lezione 8 - la ricostruzione dell`area operativa

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lezione 8 - la ricostruzione dell`area operativa
A.A. 2010/2011
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A
ANALISI DI BILANCIO I
F. Giunta
LEZIONE 8 - LA RICOSTRUZIONE DELL’AREA
OPERATIVA
Dispensa
Lezione 8 - LA RICOSTRUZIONE DELL’AREA OPERATIVA
2010/2011
1. NEL CUORE DEL CONTO ECONOMICO: LA RICLASSIFICAZIONE DELL’AREA
OPERATIVA
L’area operativa rappresenta il cuore di tutta la gestione ordinaria. Diventa, allora,
essenziale approfondirne l’esame, per arrivare a comprendere come il reddito
operativo si venga formando. Ciò comporta di non limitarsi ad una generica
contrapposizione fra ricavi operativi e costi operativi, onde misurare la consistenza di
quel reddito, ma è invece necessario riorganizzare, secondo precise logiche
conoscitive, i vari componenti reddituali per evidenziare i fattori che influiscono
sull’ammontare del risultato operativo e l’evoluzione nel tempo di tali fattori.
La riclassificazione dei componenti di reddito operativo assume particolare significato
per quanto riguarda i costi. Come noto, infatti, i margini di manovra che l’impresa ha
sui ricavi si scontrano con le condizioni competitive del mercato. E’, dunque, sui costi,
ossia sui valori dei fattori produttivi negoziati e impiegati nella produzione economica,
che occorre agire per accrescere e stabilizzare il margine operativo netto (MON), ossia
il reddito della gestione operativa.
2. I MODELLI DI RICLASSIFICAZIONE DELLA GESTIONE OPERATIVA
Muovendosi nella prospettiva indicata, si possono individuare tre logiche secondo le
quali riclassificare i costi della gestione operativa.
Le logiche sono le seguenti:
a) per natura;
b) per destinazione;
c) per grado di variabilità.
Nella riclassificazione per “natura”, i costi vengono distinti e raggruppati guardando
alla natura del fattore produttivo la cui acquisizione e il cui impiego ha determinato il
sostenimento del costo. Quindi, costi per il personale, per le materie prime, ecc.
Nella riclassificazione per “destinazione”, si guarda agli ambiti funzionali ai quali viene
destinato il fattore produttivo, ambiti la cui attività determina l’impiego di tale fattore
e, quindi, il sostenimento del costo.
Esempio. La voce costo del personale, riferita ai costi relativi a tutta la forza lavoro
impiegata dall’impresa, esprime un costo classificato per natura, ossia considerando
esclusivamente il tipo di fattore produttivo al quale il costo è riconducibile. Ora, il
costo del personale potrebbe essere espresso guardando alle diverse attività funzionali
in relazione alle quali il personale presta la sua opera. Così facendo, non avremmo più
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un’unica voce costo del personale. Questo costo, invece, viene “esploso”,
suddividendolo fra gli ambiti funzionali ai quali è destinato. Avremmo, allora: costi del
personale impiegato nella “produzione”; costi del personale impiegato nelle attività di
“marketing”, ecc. Ovviamente, quanto detto per il personale vale per tutte le altre voci
di costo. Peraltro, la classificazione per destinazione non prescinde dalla “natura” dei
costi. Infatti, all’interno degli aggregati funzionali, i costi restano necessariamente
espressi per natura.
Nella riclassificazione per grado di variabilità, si considera il comportamento dei fattori
produttivi e dei loro costi al variare del volume di produzione. Si tratta, in sostanza,
della ben nota distinzione fra costi fissi e costi variabili.
Alle tre logiche corrispondo altrettanti modelli di riclassificazione dei componenti di
reddito dell’area operativa.1 I tre modelli di riclassificazione sono i seguenti:
modello a valore della produzione e valore aggiunto;
modello a costo (industriale) del venduto;
modello a margine di contribuzione.
Ognuno dei tre modelli è una «strada» che conduce al MON. Si veda, in proposito la
tavola 1.
