La sentenza dei blue jeans
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La sentenza dei blue jeans
LA SENTENZA DEI BLUE JEANS di Renato Voltolin Prefazione La funzione della Giurisprudenza è così essenziale e integrativa dell’Ordinamento giuridico, che non includerla nell’area di osservazione e di analisi dello psicologo giuridico sarebbe a dir poco irrealistico. E’ per questo motivo che abbiamo ritenuto opportuno “inserire” tra i nostri Quaderni, solitamente dedicati ad approfondimenti tematici e ad aggiornamenti concettuali, dei numeri interamente riservati al commento della attività giurisprudenziale; ciò allo scopo di mostrare come una adeguata informazione psicologica possa concorrere, in senso perequativo, alla formulazione di quelle sentenze che costituiscono spesso anche una sorta di interpretazione “storica”, oltre che autentica, della norma giuridica. In particolare ci sembrano degne di particolare attenzione quelle sentenze che, provenendo dalla Corte di Cassazione, costituiscono,nella sostanza, veri e propri dettati giuridici che hanno il compito di colmare quelle inevitabili incertezze interpretative che costituiscono la logica conseguenza della natura sintetica ed a volte criptica della norma. In questi ultimi tempi poi, un apporto di significatività psicologica ai fatti di rilevanza giuridica è quanto mai opportuno, dato che la Suprema Corte, in materia di violenza sessuale, come altrove, nell’affermare il principio di legittimità, in fatto tende a ridefinire criteri di valore ed a fornire opinioni su dati di fatto e circostanze che finiscono per sollecitare, tra le righe, reazioni sociali, non scevre a loro volta da polemiche emergenti da una evoluzione del comune sentire. Del resto credo che tali “sconfinamenti” ci siano sempre stati, solo che oggi assumono maggiore rilievo e sollevano critiche, nella misura in cui il cittadino pretende giustificazioni e ragioni scientificamente fondate, laddove un tempo era invece disposto alla passiva accettazione, in quanto attribuiva all’uomo di Legge, pur non specificamente esperto in materia, ampio e incondizionato credito, in nome di quella fiducia nella autorevolezza delle Istituizioni oggi indiscutibilmente in crisi. Se tuttavia è così inevitabile che l’attività giurisprudenziale venga “contaminata”, da escursioni nel terreno psicologico, è opportuno che ciò, pur non essendo auspicabile, avvenga almeno utilizzando conoscenze e parametri valutativi psicologici il più possibile attendibili, in modo da evitare che una grossolana disinformazione vada a scapito della qualità dell’intervento della Corte di Cassazione, le cui emanazioni sono appunto così importanti per l’evoluzione e l’aggiornamento dei criteri interpretativi della norma. Oltretutto, nella persistente confusione concettuale ed etica che caratterizza l’attuale atteggiamento nei confronti della stessa funzione legislativa, la funzione della Giurisprudenza è così insostituibile che sarebbe un peccato che venisse esposta all’idea di non essere più al passo con lo spirito dei tempi. Effettuata questa “chiosa” introduttiva, mi occuperò, in questo e in altri commenti giurisprudenziali, di alcune sentenze che, per lo scalpore che hanno destato, per le polemiche che ne sono seguite, ma soprattutto per la inusualità delle argomentazioni utilizzate, sono da considerarsi esemplificative dello stato di cose appena descritto. Inizierò riportando il testo integrale della sentenza oggetto di questo mio lavoro, facendo seguire un articolato commento psicologico. Violenza carnale - Valutazione delle prove - vizio di motivazione fattispecie (Cassazione - Sezione Terza Penale - Sent. n.1636/99 - Presidente G.S. Tridico - Relatore A. Rizzo) Lo svolgimento del processo, la sentenza, le motivazioni. Svolgimento del processo In data 12.7.1992 P. R., allora diciottenne, denunciava alla Questura di Potenza che il giorno precedente, verso le ore 12.30, era stata vittima di una violenza carnale consumata in suo danno da C.C., suo istruttore di guida. Costui, come aveva fatto altre volte, l’aveva prelevata presso la sua abitazione, per effettuare la lezione di guida pratica. Senonché con la scusa di dover prelevare altra ragazza pure interessata alla lezione di guida, l’aveva condotta fuori dal centro abitato e, fermata l’autovettura in una stradella interpoderale, l’aveva gettata a terra e, dopo averle sfilato da una gamba i jeans che indossava, l’aveva violentata. Consumato