Solo allora l'uomo può riconoscere e accettare anche se stesso. E solo allora può costruire in se stesso, come pure in altri, sia ciò che "appartiene a lui" sia ciò che "appartiene a Dio". Questo è l'inizio e il criterio di tutto quello che merita il nome di autentica moralità e religiosità, di autentica cultura. Tale cultura raggiunge il suo apice solo nell'adorazione del Donatore della vita, in "gratias agimus Tibi..., in cultus Dei Creatoris et Caritatis", nell'adorazione del Dio dell'amore creante, che continuamente ci dona noi stessi e Se stesso. Tale amore ci spinge a rispondere ad esso con il nostro amore, a ricambiarlo con il dono di noi stessi, con il nostro dono a Lui Caritas Christi urget nos (cfr. 2Cor 5, 14). Ma la sfida di un amore così non è, forse, la sfida di un amore difficile? Certamente, sì! e sant'Agostino ammette: Amor meus, pondus meum (il mio amore e il mio peso). Egli però aggiunge, con Cristo, eo feror quoqumque feror (io sono sostenuto da colui che sostengo). Perciò, l'Uomo-­‐Dio stesso ci assicura che questo amore si dimostra non solo un peso leggero, ma, anzi, un peso soave. Unicamente la cultura della vita, intrisa di questo amore, si dimostra una cultura vitale. Soltanto questa cultura è pervasa, dall'inizio alla fine, da questo "amore difficile". Non è il caso che, fin dagli inizi, tale amore si consideri semplicemente come un altro nome per questa cultura? Si tratta, infatti, dello stesso amore che Cristo invocò per noi nella Sua ultima preghiera sacerdotale, durante la cena di Pasqua, preghiera che, nello stesso tempo, inizia l'Eucarestia della Storia in tutto il mondo: 172 "Padre, è giunta l'ora, a tutti coloro che gli hai dato. glorifica il Figlio tuo, Questa è la vita eterna: perché il Figlio glorifichi te. che conoscano te, l'unico Poiché tu gli hai dato potere Vero Dio, e colui che sopra ogni essere umano, hai mandato"perché egli dia la vita eterna (Gv 17, 1-­‐3). 173 1 Analizzando quest'esperienza vale la pena citare qui una significativa sentenza di San Tommaso d'Aquino: Intellectus regit voluntatem non quasi inclinans eam in quod tendit, sed sicut ostendens ei quod tendere debeat (L'intelletto dirige la volontà non facendola seguire ciò che tende a perseguire, ma piuttosto rivelando alla volontà che cosa dovrebbe perseguire), De veritate, q. 22, a. 11 ad 5, che riguarda il suo approccio alla comprensione della persona umana e dell'essenza della sua libertà, come pure dell'essenza dell'obbligo morale. Vedi anche l'analisi del concetto di finis ultimus debitus in San Tommaso fatta da Cornelio Fabro, Riflessioni sulla libertà, Rimini 1983, p. 62. Vale pure la pena citare quello che Jacques Maritain dice a questo proposito: "L'obligation-­‐en-­‐
conscience est une donne absolument premiére et absolument irréductible de l'expérience morale. Et elle est quelque chose de si simple que la réflexion philosophique à son sujet ou bien la saisit d'un ou bien passe entièrement à coté d'elle». See: La philosopie morale. Examen historique e critique des grands systémes, Paris 1960, Libraire Gallimard, p. 534. Si noti il significato della frase: «L'art moral n'est l'art de bien vivre en vue d'atteindre le bonheur, c'est l'art d'être heureux parce qu'on vit bien", op. cit., p. 29. Vedi pure dello stesso autore: Letter to Jerzy Kalinowski and Stefan Swieżawski sulla loro opera La philosophie à l'heure du Concile, in : «Nova et vetera» 40 (1965), pp. 242-­‐249. Pietro esperimentò questo nel momento in cui dichiarò di non conoscere l'Uomo, che egli invece conosceva benissimo, non appena quell'Uomo lo guardò. Fu allora che Pietro comprese l'irriducibile differenza tra l'appetibile e l'affirmabile: egli comprese ciò che costituisce l'essenza del dovere morale, opposto alla sua riduzione fatta dal cosiddetto "eudaimonism". Vedi: T. Styczeń, La libertà vive di verità. Intorno all'enciclica "Veritatis splendor", "Anthropotes" 2 (1995) pp. 246-­‐250. 2 Questa è una traduzione italiana di una citazione da: R. Brandstaetter, Pisma Świętego Jana Ewangelisty (Opere di San Giovanni Evangelista), tradotto dal greco, Warszawa 1978. Confronta: The New Jerusalem Bible, London 1990: "Se tu solamente conoscessi ciò che Dio ti offre e chi è colui che ti dice: 'Dammi qualcosa da bere', saresti tu a chiedere ed egli ti avrebbe dato acqua viva" (Gv 4, 10). 3 "Ratio autem gratuitatae donationis est amor: ideo enim damus gratis alicui aliquid, quia volumus ei bonum. Primum ergo quod damus ei, est amor quo volumus ei bonum. Unde manifestum est quod amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donatur", San Tommaso d'Aquino: ST I, 38, 2. Josef Pieper si basò esattamente su questa esperienza per tutta una dissertazione sul tema dell'amore. Cfr. Josef Pieper, Über die Liebe, München, Kösel 1972, e il motto: "E' bene che tu esista, è bene che tu sia al mondo!". J. Pieper, op.cit., p. 39. Vedi anche la citazione di San Tommaso: "Primo vult suum amicum esse et vivere" (ST II-­‐II 25, 7), in J.Pieper, op.cit., Nota 17 (II) p. 187. 4 Cfr. Jan Kochanowski, Laments (trad. di S. Barańczak & S. Heaney), New York 1995. 5 "So mich aber Gott liebt, weil ich es bin, so bin ich wahrhaft unersetzbar in der Welt" (Come Dio mi ama perché sono io, così io sono davvero insostituibile nel mondo,), Ladislaus Grünhut, Eros una Agape. Eine metaphzsisch-­‐religionsphilosophische Untersu-­‐chung, Leipzig 1931, p. 20. 6 "Il fatto che l'uomo voglia esistere e vivere, ma nello stesso tempo non voglia vivere per sempre è di per sé un segno di effettiva non-­‐identità tra l'esistenza e la natura umana (o la natura appartenente ad ogni altro essere mutevole) Perciò nessun essere composito o mutevole, la cui esistenza può essere alienata, è in sé incomprensibile sotto l'aspetto essenziale [... ]. La comprensione del realismo e dell'esistenza effettiva degli esseri è condizionata dall'Esistenza Necessaria: l'essere nel quale l'essenza coincide con l'esistenza che è esistenza per necessità e, come tale, esistenza per definizione. Questo essere è denominato Dio [... ]. Questa è la sola 174 conclusione razionale della spiegazione razionale dell'esistenza del mondo.", M. A. Krąpiec, "Tajemnica czy absurd?" (Mistero o assurdo?), in, dello stesso autore, Odzyskać świat realny (Riconquistare il mondo reale), Lublin 1993, pp. 762ss. Cfr. anche dello stesso autore: "Tajemnica i absurd w ostatecznym tłumaczeniu świata" (Mistero e assurdo nella spiegazione ultima del mondo), in: Tygodnik Powszechny 11 (1957) N° 3, pp. 1, 7ss. 7 Cfr. Sant'Agostino, Confessioni, IV: 11; VII: 10; VIII: 1; X. 6, 43; XIII: 1-­‐4. 8 A questo punto si può osservare l'esistenza di uno stretto legame tra Sant'Agostino e San Tommaso: Sant'Agostino accentua la presenza profonda di Dio nell'uomo e San Tommaso aggiunge che tutte le azioni hanno come loro soggetto una persona in actu; un actus è sempre un actus personae. 9 "Questo occuparsi della soggettività non implica alcun soggettivismo, poiché il suo tema principale non è la costituzione della verità da parte del soggetto, bensì la formazione del soggetto secondo la verità oggettiva e la partecipazione dell'uomo alla determinazione dell'ultima forma della sua persona attraverso l'atto dell'obbedienza o della disobbedienza nei confronti della verità". Rocco Buttiglione, Über die Dankbarkeit im Denken Karola Wojtylas, in: Josef Seifert (ed, ), Danken und Dankbarkeit. Eine Universale Dimension des Menschen, Heidelberg 1992, Carl Winter, Universitätsverlag, pp. 222fs. 10 Dai "Discorsi" di sant'Agostino", Disc. 34, 1-­‐3. 5-­‐6; CCL 41, 424-­‐426. Cerca per l'uomo il motivo per cui debba amare Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato, ha dato già se stesso per noi, ha dato ciò per cui potessimo amarlo. Che cosa abbia dato perché lo amassimo, ascoltatelo più chiaramente dall'apostolo Paolo: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori" (Rm 5, 5). Da dove? Forse da noi? No. Da chi dunque? "Per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5, 5). Avendo dunque una sì grande fiducia, amiamo Dio per mezzo di Dio (sottolineato da T.S.). Ascoltate più chiaramente lo stesso Giovanni: "Dio è amore; chi sta nell'ampre dimora in Dio e Dio dimora in lui" (1Gv 4, 16). (Liturgia delle Ore, Ufficio delle Letture, Martedì della terza settimana di Pasqua, p. 642-­‐643). 11 "Conoscerò te, o mio conoscitore, ti conoscerò come anch'io sono conosciuto. Forza della mia anima, entra in essa e uniscila a te, per averla e possederla "senza macchia né ruga" (Ef 5, 27). "Questa è la mia speranza, per questo oso parlare e in questa speranza gioisco perché gioisco di cosa sacrosanta [...]. Ma ora il mio gemito manifesta che io dispaccio a me stesso, e che tu rifulgi e piaci e meriti di essere amato e desiderato, al punto che arrossisco di me e rifiuto me per scegliere te, e non bramo di piacere né a te né a me, se non in te" (Sant'Agostino, Confessioni, 10, I, I-­‐2, 2; 5, 7. Citato secondo: " Liturgia delle Ore, Ufficio delle Letture, Martedì dell'Ottava settimana del Tempo ordinario". 12 Vedi Sant'Agostino, Disc. 25, 7-­‐8; PL 46, 937-­‐938, Liturgia delle Ore, Ufficio delle Leterure, 21 novemebre, memoria della Presentazione della Beata Vergine Maria: Fate attenzione, vi prego, a quello che disse il Signore Gesù Cristo, stendendo la mano verso i suoi discepoli: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre" (Mt 12, 49-­‐50). Forse che non ha fatto la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale credette in virtù della fede, concepì in virtù della fede, fu scelta come colei dalla quale doveva nascere la nostra salvezza tra gli uomini, fu creata da Cristo, prima che Cristo in lei fosse creato? Ha fatto, sì certamente ha fatto la volontà del Padre Maria Santissima, e perciò conta di più per Maria essere stata discepola di Cristo, che essere stata madre di Cristo. Lo ripetiamo: fu per lei maggiore dignità e maggiore felicità essere stata discepola di Cristo che essere stata madre di Cristo. Perciò Maria era beata perché, anche prima di dare alla luce il Maestro, lo portò nel suo grembo. Osservasse non è vero ciò che dico. 175 Cfr. Isacco di Stella, Disc. 51; Sant'Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, Bk 2, 22-­‐
27; Sant'Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, Ch 10, 33-­‐34; Basilio Magno, Sullo Spirito Santo, Ch 26, Nm 61.64. Vedi anche R. M. Rilke, Verkündigung: Die Worte des Engels, in Ausgewählte Gedichte, Suhrkampf Verlag, Frankfurt am Main 1973, p. 9: Du bist ein großes, hohes Tor, Tu sei la grande, eccelsa porta, und aufgehn wirst du bald, verranno ad aprirti presto. Du, meines Liedes liebstes Ohr, Tu che il mio canto intendi sola: jetzt fűhle ich; mein Wort verlor in te si perde la mia parola sich in dir wie im Wald. come nella foresta. So kam ich und vollendete Sono venuto a compiere Dir tausendeinen Traum la visione santa. Gott sah mich an; er blendete... Dio mi guarda, mi abbacina... Du aber bist der Baum. Ma tu sei la pianta. 13 Questa idea ricorre costantemente nella poesia di K. Wojtyła. Cfr. p.es. "Veglia pasquale", 1966, dove il poeta dice: "L'uomo resiste oltre tutto l'andarivieni / in se stesso / e in te", in: Poezje, Poems, Kraków 1998, p. 178, del medesimo autore.. Cfr. anche, sempre dello stesso autore: "Promieniowanie ojcostwa" (Raggi di paternità) in: Poezje i dramaty(Poesie e drammi), Kraków 1979, p. 239, 247, 249, 251. Cfr. pure: John Paula II, The Original Unity of Man and Woman. 176 FRANCISCO GIL HELLÍN