Fra i tre diversi modelli, concentreremo l’attenzione sul primo. E’ questo, infatti,
l’unico modello che può essere agevolmente costruito da un analista esterno. La
classificazione dei costi per natura è, infatti, agevole da compiersi utilizzando i dati del
bilancio ufficiale dal momento che su tale riclassificazione si basa lo schema di Conto
Economico imposto dal legislatore. Non a caso, dunque, tutte le analisi di bilancio
condotte da centri ed istituti specializzati, come ad esempio Centrale dei Bilanci e
Mediobanca, adottano questo modello di riclassificazione.
1
) Dell’area operativa, si badi bene, e non del Conto Economico. La struttura generale del CE, infatti, è
altro problema. Essa presuppone di risolvere complesse questioni di delimitazione dell’ambito delle varie
aree di gestione: cosa è ordinario e cosa non lo è; cosa è operativo e cosa è finanziario, ecc. Questo
lavoro è già stato fatto nei paragrafi precedenti. Quello che ora si cerca di fare è ricomporre
opportunamente i contenuti dell’area operativa. Insomma si tratta di esporre, secondo un certo ordine, i
valori operativi per approfondire la conoscenza di questa dimensione della gestione. D’ora in poi, quindi,
quando parleremo di costi e ricavi faremo sempre riferimento a costi e ricavi già preventivamente
classificati come operativi.
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Tavola 1 – I criteri di ricostruzione dell’area operativa
Occorre, tuttavia, ricordare che le imprese che adottano i principi contabili
internazionali possono presentare il loro Conto Economico anche classificando i costi
per destinazione. In questo caso, il modello di riclassificazione più agevolmente
applicabile è quello a costo del venduto.
3. IL MODELLO A VALORE DELLA PRODUZIONE E VALORE AGGIUNTO
La chiave di lettura dei costi, propria di questo modello, è quella per natura ossia,
come già precisato, i costi vengono distinti e raggruppati guardando alla natura del
fattore produttivo la cui acquisizione ed il cui impiego ha determinato il sostenimento
del costo. In questo senso, e semplificando un po’, la struttura del modello individua
tre fondamentali fattori impiegati dall’impresa per realizzare la propria produzione:
materie prime e servizi;
lavoro (capitale umano);
impianti e attrezzature (capitale fisico).
Materie prime e servizi sono considerati fattori produttivi esterni; personale ed
impianti fattori interni rispetto all’impresa. La distinzione è basata sul seguente
ragionamento. Al momento di iniziare i cicli di produzione, l’impresa ha già predisposto
le strutture tecniche, rappresentate dagli impianti, e le strutture organizzative,
rappresentate dal personale. Personale e impianti, pertanto, sono considerati fattori
preesistenti rispetto alla produzione e, quindi, fattori interni, ossia già esistenti
all’interno della compagine aziendale. Per attivare i cicli di produzione, però, l’impresa
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deve costantemente acquisire dall’esterno gli altri fattori da combinare con il lavoro e
gli impianti.
La distinzione relativa ai fattori produttivi si estende ai costi, i quali vengono suddivisi
fra (cfr. tavola 2):
costi esterni, rappresentati dai costi delle materie e simili e dai costi delle
prestazioni di servizi;
costi interni, espressi dal costo del lavoro, considerato in tutte le sue
componenti (stipendi, oneri sociali, accantonamento TFR) e dagli ammortamenti,
nonché dalle varie forme di accantonamento a fondi spese e rischi.
Tavola 2 – I fattori della produzione e i risultati ottenuti
Sulla base di questa distinzione viene costruita una sequenza scalare di risultati
operativi come evidenziato nella tavola 3.
Tavola 3 – I risultati reddituali intermedi dell’are operativa
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L’esame della tavola evidenzia tre risultati parziali di grande rilievo, due dei quali
danno il nome al modello:
valore della produzione;
valore aggiunto;
margine operativo lordo.
Esaminiamo più da vicino il significato di queste grandezze.
3.1. Il valore della produzione
La riclassificazione dei valori attribuiti all’area operativa prende le mosse dalla
determinazione del valore della produzione dell’esercizio.
Il valore della produzione intende misurare il risultato dello sforzo produttivo
complessivamente compiuto dall’impresa nel periodo amministrativo. Tale valore,
detto anche prodotto dell’esercizio o produzione ottenuta, può essere sostanzialmente
diverso da quello del fatturato, il quale esprime il valore della sola produzione
venduta nell’esercizio. Infatti, lo sforzo produttivo realizzato, e il conseguente
consumo di fattori esterni e interni, può essere tradotto nella realizzazione di:
scorte di prodotti finiti e semilavorati;
costruzioni in economia.