l’amplesso, l’aveva condotta a casa imponendole con minacce di non rivelare ad altri l’accaduto. I genitori, vedendola turbata, le avevano chiesto spiegazioni ma aveva preferito non raccontare quanto le era accaduto. Lo stesso giorno, dopo il suo rientro a casa dalla lezione di teoria presso l’autoscuola, aveva informato i genitori della violenza subita. Il C., sottoposto a fermo lo stesso giorno della denuncia, dava una diversa versione dei fatti. Ammetteva di avere avuto il rapporto sessuale con la P., nelle circostanze di tempo e di luogo da questa riferite, ma precisava che la ragazza era stata consenziente. Iniziatosi procedimento penale a carico del C. per i reati di violenza carnale, violenza privata, ratto a fine di libidine, lesioni personali, atti osceni in luogo pubblico e violenza privata, il Tribunale di Potenza, con sentenza del 29.2.1996, condannava l’imputato per il reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre lo proscioglieva dai rimanenti reati. A seguito di appello del P.M. e dell’imputato, la Corte di Appello di Potenza, con sentenza del 19.3.1998, dichiarava il C. responsabile di tutti i reati a lui contestati e lo condannava alla pena di anni 2 e mesi 10 di reclusione. Contro tale sentenza il C. ha proposto ricorso per Cassazione ed ha dedotto il vizio di motivazione sostenendo che la Corte di Appello aveva affermato la di lui responsabilità con argomentazioni non coerenti con le risultanze processuali. Motivi della decisione Ritiene la Corte che la sentenza impugnata merita l’annullamento perché carente di adeguato e convincente apparato argomentativo. E’ certo che a carico dell’imputato sussistono le reiterate accuse formulate dalla P. Ma considerate le proteste di innocenza dell’imputato, il quale ha sostenuto che la ragazza era stata consenziente al rapporto sessuale, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere ad una rigorosa analisi in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla P., mentre invece ha affermato la colpevolezza dell’imputato valorizzando circostanze di fatto che ben si conciliano con la versione dei fatti rappresentata dal C. e minimizzando o omettendo di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale. La sentenza afferma che le dichiarazioni rese dalla P. sono da ritenere attendibili poiché costei non aveva motivo alcuno per muovere contro il C. una accusa calunniosa. Una tale considerazione non può condividersi solo che si consideri che la ragazza potrebbe aver accusato falsamente il C. di averla violentata, per giustificare con i genitori l’amplesso carnale avuto con una persona molto più grande di lei per età e per di più sposata, amplesso che non si sentiva di tener celato, perchè preoccupata delle possibili conseguenze del rapporto carnale. Peraltro una tale ipotesi non appare inverosimile alla luce del comportamento tenuto dalla P. dopo i fatti. Costei raccontò ai genitori quanto le era accaduto non già appena tornò a casa, sebbene i predetti le chiedessero cosa le era successo in quanto era visibilmente turbata, ma soltanto la sera, dopo aver assistito presso l’autoscuola alla lezione di guida. La Corte di Appello giustifica un tale ritardo sostenendo che la P. presumibilmente provava vergogna o si sentiva in colpa. Ma una tale argomentazione non è convincente. Non si vede infatti quale vergogna o senso di colpa la P. potesse avvertire, se effettivamente vittima di una violenza carnale, data la gravità di un tale fatto, peraltro commesso dal suo istruttore di guida, sulla cui autovettura si era trovata per effettuare la programmata esercitazione di guida. Parimenti censurabile è la sentenza allorchè afferma che la P. fu realmente vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante l’amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte, mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava. Un tale rilievo non può condividersi perchè sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno (il fatto avvenne verso le ore 12-12.30), in una zona che seppur isolata non era preclusa al transito di persone, la P. si denudasse del tutto, nè benché era consenziente all’amplesso. Deve pur rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poichè trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa. Anche su altri punti la sentenza risulta carente di convincente motivazione. Sul corpo della P. e del C. non sono stati riscontrati segni di una collutazione tra i due o comunque di una