MISSIONE DELLA FAMIGLIA NELLA CULTURA DELLA VITA L'invito di Giovanni Paolo II, espresso nel quarto capitolo dell'Enciclica Evangelium vitae a generare una nuova cultura della vita umana, è correlata a una profonda necessità dei tempi attuali. Infatti, la vita umana si svolge in un contesto di realtà spirituali incrociate che sono l'atmosfera nella quale la persona si realizza. Si tratta di un insieme di ideali e di valori che esprimono, da una parte, la realtà interiore dei popoli, e dall'altra, il frutto spirituale e collettivo delle comunità umane. La cultura è lo spirito plasmato di un popolo. Non si tratta di qualcosa di definitivo, bensì di qualcosa con una certa somiglianza agli esseri viventi: si sviluppa e cresce, ma è anche esposta alle malattie che la conducono al suo declino. La storia, come sostiene autorevolmente Marco Tullio, l'Arpinate, è Magistra vitae.. Dalla contemplazione con ampia prospettiva della storia delle culture e dei frutti spirituali generati dai popoli nel corso dei secoli, possono solo trarsi profondi insegnamenti. Anche dagli errori, dagli insuccessi e perfino da quei germi della morte, che insorgendo lentamente all'inizio finiscono per distruggere imperi e civiltà millenarie, possiamo trarre grandi avvertimenti. Aristotele diceva che il filosofo doveva onorare la memoria di tutti quelli che avevano intrapreso prima di lui la difficile via della sapienza, compresa la memoria di quelli che avevano gravemente sbagliato nella loro strada, perché per colui che intraprende il cammino sono di grande utilità le notizie, non solo riguardante le strade che conducono al fine che si persegue ma anche l'esperienza di quelli che errarono nel loro momento, per non ripetere la loro vana andatura. Queste verità sono altresì valide riguardo la storia delle civiltà. E sono, precisamente questi "germi della morte" quelli che il Papa denuncia coraggiosamente nella civiltà contemporanea. Raggruppandoli tutti quanti come in un fascio, Giovanni Paolo II gli ha chiamati "cultura della morte". Con questa espressione sono designati tutti quei fattori presenti nella cultura contemporanea che sono il vivaio dal quale nasce una moltitudine di mali che, così come la piaga biblica delle cavallette, divorano il campo dello spirito contemporaneo. Il risultato di questa cosiddetta "epidemia" di idee, di questa vera malattia morale della cultura, è un insieme di attacchi che da tutti i fronti sembrano vessare la vita umana. Partendo da diversi ragionamenti e da ideologie che cambiano esistono (e con grande virulenza) una larga serie di tentativi per giustificare quelli che non sono altro che oltraggi alla dignità umana. Si assiste, è doveroso dirlo, ad una vera inversione della gerarchia dei valori. Si tenta di trasformare il retto ordine dei valori sociali e personali, di modo che non solo si pretende di giustificare il disprezzo della dignità di ogni persona umana, dal momento stesso del suo concepimento fino alla sua morte naturale, ma perfino di sollevare alla categoria di "diritto" quelli che non sono altro che veri reati davanti gli occhi di Dio, dell'uomo e della storia. Solo in questo modo può essere interpretata la spaventosa indifferenza di fronte al fenomeno dell'aborto, dell'eutanasia, della manipolazione della vita umana nei suoi primi momenti, che esiste alla base di molte legislazioni moderne. In buona misura queste iniziative hanno trovato una buona accoglienza non tanto per quanto è stato fatto in suo favore ma per mancanza di un adeguato rifiuto. Questa mancanza di resistenza in difesa del valore della vita umana, soprattutto negli antichi popoli della civilizzazione occidentale, dovrebbe essere oggetto di matura e profonda meditazione. Il motivo di questa apatia supera l'ambito individuale: siamo davanti a una vera malattia della cultura, che corrotta dai "germi della morte", si è rivolta contro l'uomo e minaccia di violare il santuario più sacro della dignità umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. 177 L'invito del Santo Padre a scuotere l'apatia che sembra dilagare su tanti dei nostri contemporanei e a generare una vera contro-­‐cultura (una cultura della vita capace di opporsi ai "germi della morte" presenti oggigiorno nella cultura), è pertanto una necessità. È doveroso dare una risposta alla gravità del momento presente. La Chiesa non può restare indifferente davanti questa malattia morale e mortale che è l'attuale cultura della morte. Non può farlo perché l'uomo è "cammino per la Chiesa" come già diceva il Papa nella sua prima Enciclica Redemptor hominis.. L'Evangelizzazione di oggi, dell'uomo concreto dei nostri giorni, passa attraverso l'annuncio del Vangelo della vita. A questo fine, il Papa ci invita a mantenere la coscienza ferma e grata di essere il popolo della vita e per la vita, presentandoci in questo modo davanti a tutti[1]. FAMIGLIA E CULTURA DELLA MORTE La cultura non è una specie di nuvola che sorvola la terra, coprendo dall'alto il luogo in cui si svolge la vita degli esseri umani. Sebbene è trascendente l'individuo, è presente in ogni persona. La cultura vive nelle persone. È nelle persone dove la cultura, non è più "idea" e diventa "vita". In modo analogo, è nelle persone dove i "germi della morte" presenti nella cultura esercitano la loro nefasta influenza. Il luogo dove dobbiamo trovare la sua origine, il terreno di coltura della nuova cultura della vita, è pertanto il cuore umano. È nel cambiamento di mentalità delle persone, nella loro conversione alla vita, dove si troverà la linfa vivificante della nuova civiltà dell'amore nella cui costruzione è impegnata la Chiesa del Terzo Millennio nella sua opera di evangelizzazione. Se gli attentati contro la vita umana hanno acquistato nel nostro tempo una particolare gravità questo è dovuto, precisamente, che molte persone sono moralmente malate. Il fattore di trasmissione di questa gravissima malattia, come con coraggio apostolico è stato denunciato da Giovanni Paolo II, è la cultura. In questa situazione, la Chiesa si proclama davanti al mondo a favore della vita. "All'interno del 'popolo della vita e per la vita' -­‐ si legge nell'Evangelium Vitae' -­‐ è decisiva la responsabilità della famiglia: è una responsabilità che nasce dalla sua stessa natura -­‐ quella di essere comunità di vita e amore, fondata sul matrimonio -­‐ e dalla sua missione di 'custodire, rivelare e comunicare l'amore"2 . "Seguendo Cristo 'venuto' al mondo 'per servire' (Mt 20,28), la Chiesa considera il servizio alla famiglia come uno dei suoi compiti essenziali. In questo senso, tanto l'uomo come la famiglia costituiscono 'il cammino della Chiesa'"[2]. La famiglia è la culla della vita, il suo vivaio. La vita umana germoglia in modo naturale e spontaneo da quella cellula basica di comunione di vita e amore coniugale che è il matrimonio. In effetti, aiuteremo i nostri contemporanei a riscoprire il valore della vita umana nella misura che siamo capaci di recuperare il senso dell'amore vero tra un uomo e una donna, sigillato nel matrimonio e benedetto da una corona di figli[3]. Famiglia e vita formano un'intima unità. Il matrimonio è comunità di vita e amore, una vita e un amore che sono, in realtà, un bene unico. Questo prezioso bene che è l'amore coniugale, tende all'apertura, non alla chiusura. Richiede un culmine che è, per dirlo in un certo modo, un'estensione di se stesso nella famiglia. Platone afferma giustamente che "il bene è diffondente di se stesso". Per questo motivo, il bene che è il matrimonio tende in se stesso a consumarsi nella generazione di una famiglia. Questo è il vero sviluppo della vita umana, così come è stato disposto da Dio Creatore nel suo disegno eterno di misericordia per tutti gli uomini. Uno dei più nefasti risultati della cultura della morte è costituito dalla separazione dell'unità intima che esiste tra l'amore e la vita. Molti falsi profeti partono oggi da un presupposto che ritengono indiscutibile. Affermano che la vita matrimoniale ed i figli sono cose completamente diverse. Viene rotto in questo modo il bene unitario che consiste nella stretta unione, disposta da Dio, tra la famiglia fondata nel matrimonio e la vita umana. Da questa prospettiva, anticoncezione 178 e procreazione artificiale appaiono come semplici strumenti per evitare o "produrre" (secondo il caso) vita umana a misura delle necessità, a gusto del consumatore. Questa concezione delle cose è molto lontana della verità sulla persona umana e della verità sull'amore coniugale. EDUCAZIONE E CULTURA DELLA VITA La generazione di una cultura della vita comprende una corretta comprensione della missione educatrice della famiglia, perché detta missione affonda le sue radici nella vocazione primordiale dei coniugi a partecipare nella opera di creazione di Dio. Tale compito, realizzazione di una missione essenziale e propria della famiglia, si presenta come un'educazione della persona al dono di se nell'amore ed è, pertanto, un'educazione che favorisce "l'educazione integrale personale e sociale dei figli"[4].. Si tratta di un'educazione che deve avere ben presente non solo che ogni uomo si realizza mediante il sincero abbandono di se stesso, ma anche che è stato chiamato a vivere nella verità e nell'amore. Da tutto ciò derivano importanti conseguenze per un'educazione sessuale che formi nella virtù, e che sia un approfondimento nella verità e nel significato della sessualità. Il clima di quelle famiglie nelle quali si vive l'intima unità tra famiglia e vita percepita come valore, è la miglior difesa contro la cultura della morte. È il miglior contributo per aiutare l'adolescente a superare l'attrazione che rappresenta una attività sessuale immatura, prematura, poco responsabile, ridotta alla sola ricerca del piacere individuale. La famiglia diventa così perno ed elemento chiave nella formazione del carattere della persona e nella generazione, a livello sociale, di una genuina cultura della vita[5]. Questo è un punto veramente centrale. La famiglia, o è un luogo di educazione di uomini e donne padroni di se stessi, aperti al dono di se alla verità ed al significato della sessualità, alla famiglia e alla vita, o invece è un occasione persa per il raggiungimento di questi valori fondamentali. Nel primo caso, l'esperienza dell'unione tra famiglia e vita diventa poi concetto, espressione intellettuale che fissa un valore già vissuto prima, e si trasforma in un valore