In sintesi, il valore della produzione deriva dalla seguente somma algebrica:
Ricavi delle vendite «netti»
+
variazione delle scorte di prodotti finiti e semilavorati
+
incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
=
valore della produzione (prodotto dell’esercizio)
Chiaramente, non fanno parte del valore della produzione ottenuta le “scorte di
materie prime e merci”. Si tratta, infatti, di fattori produttivi che non hanno subito un
processo trasformativo da parte dell’impresa. Tali scorte, quindi, si configurano come
risorse e non come risultati del processo produttivo.
Fatturato e prodotto dell’esercizio sono grandezze sostanzialmente diverse ai fini delle
analisi sulla gestione. L’esame del fatturato presuppone una valutazione dell’efficacia
delle scelte aziendali nei confronti del mercato; l’attenzione sul prodotto dell’esercizio
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richiama, invece, a una valutazione delle condizioni di efficienza o di produttività della
gestione. Infatti, la misura della produttività presuppone la costruzione di rapporti del
tipo input/output, ossia risorse impiegate/risultati ottenuti. In questa prospettiva, la
costruzione di indicatori di produttività operativa non può assumere, come valore di
output, il fatturato, cioè la produzione venduta. Si pensi, ad esempio, ad un possibile
rapporto “costo del lavoro/fatturato”. Ogni volta che la produzione venduta diverge
dalla produzione ottenuta, magari in seguito a precise politiche di incremento delle
scorte (quindi, produzione ottenuta maggiore della produzione venduta), il significato
dell’indicatore risulterebbe distorto, segnalando livelli di produttività del lavoro
inferiori a quelli reali (poiché il fatturato è minore del prodotto di esercizio).
Queste considerazioni aiutano a comprendere quanto sia importante una corretta
determinazione del valore della produzione. Spesso, però, le modalità adottate per
calcolare tale valore si prestano a numerosi rilievi critici.
Anzitutto, le capitalizzazioni espresse dagli “incrementi di immobilizzazioni per lavori
interni”. Se queste comprendono quelli che vengono comunemente definiti oneri
pluriennali, al valore di una produzione effettiva si aggiunge un mero storno contabile
privo di contenuto produttivo in senso proprio. Valga l’esempio della capitalizzazione
di “spese di impianto e ampliamento”. Tipicamente si tratta di spese relative a parcelle
di professionisti che non rappresentano un bel nulla in termini produttivi. Anche per
questo, come abbiamo visto, può esseere opportuno spostare le capitalizzazioni di
oneri pluriennali fuori dall’area operativa, nell’ambito accessorio.2
Tuttavia, problemi possono nascere anche dalle capitalizzazioni riguardanti beni
materiali (esempio impianti). Se il valore capitalizzato comprende una quota parte di
oneri relativi ai finanziamenti dedicati ad alimentare il processo di produzione interna,
si ripropongono le critiche ora sollevate.
Infine, resta il fatto che il valore della produzione risulta dalla somma di valori non
omogenei: valori che esprimono prezzi-ricavo (i ricavi delle vendite) sono sommati a
valori che rappresentano prezzi-costo (il valore delle rimanenze e delle
capitalizzazioni); valori sostanzialmente certi (i ricavi delle vendite) si mescolano con
valori stimati (le rimanenze). Questa disomogeneità è tanto più forte quanto maggiore
è la consistenza delle rimanenze, nonché l’entità della loro variazione nel corso
dell’esercizio, e quella delle costruzioni in economia.
2
) Si ritrova, qui, un’ulteriore giustificazione all’inserimento dei valori riconducibili all’immateriale nell’area
accessorio-residuale del Conto Economico riclassificato. Si veda, in proposito, quanto indicato nel
materiale di supporto alla lezione n.7.
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3.2. Il valore aggiunto
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La distinzione fra costi interni e costi esterni è alla base del concetto di valore aggiunto
(VA), concetto che di fatto ispira tutto il modello. Il valore aggiunto è uguale a:
valore della produzione
costi esterni sostenuti
(per ottenere tale produzione)
Per rendere l’idea, pensando ad un panificio, il valore aggiunto è la differenza fra il
valore del pane prodotto e il valore della farina acquistata dal mulino, ossia da una
terza economia esterna al panificio.