vigorosa resistenza della ragazza al suo aggressore. La Corte di Appello al riguardo si limita ad affermare che per la sussistenza del reato di violenza carnale non è necessario che l’autore del fatto sottoponga la persona offesa ad atti di violenza e che comunque, nel caso in esame, la P. non aveva opposto resistenza temendo di subire gravi offese alla sua incolumità fisica. Ma al riguardo è da osservare che è istintivo soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica. La sentenza impugnata, infine, non chiarisce come si concilia con l’asserita violenza carnale la circostanza che la P. non tentò di fuggire appena il C. fermò l’autovettura e manifestò i suoi propositi, così come non dà una plausibile spiegazione del comportamento della ragazza che, dopo la consumazione del rapporto carnale, si mise alla guida dell’autovettura. In sentenza viene precisato che la P. aveva interesse a tornare subito a casa Ma la Corte di Appello ha omesso di considerare che è assai singolare che una ragazza dopo aver subito una violenza carnale, si trovi nelle condizioni d’animo che le consentano di porsi alla guida di una autovettura con accanto il suo stupratore, soprattutto se, come nel caso in esame, essendo inesperta di guida, deve pilotare l’autovettura seguendo i consigli e le istruzioni di chi prima l’ha violentata. Ne consegue che la sentenza impugnata risulta affetta da motivazione carente ed illogica e pertanto merita l’annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Napoli. Per questi motivi annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli. Commenti e considerazioni di Psicologia Giuridica Leggendo questa sentenza non si può evitare di provare, oltre che una certa perplessità, anche un senso di scoraggiamento, in quanto risulta evidente quale lontananza vi sia, in termini di concezione della realtà psicologica e della struttura mentale degli individui, tra psicologia e giustizia. Più che di fronte ad argomentazioni giuridiche si ha l’impressione di trovarsi di fronte, sia nel caso della Corte di Appello di Napoli, sia in quello della Corte di Cassazione, ad una “diatriba” tra psicologi, con la differenza che la polemica non è fondata su alcuna indagine psicologica delle parti ed inoltre vengono espresse idee e considerazioni che non hanno alcun retroterra o fondamento scientifici. Cominciamo con l’osservare che la Corte di Cassazione, contesta innanzitutto l’affermazione della Corte di Appello laddove questa afferma che: le dichiarazioni della P. sono da ritenere attendibili poichè costei non aveva motivo alcuno per muovere contro il C. una accusa calunniosa. La P., sostiene invece la Corte di Cassazione, avrebbe accusato il C., per giustificare con i genitori l’amplesso carnale avuto con una persona molto più grande di lei per età e per di più sposata... e preoccupata delle possibili conseguenze del rapporto carnale. Dobbiamo dire che entrambe le affermazioni, quella della Corte di Appello e quella della Corte di Cassazione possono corrispondere a verità o, al contrario, rivelarsi delle mere illazioni, per cui non sono utilizzabili nè per appoggiare nè per confutare alcuna argomentazione. Tutto dipende infatti dalla personalità dei soggetti in causa. Se nel caso della P. si trattasse di un soggetto “maturo”, può aver ragione la Corte di Appello: l’accusa non sarebbe stata mossa se non fosse stata fondata sui fatti, quindi la P. è stata davvero violentata. Se invece nella P. fossero in atto problematiche psicologiche, l’accusa di violenza potrebbe essere falsa, ma non certo per le ragioni addotte dalla Corte di Cassazione. La P. avrebbe potuto infatti costruire una “fantasia” di violenza sessuale o anche interpretare in maniera distorta il comportamento di C. (che, magari, dal canto suo, non avrebbe mai preteso un rapporto sessuale da P. se ella non fosse stata consenziente), per motivi tutt’affatto diversi da quello ipotizzato dalla Corte (che deve essere anzi considerato il meno probabile). Le motivazioni alla base dell’atteggiamento e del comportamento di P., anche qualora si fosse trattato di un soggetto gravemente nevrotico, possono essere ipotizzate in maniera alquanto diversa a seconda della struttura di personalità della interessata. Prendiamo in considerazioni alcune delle possibili ipotesi: Prima ipotesi: quella di P. è una personalità con connotazioni isteriche: in tal caso, la “parte” infantile di P., in rivalità con la madre, avrebbe potuto, attraverso