cosciente nella persona, da cui si genera una realtà culturale e sociale. Nel secondo caso, l'interiorizzazione del valore dipende da una molteplicità di fattori e diventa, in pratica, troppo dipendente da un arduo cammino di arricchimento personale soggetto a troppe variabili. La famiglia è il primo luogo dove si impara il vero senso della sessualità e il naturale orientamento dell'amore umano alla famiglia e alla vita. Ogni figlio si prepara al dono di se come cammino da percorrere in una vita di amore. La famiglia, d'altro canto, non si realizza completamente in se stessa se non è al servizio della vita. Questo servizio, della famiglia alla vita, che è generazione ed educazione dei figli nelle virtù si mette, pertanto, al servizio del bene comune della società.. La famiglia contribuisce in questo modo e in maniera privilegiata, alla trasformazione decisiva e necessaria di una cultura della morte a una cultura della vita, sostenuta dal Papa Giovanni Paolo II. LA VITA UMANA: LO SCATURIRE DELL'AMORE CONIUGALE La famiglia deve occupare nel contesto di "un popolo della vita e per la vita" il posto che gli è dovuto che consiste nel custodire, rivelare e comunicare l'amore[6].. "Si tratta dell'amore stesso di Dio i cui collaboratori e interpreti nella trasmissione della vita e nella sua educazione secondo il disegno del Padre sono i genitori[7].. Quindi amore e trasmissione della vita non possono essere separati. La separazione di questo binomio è contraria alla realtà stessa dell'amore coniugale. La cultura della morte ha voluto contrapporre l'amore coniugale e la trasmissione della vita come se entrambi fossero in competizione, come se entrambi fossero incompatibili, ignorando il loro profondo radicarsi l'uno nell'altro[8]. Il risultato è stato che, essendo questi due 179 valori insostituibili nel matrimonio, la negazione di uno ha comportato l'alterazione sostanziale dell'altro. In questo modo ci troviamo davanti al fatto che nella cultura della morte, si magnifica l'affetto e si deprezza la vita per cui si finisce per oscurare sia l'uno che l'altro, tanto il valore del matrimonio come il valore della vita. Il passo precedente, di fatto quasi necessario, per propugnare le leggi sull'aborto è stato, per quanto possa sembrare paradossale, l'approvazione di leggi sul divorzio. La storia ci mostra questa costante: la sequenza che esiste tra l'accettazione del divorzio (con il conseguente deterioramento del valore del matrimonio che ne consegue) e la considerazione della vita umana come qualcosa di completamente manipolabile. Entrambe le espressioni manifestano il rifiuto dell'"altro". Recentemente il Cardinale Joseph Ratzinger ha scritto: "nella paura della maternità che si è impossessata di una parte dei nostri contemporanei, è anche presente un fattore più profondo: l'altro risulta essere un concorrente che ci toglie una parte della nostra vita, è una minaccia per noi e per il nostro libero sviluppo "[9]. La questione della vita umana, per tanto, è stata estratta, sradicata dal suo vero posto nel cuore degli uomini (l'amore coniugale, il matrimonio) per essere inquadrata nel contesto del privato. L'"altro" (tanto nella mentalità divorzista come nella mentalità contraria alla vita) non è un invito al dono di se stesso e uno stimolo all'accoglienza. Innanzitutto l'amore coniugale è stato privato della sua dimensione istituzionale e ridotto a un affare privato (da risolvere tra due individui opposti l'uno all'altro). Successivamente anche la vita umana è diventata un affare individuale, privato, ignorando in questo modo la verità fondamentale che la vita umana è un dono e viene accolta nel matrimonio. I figli sono il sorgere della vita umana nel matrimonio, diventando famiglia. Il matrimonio è l'ambito specifico dove scaturisce e viene trasmessa la vita; la famiglia è l'istituzione nella quale trova la sua coltura più appropriata: accoglienza, attenzione e cure, sviluppo, educazione e formazione dell'"altro". La cultura della vita (che viene espressa originariamente nella grande stima a tale dono), comprende in particolare quelle istituzioni che per loro natura sono intimamente legate al dono della vita: il matrimonio e la famiglia. Trasmissione della vita, dono e responsabilità degli sposi Tra le radici più profonde nella lotta tra la cultura della vita e quella della morte si trova un concetto errato di libertà che eclissa il senso di Dio e conseguentemente della dignità dell'uomo[10]. Si tratta di un concetto di libertà come una radicale autorealizzazione, opposta a qualsiasi donazione ed abbandono di se. Questa mentalità quindi annulla la capacità di mettere le fondamenta autentiche per il matrimonio e la famiglia, e percepisce nella trasmissione della vita e nei figli i brandelli persi della sua onnipresente libertà. L'amore coniugale presuppone, precisamente, il dono e l'abbandono di sé, per aprirsi ad un'intima comunità naturale di vita e amore che diventa istituzione davanti a Dio e agli uomini. La libertà non solo non viene ridotta nel matrimonio ma in esso si realizza. Al contrario, nella cultura della morte, i concetti di libertà e di dono sembrano contraddittori. Si tratta pertanto di un concetto di libertà incapace di capire che la libertà raggiunge il suo profondo significato umano solo quando sbocca nell'amore. Quando la libertà, che è fatta per la rinuncia di sé, diventa schiava dell'egoismo (cioè, dell'amore per se stesso che si chiude agli altri, e pertanto si chiude a quell'"altro" che è il figlio) e vede negli altri degli antagonisti -­‐ a maggior rinuncia a sé, meno libertà -­‐ l'uomo perde la bussola della sua vita ed il senso della sua grandezza, che è nell'amore per Dio e per il prossimo. L'amore coniugale diventa impossibile, il matrimonio viene convertito in una chimera e la famiglia diventa una realtà di tempi remoti, chiamata ad essere sostituita da altre forme di vita più attuali. 180 L'esistenza stessa dei movimenti per la vita prova che il riconoscimento della dignità e il rispetto per l'essere umano oggigiorno non è garantito dai poteri pubblici e che non è stato pienamente assunto da tutti i membri dell'attuale generazione. Esistono forze che tentano di oscurare l'estensione universale di tale verità e che l'inviolabilità del diritto alla vita sia propria di ogni essere umano. Quelli che promuovono questa cultura della morte lottano per eliminare certezze, scavando nella debolezza e nell'egoismo degli uomini in modo da propendere contro la difesa della vita. Si tratta di sradicare l'origine della vita umana dal suo contesto naturale: la famiglia fondata nel matrimonio. Oggi i nemici della Chiesa non basano tanto i loro dibattiti direttamente contro Dio, preferiscono distruggere o deformare la sua immagine nell'uomo. Sfigurando il suo essere creatura e svalutando il dono della vita, come mai verrà rispettato il suo Autore? E se non viene apprezzata la vita, che cosa impedirà di banalizzare i rapporti di amore con Dio e con il simile? Valori come giustizia, rispetto, solidarietà, fedeltà, verità, ecc. di conseguenza vengono volgarizzati una volta oscurati nel senzavalore della vita[11]. La conformazione di una cultura della vita, passa per il recupero del vero senso dell'amore coniugale, passa per la scoperta dell'intima apertura alla vita che consegue al vero amore tra un uomo e una donna, passa per la stima, per l'abbandono della propria vita e per il sacrificio, che sono parte del genuino amore matrimoniale. La trasmissione della vita viene intesa, in questo modo, come un dono e una responsabilità comunitaria e condivisa dagli sposi uniti nella vita e nell'amore. Famiglia, vita e civiltÀ dell'amore Il "Popolo della vita e per la vita" ha celebrato qualche mese fa il Giubileo delle Famiglie, nel contesto delle celebrazioni dell'Anno Santo del 2000. Un evento che s'iscrive nella sequenza degli Incontri Mondiali del Papa con le Famiglie che, iniziato a Roma nel 1994, continuato a Rio de Janeiro nel 1997, ha raggiunto con questo il terzo di questi importanti incontri. In questa occasione, il moto è stato "I figli, primavera della famiglia e della società". Un moto molto significativo per una riflessione sulla missione della famiglia in una nuova cultura della vita. Si potrebbe dire che la cultura della morte ha preso di mira il bene dell'amore coniugale fedele e fecondo (che è terra feconda nel disegno di Dio per lo scaturire della vita umana, per l'insorgere della famiglia, per l'accoglienza dell'"altro"). In questo modo i "germi della morte" presenti nella cultura corrompono la vita umana nelle sue stesse radici. La famiglia, particolarmente in Occidente, è entrata in una specie di inverno, del quale è necessario essere coscienti. La proposta del Santo Padre per l'Anno Santo Giubilare del 2000 è stata che le famiglie mantengano "coscienza ferma e grata di essere il popolo della vita per la vita"[12]. È l'invito a una profonda riflessione sul dono dei figli e lo stimolo a una rinnovata primavera della famiglia. Segno e frutto di questo deve essere una nuova cultura della vita. Ogni cultura è espressione di una civiltà, di un preciso modo di concepire se stessi come popolo, di esprimersi e proiettarsi verso il futuro. Il Magistero della Chiesa non ha dubitato nel qualificare il senso di questa civiltà: si tratta di una civiltà dell'amore. È stata giustamente durante la celebrazione di un altro Giubileo, quello del 1975, che il Papa Paolo VI coniò la seguente frase durante l'Omelia della Messa di Chiusura del Anno Santo. Civiltà è una parola che proviene da cittadino. Le famiglie sono i cittadini di una rinnovata Città della vita, il cui segno e frutto è la civiltà dell'amore. Il popolo della vita e per la vita, cioè le famiglie, deve essere convocato per generare una civiltà di significato umanista, la cui cultura è una nuova cultura della vita. Questa è una responsabilità che incombe su tutti. Come afferma Giovanni Paolo II, "la civiltà appartiene alla storia dell'uomo, perché corrisponde alle sue esigenze spirituali e morali: creato a 181 immagine e somiglianza di Dio, ha ricevuto il mondo dalle mani del Creatore con il compromesso di modellarlo secondo la sua propria immagine e somiglianza. È il compimento di questa missione all'origine della società, che non è altro in definitiva, che l'"umanizzazione del mondo"[13].. A differenza di qualunque altra classe di vita vegetale ed animale che per l'atto creatore è rimasta al servizio dell'uomo, esso è l'"unica creatura terrestre che Dio ha amato per se stessa"[14].. Nella trasmissione della vita umana Dio non ha voluto una semplice produzione o riproduzione; ha voluto che l'uomo e la donna uniti nel matrimonio siano co-­‐creatori con Egli. Co-­‐
