Musa Tascabile - Orientexpress.na.it
Transcript
Musa Tascabile - Orientexpress.na.it
BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 1 things that quicken the heart BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 2 Premessa Il Corso di Storia delle religioni dell’anno accademico 2005-06 è stato diviso in due moduli. Il primo, sul “problema del dolore” nella cultura occidentale, con un libro di Salvatore Natoli come testo-base. Tra i temi discussi: la metafisica del tragico, la teologia del patto, la grammatica del patire, le tecniche per controllare le emozioni. Qualche richiamo anche a Camus, ad alcuni aspetti pagani del suo pensiero e del suo sentimento della vita. Ciò che era in gioco, in ogni caso, era la forza del dolore, il suo potere di sconvolgimento delle nostre vite, e come ne ponga in questione il senso. Nel secondo modulo – Interrogazione, condivisione, parola – si è cercato di dialogare con Jabès, negli spazi bianchi della sua scrittura, e di riscoprire insieme, pur parlando, il luogo possibile di una parola libera dalle costruzioni logiche, dalle sintassi del senso. Un discorrere che sia anche silenzio: un silenzio di apertura a un pensiero e a una scrittura che sappiano essere erranti, nomadi. Un corso di questo tipo non è un corso di “Storia delle religioni” in senso stretto. Mira piuttosto a problematizzare l’esperienza religiosa, le sue origini, le sue forme. È inevitabile, allora, porsi in gioco con i propri dolori, ricordi, nostalgie, fratture. E non si può sfuggire, in alcuni istanti, alla sensazione della voragine che ci attende, a quell’esperienza del morire che non conosciamo se non come morte degli altri. Siamo tutti un po’ sperduti su questa “terra degli uomini”. E tutti abbiamo incontrato la “condizione umana”. Sempre in bilico, sempre in sospeso. Anime desolate come paesaggi lunari. Se si potesse leggere nelle menti e nei cuori, si scoprirebbe l'impossibilità dell’indifferenza. L’amore della vita tormentato da un nulla sottile e segreto. È iniziato, così, uno scambio di email con gli studenti, dapprima scarno, riservato. Qualche domanda, qualche osservazione. Poi lettere ampie, e il delinearsi di una partecipazione sempre più viva, diventata – dal 12 gennaio al 14 febbraio 2006 – un’esperienza di studio attento e appassionato, ma anche di forte coinvolgimento emotivo. BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 4 Il volumetto è dedicato alle “assenze presenti” che ci accompagnano nello studio e nella vita, e che talvolta – improvvisamente – riemergono dal passato, prossimo o remoto, con una forza particolare, e sanno trasmetterci il pathos di ciò che dura nonostante il tempo. Quelle “assenze presenti” che sono tenui, impalpabili, soavemente insistenti e fedeli ... Quelle “assenze” che possono essere più vere e più forti delle presenze d’ogni giorno. Quelle “assenze” che ci fanno “ricordare, attendere, sperare” sopra le rovine. Nonostante le rovine. Napoli, 27 febbraio 2006. F. De Sio Lazzari In attesa della morte Ivana Carandente Se ha ragione Socrate nello scegliere la via della parola, per ingannare il tempo nelle ore che lo separano dal nulla eterno, allora tutto il nostro affannarci nella vita, la ricerca di un senso, il perseguimento di un obiettivo, tutto , insomma, si riduce a un tentativo di ingannare il tempo nell'attesa che la morte venga a raccoglierci...? Se la si guarda secondo quest'ottica, la vita perde la sua “preziosità”, diviene certo più realistica, ma dove cercare il suo senso...? 5 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 6 Il respiro del mondo Mirko Vamvakinos Qualche considerazione su un paio di temi delle lezioni: – La lucidità e la razionalità ci impediscono di vivere a pieno il presente, su questo ho esperienza diretta. Quando riesco a godere i momenti che vivo, il passato e il futuro scompaiono. – Il respiro del mondo, in Camus, è uno degli argomenti che preferisco. Spesso mi fermo a osservare per strada un formicaio in piena attività o a ricercare la pace tra gli alberi o ad alzare lo sguardo e rimirare stelle e luna o semplicemente le nuvole che passano. Immagino la mia città senza palazzi che ostruiscano la vista dell’orizzonte e del cielo, e vorrei fuggire su una spiaggia o in un bosco. I tramonti e le albe sono eventi straordinari per me. Sento spesso un desiderio forte di fuggire dalla città (spenta e artificiale), e fondermi con l’armonia del mondo. Quando riesco a trovare un angolo di pace (la reggia di Portici, l’orto botanico di Palermo) è come se ritrovassi me stesso perché mi sento tutt’uno con l’aria, l’acqua, gli alberi, gli animali, la terra. 