l’accusa di stupro, voler dimostrare a se stessa di essere precocemente “adulta” e di attrarre irresistibilmente gli uomini; per cui la confessione della ragazza ai genitori avrebbe natura esibizionistica (vedi il famoso film di Bunuel: Adolescenza torbida, o il film di Ferreri La seduzione.) Seconda ipotesi: P. nutre una intensa ostilità inconscia nei confronti del padre e tende alla svalutarne l’immagine: l’idea sottostante l’accusa di stupro è del tipo: gli uomini, in particolare i padri (simbolizzati dal fatto che C. è istruttore di guida), approfittano della loro posizione “genitoriale” per sedurre le loro figlie o, il che è equivalente, della loro posizione di insegnanti per sedurre e violentare le proprie allieve ecc. Terza ipotesi: P. è dominata da una intensa ostilità nei confronti della madre e tende a svalutarne il partner: la fantasia inconscia soggiacente l’accusa di violenza è del tipo: “il papà, quando è fuori casa, tradisce la mamma (soprattutto con donne che hanno l’età della figlia) Quarta ipotesi: P. soffre di una intensa rivalità fraterna: in tal caso l’istruttore di guida che doveva andare a prendere un’altra allieva viene sedotto per monopolizzarne le attenzioni (perdendo contatto, come accade in questi casi, con gli aspetti realistici della situazione e quindi con le possibili conseguenze). Altre ancora potrebbero essere le ragioni e motivazioni sottostanti al comportamento di P. che potrebbero averla spinta a tentare di “realizzare” la sua fantasia incestuosa; ma tutte, occorre dirlo, ipotizzabili solo a seguito di un approfondito esame di personalità. E’ il caso anche di rilevare che la tendenza della ragazza ad attribuire al rapporto con C. una connotazione edipica, qualora fosse dimostrata (il che non è avvenuto) nascerebbe comunque da uno stato di sofferenza psichica e non scagionerebbe C. dalle sue responsabilità; tanto più che tale assunzione di responsabilità deve essere decisamente pretesa, senza attenuanti (salvo il caso di dimostrata psicopatologia), in tutte le situazioni in cui vi è un soggetto che assume un ruolo autoritario-autorevole nei confronti di un sottoposto (ruolo di insegnante, di educatore, di superiore gerarchico ecc.), per cui il C. avrebbe comunque quella responsabilità “aggravata”, che il codice attribuisce al reo quando un reato sia stato commesso da un genitore, da un educatore, da un tutore o da qualsiasi altro si trovi in una posizione di responsabilità rispetto ad un suo sottoposto. Non dimentichiamo infine, che la situazione potrebbe essere stata caratterizzata dal succedersi di vissuti esperienziali diversi tra loro intempi siccessivi, nel senso che P. avrebbe potuto mettere in essere un comportamento seduttivo ed essersi poi ritratta all’ultimo momento. Per quanto riguarda le argomentazioni della Corte di Cassazione riguardo al tempo che P. ha lasciato trascorrere dal momento del fatto a quello della confessione, anch’esse non hanno nessun fondamento psicologico: tali e tanti sono i motivi del ritardo di una confessione che ci perderemmo nell’enumerarli. Dal momento dell’incontro con C. a quello della confessione, la P. può aver subìto l’influenza di un inimmaginabile numero di consiglieri “esterni” (amiche, coetanei o altri) o “interni” (personaggi del mondo interiore del soggetto; in altre parole “la voce della coscienza”). In riferimento poi al senso di vergogna ipotizzato come correlato al rapporto sessuale con C., sia la Corte di Appello che la Corte di Cassazione, pretendono di dedurne una ipotesi di comportamento reattivo univoco e per di più “tipico”. Nulla di più errato, in quanto il sentimento di vergogna correlato ad un comportamento sessuale (e non solo) non può essere interpretato come diretta conseguenza dell’accadimento reale, anche se ciò sembra logicamente plausibile, ma dipende dalla valenza effettiva ed emozionale che esso ha per il soggetto, dal significato simbolico che veicola, dalla natura dei pregressi rapporti che il soggetto ha con i propri genitori “interiorizzati” (i così detti “oggetti” del mondo interno). Vale a dire che lo stesso fatto può scatenare sentimenti e reazioni diverse e la stessa emozione può dar luogo a comportamenti completamente diversi. Alla luce di quanto detto finora, la stessa esistenza in P. di un sentimento di vergogna costituisce una mera illazione che, per avere una qualche attendibilità, dovrebbe essere coerente con la struttura personologica della interessata. E