Il VA è un indicatore di fondamentale importanza. Esso esprime la capacità
dell’impresa di creare, grazie ai propri processi trasformativi, nuova e maggiore
ricchezza rispetto ai fattori produttivi acquistati da terzi e consumati. In un certo senso,
esprime la ragion d’essere dell’impresa all’interno di una determinata “catena del
valore” che collega le risorse scarse con i molti bisogni da soddisfare. Tornando al
panificio, se il mercato riconoscesse al pane un valore inferiore a quello della farina
consumata per produrlo, la produzione realizzata dal panificio non avrebbe, sul piano
economico, ragione di esistere! L’impresa, infatti, non svolgerebbe la sua precipua
funzione di trasformatore di risorse economiche.
Accanto a questa lettura esterna del VA, ve ne è un’altra che guarda ai diversi soggetti
che in varia misura concorrono a realizzare la produzione dell’impresa. In questo
senso, il valore aggiunto può essere visto come una sorta di torta con la quale sfamare
i “commensali” che siedono al tavolo dell’impresa, ossia una massa di ricchezza lorda
con cui remunerare tutti i diversi soggetti/fattori che hanno partecipato alla
produzione. Si veda la tavola 4.
In sintesi, i «commensali» sono rappresentati da:
lavoro (retribuzioni);
consumo delle strutture tecniche (ammortamenti);
conferenti capitale di credito (oneri finanziari);
fisco (imposte);
conferenti il capitale di rischio (utili distribuiti)
l’impresa stessa (ossia la parte di VA che non viene distribuita ai soci, ma viene
accantonata, attraverso gli utili, a riserva).
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Tavola 4 - La distribuzione del valore aggiunto
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Se la torta è scarsa, qualcuno resta a bocca asciutta! Ed è proprio questo aspetto,
quello della distribuzione del VA, più che la sua entità, ad assumere rilievo. Ciò che
interessa conoscere, volendo giudicare le prestazioni di un’impresa, è come, nel corso
del tempo, la torta viene ripartita fra i diversi fattori della produzione onde verificare
se si manifestino fenomeni di sotto- o sovra-remunerazione di alcuni di essi. Per
questo, il Conto Economico riclassificati, mettendo in luce il valore aggiunto, viene
spesso integrato da un prospetto, che evidenzia la destinazione di questa grandezza
chiave, come quello di seguito riportato.3
20X1
%
20X0
%
Personale
Struttura tecnica
Finanziatori
(banche e
obbligazionisti)
Stato
Soci
Impresa (riserve)
3
) Al fine di allargare la valutazione economica all’intera gestione aziendale, accanto al VA «operativo»,
viene sovente calcolato anche il Valore Aggiunto «complessivo».
Tale valore, guardando l’impostazione adottata dalla Centrale dei Bilanci, è così determinato:
VA operativo
+ saldo P/O gestioni accessorie
+ proventi finanziari (al netto delle perdite finanziarie)
+ saldo P/O straordinari.
Questa figura di VA misura la nuova ricchezza che globalmente l’impresa ha generato nell’esercizio
dell’attività ordinaria e in seguito al verificarsi anche di eventi straordinari di gestione.
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Totale
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Centrale, nel calcolo del VA, è la determinazione dei costi esterni. Questi, come
accennato, sono tipicamente rappresentati da costi per materie prime, semilavorati
acquistati da terzi, merci, materiali di consumo.
I costi delle materie prime e di fattori produttivi similari devono essere assunti, nel
calcolo, al netto della variazione, fra l’inizio e la fine dell’esercizio, del valore assegnato
alle rispettive scorte. In sostanza, occorre determinare l’importo di quelli che
comunemente vengono definiti i consumi. Il costo dei consumi si ottiene, dunque,
dalla seguente somma algebrica:
costi di acquisto di materie prime e simili
+
diminuzioni del valore delle scorte di materie prime e simili
aumenti del valore delle scorte di materie prime e simili
Per ottenere il totale dei costi esterni, al costo dei consumi vanno aggiunti i costi per
servizi. Per servizi intendiamo ogni prestazione resa da terzi all’impresa. Volendo
ordinare, secondo un criterio funzionale, le possibili tipologie di costi raccolte sotto
questa voce, avremo costi per:
servizi legati alla funzione di approvvigionamento (trasporto, assicurazione);
servizi legati alla funzione di produzione (lavorazioni presso terzi, forza motrice,
manutenzioni esterne);
servizi legati alla funzione commerciale (pubblicità, provvigioni su vendite);
servizi legati alla funzione amministrativa (consulenze legali e amministrative,
compensi agli organi sociali, posta e telecomunicazioni, imposte indirette come
bollo, registro, etc.).