7 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 8 Hardware e software Mirko Vamvakinos Sa che sto leggendo l’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? Non è solo divertente ma è anche molto profondo. È una parodia di un’opera classica ed è molto pungente perché se la prende con tutti i “sapienti” che cercano la saggezza nelle carte e non sanno che la vera sapienza si trova nella vita, nelle passioni, nell’abbandono ai sensi. La follia è la vera felicità: chi pensa troppo è infelice e non gode il presente, preferisce pensare invece che agire, ammonire invece che scherzare, intristire la gente invece che intrattenerla e rallegrarla. Credo di non sbagliare se collego Erasmo Epicuro Camus: anche i primi due si possono chiamare pagani felici. Stasera pensavo: l’uomo ha realizzato i computer a sua immagine e somiglianza. L’hardware invisibile è il cuore pulsante, dà gli impulsi a tutto il corpo e nulla funzionerebbe senza di esso, contiene le informazioni e i comandi basilari. Poi c’è lo schermo con il software Windows che media tra l’hardware e l’utente. Il software, infatti, ordina tutto in cartelle belle ordinate e parla un linguaggio convenzionale che tutti gli utenti possono comprendere abbastanza facilmente. Dà un’immagine ordinata e coerente del disordine interno. 9 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 10 Alcuni interrogativi Giovanni Armenio Il libro di Natoli si incentra sul dolore, ma è possibile fare lo stesso anche con l’amore? Ovvero l’accecamento amoroso è uguale o differisce dall’accecamento del dolore? Il dolore accresce; e l’amore? Possiamo vederli come antitetici ed uguali? Nel dolore si cresce e nell’amore ci si rafforza? Altrimenti perché amore e morte, se puri, sono accomunati? Perché si lotterebbe per amore? 11 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 12 Il nomadismo Rosaria Di Felice Tra me e la mia coscienza c’è un abisso nel cui fondo invisibile scorre il rumore di un fiume lontano dai soli, il cui suono reale è cupo e freddo. In qualche punto del pensare, della nostra anima, freddo, scuro e incredibilmente vecchio, in se stesso e non nella sua dichiarata apparenza. Pessoa parla di un fiume lontano dai soli. Ricollegandomi a Jabès ho pensato che il fiume siano i nostri pensieri. Quelli più veri restano nell’ombra, quei pensieri che sono intimamente nostri e che sono inesprimibili. Mi riferisco a quanto Lei ha detto, a lezione, sulla “cultura dell’ombra” e sul disagio di un uomo che viveva senza la sua ombra: la Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso. L’ascoltare si confonde con il vedere, uno scambio di sensi che spesso Jabès usa nei suoi scritti. Capire significa utilizzare tutti i sensi, senza che ci siano confini fra loro. A questo proposito penso anche a La lettre du voyant di Rimbaud... Il rumore silenzioso del fiume libera il mio pensiero dal potere del mio pensiero-sognare. Nel silenzio si comprende il rumore dei nostri pensieri, e nel silenzio del deserto e del libro Jabès trova – ma solo momentaneamente – la sua anima. Infatti, quando il libro finisce, il dissidio dell’io ricomincia... Tutto fluttua, incessantemente cambia, e per ciò è impossibile imprigionare concetti con parole e tantomeno possedere qualcosa. Per natura siamo migranti perché lo sono i nostri pensieri e la nostra anima. Dio, il Mistero, l’Io? Per Jabès sono concetti che non esistono concretamente, ma solo luoghi da raggiungere in noi stessi. Per gli ebrei la terra promessa non è Israele, ma il luogo dell’anima in cui le parole e il silenzio troveranno finalmente un’armonia. 13 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 14 S’inserisce qui – in questa riflessione che muove da Pessoa, e ne fa interagire alcuni pensieri con quelli di Jabès – il tema del nomadismo. Ecco alcune citazioni da Chatwin, Le vie dei canti. “La nostra natura consiste nel movimento, la quiete assoluta è morte” (Pascal). “Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini”. “La vita è un ospedale in cui ogni malato è posseduto dal desiderio di cambiar letto. Uno vorrebbe soffrire accanto alla stufa, l’altro crede che guarirebbe seduto vicino alla finestra. A me sembra che sarei felice dove non sono e la questione del cambiar dimora è tema di un dialogo incessante con la mia anima”. “L’interna fiamma... la febbre di andare”. (Kalevala) “Solvitur ambulando”. “L’uomo dalle suole di vento”. (Verlaine su Rimbaud) Le parole come autoinganno La relazione, o meglio tensione, che c’è tra parola e silenzio non è la stessa che c’è tra vita e morte? Le molte parole che usiamo per spiegare, chiarire, delimitare la realtà, non servono forse per appropriarci della vita? Il nostro desiderio è di vivere. Le parole sono un autoinganno, ci danno l’illusione di sfuggire alla morte. Il silenzio fa paura perché non ci dà nessuna speranza di vita. “La verità di Dio è nel silenzio”. La parola allontana da Dio, dalla verità, impedisce di raccogliersi in se stessi. “Il coraggio di raccogliersi in se stessi” di Wittgenstein, che strappa dall’illusione di ciò che si vuole essere, per vedere finalmente ciò che si è, si trova nel silenzio. “La propaganda nazista sostenne che per zingari ed ebrei – due popoli geneticamente portati al nomadismo – in un Reich stabile non c’era posto. Gli orientali però, mantengono vivo un concetto un tempo universale: che la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria fra uomo e universo”. “La vita è un ponte, attraversalo, ma non costruirvi alcuna casa”. “L’uomo non è stato creato per stare fermo, la storia delle malattie infettive è la storia di un gruppo di uomini che si crogiolavano nella loro sporcizia”. “In tibetano la parola per essere umano è agroba, ossia; viandante, che fa migrazioni”. “Un arabo beduino è un abitatore delle tende”. 