creatori, non creatori. Nessuno, come individuo, ha il potere di donare la vita. Tutti e due, in mutuo abbandono di sé, sono co-­‐creatori con Dio, che ne crea l'anima immortale. Questa missione propria del matrimonio comporta una responsabilità specifica vista la significativa "partecipazione dell'uomo nella sovranità di Dio, Signore della vita. È -­‐ prosegue il Papa nell'Enciclica Evangelium Vitae -­‐ una responsabilità che raggiunge il suo apice nel dono della vita mediante la procreazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio"[15]. La vocazione del matrimonio a collaborare con Dio nella trasmissione della vita è certamente meravigliosa, soprattutto quando si contempla che il fine degli uomini, il fine della Città della vita, non è solo terreno ma supera l'orizzonte dell'eternità. Questo è il senso profondo della civiltà dell'amore. "L'uomo non può vivere senza amore. Rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è privata di senso, se non gli è rivelato l'amore, se non raggiunge l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non partecipa ad esso vivamente"[16].. In questo piccolo nucleo di persone intrecciate dall'amore della rinuncia coniugale si esprime il passato, il presente ed il futuro dell'umanità. Il futuro dell'umanità passa necessariamente attraverso la famiglia. Infatti il futuro della società è condizionato dal patto di rinuncia mutua dei coniugi che rende possibile questo ambiente propizio dove i nuovi germogli di ulivo riempiono di gioia il focolare. Non può esserci una vera comunione coniugale chiusa al servizio della vita, ne può questa essere pretesa separatamente dalla mutua rinuncia e dono all'"altro" che arriva come prezioso regalo di Dio. Conseguentemente quando l'aborto radica la sua dimora nella cultura, incluso con la pretesa di consolidarsi come "diritto", succede qualcosa di singolarmente grave: vengono avvelenate le sorgenti stesse della vita. Un'ideologia che avvelena anche la nozione stessa di matrimonio e di famiglia, il "santuario della vita"[17]. Non è frequente che nelle case di ispirazione cristiana possa essere considerato l'aborto tra le prime possibilità di cambiamento, ma è più facile il graduale instaurarsi della contraccezione[18].. Questa conduce poco a poco all'aborto come una possibilità che non viene eliminata in caso di necessità. Però è anche grande il rapporto tra l'uso di metodi contraccettivi e il divorzio che cresce come piaga nella presente società.. Sono molti, sfortunatamente, quelli che giustificano gli anovulatori come risorsa per salvare -­‐ come dicono -­‐ la loro unione coniugale. Ebbene tutti sono coscienti prima o dopo che quello che edifica l'unione e la fedeltà e le rinforza contro qualunque insidia, così frequenti oggigiorno, è soltanto l'autentico amore e non i suoi succedanei presentati dai "germi della morte" ai quali una nuova cultura della vita deve far fronte. Conclusione Una cultura è il modo in cui viene plasmato lo spirito di un popolo. Però una cultura non può essere un prodotto di laboratorio. Il posto della cultura è il cuore delle persone. Oggi nel cuore dei nostri contemporanei sussistono insidiose, gravi minacce alla dignità della persona umana, immagine e somiglianza di Dio. Si tratta di una tendenza all'egoismo, all'individualismo, alla chiusura, che vizia radicalmente il bene del matrimonio dissociando l'amore dalla vita. Divide l'"unità di due" dell'amore coniugale per primo, e successivamente rompe l'unità tra i genitori e i figli mostrandoli come opposti arrivando alla soppressione della vita dell'innocente, quando si 182 ritenga opportuno. In questo consiste, in grande misura, la grave malattia della cultura della morte. Di fronte a questa situazione è necessario generare una nuova cultura della vita, il cui motore sia la famiglia, capace di accogliere il dono della vita degli altri, dei figli, dei genitori, dei bambini, degli anziani. Si tratta di costruire una civiltà dell'amore nella quale l'amore coniugale e la trasmissione della vita possano recuperare, davanti alla cultura, l'unità che hanno nella realtà naturale, che sussiste nel bene del matrimonio, l'istituzione dell'amore coniugale.[19].. In questo compito storico la famiglia ha una missione imprescindibile. Si tratta di acquistare chiara coscienza della famiglia come luogo di donazione e di accoglienza, santuario della vita e dimora dell'amore. Nella misura nella in cui l'esempio della famiglia fondata sul matrimonio, sia testimonianza dell'amore fedele e fecondo, immagine con cui risplende in mezzo al mondo l'amore ineffabile tra Cristo e la Chiesa, essa sarà il vero motore di trasformazione di una società veramente orientata verso il bene comune. [1] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 78. [2] Giovanni Paolo II, Lettera Gratissimam sane (Lettera alle Famiglie), n. 2. [3] Concilio Vaticano II, Const. past. Gaudium et spes, n. 48. [4] Concilio Vaticano II, Dich. Gravissimum educationis, n. 3. [5] Gil Hellín, F., I luoghi dell'educazione nei valori: la famiglia, en Dolentium hominum. Chiesa e salute nel mondo 44 (2000) n 22, p. 38. [6] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 92. [7] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 92. Cfr. Concilio Vaticano II, Const. past. Gaudium et spes, n. 50. [8] Gil Hellín, F., Il matrimonio e la vita coniugale, Libr. Editrice Vaticana, Vaticano 1996, p. 235s. [9] Ratzinger J., Prologo, in Schooyans M., El Evangelio frente al desorden mundial, Diana, México D.F., p. XVIII. [10] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 21. [11] Gil Hellín F., La familia, al servicio de la vida, in AAVV (a cura di R. Lucas Lucas), Comentario interdisciplinar a la "Evangelum vitae", BAC, Madrid 1996, p. 655-­‐668. [12] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 78. [13] Giovanni Paolo II, Lettera Gratissimam sane (Lettera alle Famgilie), n. 13. [14] Concilio Vaticano II, Const. Past. Gaudium et spes, n. 24. [15] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 43. [16] Giovanni Paolo II, Enc. Redemptor hominis, n. 10. [17] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 11. [18] Gil Hellín F., La familia, al servicio de la vida, in AAVV (a cura di R. Lucas Lucas), Comentario interdisciplinar a la "Evangelum vitae", BAC, Madrid 1996, p. 657. [19] Gil Hellín, F., Il matrimonio e la vita coniugale, Libr. Editrice Vaticana, Vaticano 1996, p. 235s. 183 CARLO CASINI
AMBITI E FORME NUOVE DI SOSTEGNO ALLA VITA NASCENTE Vita nascente: una finestra su tutta la vita umana Sono convinto che quando oggi si parla del valore e del sostegno alla vita nascente si parla di tutta la vita in ogni età e condizione. Infatti la caratteristica dell'uomo nell'età più giovane della sua esistenza è di possedere soltanto la vita. Non ha né ricchezza, né intelligenza, né coscienza, né visibilità. Ha solo la vita. In atto non é nulla di più che un essere umano vivente, in potenza può divenire uno scienziato del livello di Einstein o un Leonardo da Vinci. Quantomeno in potenza è uno dei miliardi di uomini qualsiasi con un qualche possesso di intelligenza, di ricchezza, di relazioni. Ma all'inizio, come realtà già realizzata, è soltanto un individuo umano vivente. Niente di più. Eppure il suo valore é straordinariamente grande, perché così può essere definito qualsiasi altro uomo. Egli esprime il comune denominatore di tutti e solo questo. Per indicarne la specificità si può dire che il non ancora nato è l'unico essere umano che possiede solo la vita. Nel corso della sua esistenza possederà molte altre cose. Forse vi saranno momenti in cui, misurato con il metro dell'avere, tornerà simile all'embrione che era all'origine, ma qualcosa continuerà inevitabilmente a possedere oltre alla vita almeno la visibilità. Invece nel suo inizio l'uomo possiede solo la vita. Si può dire che è vita. Meglio: che è solo uomo, perché così insuperabilmente piccolo e povero da non possedere altra ricchezza che la sua umanità. Ciò che di lui pensiamo e diciamo riguarda ogni uomo. Aspetti inediti nella scienza medica e nel diritto Il mio compito è descrivere la novità nell'impegno a servizio della vita nascente all'aprirsi del terzo millennio. La novità riguarda la risposta possibile alla situazione nuova (Giovanni Paolo II direbbe "inedita": cfr. Evangelium Vitae n. 95) nella quale ci troviamo. Per non invadere il campo di altri relatori non mi introdurrò nell'ambito della cultura in generale. Mi limiterò a ricordare soltanto due novità straordinarie che riguardano il diritto e la scienza medica. Il diritto sembra aver trovato la risposta alle sue angosciose domande, formulate fin dai primordi della riflessione umana sull'esperienza giuridica : " che cosa distingue la legge dal comando del più forte?" e "che cosa distingue lo Stato da una associazione ben organizzata?". La risposta moderna è: l'elemento distintivo è la dignità umana e la conseguente uguaglianza nei diritti umani, prima di tutto nel diritto alla vita. Ma tale risposta è vanificata dallo smarrimento del soggetto. Chi è il titolare dei diritti umani? Lo smarrimento non è la conseguenza di una fatica intellettuale che non riesce a trovare la conclusione. È, piuttosto, la conseguenza pratica di scelte pratiche decise prima dei principi che dovrebbero condizionarle. Sullo sfondo, naturalmente, c'é l'aborto legale, in molti Paesi divenuto fenomeno di massa concepito e attuato come un servizio sociale. L'Evangelium Vitae dice che "l'aspetto più conturbante e sovversivo" dell'attuale "congiura contro la vita" si colloca "proprio sul piano sociale e politico" e si manifesta nella "trasformazione del delitto in diritto". Dunque investe il diritto. Per consentire l'aborto legale di massa concepito come servizio sociale bisogna dimenticare il soggetto dei diritti umani. Ho detto "dimenticare" e non "negare", perché in materia di aborto la linea prevalente dei giuristi è stata non lo scontro frontale, ma la elusione, la esclusione del problema della soggettività come problema squisitamente civile e giuridico. Il comparire del più giovane essere umano in una provetta sta cambiando le cose. Per poter consentire e finanziare la produzione soprannumeraria di embrioni mediante fecondazione 184 extracorporea, il loro congelamento, la loro utilizzazione per scopi sperimentali, la loro distruzione ad una data scadenza, la loro utilizzazione allo scopo di costruire tessuti di ricambio per i già nati, non basta più chiudere gli occhi. Bisogna positivamente dire e sancire che l'embrione non è un essere umano ma è solo una "masserella genetica". Magari basta affermarlo finché è utile disporre dell'embrione, cioè fino a 14 giorni dalla fecondazione. Il termine non è solo arbitrario, è anche ipocrita perché quelli che lo sostengono si guardano bene dall'impegnarsi affinché almeno dopo che la "masserella genetica " non è più "masserella genetica " vi sia una disciplina dell'aborto che tratti l'embrione come un individuo vivente della specie umana, ossia come una persona. La novità nel campo del diritto è dunque questa: proprio mentre si afferma una concezione alta del diritto che pone a basamento dell'ordinamento giuridico il soggetto