C.? Di che personaggio si tratta? Di un perverso? Di un nevrotico? O semplicemente di una personalità debole di fronte all’opera seduttiva di una giovane che tende a provare a se stessa che gli uomini sono tutti uguali e sono interessati solo alla sessualità ? Ben sappiamo che le situazioni nella quali un individuo si avvale dell’arma del ricatto (la minaccia di raccontare a tutti quanto avvenuto sostenendo una versione travisata i fatti) per realizzare i suoi scopi o approfitta nello stesso senso delle circostanze, è spesso portatore di gravi disturbi di personalità Se fosse stata decisa una consulenza tecnica psicologica ora avremmo ben altri elementi di giudizio In poche parole, desidero sottolineare che le deduzioni psicologiche quando si vogliono utilizzare come elementi probatori, o anche come elementi meramente “indiziari”, devono almeno poter contare su una seria indagine peritale sulla personalità dei soggetti in causa. Si potrebbe obiettare che non è ammessa la perizia che abbia come oggetto l’esame del carattere ( art.220 c.p.) ma qui si tratta di una indagine che riguarda un eventuale stato psicopatologico del reo (stupratore); o comunque la perizia avrebbe potuto essere richiesta su di sè, dalla stessa vittima (una sorta di macchina della verità fondata su correlazioni tra comportamento e personalità, piuttosto che tra verità e “conduzione galvanica”), eludendo quindi il divieto di cui all’art.220. Anche la mancanza di lesioni o la difficoltà nel denudarsi non può deporre nè a favore nè a sfavore di una ipotesi di consensualità; e di questo mi accingo ora a trattare. Proseguendo nella disamina delle motivazioni della sentenza, arriviamo infatti laddove la Corte di Cassazione afferma “ che è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro......nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica” Una simile affermazione è quanto di più psicologicamente errato si possa immaginare. Citerò al riguardo un caso noto alle cronache, quello di A.M., che usò violenza sessuale a 13 giovani donne delle quali l’ultima rimase uccisa. Dall’interrogatorio delle 12 vittime emerge una estrema diversità delle reazioni alla minaccia di violenza: A.M..L.: “ io ho aperto la portiera.....lui mi ha spinto sul sedile, ha richiuso la portiera... poi ha tentato di violentarmi... mi toccava... ha cercato di spogliarmi... un po' mi sono difesa e ho dato un po' di schiaffi e pugni e lui si è arrabbiato... mi ha guardato con una faccia molto arrabbiata e mi ha detto “se non la smetti guarda che ti faccio del male... io gli ho detto che ero minorenne... ce ne sono tante sul viale... vattene da un’altra parte...”. R.S.: “io ero spaventata, ho capito che aveva brutte intenzioni... avevo capito lo sbaglio che avevo fatto a salire... ha fermato l’auto e mi ha detto: “spogliati!”. Io dalla paura mi sono spogliata subito, non mi permettevo di contraddirlo; piangevo e gli dicevo non mi fare del male... mi sono spogliata completamente... lui mi ha baciato poi mi guardava... dopo voleva un rapporto orale... mi prendeva la testa, mi teneva proprio con le mani... dopo ha raggiunto da solo il piacere... (a domanda risponde)... non era stato volgare, si era limitato a dire che se non la smettevo di piangere sarebbe stato costretto a farmi del male... aveva una voce “molto grossa”. F.L.: “mi guarda in faccia e mi dice “ o mi dai i soldi o ti picchio”. Io glieli ho dati... dalla paura mi sono messa a gridare”. S.P.: “ha svoltato in una stradina sterrata, ha cercato di bloccarmi la sicura e da lì non ricordo più niente...” (dichiara di essersi ripresa al pronto soccorso). VM.: “...poi mi ha detto “passa da questa parte” (io ero al posto di guida)… mentre diceva queste parole ha allentato un attimo la presa; allora io sono riuscita ad aprire la porta e a fuggire”. P.M.: “...io ho capito il pericolo e mi sono messa a suonare il clacson... lui mi ha afferrato violentemente il braccio minacciandomi “adesso stai zitta se no ti rompo il braccio”... a un certo punto si è fermato di colpo, ha sterzato decisamente e si è immesso in una stradina di campagna... ha abbassato i pantaloni e mi ha costretto ad avere un rapporto orale... si incattiviva se non facevo quello che voleva... era molto deciso e fermo su quello che aveva intenzione di fare... mi ha sbottonato un attimo la camicetta e ha messo le mani un po' dappertutto... quando gli ho detto che avevo le mestruazioni, lui si è accertato che le avessi...”