14 Nicoletta Fossa 15 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 16 Il saggio è senza idee Luca Moretti Seguendo la lezione di ieri ho avuto due impressioni di cui vorrei parlare. La prima è sul tema “incomprensibile, impensabile, morte” nel Libro della condivisione. Dal mio punto di vista Jabès inserisce la morte come chiusura del climax perché è la fine della coscienza che ognuno ha di sé. Infatti un concetto, per essere definito incomprensibile o impensabile, deve essere fatto necessariamente passare per un processo logico mentale alla fine del quale viene catalogato come inaccessibile a livello di pensiero consapevole. La concezione della morte, ma secondo me anche quella di Dio, va al di là del pensabile razionale perché riguarda la coscienza diretta della morte stessa che penso possa essere compresa solo in punto di morte, quando si ha la sfortuna di una lenta agonia. Quando tentiamo di affrontare questo tema, la nostra è – in definitiva – una conoscenza di seconda mano che non ci permetterà mai di arrivare a una “verità” assoluta. L’altra considerazione che volevo fare riguarda la scrittura. Jabès crede nell’importanza degli spazi bianchi tra le parole e nei vuoti che le grandi domande lasciano, in modo che le risposte non possono essere trovate ma devono essere cercate per creare altri vuoti. Secondo me, in questo discorso c’è un’analogia con ciò che scrive Jullien ne Il saggio è senza idee a proposito di saggezza e filosofia. Il filosofo è colui che costruisce una struttura logica per dimostrare una tesi e quindi arrivare ad una “verità” che però gli sfuggirà sempre, perché impossibile da raggiungere, mentre il saggio non fa prevalere mai un’idea sulle altre perché predilige la giusta 17 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 18 misura (che non è immobilità, ma la continua ricerca di un mezzo tra diversi estremi). Questa posizione d’incessante ricerca si può accomunare al pensiero nomade di Jabès? 18 La parola nuova Valentina Punzi Il tormento del libro, il tormento della parola, il tormento del senso e quello della verità: quella distillata dal mare dell’ esperienza, ricercata e agognata per non affrontare il vuoto e il silenzio (perche “ci spaventano più” delle parole?) e legittimata da una sorta di superiore conoscenza che trascende spazio e tempo per rappresentarsi in un non meglio identificabile e definibile “oltre”. Credo che la forza di una discussione conscia e avvertita come necessaria sulle possibilità effettive di determinare una parola e un uso nuovo del linguaggio, maturato e meditato nel silenzio, non possa lasciare indifferenti, anche se devo riconoscere che a volte tutto sembra sfaldarsi tra parole che non fanno altro che sommarsi ad altre parole che nel loro limitato potere comunicativo tentano di spiegare e far luce, con il risultato, forse, di complicare le cose. Credo anche che la ricerca di una parola, di quella che ci rappresenti davvero ponendoci in contrasto con le possibilità stesse di trasmetterla fuori da noi stessi agli altri (ma non uso il linguaggio per darmi voce anche in riferimento a un contesto dove non sia e non mi senta sola o meglio con l’ unica compagnia del mio ricchissimo ma inattingibile e incondivisibile bagaglio emozionale e di pensiero?) sia ricerca lunga e faticosa in cui frequenti si verificheranno cadute nel ritorno al linguaggio codificato e predefinito del quotidiano. Come ovviare al naturale rifluire di un linguaggio in forme nuove ma altrettanto codificate? Dovrebbero forse esistere due piani di parole: uno di condivisione, sterile ma funzionale alla comunicazione (langue saussuriana) e uno della parola di solitudine e certezza, così nascosta nella notte che a malapena è udibile da se stessa? 