uomo, proprio allora il soggetto uomo si vanifica o è negato. Nel campo medico -­‐ scientifico si verifica un'altra analoga contraddizione. La scienza è pervenuta oggi a "vedere" il concepito, la cui natura era in precedenza soltanto intuita. La scoperta del DNA e dei meccanismi della fecondazione e dello sviluppo embrionale; l'uso generalizzato dell'ecografia consentono di constatare la presenza del nuovo essere umano. Eppure la professione medica si pone a servizio della sua uccisione. Bisogna riconoscere, peraltro, che nel caso dell'aborto la resistenza dei medici è stata significativa. La formazione ippocratica dei medici meno giovani ha fatto schierare complessivamente la classe medica a favore della vita, almeno dal punto di vista culturale. Ma ora il diffondersi della fecondazione artificiale cambia le cose. La disponibilità di embrioni in provetta costituisce una forte tentazione per la classe medica le cui intenzioni terapeutiche possono cancellare l'embrione umano dal novero dei destinatari del servizio medico e trasformarlo in strumento di intervento terapeutico in favore degli adulti. Il dibattito attuale sulla clonazione embrionale e la distinzione che viene proposta tra clonazione embrionale riproduttiva e (considerata inaccettabile) e clonazione embrionale terapeutica (giudicata lecita ed auspicabile) manifesta una tendenza assai pericolosa. Sto cercando di dire che mentre riguardo all'aborto la cultura medica ha prevalentemente svolto una funzione di freno, riguardo alla tutela dell'embrione generato artificialmente ho il forte timore che la stessa cultura possa svolgere un ruolo di spinta negativa. Come nel campo del diritto, così anche nell'ambito medico il fine pratico tende a cancellare le evidenze scientifiche. Il "cuore" della risposta Le azioni di sostegno alla vita umana devono tenere conto della novità e delle contraddizioni ora segnalate, soprattutto perché bisogna tenere conto di un dato di esperienza comune: la decisiva importanza del riconoscimento del figlio come figlio e cioè della umanità del concepito come condizione della efficacia delle azioni per la vita. Per conoscere le cause dell'aborto e combatterle non basta interrogare le donne che vi hanno fatto ricorso. È necessario interpellare anche le madri che hanno rifiutato di interrompere la gravidanza nonostante le più gravi difficoltà. Per quale motivo, a parità di condizioni economiche e sociali qualcuna considera l'aborto una necessità insuperabile e ad altre madri neppure viene in mente la tentazione di ricorrervi? Ci sono ancora donne che preferiscono addirittura rischiare la propria vita piuttosto che interrompere la gravidanza. Evidentemente l'ambiente e l'educazione precedente giocano un ruolo di primaria importanza. Una cosa è sentirsi totalmente sola di fronte ad un figlio che costituisce una difficoltà, con tutte le voci attorno che direttamente o indirettamente negano il valore e l'esistenza di un nuovo essere, e altra cosa è sentirsi confortata e sostenuta nel riconoscimento come essere umano e come figlio di ciò che sta crescendo dentro di lei. Questo è l'elemento decisivo nella prevenzione dell'aborto: il riconoscimento o il disconoscimento del concepito come "altro", come un essere umano che ha una dignità uguale a quella di ogni altro 185 vivente della specie umana. Per questo ho indicato le due contraddizioni: quella presente oggi nel diritto e quella presente nella cultura medica. Le due discipline che più dovrebbero confortare e sostenere il riconoscimento non solitario dell'"altro" come valore. Il diritto non è diritto se non riconosce i soggetti come soggetti, se non distingue più le cose dalle persone. La medicina non è più medicina se non si pone a servizio della vita di tutti e di ciascuno. Lo smarrimento della funzione propria del diritto e della medicina determina un rischio reale e concreto per la vita di una grande moltitudine di esseri umani. Perciò ogni azione a sostegno della vita deve puntare a una supplenza. Il primo servizio alla vita consiste nel mantenere egualmente nella coscienza sociale, nonostante l'abdicazione del diritto e della medicina, il riconoscimento del concepito come essere umano. In definitiva la contrapposizione in tutto il mondo della mentalità "per la scelta" alla mentalità "per la vita" esprime bene il tipo di novità che deve caratterizzare le azioni a sostegno della vita. Un conto è aiutare una donna a proseguire la gravidanza perché lei lo desidera e nei limiti in cui ella lo desidera, una conto è condividerne le difficoltà perché c'è di mezzo un essere umano con il suo diritto alla vita. Nessuno nega l'opportunità e il valore delle iniziative che aiutano una donna a realizzare il proprio desiderio di avere un figlio. Ma se questa è la sola ragione della solidarietà viene negato il valore del figlio. È esattamente questa la mentalità che conduce ai nuovi attentati contro la vita nella provetta. Il figlio ad ogni costo è esattamente la stessa cosa del rifiuto del figlio ad ogni costo. Da queste considerazioni derivano conseguenze importanti. Prima di tutto quella che l'ambito delle azioni a sostegno della vita si estende enormemente. Non c'è solo l'azione concreta di rimozione delle difficoltà che possono spingere a sopprimere una vita. Voglio dire che non c'è solo il campo della assistenza per offrire alternative all'aborto o alla fecondazione artificiale. Vi é anche il campo dell'educazione e della politica. L'ambito della parola che annuncia e dimostra il diritto alla vita, quello della solidarietà nei casi concreti e quello dove si elaborano le norme che guidano la società non sono diversi. Sono in continuità fra loro perché tutti mirano alla difesa concreta e reale della vita umana consentendo quel riconoscimento della pari dignità di ogni essere umano che è condizione preliminare della salvezza degli esseri umani nella fase più giovane della loro esistenza. Educare al rispetto della vita Tutti gli educatori dovrebbero perciò sentirsi operatori della vita. Gli educatori non sono soltanto i maestri e i professori nelle scuole e nelle università. Sono anche i giornalisti, gli scrittori, i registi cinematografici e, naturalmente i sacerdoti. Vi é un dato fondamentale nell'esperienza del servizio alla vita nascente: la parola, anche da sola può salvare. Anzi salva concretamente. Ha salvato realmente in un grande numero di casi la vita del figlio e il coraggio (io dico "la giovinezza") della madre. Il messaggio non è complicato. È essenzialmente semplice. Riguarda il dato biologico e la dignità umana. Perciò è tanto più doloroso il diffuso silenzio sul diritto alla vita persino nell'ambito delle stesse istituzioni ecclesiali. Tanto più ammirevole, invece, è la scelta di Giovanni Paolo II di essere il "Papa della vita". Ma é nella catechesi ordinaria così come nella esplicazione quotidiana dell'insegnamento che dovrebbe manifestarsi il servizio alla vita. Seminari di bioetica per insegnanti, premi per tesi di laurea, concorsi nell'ambito scolastico, promozioni di premi nel campo letterario, artistico, giornalistico, musicale, si rivelano utili al livello di azioni civili e laicali per stimolare e moltiplicare consapevolezze e servizi nell'area educativa. A proposito dell'azione educativa non è possibile ignorare il collegamento stretto tra la dimenticanza del valore della vita nascente e la banalizzazione della sessualità. Ho detto che" il messaggio non è complicato" ed è vero. Ma vi è da considerare che l'espressione "dignità umana", 186 propria -­‐ come abbiamo osservato -­‐ non solo dell'antropologia cristiana, ma anche della modernità laica, è di una straordinaria densità. Essa indica un mistero, una trascendenza dell'uomo sulla materia che vanno penetrati: la conoscenza del dato biologico non è sufficiente se non si percepisce il senso della vita umana. Inoltre occorre comprendere il perché delle indicate contraddizioni nel campo del diritto e della medicina. Alla radice dello smarrimento non vi è una difficoltà di comporre in modo ordinato i dati conosciuti. Vi è, invece, il premere urgente di esigenze pratiche, derivate da una concezione e da una pratica banale della sessualità. Per vivere la sessualità come esclusivo strumento di piacere o di evasione bisogna liberarla da ogni responsabilità, cioè da qualsiasi legame con realtà più ampie e profonde del piacere e della evasione. La cultura della scissione rompe il rapporto tra sessualità e amore, tra amore e famiglia, tra famiglia e senso della vita umana. La contraccezione è lo strumento tecnico di una tale cultura della scissione. Per questo io preferisco parlare più che di "mentalità contraccettiva" di "concezione banale della sessualità". Ma, nonostante tutto, resta il figlio, come ragione estrema di responsabilità e principio di ricomposizione. Nonostante tutto è innegabile che l'incontro sessuale è in grado di far scoccare il vero "big bang" della creazione, la novità assoluta del figlio, che realizza l'esistenza creata nella sua pienezza. L'uomo non può esistere se non come figlio e l'uomo è l'esito finale e causale della creazione. Perciò la concezione banale della sessualità deve inevitabilmente cancellare il figlio. Nella mente prima che nei fatti. Il tradimento della medicina e del diritto riguardo alla vita nascente non deriva da oscurità proprie della medicina e del diritto. Deriva, invece, da addensamenti di nebbia provenienti dall'esterno, appunto dal degrado della sessualità. Perciò l'educazione al rispetto della vita deve trovare linguaggi e metodi nuovi anche nel campo dell'educazione sessuale. Alla banalizzazione non si risponde con divieti le cui ragioni vengono date per scontate. Si risponde, invece, con l'offerta di una visione alta e affascinante della sessualità, il che non è possibile senza parlare anche di amore, di famiglia, di significato del vivere. A questo riguardo si può sottolineare un aspetto che forse può rendere meno pessimista la valutazione del nostro tempo. Non c'è alcun dubbio che oggi le aggressioni contro la vita nascente abbiano raggiunto un livello di gravità inedita sia per quantità che per qualità. Esse si accompagnano allo sfascio del matrimonio e della famiglia e alla perdita di valore della fedeltà definitiva e del dono di sé. Ma se guardiamo al passato possiamo constatare che il maggior rispetto della vita concepita e la più diffusa stabilità familiare erano sostenuti da puntelli di ordine economico-­‐sociale che nulla avevano a che fare con le convinzioni profonde dell'uomo. In una società contadine i figli erano ricchezza, perché braccia per lavorare la terra e bastone per la vecchiaia; la fedeltà e la perpetuità del matrimonio erano garantite soprattutto dalla dipendenza economica della donna e dalla sostanziale immobilità fisica. Oggi tutti i puntelli sono caduti. I valori devono essere percepiti nella loro intrinseca forza e bellezza. potrebbe dunque essere il nostro tempo di autenticità, in cui le