4. Dal valore aggiunto al MON: il MOL
La torta, ossia il valore aggiunto, viene distribuita fra i commensali. Sul piano dei valori
contabili, dunque, si tratta di sottrarre dal valore aggiunto dapprima il costo del
lavoro, poi gli ammortamenti (espressione del consumo delle strutture tecniche) e gli
«altri accantonamenti operativi».
In sostanza, la sequenza propria del modello che stiamo esaminando è questa:
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Valore Aggiunto
costo del lavoro
=
Margine Operativo Lordo
ammortamenti, svalutazioni
e altri accantonamenti operativi
=
Margine Operativo Netto
Dalla sequenza presentata emerge un ulteriore risultato reddituale intermedio fra il VA
ed il MON: il Margine Operativo Lordo (MOL).
Il significato del MOL, comunemente indicato nel linguaggio finanziario internazionale
come EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization), è
notevole:
sul piano economico;
sul piano finanziario.
In termini economici, il MOL esprime il valore di reddito operativo al lordo di
ammortamenti e accantonamenti; un reddito, quindi, che non risente della
discrezionalità con la quale vengono quantificati questi valori contabili. Esso, pertanto,
può essere miglior indicatore, rispetto al MON, dell’economicità operativa dell’impresa
sia nelle comparazioni nello spazio che nel tempo. Ciò in quanto il MOL non è
influenzato da politiche di bilancio realizzate attraverso la manovra degli
ammortamenti e degli accantonamenti, politiche che cambiano nella stessa impresa
nel corso degli anni e vengono impostate in modo diverso in imprese diverse.
Da un punto di vista finanziario, invece, il MOL è la misura del flusso di cassa
potenziale generato dalla gestione operativa corrente, ossia dal continuo alternarsi
delle operazioni di acquisto dei fattori di consumo, di trasformazione di tali fattori in
prodotti (beni e servizi), di vendita dei prodotti ottenuti. Questo aspetto sarà
approfondito nel materiale di supporto alla lezione 10.
Come già sottolineato, il MOL (EBITDA) esprime un reddito di “qualità” in quanto non
risente della discrezionalità degli ammortamenti. Tuttavia, gli ammortamenti non sono
tutti uguali! È opportuno ricordare, infatti, come sia il codice civile sia i principi
contabili lascino ampi spazi di discrezionalità nell’individuazione dei periodi di
ammortamento delle immobilizzazioni immateriali, soprattutto per quanto riguarda gli
oneri pluriennali.
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A tale proposito, nei paesi anglosassoni si utilizzano due termini diversi per identificare
gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali (depreciation) rispetto a quelli delle
immobilizzazioni immateriali (amortization). Forti di questa distinzione molti analisti,
per evidenziare anche a livello di margini reddituali la differenza fra le due fattispecie
di ammortamento, affiancano ai già noti EBIT ed EBITDA un altro margine: EBITA
(Earnings Before Interest, Tax and Amortization). A ben vedere, confinando in una
eventuale gestione accessoria i valori reddituali relativi alle attività immateriali, il MOL
corrisponde di fatto all’EBITA.
É opportuno evidenziare, inoltre, come spesso, quando si vogliono analizzare le
prestazioni di imprese che fanno un massiccio uso dell’operazione di leasing, come ad
esempio le compagnie aeree, emerge la necessità di trovare un margine reddituale che
resti costante indipendentemente dalle politiche di finanziamento della struttura
operativa (acquisto con leasing, operativo e/o finanziario, oppure finanziamento).
Questo margine viene indicato cone EBITDAR (Earnings Before Interest, Taxes,
Depreciation, Amortization and Rent). Come si vede, EBITDAR è molto simile
all’EBITDA; tuttavia, se ne differenzia per il fatto che è al lordo non solo degli
ammortamenti, ma anche dei canoni di locazione.
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