19 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 20 Forse non sto riuscendo a centrare il problema (va centrato?). La parola nuova è la parola aperta, libera di darsi e stimolare le più svariate letture e percezioni critiche ed emozionali comprendendole tutte o meglio rendendole tutte possibili su un piano dove non sia più rivendicata La Verità e l’Interpretazione? Ma in questo caso come ci capiremmo? È vero che mai possiamo illuderci che il nostro messaggio giunga a destinazione con tutte le connotazioni, le sfumature e il non detto che noi con tanta precisione e cura affidiamo a parole selezionate come se fossero davvero uniche, ma mi sembra altrettanto vero che un linguaggio costantemente aperto a tutte le possibilità non possa favorirci (...). Mi sto perdendo tra le parole e il pensiero, che va di sicuro troppo veloce rispetto alla mia lentezza sulla tastiera. Personalmente credo di volere un pensiero per immagini, arricchite dal sole quando penso a un tramonto islandese e illuminate dal blu di un cielo infinito quando mi viene in mente il sorriso di un bimbo tibetano a 5000 m. o dal verde di una montagna che si specchia in un lago nel Sichuan: a volte non c’è davvero bisogno di parole, ma solo di un silenzio che non è loro assenza ma scelta. Pensare per immagini mi sembra più bello e pieno che pensare e parlare per nuove parole che riscivoleranno negli stereotipi dell’ uso quotidiano e di contesto. 20 Il gesto di Eva Raffaella Iaconantonio Rileggevo le parole che sono state oggetto della nostra lezione di oggi (13/01/06) prestando più attenzione ad alcune espressioni sulle quali lei ci ha invitato a riflettere. A pagina 33 c’è la seguente frase: “Nell’addentare la mela Eva sapeva che stava divorando la sua anima?” Jabès concepisce l’uomo con una forte componente... debole. Nel gesto di Eva si può intravedere questa debolezza perché decide di cogliere e mangiare il frutto in seguito ad un inganno del serpente(“Non morirete affatto! Anzi Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”, Genesi). Eva credeva di ottenere l’immortalità, ma in realtà proprio a partire da quel morso “ha cominciato a morire”. Riaffiora qui il tema della precarietà della vita: “il bambino già dal concepimento comincia ad invecchiare”. Eva, accecata dal desiderio di avere la verità, una verità che non esiste, ha errato… / addentando la mela ha macchiato la sua anima inconsapevolmente (mela-anima). Molto probabilmente il suo gesto è stato determinato anche dal fatto di sentirsi senza protezione, senza conoscere un passato che la rassicurasse né un futuro. 21 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 22 Sarah Kane Irene Tortorella Riguardo ai libri che fanno rumore e i libri che esigono silenzio, il primo autore che mi è venuto in mente è una drammaturga inglese, Sarah Kane, nata nel 1971 e morta suicida nel 1999. I suoi testi hanno fatto molto rumore nella mia mente, ma hanno bloccato, insieme alle parole, anche il respiro. I suoi libri esigono silenzio o urla di paura, terrore, angoscia. Ho letto Dannati, Febbre e La psicosi delle 4 e 48 in un periodo in cui avevo bisogno di molte parole che mi facessero riflettere, più che darmi verità belle e impacchettate. Non so se lei abbia letto le opere di Sarah, ma credo che benché giovane, sia riuscita a mettere sulla scena la realtà delle persone che hanno difficoltà di parola ed espressione. Cate di Dannati, per esempio, balbetta. Mi viene in mente Grand de La peste di Camus che sto leggendo per il primo modulo, quando chiede a Rieux di spiegargli il perché della sua difficoltà nel trovare le parole. Sarah eccede e a volte manca di parole: “la lingua è uno strumento di assoluta precisione e allo stesso tempo mezzo di sopraffazione e veicolo di ambiguità”. Scrive lasciando lunghissimi spazi vuoti e spargendo numeri e parole, a volte spezzate, sulla pagina, per far leggere ciò che non scrive. Ripete all’infinito verbi, domande o frasi: “Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza Nessuna speranza” “Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi? 23 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 24 Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi? Come faccio a fermarmi?” (La psicosi delle 4 e 48 - monologo) Fa parlare i personaggi di Febbre, che rimandano ai 2 di Aspettando Godot, in frammenti che sembrano non avere un senso se non per chi li pronuncia, e quelli maschili sembrano a volte parlare al femminile e viceversa, in un crescendo di parole forti, lievi, tristi, felici, a volte in lingue diverse, ma soprattutto angoscianti. Una frase-chiave: “E non dimenticare che la poesia è un linguaggio per sé e grazie a sé. Non dimenticare, quando vengono sancite parole nuove, nuovi altri atteggiamenti sono richiesti”. Sarah Kane ha un modo di scrivere molto crudo, non so se lei la riterrà come una di quei romantici che non sopporta, ma ho trovato che abbia qualche cosa in comune con Jabès. Come lui scrive dell’incomprensibile, dell’impensabile, della morte. Credo che anche Sarah parli di questo scrivendo nel monologo della Psicosi: La ragazza probabilmente scrive durante l’internamento in un ospedale psichiatrico in cui trascorre gli ultimi 12 anni della sua vita, in preda alla follia. Anche Sarah Kane racconta le sue paure, illusioni e solitudini attraverso il