difficoltà esteriori chiedono una forza interiore più grande e più vera. Il sostegno alla vita nascente esige perciò anche una educazione alla sessualità, all'amore e alla famiglia che sia espressione di una grande luminosa cultura, non pavida, non arroccata sul passato, non marginale. L'insegnamento dei metodi naturali non può che essere inserito in questo contesto. L'opposizione della Chiesa Cattolica alla contraccezione è incomprensibile all'uomo moderno se non è percepita come lo sforzo di comprensione e adesione al mistero profondissimo che inerisce alla sessualità e quindi ultimamente al mistero della vita umana. Anzi: se esposta senza tali profonde motivazioni la contiguità del tema della contraccezione con quello dell'aborto diviene argomento capovolto dagli avversari per negare il diritto alla vita. Far scivolare l'aborto nell'ambito della contraccezione significa, infatti, negare l'esistenza di un figlio, confondere il quinto con il sesto comandamento. Penso perciò che occorre 187 partire da uno sguardo contemplativo sullo splendore della vita umana per illuminare il significato dei gesti che la generano e coglierne le esigenze di autenticità e verità. Condividere le difficoltà della vita Nell'ambito della solidarietà concreta sbaglierebbe chi indicasse l'azione dei vari centri e servizi per la vita come la novità in sé. La comunità cristiana ha sempre difeso la vita nascente e la maternità. Alludo ad una enorme ricchezza di opere, rispetto alla quale i vari centri e servizi alla vita, promossi da vari movimenti per la vita, hanno una importanza modesta. La rete intera della presenza cristiana costituisce un sostegno non solo nella globalità dell'esistenza, ma anche in specifico riferimento alla vita nascente. Tuttavia mi pare interessante riflettere su un fatto nuovo. In tutti i Paesi, non appena comincia la discussione sulla legalizzazione dell'aborto nascono entità associative caratterizzate dallo specifico scopo di aiutare concretamente le madri a non abortire. Tali centri, pur non avendo una origine comune, hanno spontanee caratteristiche comuni: si fondano sul volontariato, offrono un aiuto materiale e morale, per lo più si presentano come strutture laicali nel senso che in esse sono chiamati a collaborare non solo i credenti o gli appartenenti al cattolicesimo, ma ogni uomo di buona volontà. Lo slogan usato nei centri di aiuto alla vita italiani é probabilmente valido per ogni centro nel mondo: "le difficoltà della vita non si superano sopprimendo la vita, ma superando insieme le difficoltà". Mi sono interrogato molte volte sul significato profondo di questo fatto: la protezione "sociale" della vita nascente non è una novità, ma è una novità il sorgere di strutture specifiche ed é degno di meditazione il fatto che esse abbiano ovunque caratteristiche simili nonostante che nessuno le abbia programmate con un disegno organico. Ci deve essere una esigenza unitaria impellente. Fino a quando l'aborto non era legalizzato o non se ne chiedeva la legalizzazione, la razionalità collettiva riguardo alla vita umana si esprimeva soprattutto con la legge: il divieto di aborto schierava la comunità tutta insieme dalla parte della vita. Anche se le motivazioni potevano essere più o meno limpide, la testimonianza dell'intera comunità degli uomini a favore della vita era evidente. Quando la legge rinuncia a tale testimonianza, la comunità cerca di sostituirla con una sua testimonianza diretta. Ecco perché i centri di aiuto alla vita, nonstante la frequente modestia delle loro forze, pretendono di essere l'espressione di un'intera comunità che accoglie la vita. Si caratterizzano per la specificità gelosa del loro scopo affinché la loro azione non sia percepita esclusivamente come sostegno alla libera scelta della donna. Si dichiarano organismi laici per manifestare che il sostegno alla vita nascente non é la difesa di una opinione e tento meno di una idea religiosa, ma l'impegno ineludibile della società come tale. Insomma vi é l'idea di una assistenza che é testimonianza e di una testimonianza che é di per sé stessa assistenza, cioè sostegno concreto. Ma vorrebbero esprimere, questi centri, anche un'altro pensiero che mi pare abbastanza profondo. Naturalmente é facile osservare che la parola che annuncia il valore della vita non é credibile se non si accompagna alle opere. Se in una città avviene una catastrofe naturale non basta proclamare il valore della vita. Occorre agire per salvare il maggior numero possibile di persone. Altrimenti le sole parole di indignazione divengono persino urtanti. Ma nella testimonianza che questi centri vorrebbero rendere vi é qualcosa di più profondo. Vi é l'intuizione di un legame tanto forte quanto misterioso fra la vita umana e l'amore. Questa affermazione é vera a livello metafisico. La Rivelazione cristiana, che indica in "Amore" il nome del Creatore, che é l'essere, cioè la vita per essenza, esprime in modo rigoroso questo legame. Ma questa affermazione é vera anche a livello sociologico e psicologico. Di regola la donna che si sente amata non abortisce. Per dimostrare la vita, per testimoniare la vita, per persuadere alla vita, occorre usare un linguaggio ed una metodologia impregnati di amore. Per questo i centri 188 dovrebbero usare la metodologia della condivisione delle difficoltà. Al fondo vi è l'idea, espressa da Giovanni Paolo II nel visitare, il 19 ottobre 1986, il primo centro di aiuto alla vita d'Italia. Egli disse che questi centri sono "testimonianza in favore del primato della vita umana di fronte a tutti gli altri valori materiali; un appello a tutti affinché comprendano che una società giusta non si costruisce con la eliminazione degli innocenti [...] Desidero vivamente -­‐ concluse il Papa -­‐ che i cristiani, i credenti, gli uomini di buona volontà collaborino con impegno sincero e costante in un'opera così evangelica, favorendone un adeguato sviluppo". Naturalmente non c'è da meravigliarsi se il progetto è lontano dalla realtà, soprattutto per quanto riguarda la capacità dei centri di essere espressione di un'intera comunità che accoglie. L'ideale è che ogni cristiano, anzi, ogni cittadino si senta e sia concretamente membro del centro della sua città. Così come la legge esprime tutti, analogamente il centro dovrebbe esprimere tutti. Se la legge esprimeva tutti con la minaccia di un castigo per chi offende il diritto alla vita e con tale minaccia intendeva prevenire la lesione, così la promessa di condivisione delle difficoltà dovrebbe esprimere in modo nuovo la "razionalità collettiva" e così prevenire l'aborto sostituendo l'amore alla paura. In questa logica é di somma importanza non solo l'ampiezza delle partecipazioni e delle collaborazioni con i centri di servizio alla vita, ma anche lo stretto collegamento, prima mentale e poi pratico, con tutte le strutture di solidarietà religiose e civili esistenti sul territorio. Non si assiste la vita proteggendola solo nel momento delle delle origini. D'altra parte se il concepito é un essere umano, allora egli é un bambino e un povero. Anzi: il più bambino dei bambini, il più povero dei poveri. Perciò tutti coloro che si occupano dei poveri e dei bambini dovrebbero testimoniare anche a favore del non ancora nato e tutti sentirsi parti collegate sulla vasta frontiera in cui si difende la vita umana. In tale contesto penso che le annuali celebrazioni civili in cui si ricordano la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (10. 12. 1948) e la Convenzione dell'ONU sui diritti del bambino (20. 11. 1989) dovrebbero diventare occasioni privilegiate per testimoniare in favore della vita nascente. Nuovi servizi: qualche esempio Naturalmente le promesse devono essere mantenute. In particolare se una gravidanza incontra la difficoltà di un alloggio mancante, bisogna poter offrire la casa di famiglie accoglienti o comunque case di accoglienza. Se ci sono difficoltà economiche, occorre tentare una risposta, per quanto parziale. A questo riguardo mi piace segnalare un servizio particolare attuato in Italia da alcuni anni denominato "Progetto Gemma". Esso prende lo spunto da una esperienza assai diffusa, quella della adozione a distanza, attuata soprattutto in favore di bambini abbandonati o bisognosi di paesi in via di sviluppo. Se anche il concepito non ancora nato é un bambino, allora quando egli rischia di essere ucciso é il più abbandonato e bisognoso di tutti. Ma non si trova lontano. Non è a distanza. È vicino. È tra noi. Inoltre si trova in una situazione particolarissima. Vive nel corpo di sua madre. Se chiamassimo "adozione" l'aiuto economico ritmato e durevole offerto da una famiglia, un gruppo, una parrocchia a un bambino lontano perché viva e cresca allora bisogna parlare di "adozione a distanza ravvicinata" non solo di un bambino, ma anche della sua mamma quando, attraverso la rete dei centri per la vita, l'aiuto mensile per un certo tempo é offerto per condividere le difficoltà economiche che potrebbero condurre all'aborto. Questo é "progetto Gemma". L'altra grande spinta a sopprimere la vita é la solitudine. Esigenza fondamentale é dunque quella di far sapere che nella società ci sono persone e strutture pronte a rompere la solitudine. In una società che censura la vita nascente non è facile "far sapere". Eppure il "far sapere" fa parte delle "forme nuove" di servizio alla vita, con le forme "nuove" della pubblicità in specie nelle farmacie, 189 negli studi medici, sui mezzi di comunicazione sociale. Il telefono e forse Internet diventano strumenti potenti di servizio alla vita. In Italia da qualche anno funziona un servizio telefonico nazionale, gratuito per il chiamante, funzionante 24 ore su 24, che ha già salvato il coraggio delle madri insieme alla vita dei figli. Si chiama S. O. S. Vita. Ma ha bisogno di essere conosciuto. Altra causa di uccisione é la paura. Intendo dire la paura di malformazioni del figlio. Naturalmente il figlio va accolto in ogni caso, ma tutte le volte che é possibile -­‐ e l'esperienza dimostra che i casi sono numerosi -­‐ bisogna dissolvere o ridurre la paura. Ciò esige studio rigoroso, approfondimento a livello internazionale, risposte vere, ma capaci egualmente di suscitare coraggio. È merito di alcuni medici della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica di Roma aver avviato un servizio chiamato "Telefono Rosso". È una esperienza nuova che andrebbe moltiplicata e fatta crescere. Uno degli aspetti più inquietanti della "cultura della morte" si manifesta nel modo in cui si proclama il "diritto a nascere sano". Poiché tale posizione implica una evidente discriminazione sull'uomo e, ultimamente un atteggiamento "razzista", la legalizzazione dell'aborto in caso di malformazioni del feto è stata mascherata spesso con il pericolo della salute psichica della madre. Ciò è evidente nella legge italiana sulla interruzione della gravidanza . Ma la maschera cade nel campo della procreazione artificiale