. B.E.: “mi ha preso per il giubbotto, mi ha tirato in piedi e mi ha trascinato nella zona più appartata del cimitero... ha iniziato a baciarmi, a toccarmi i seni; dopodiché mi ha fatto voltare piegandomi la testa verso la vasca e strappandomi la gonna da dietro... mi ha abbassato collant e mutandine cercando appunto di violentarmi; non ci è riuscito perchè io cercavo di dimenarmi... allora lui mi ha rivoltato, mi ha messo in ginocchio e mi ha obbligato ad avere un rapporto orale...”. Dopo queste descrizioni è possibile davvero dar credito ad una affermazione come quella della Corte di Cassazione, sull’ipotesi di un comportamento univoco riguardo una donna che si trovi a subire un tentativo di violenza? Vi sono persone, come abbiamo visto, che sono così terrorizzate da una minaccia di percosse che subirebbero più di una violenza sessuale pur di evitare il peggio. Anche se può sembrare paradossale, mentre l’atto sessuale subito passivamente consente, in fondo, alla vittima un certo controllo delle reazioni dell’aggressore, l’opporre un rifiuto può esporre a imprevedibili reazioni violente che sono immaginate tanto più terribili quanto più sono sostenute da una concezione sadica dei rapporti interpersonali. Alcuni psicoanalisti (Melanie Klein) ci hanno spiegato i motivi per cui vi sono donne che rimangono legate a uomini e mariti che le maltrattano sadicamente invece di liberarsene. In certi casi sembra che il sadismo dei rapporti reali sia comunque preferibile alle aspettative di violenza fantasticate; inoltre vi sarebbe l’idea inconscia di redimere il bruto con il proprio amore e la propria dedizione. E’ evidente che la Corte di Cassazione ha imprudentemente sconfinato in materia di grande delicatezza e complessità clinica psicodinamica per cui l’avvilente critica della quale è stata oggetto non deve affatto sorprendere. Per quanto riguarda il discorso delle jeans, la questione è troppo superficiale per poter essere commentata; preferisco pensare che complesse dinamiche inconsce abbiano indotto i giudici ad un “maschilismo” di vecchio stampo. Certamente la questione é seria e una punta di ironia non deve allontanarci dalla serietà del problema. A questo punto possiamo prendere in considerazione il fatto che P. ha acconsentito a ritornare a casa in macchina con C.; dato che ad esso Corte ha attribuito un significato univoco. Sul piano psicologico dobbiamo fare una debita distinzione tra un violentatore estraneo, e un violentatore conosciuto o addirittura familiare alla vittima. Nel caso del violentatore conosciuto o con cui esista una certa familiarità, che possiamo considerare equiparabile alla figura di C., non solo dobbiamo tener presente che i limiti a cui la violenza può arrivare sono più percepibili e quindi gestibili in termini di strategia, ma anche le prospettive di vendetta sono dilazionabili nel tempo dato che il violentatore non può rendersi irreperibile. Il fatto che P. sia ritornata a casa con C. non esclude che P. potesse essere furibonda, offesa, ferita nella sua dignità e che la sua apparente “riappacificazione” sia stata determinata appunto dal fatto che la identità del violentatore era nota e che quindi il ricorso alla giustizia era possibile anche in un secondo tempo. Addirittura la P. avrebbe potuto trarre, dalla dilazione della denuncia, la sensazione di maggior risarcimento dato che lasciava che C. si illudesse di averla fatta franca. Credo che a questo punto sia possibile trarre delle conclusioni Osservazioni conclusive Credo si possa estrapolare una considerazione di fondo del tipo: “Nessun atteggiamento o comportamento, può essere standardizzato e generalizzato a livello di significato psicologico che assume per il soggetto nè tanto meno può essere correlato a precise motivazioni, in quanto l’interpretazione degli atteggiamenti e dei comportamenti psicologicamente significativi dipende e assume peculiare significato in funzione delle caratteristiche di personalità di ogni singolo soggetto.” Certamente questa sorta di “assioma” riguarda le situazioni in qualche modo “problematiche”, mentre nell’ambito normale è invece possibile ipotizzare (sia pure entro certi limiti) una sorta di comportamento tipico (concetto medicobiologico di “normotipo”), specie se si ha l’accortezza di sostituire “normale” con “maturo” o con l’equivalente “adulto” (questa volta contrapposto a “infantile”). Nell’ambito delle situazioni a rilevanza giuridica, in cui abbiamo a che fare con