monologo di una ragazza che una notte decide di suicidarsi alle 4 e 48 in punto (l’ora in cui, secondo le statistiche, c’è maggiore attrazione verso il suicidio). Ci parla della discesa progressiva nell’abisso della follia, del ricovero in un ospedale psichiatrico, di cataloghi di psicofarmaci di cui viene imbottita celando certamente, dietro la finzione drammatica, la sua vicenda personale. Sarah e Sarah, due donne che la sofferenza ha portato all’isolamento, due esistenze sociali disintegrate, due voci al margine. Entrambe condotte alla follia perché diverse. Sarah, ebrea in esilio e Sarah, depressa cronica. Il Diario di Sarah e la Psicosi delle 4 e 48 sono testi dall’esplicita tessitura poetica, frammentati e scanditi da affermazioni categoriche di emozioni molto vicine. “così astratto da essere spiacevole inaccettabile non ispirante impenetrabile” Spero di non essere andata troppo fuori dalla scatola che contiene il tema effettivo del modulo e che anche lei trovi significati negli spazi bianchi tra le parole di Sarah Kane. (P.S. del 5.2.2006) Il “Diario di Sarah” (dal Libro delle interrogazioni di Jabès) e la Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane. Jabès racconta le sue paure, illusioni e solitudini attraverso il diario di un’ebrea scampata all’Olocausto, Sarah. 24 25 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 26 Una poesia di Ungaretti Ivana Carandente Giorni e le Notti suonano in questi miei nervi d’arpa Vivo di questa gioia malata d’universo e soffro per non saperla accendere nelle mie parole (Ungaretti, “Poesie Disperse”) Oggi ci ha chiesto di esporle i nostri pensieri a proposito del silenzio e dell’impossibilità di comunicare appieno attraverso le parole... beh, io le rispondo con una poesia! È vero, il linguaggio usato in senso stretto comunica ben poco; ma la poesia forse, grazie proprio al suo uso modo originale di accostare le parole, grazie al valore connotativo ed evocativo che vi attribuisce si spinge un po’ oltre... in poche parole rompe il linguaggio e in questo modo si spinge oltre esso! Questa splendida poesia riesce ad esprimere in pochi righi concetti di grande valore: il fluire incessante del tempo e quindi delle cose; la poesia vista come desiderio malato (nel senso di folle) di afferrare qualcosa di inaccessibile e, infine, il grande abisso che separa la verità dalla parola! 27 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 28 René Char Rossella Di Felice Sfogliando vecchi libri delle superiori ho trovato un poeta francese che credo avverta la stessa ambiguità del linguaggio di cui ci parla Jabès: René Char. Una delle sue poesie si intitola A la santé du serpent. Io canto il calore davanti al viso del nuovo nato, canto il calore disperato. (canta pur sapendo che non servirà a niente, perché le parole non lo esprimono). Nella bocca di una rondine si forma una tempesta, si costruisce un giardino. (Però è importante cantare/scrivere. Anche se dalla nostra bocca escono tempeste di parole che non riusciamo a controllare, servono comunque a far crescere un giardino). Poter camminare, senza uccidere l’uccello, dal cuore dell’albero all’estasi del frutto. (poter scrivere senza tradirsi, direbbe Jabès). L’uomo non è che una tappa di un colore sul dorso tormentato della terra. (o del libro). La poesia è di tutte le acque chiare, quelle che fanno meno tardi a riflettere i loro ponti. (Ho omesso delle parti che non sono riuscita a tradurre molto bene...). Ciò che posso notare è che anche per Char, l’espressione della verità è sotto la veste di aforismi. Anche per lui la poesia non deve svelare il mistero, ma indagare l’ignoto senza mai farlo cessare. Inoltre anche le sue poesie ci lasciano sempre interrogazioni e – come per Jabès – la verità è in queste interrogazioni che ci fanno sempre deviare. Secondo me dopo le guerre mondiali si era caduti nella monotonia delle parole e quindi il poeta si trova a dover gestire un ruolo mol29 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 30 to delicato: usare le parole giuste, che non svelino qualcosa ma che interpretino il mondo, un mondo che per troppo tempo si era nascosto dietro parole “apparenti”. Questo è ciò che fa Jabès, ma allo stesso tempo sta sempre ben attento a non andare mai oltre le capacità della parola, non attribuisce ad essa il ruolo di strumento portatore di verità. Questo disagio è dopotutto quello che ritroviamo anche nel teatro dell’assurdo, che rifiuta il valore comunicativo del linguaggio, che non è più un mezzo che ci permette di comunicare con l’altro. Ionesco dice: “Ho sempre avuto la sensazione dell’impossibilità di comunicare, di un isolamento... e io scrivo per lottare contro tutto ciò. Scrivo anche per comunicare la mia paura di morire, la mia umiliazione di fronte alla morte. La maggior parte delle volte i miei personaggi dicono delle frasi piatte e banali perché è