in vitro, quando addirittura si celebra come trionfo della medicina e come vittoria sulla malattia l'uccisione di molti embrioni osservati in provetta prima ancora di essere impiantati nel corpo della madre, in modo da selezionare e tentare di far vivere solo quelli che non sembrano presentare rischi di malattie genetiche. Di qui all'eugenismo e alla selezione dei figli in base alle loro caratteristiche il passo é breve. Sempre più frequenti sono poi le cause per danni promosse contro medici e strutture sanitarie nel caso di nascite di bambini handicappati, non perché la malformazione sia stata cagionata da imperizia o negligenza dal medico (nel qual caso sarebbe ovvio il dovere di risarcire il danno), ma perché il personale sanitario, non essendosi accorto durante la gravidanza della malformazione e/o non avendo consigliato o eseguito l'aborto, ha lasciato vivere il figlio. Già in Francia una recente sentenza (novembre 2000) ha riconosciuto un tale diritto al risarcimento del danno verso il medico per aborto non effettuato non solo ai genitori, ma anche al figlio. Il "danno da nascita" è l'esatta antitesi dell'idea che la vita è un dono e la nascita un lieto evento. Lo sbocco finale sarà il diritto al risarcimento per essere venuto al mondo non solo verso i medici, ma anche verso le eroiche madri, che, pur conoscendo la malformazione del figlio non hanno voluto divenire omicide. E poiché la malformazione non è che una possibile causa di "sofferenza del vivere" si capisce bene come la "cultura della morte" possa immaginare scorrerie terribili attraverso la breccia del "diritto a nascere sani". A questo proposito la risposta urgente della "cultura della vita" è, naturalmente, l'accoglienza premurosa del disabile e del malato, ma anche la messa in opera degli strumenti più raffinati della scienza e dell'amore per contrastare la facile propensione all'aborto quando vi é soltanto un sospetto, magari remoto, di anomalia o malformazione (propensione favorita e spesso indotta da una categoria di medici timorosa di essere chiamata a risarcire i danni) e comunque di favorire sempre, nel rispetto della verità scientifica, l'accoglienza del figlio. Affinché le esortazioni siano anche condivisione efficace urge conoscere e proporre terapie e rimedi sia durante che prima e dopo la gravidanza. Fortunatamente -­‐ è questa una delle molte contraddizioni -­‐ l'embrione è considerato un paziente nell'ambito di una scienza medica che è giunta a poterlo curare e persino operare all'interno dell'utero materno. "Telefono Rosso" è un servizio di rassicurazione nei molti casi in cui il timore è infondato o affrontabile e tende comunque ad essere il sostegno del medico autorevolmente amico della vita a bilanciare il potere medico che spesso orienta verso la morte. 190 La legge a servizio della vita L'adozione, quella vera, quella giuridica, si è trasformata nel nostro tempo. Non è più lo strumento per dare un figlio a chi non ce l'ha, ma lo strumento per dare dei genitori a chi non ne ha. Questa nuova visione dovrebbe spingere a utilizzare l'adozione anche come forma di prevenzione dell'aborto. Il presupposto -­‐ al solito -­‐ é quello di riconoscere il figlio come figlio e la madre come colei che dà la vita e la dà, quando indispensabile, separandosi dal figlio. Questo avviene nel parto. Questo avviene nel corso dell'intera vita quando il figlio diviene pienamente autonomo con l'adolescenza e con l'età adulta. Perciò una madre che, certa di non poter svolgere la sua maternità dopo la nascita, accetta, liberamente e come ipotesi estrema, di separarsi dal figlio, è doppiamente madre. La cultura dell'adozione è, dunque, un ambito nuovo di impegno per la vita. Le nostre sono spesso società malate di schizofrenia, dissociate. In Italia vi sono ogni anno 140.000 bambini uccisi con l'aborto legale, ma i tribunali per i minorenni possono soddisfare le domande di adozione soltanto di una coppia su 20 e per questo molte famiglie sono scoraggiate persino dal proporne la domanda. Intanto il desiderio del figlio si esprime attraverso la forma nuova della fecondazione artificiale in vitro che deliberatamente aggiunge figli uccisi a figli uccisi. Urge pertanto un coerente sviluppo della cultura dell'adozione, anche a livello internazionale, come alternativa alla domanda di Fivet. Ma la Fivet ha aperto un campo di battaglia smisurato e nuovo. Chi vuole difendere la vita nascente non può evitarlo. Non è qui il caso di ricordare a quali rischi sia esposto l'embrione in provetta. Mi preme, però, sottolineare una diversità tra la situazione del figlio quando è concepito nel corpo di una donna e quella del figlio generato in provetta. Nessuna donna concepisce per abortire. "Generare per la morte" è qualcosa di estraneo all'atto sessuale anche quando avviene nelle forme e nelle circostanze più contrarie al suo significato vero. La gravidanza indesiderata è una gravidanza che si preferirebbe non aver iniziato, non una gravidanza voluta per poter poi abortire. La "generazione per la morte" sembra essere, invece, una caratteristica della Fivet. Non solo nel caso evidente in cui gli embrioni vengono "prodotti" al fine di sottoporli a sperimentazione, ma anche quando lo scopo di superare la sterilità di una donna ricorre a tecniche cheab inizio accettano la distruzione di una grande quantità di embrioni, sottoposti a selezione, oppure congelati e destinati ad essere gettati via come cose inutili o addirittura pericolose ad una data scadenza. La differenza si coglie anche nei rimedi possibili che l'antropologia cristiana può inventare in una tale inedita situazione. Di fronte all'aborto di massa culturalmente accettato la risposta che abbiamo individuato è l'educazione e la solidarietà. Naturalmente è urgente anche conservare o ottenere leggi rispettose del diritto alla vita, ma anche in presenza di normative inique l'educazione e la solidarietà possono ottenere positivi risultati. Invece di fronte all'embrione in provetta a rischio di morte se lo strumento educativo può ancora svolgere un qualche ruolo, la solidarietà è inesplicabile, o meglio, può esplicarsi solo con la legge. Verrebbe fatto di dire che il parallelo ai centri di aiuto alla vita nel campo dell'aborto è soltanto inevitabilmente la legge nel campo della fecondazione artificiale. Nessuna struttura di volontariato può impedire l'uso della clonazione embrionale a una industria. Solo la forza della legge può impedirlo. La stessa asserzione può essere fatta riguardo agli embrioni congelati, sottoposti a sperimentazione o selezionati. Torna, dunque, in primo piano la funzione propria del diritto a difesa della vita umana. Il carattere inedito dei problemi concernenti il sostegno della vita nascente esige il ripensamento serio e profondo della funzione propria della legalità, del diritto e della legge. Dopo tanti anni di impegno mi sono convinto che il cuore della difesa della vita sta nella introduzione del concepito nel campo del diritto come un soggetto. Il diritto positivo, in adesione a quanto è il presupposto 191 della moderna teoria dei diritti umani, deve sottrarre l'uomo, tutto l'uomo ed ogni uomo, al mondo delle cose e collocarlo sul piano misterioso di una trascendenza rispetto alla materia. Ciò è compito del diritto la cui funzione è quella di separare gli oggetti dai soggetti. Riconoscere il concepito come soggetto, affermarne l'eguaglianza e la dignità è il massimo strumento di prevenzione dell'aborto, il gesto di solidarietà concreta verso gli individui che la Fivet condanna a morte prima ancora della loro esistenza, la risposta giusta all'idea della "nascita come danno", la base solida e il sigillo finale della teoria dei diritti umani. Non si può dispiegare un completo sostegno della vita nascente senza la "novità" del riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo alla vita dell'uomo fin dal concepimento, cioè senza la dichiarazione della soggettività (capacità) giuridica dell'embrione fin dalla fecondazione. Ciò significa anche rivendicare la nobiltà del diritto e della legalità come strumento di giustizia e non di forza. Dal biodiritto alla biopolitica Da quanto ora detto deriva che non si può difendere concretamente la vita senza attingere alla politica. È la politica che fa le leggi ed una legge che non protegge la vita umana non é una legge in senso moderno. Ho già concentrato l'attenzione sull'essenziale trascurando i dettagli. Ciò che é essenziale è il riconoscimento giuridico, cioè detto, scritto nelle leggi e perciò insegnato nelle Università e reso noto, che ogni essere umano è un soggetto e che perciò anche il concepito fin dalla fecondazione è dotato di capacità giuridica. Questo è il massimo elemento di prevenzione. Ormai il pensiero giuridico costituzionale europeo, in mezzo a tante incertezze, sembra condizionata da questa riflessione. Ma l'azione politica deve dare grande rilevanza anche alle strutture amministrative locali. Esse, se vogliono, possono sostenere e finanziare progetti di sostegno alla vita. Possono proclamare nei loro statuti il diritto alla vita. Nonostante tutto è assai più difficile scrivere in atti giuridici che l'embrione è una cosa. Perciò il livello politico locale, alla lunga, può cambiare la mentalità anche laddove le leggi nazionali sono inique. Infine é urgente riflettere sulla esigenza che il diritto alla vita entri nella politica nel ruolo che gli spetta, un ruolo così centrale da rendere insostenibile la neutralità sulla vita dei governi, delle alleanze, dei partiti e dei voti popolari. Discorso difficile e complesso, questo, nel quale ancora si balbetta. È però impossibile non affrontarlo se rileggiamo il paragrafo n. 5 dell'Enciclica Evangelium Vitae: «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio, a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani. Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale». Queste parole di Giovanni Paolo II dovrebbero essere, secondo me, lo stimolo fondamentale per un nuovo manifesto di presenza politica dei cattolici nel mondo. Tanto più gravi mi appaiono pertanto le reticenze, la prudenza, le diplomazie, i rinvii e le evasioni con cui anche da parte di molti che vogliono sostenere la vita nascente si cerca di separare il diritto alla vita dalla politica. 192 Della politica conosco bene la complessità, le difficoltà, le insidie, le condizioni. Accetto la logica della gradualità (se non è rinuncia all'obiettivo finale), della mediazione (se non è compromesso, ma conoscenza della realtà), del risultato concreto (se non è rifiuto della testimonianza). Tuttavia mi pare che anche la politica debba sentire a sé rivolta l'esortazione pressante del paragrafo 95 della Evangelium Vitae: «Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova culture della vita: nuova, perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita dell'uomo; nuova perché fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutti». 193 GIAMPIERO GAMALERI