comportamenti anomali o trasgressivi o devianti, non è invece possibile prescindere dalla peculiarità psicologica di ciascun soggetto, specie quando questo esame è essenziale per la determinazione della verità, in quanto non ci si può avvalere della prova testimoniale. Al contrario delle pretese della nosografia medica, la psiche sfugge alle classificazioni, al punto che anche quella più articolata appare, alla fin fine, scarsamente utilizzabile. Del resto questa affermazione dell’individualità e della unicità della persona, è sostenuta persino nell’ambito medico, laddove si tende sempre più a sostenere il concetto che esiste il malato e non la malattia (pur in una accezione non del tutto equivalente a quella psicologica da me riferita). Tutto ciò però, non vuole essere una critica ai magistrati, quanto la sottolineatura che anch’essi risentono del diffondersi di un certo “psicologismo” che induce a considerazioni superficiali che poco hanno a che vedere con la realtà psichica sulla quale pretenderebbero di fondare i loro giudizi e che inoltre possono trovarsi coinvolti in quella caduta della compartimentazione delle competenze, tipica del nostro tempo, a seguito della quale ciascuno si sente in dovere di “dire tutto su tutto”, qualsiasi sia il proprio ruolo sociale e la propria specifica competenza professionale. Una idea distorta del concetto di “liberalizzazione dei costumi e delle idee” (qualsiasi cosa significhi) sembra aver fatto emergere aspetti della personalità un tempo rigorosamente tenuti sotto controllo, anche in coloro il cui auto-rigore è essenziale per il carisma che si accompagna al ruolo sociale loro attribuito. Ciò va inevitabilmente a scapito di un certo livello di idealizzazione che è comunque importante affinché i ruoli istituzionali mantengano una funzione aggregatrice fondata anche su un certo grado di “autorevolezza”. In altre parole, al giorno d’oggi vi è una spinta ad esprimere “comunque” la propria opinione perdendo i limiti istituzionali o di ruolo, all’interno dei quali l’espressione di quello che si pensa deve essere in qualche modo “filtrata” in funzione, appunto, delle così dette aspettative di ruolo. E’ quanto viene riassunto nella nota espressione di dominio comune “non sta a me dirlo”. Questa spinta alla trasgressione diventa spesso una invasione del campo dell’altrui competenza ed è dovuta, a mio avviso, al fatto che nessuno coltiva più con la necessaria passione il proprio campo professionale. La tanto auspicata interdisciplinarità necessita invece della accettazione dei limiti del proprio ambito di competenza. Per concludere. Le motivazioni della sentenza mettono in luce tutta una serie di problemi, responabili di altrettanti equivoci “di merito”: 1 - il problema della discrepanza tra la realtà psichica e la realtà concreta: vale a dire che la logica della realtà fattuale, individuale o sociale che sia, non è la stessa che caratterizza la realtà psichica; per cui ciò che appare illogico ad un magistrato è invece estremamente coerente se riferito ad una “realtà psicologica”; allo stesso modo la logica del così detto “buon senso comune” fa quasi sempre un cattivo servizio alla logica scientifica. 2 - il problema, conseguente, relativo al fatto che il “significato” di un atto o di un comportamento, specie quando tale significato riguarda situazioni relazionali “anomale”, è percepibile solo nella misura in cui sono note le caratteristiche personologiche dei soggetti.. 3 - il problema della difficoltà a costruire delle “tipologie” psicologiche; (lo stesso problema che riguarda la costruzione delle nosografie cliniche; il che rende artificiosa e spesso inservibile la tradizionale nosografia psichiatrica, al di là della sua utilizzazione in campo farmacologico.) In altre parole le motivazioni della Corte rendono evidente, alla luce delle attuali conoscenze del funzionamento mentale, che non è più possibile lasciarsi andare a considerazioni “logiche”, pena una inevitabile distorsione del significato dei comportamenti a rilevanza giuridica e della stessa realtà processuale. Tutto questo non vuole pretendere una accettazione tout court del ruolo dell’esperto psicologo; specie nell’attuale clima di incertezza teorica ed operativa che caratterizza la Psicologia nel nostro (e in altri) Paese; ma va, se non altro, nella direzione della compartimentazione e della specializzazione delle competenze e sostiene l’ineludibilità di un approccio interdisciplinare.