dietro i clichés che l’uomo si nasconde”. Linguaggio e azione Rossella Di Felice Heidegger: “L’uomo è un uomo in quanto parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. Il parlare nasce da un particolare atto di volontà”. Il parlare per Heidegger è un principio autonomo, e la parola non è che una risposta a questo istinto. Il linguaggio è per Heidegger la “casa dell’essere” e per me è significativo come lui identifichi il linguaggio non come uno strumento ma come un ambiente, proprio come Jabès ritiene che il libro sia la sua dimora. Nell’ultima lezione lei ci parlava delle grandi capacità espressive del linguaggio, capacità che noi neanche immaginiamo. A questo proposito mi viene in mente il mio esame di filosofia del linguaggio: uno dei filosofi che ho studiato è Wittgenstein, il quale parla di “giochi linguistici” e parla del linguaggio come forma di vita addirittura. Il concetto di gioco, infatti, rimanda a quello di regole semantiche, regole condivise da una comunità umana, e che quindi fanno parte della storia dell’uomo stesso. “Il linguaggio è il multiforme strumento della prassi umana”. Il linguaggio come ambiente storico, quindi, non può ridursi a un unico modello, né per Wittgenstein né per Heidegger, ma ammette sempre novità ed è questo il senso del gioco. “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi: e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”. Per quanto riguarda il cambiamento del concetto di filo- 30 31 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 32 sofia a partire da Nietzsche in poi, è ciò che dice Foucault discutendo della “sostituzione del linguaggio all’uomo”: “Ai giorni nostri si afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo (quel sottile, impercettibile scarto, quell’arretramento nella forma dell’identità, che hanno portato la finitudine dell’uomo a convertirsi alla sua fine)... Più che la morte di Dio, il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore. Durante l’intero XIX sec. la fine della filosofia e la promessa d’una cultura prossima coincidevano probabilmente con il pensiero della finitudine e l’apparizione dell’uomo nel sapere. Oggi, il fatto che la filosofia sia sempre e ancora fuori di essa e contro di essa, nella letteratura come nella riflessione formale, pone il problema del linguaggio, dimostrando probabilmente che l’uomo stia sparendo”. Foucault non ritiene l’uomo origine della verità, né il linguaggio. Quest’ultimo, infatti, per lui è semplice produzione di segni che si possono costruire ma anche decostruire facilmente. Anche Hannah Arendt si pone il problema del rapporto fra azione e parola. Secondo la Arendt ogni essere umano si rivela al mondo come capace di azione, ma il senso delle parole è sempre mediato dalle parole. Anzi ogni essere umano è soggetto in quanto sa pronunciare parole. Il linguaggio quindi non può ridursi a una mera riproduzione di segni. “Chi sei? Il rivelarsi del proprio essere è implicito sia nelle parole che nelle azioni. Senza essere accompagnata dal discorso, non solo l’azione perderebbe il suo carattere di rivelazione, ma anche il suo soggetto. Non uomini che agiscono, ma robot che agiscono realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe incomprensibile. L’azione senza parola non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore - colui che compie gli atti - è possibile solo se sa analizzare delle parole. L’azione che egli inizia è rivelata agli uomini dalla parola, e anche se il suo gesto non può essere percepito nella sua muta apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o che intende fare... Il discorso dal punto di vista della mera utilità, sembra un rozzo sostituto del linguaggio dei segni”. Forse è ciò che Jabès vede nella scrittura: agire potrebbe essere sostituito da scrivere e quindi riconoscersi come soggetto significa realizzarsi nell’atto dello scrivere... 32 33 Per quanto riguarda il tema dell’assenza, ho trovato questa poesia di Valerio Magrelli: Io sono ciò che manca Io sono ciò che manca dal mondo in cui vivo, colui che tra tutti non incontrerò mai. Ruotando1 su me stesso ora coincido con ciò che mi è sottratto2. Io sono la mia eclissi3 la contumacia e la malinconia l’oggetto geometrico4 di cui sempre dovrò fare a meno. ruotare/camminare ciò che mi è sottratto/ossia la verità la mia eclissi/il mio vuoto prima del vuoto 4 l’oggetto geometrico/la verità perfetta che non raggiungerò mai perché è porosa 1 2 3 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 34 Una nuova forma di ascolto Valentina Punzi ...Ma lo stormo pareva di sasso, tant’era impassibile. “Non abbiamo più nulla in comune, noi e te” intonarono in coro i gabbiani, e, con fare solenne, sordo alle sue proteste, gli voltarono tutti la schiena. E il gabbiano Jonathan visse il resto dei suoi giorni esule e solo. Volò oltre le scogliere remote, ben oltre. Il suo