I MEDIA E LA CULTURA DELLA VITA Il "fiume del cambiamento" della galassia dei media continua a non arrestarsi. Anzi, esso riguarda non più soltanto lo sviluppo dei supporti digitali ai quali si ancora il fenomeno della comunicazione oramai costantemente spostata sulle tradizionali "autostrade dell'informazione", ma anche gli aspetti qualitativi e quantitativi della comunicazione stessa. In pratica, sono venuti trasformandosi completamente la forma e la sostanza della comunicazione tradizionale. I nuovi media raggiungono tutti, per cui la globalizzazione sta oggi vivendo, forse, il suo punto di maggiore vivacità. Ma accanto alle grandi e molteplici possibilità che ci attendono, e che sempre più spesso sono già presenti, si affiancano anche una serie di rischi -­‐ di natura etica e morale -­‐ per la comune utenza. Ebbene, da questi richiami non dovremo né potremo prescindere, se il fine ultimo dell'affermazione delle nuove tecnologie nell'universo della comunicazione dovrà essere considerato un evento pienamente positivo per la crescita e lo sviluppo della persona umana, sia dal punto di vista meramente individuale che da quello della vita sociale e collettiva. LA TRASFORMAZIONE DELLA GALASSIA DEI MEDIA Gli ultimi cinque anni, oltre ad aver suggellato la chiusura del Secondo Millennio, hanno rivelato una mutazione nei consumi culturali italiani e più in generale dei cittadini europei. L'ultimo Rapporto Censis, al solito fedele specchio delle abitudini del nostro Paese, ci aiuta dati alla mano a capire questi cambiamenti e a confrontarci con i medesimi[1]. In generale, si potrà osservare come l'evoluzione del consumo di contenuti diffusi mediante strumenti legati alle nuove tecnologie abbia raggiunto uno sviluppo di altissimo valore percentuale. Inoltre, sarà facile constatare come -­‐ in conseguenza di ciò -­‐ la quantità di consumatori culturali multimediali abbia raggiunto, oggi, delle percentuali simili in tutti i Paesi europei. Vale a dire, anche Italia e Spagna (per fare un esempio) hanno raggiunto i loro partner continentali nella diffusione e nell'uso quotidiano delle nuove tecnologie e nel loro utilizzo a favore della fruizione di contenuti formativi ed informativi. Come si potrà notare, ad una tenuta dei media tradizionali (radio e televisione) si affianca un calo dell'informazione su supporto cartaceo (giornali e riviste), mentre CD-­‐Rom e televisione digitale continuano a riscuotere un sempre più ampio consenso verso i consumatori. Ma il dato che risalta è certamente la diffusione dinamica e generalizzata di Internet. In questo senso, è evidente come la fruizione della Rete non sia sottrattiva ma aggiuntiva. Vale a dire che l'uso sempre più frequente di Internet è dovuto anche alla sua possibilità di fornire più contenuti: assume dunque una funzione integrativa e complementare rispetto agli altri media, soprattutto a quelli di natura audiovisiva. Il dato che segue ci aiuta a comprendere ancora più nel dettaglio questo discorso, spostando l'analisi dell'evoluzione dei consumi dei media verso la definizione della tipologia del consumatore. Questi dati mostrano chiaramente come -­‐ stando alla lettura dei grandi numeri -­‐ circa la metà della popolazione europea sia oramai orientata ad un consumo culturale di tipo multimediale, grazie alle notevoli e numerose applicazione che anche un semplice personal computer mediamente accessoriato oggi consente. 194 Ad ulteriore conferma di quanto precedentemente affermato, si potrà inoltre notare come la televisione continui conservi -­‐ anzi accresca -­‐ un target numericamente forte di pubblico, mentre il popolo dei lettori sta vivendo una stagione di rilevante declino. Le considerazioni sin qui esposte sono essenzialmente dettate da un motivo: la televisione sopravvive alla diffusione delle nuove tecnologie soprattutto a causa della ancora difficile integrazione tra tv e computer, e tra tv ed Internet. Laddove questo problema non si pone, ovvero nei casi in cui il flusso di contenuti formativi ed informativi è sufficientemente ampio (ad esempio nella Rete), il supporto cartaceo perde fruitori. Questa analisi complessiva non può che rimandarci alla convergenza dei media, e al suo sviluppo direttamente proporzionale all'utilizzo dei supporti creati con lo sviluppo delle nuove tecnologie. LA TELEVISIONE E LA CONVERGENZA MULTIMEDIALE La convergenza multimediale, argomento di dibattiti e discussioni sempre più aperte ed accese (si pensi alle analisi in materia di globalizzazione), è in questo periodo il fenomeno economico-­‐
sociale maggiormente all'attenzione dell'opinione pubblica, e non più soltanto degli esperti e degli addetti ai lavori. Uno dei casi maggiormente eclatanti di questo tema è stato indubbiamente la fusione AOL/Time Warner, un affare da 650mila miliardi di lire, che ha creato un soggetto commerciale la cui nascita è avvenuta "in una modesta palazzina di uffici, seminascosta sull'autostrada che da Washington conduce all'aeroporto, nella sede di una società Internet chiamata America On Line che dieci anni or sono appena esisteva e che oggi ha inghiottito Time Warner, mostro sacro del cinema, della tv, dell'informazione al prezzo stratosferico e inaudito di 346mila miliardi di lire"[2]. Molte analisi sono state costruite a tale proposito. Antonio Pilati ha rintracciato in questa fusione due aspetti fondamentali, rispettivamente di natura finanziaria ed industriale[3]. Nel primo caso, "la fusione fa risaltare lo straordinario potere strategico che i nuovi criteri adottati dal mercato per valutare le società specializzate in attività Internet (stimare il potenziale di sviluppo futuro senza pesare i risultati presenti) conferiscono alle più credibili tra esse". Sotto il secondo aspetto, "la fusione premia l'idea di una integrazione verticale che coordina, su un unico asse, le infrastrutture di trasmissione, gli strumenti per la gestione di operazioni su Internet e la ricchezza di contenuti generati fuori rete ma riorganizzabili in rete". In sintesi, tale procedimento consente di formare "un complesso di capacità che è in condizione di cogliere, sulla rete, un ventaglio di opportunità quasi completo, dal commercio elettronico alla pubblicità fino al consumo di contenuti mediali (tv, musica, film, notizie)". Inversamente, c'è chi si è soffermato sulla difficoltà ad avviare una pratica di convergenza mediante la concorrenza tv-­‐computer, come Dom Serafini[4], il quale asserisce che "si parla tanto di convergenza multimediale, ma si ignorano le divergenze. Ci troviamo in una situazione dove i tecnici di Internet non capiscono il broadcast televisivo e i broadcaster non comprendono Internet. L'industria dei PC ha i suoi piani e non sono in armonia con quelli dei fabbricanti di televisori. Il settore della produzione e distribuzione, poi, si vede minacciato da Internet". In definitiva, secondo Serafini, mancano una mentalità convergente e, conseguentemente, un reale desiderio di giungere anche a tecnologie convergenti, ovvero a medesimi standard tecnologici, che pure dovrebbe essere realizzabile. Stando all'universo delle telecomunicazioni, sul quale intendiamo soffermarci in questa sede, questa integrazione multimediale ha fatto sì che anche il nostro PC domestico sia in grado di fornirci la fruizione di contenuti solitamente -­‐ anzi esclusivamente -­‐ erogati, una volta, da radio e televisione. 195 Dal canto suo, è ipotizzabile che nel lungo periodo il computer andrà ad assolvere la funzione della televisione, malgrado le attuali difficoltà di integrazione dei due medium. Inoltre, nonostante alcune difficoltà, l'Italia si segnala in netta crescita per quanto concerne il consumo della televisione a pagamento. Possiamo, in tal senso, fare tesoro dell'indicazione fornitaci dalla newsletter britannica "Screen Digest", secondo la quale l'Italia costituirà "il mercato europeo che avrà il più alto tasso di crescita della spesa nella pay tv nei prossimi quattro anni, superando la quota di Spagna e Germania, che oggi ci precedono"[5]. C'è infine l'ultima frontiera della convergenza multimediale: la telefonia cellulare. Già approdata alla tecnologia WAP, essa centrerà appieno l'obiettivo dell'integrazione multimediale con l'arrivo dei telefonini UMTS, cosiddetti di terza generazione, con i quali Internet e telefono, coesisteranno in un solo supporto operativo, un apparecchio operante in audio e video per dialogare "faccia a faccia" oppure per controllare on line i listini della Borsa. Il sistema UMTS, operativo in Italia dal 2002, troverà un Paese oramai preparato su larga scala all'uso del telefono cellulare: oltre il 65% degli italiani usa il telefonino, con una punta di quasi l'84% tra i giovani fino ai 35 anni, mentre oltre il 52% fa comunemente uso dei messaggi SMS e circa un italiano su cinque è abile nella navigazione di Internet. NUOVE OPPORTUNITÀ, NUOVI RISCHI Questo inedito contesto operativo ci avvicina a possibilità fino a pochi anni fa impensabili, ma in ultimo deve anche impedirci un precoce allontanamento dalla "realtà più bassa", quella di tutti i giorni. In sintesi, agli enormi vantaggi che il futuro ci offre dobbiamo sempre contrapporre i rischi che potrebbero derivare dal seguire in maniera frettolosa il "flusso del futuro". Al giorno d'oggi, siamo abituati alla possibilità di essere costantemente in contatto con tutto e tutti: siamo cioè in grado di vivere nel "nodo" della comunicazione, ed essere contemporaneamente -­‐ e in qualsiasi momento -­‐ soggetto ed oggetto della comunicazione. Non solo: in ogni momento della nostra vita siamo potenzialmente multimediali, nel senso che possiamo usufruire simultaneamente di più mezzi e di diversi linguaggi di comunicazione. Inoltre, possiamo convogliare i messaggi su uno o più canali, con la massima libertà di scelta nell'articolazione di questi "movimenti comunicativi". Questi fattori, novità straordinarie e sempre più in via di affermazione, ci permettono conseguentemente di ampliare la nostra capacità di soggetti recettori, spostando il raggio di attenzione da ciò che già sappiamo esserci utile a ciò che "imprevedibilmente" ci sarà utile. In pratica, possiamo affermare che i cambiamenti in atto, prodotti dalla circolarità della comunicazione, in cui il destinatario dell'informazione può essere anche mittente, sono già notevoli. L'utente non si rivolge più soltanto al classico contenitore domestico, dal quale abitualmente doveva ricevere indifferentemente ciò che esso trasmetteva, adeguando se stesso al ritmo dell'apparecchio, ad esempio ai palinsesti propri di ciascuna emittente televisiva. Il consumatore di Internet non dovrà far altro che cercare ciò di cui ha bisogno, e sintonizzarsi sul "fornitore" ideale. La Rete sarà così esplorata e selezionata -­‐ navigata -­‐ da ogni soggetto recettore. Concludendo, tale processo ci consente oggi di partecipare ad un allargamento orizzontale dell'informazione, ad una sorta di globalizzazione