maggior dolore non era la solitudine, era che gli altri gabbiani si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere... ...Da migliaia di anni i fiori fabbricano le spine. Da migliaia di anni le pecore mangiano tuttavia i fiori. E non è una cosa seria cercare di capire perché i fiori si danno tanto da fare per fabbricarsi delle spine che non servono a niente? Non è importante la guerra tra le pecore e i fiori?... La forza della scelta individuale in un contesto comunitario e gli scontri derivati da una forte appartenenza di categoria che si propone nei termini di una lotta per la sopravvivenza: quali e quante forme di comunicazione sono possibili? E se, ponendoci in ascolto, riscoprendo il silenzio di una forma di attenzione non più a focalizzazione fissa ma “fluttuante in immobilità”, ci rendessimo conto di quanta parola nuova ci si è offerta gratuitamente e noi abbiamo saputo solo relegarla in un angolo di emozioni fruibili e a portata di mano, svuotata ormai perché vittima di troppo logori commenti (per parola nuova intendo qui gli esempi forniti dai due passi che ho indicato, anche se più che di parola parlerei di immagine)? Se il punto non fosse in ciò che diciamo o nel silenzio che ci sforziamo di osservare, bensì in una nuova forma di ascolto che abbiamo dimenticato e che non consideriamo più? 35 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 36 Il dolore. La vita è adesso Antonio Abbate ...Noi che soffrivamo, e soffriamo ancora, guardavamo alla sofferenza del mondo per intenderla e comprendevamo il nostro soffrire come un momento della crudeltà della vita. Il dolore così si faceva lutto ossia manifestazione e oggettivazione del sentimento della mancanza. Il lutto, ossia la reazione alla perdita di una persona cara, come sostiene Freud implica “un doloroso stato d’animo, la perdita di interesse per il mondo esterno, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore”. Questo nostro stato d’animo doloroso ha richiesto, e richiede ancora, un lungo e graduale processo di elaborazione ossia un lento reinvestimento della progettualità nelle cose della vita quotidiana, accettando così l’irreversibilità della morte e ritornando alle occupazioni della vita precedente. Ogni uomo, se vuole avere una possibilità reale di lenire le angosce esistenziali, deve impegnare la propria vita nella realizzazione di se stesso e nella creazione dell’anima, dandosi progetti da raggiungere e valori reali da conquistare, dal momento che per il disagio esistenziale non c’è altro medico al di fuori di se stesso. Costruirsi come persona significa raggiungere uno stato adulto dove l’uomo si ama, ama ed è amato nella libertà. È nella realizzazione dei progetti che ognuno di noi può fare della propria vita una vera e autentica opera d’arte. Compiere della nostra esistenza un’opera d’arte significa porsi come artista della propria vita, assumendo e accettando tutto ciò che ci appartiene e lavorando per una continua opera di fusione e superamento delle contraddizioni che sono presenti in ciascun essere umano. Non è possibile amare gli altri se non amiamo noi stessi. La frase cristiana: “Ama il prossimo tuo come te stesso” 37 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 38 viene travisata molte volte. Ci si impegna ad amare gli altri attraverso gesti di beneficenza o di mutuo soccorso, senza sapere amare noi stessi ed è inutile dire che chi non si ama non sa amare fino in fondo. È un dato, alquanto triste, che buona parte della nostra educazione venga svolta sottolineandoci gli errori che compiamo, piuttosto che elogiando le cose buone che facciamo. È ovvio che in questo modo, più che essere “sostenitori” di noi stessi, diventiamo i nostri più acerrimi nemici: ci critichiamo per ogni piccola cosa, non siamo neppure in grado di riconoscerci tutte le piccole cose positive che facciamo o abbiamo fatto: semplicemente le svalutiamo con le scuse più futili... era mio dovere... era una cosa che chiunque avrebbe saputo fare... era cosa banale... ecc. Quando siamo così severi ed intransigenti con noi stessi, tendiamo ad esserlo anche con gli altri, il che non semplifica i rapporti, anzi tendiamo ad ergerci a giudice di ciò che l’altro compie, seguendo esclusivamente i nostri parametri. Molti di noi, purtroppo, non sanno volersi bene e perdonarsi per il fatto di essere imperfetti e quindi diventano estremamente rigidi con se stessi: non si danno mai una gratificazione, morale o materiale che sia, sono sempre pronti a criticarsi anziché a sostenersi e darsi auto-appoggio. La critica fine a se stessa, quella del “genitore interno” (avresti potuto fare di più, meglio, avresti potuto stare più attento) non è una critica costruttiva, ma porta solo a un indebolimento dell’immagine del sé, ad una scarsa autostima, e ciò non è utile né per la persona, né per chi gli sta accanto. Volersi bene significa mettersi al primo posto nella nostra scala di valori esistenziali: mettere al primo posto i nostri bisogni rispetto a quelli degli altri ed evitare inutili critiche, a meno che non siano costruttive. Volersi bene, mettersi al primo posto, non è indice di egocentrismo o egoismo: è il primo passo per stare bene 38 con se stessi e col mondo, è il primo passo per mantenere le nostre energie al massimo in modo tale da averne a disposizione anche per gli altri... Da una batteria scarica non si ricava niente, né per sé, né per chi ci sta attorno... volersi bene, proteggersi e sostenersi è il primo grande passo che possiamo fare per potere essere di aiuto anche agli altri, per poterli amare nel vero senso del termine. Ogni mattina assaporo il succo della vita che sta nel piacere che si prova dopo che si è sofferto, perché il piacere è direttamente proporzionale alla durata e all’intensità della sofferenza. Mi sveglio al mattino con la volontà e il desiderio di dare e basta, di non pretendere nulla, di non illudermi perché l’illusione porta all’esaltazione nei momenti favorevoli e all’abbattimento nei momenti sfortunati. Solo l’umiltà è il modo più giusto di vivere nel “panta rei”(tutto scorre) perché ti permette di vivere il momento e di essere consapevole della relatività delle cose, della positività, del cambiamento continuo, e che quindi alla sofferenza succederà la gioia e viceversa. Come ci insegnano gli antichi greci, è il pudore che consente all’uomo di giocare la sua partita col dolore senza andare allo sbando. La sobrietà del gesto che nasconde, testimonia ancora della capacità di non concedersi facilmente alla propria fine. Il pudore è possibile solo se esiste un’alta concentrazione di forza, un soggetto umano ben formato e quindi atto a reggere nel dolore senza spezzarsi. Il dolore insegna a commisurare le proprie azioni alle proprie forze, insegna ad investirsi senza sprecarsi: il dolore insegna agli uomini a saper durare nella precarietà e li rende capaci di amministrare al meglio le forze disponibili. Il dolore educa al giusto mezzo e alla proporzione. Non esistono i felici per natura. Bisogna far brillare la felicità nel dolore: certo esistono i privilegiati, perché più dotati o perché più fortunati, ma comunque tutti gli 39 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 40 uomini fanno capo alla comune radice mortale. Gli uomini sono uguali nell’esposizione al caso che è prerogativa di coloro che muoiono. La felicità per gli uomini non è uno stato originario, ma uno stato da conquistare. Reggere nel dolore significa dunque far fronte al caso trovando la giusta misura. Il pudore, che è la capacità di contenersi nel limite, è lo stile di vita che meglio corrisponde a chi ha trovato la propria misura. È improbabile una esistenza senza dolore, ma poter trovare senso nella esistenza, nonostante il dolore, e quindi scoprire il suo fondo di bellezza, questo è possibile. Nella costruzione etica essere all’altezza della propria morte vuol dire riuscire ad avere iniziativa di fronte alle strade che si chiudono. L’uomo è un animale complesso, plurideterminato, non è orientato dall’istinto e quindi ha possibilità di reinvestirsi. Questo è un elemento che fa immaginare che, almeno in certe forme di dolore, alcune vie d’uscita sono possibili. vita intera. La lezione nicciana: non dobbiamo intendere la felicità soltanto nei termini della fruizione edonistica, ma anche nella dimensione della vittoria. Il superamento dell’ostacolo è un elemento della felicità, allora la felicità è contrassegnata dallo sforzo, dove c’è una fatica che poi addiviene a una riuscita. Felicità non è solo fruire, ma anche vincere. Molte volte l’uomo è chiuso in se stesso e tra le cause di questa chiusura c’è la presunzione che solo alcune cose rendono felici e altre no. Ciò diminuisce l’attenzione e sviluppa l’ossessione. Molte volte gli uomini sono infelici perché non hanno questa capacità di entrare in contatto con la vita intera. Sono incapaci di innocenza, di questa dimensione fanciulla che si deve avere per accedere alla felicità. Questa dimensione fanciulla non è ingenua, ma qualcosa che l’uomo deve conquistare nel suo cammino. L’uomo deve avere questa capacità di purificazione di sé. Da qui la necessità di governo di sé, delle proprie passioni, di distacco anche. Il distacco è una dimensione per cui non ti appiattisci su una cosa sola. In questa dimensione la vita si arricchisce. Ecco allora il modello aristotelico: felice è una vita intera. La felicità nell’attimo coinciderebbe inevitabilmente con la morte. Il tema del dolore rientra in questa prospettiva di riuscita della propria Nella società contemporanea abbiamo a che fare con un paganesimo che si sviluppa attraverso la rimozione del dolore. Lo scenario dell’epoca presente è governato da un nuovo termine di mediazione: la tecnica. La dimensione scientifico-tecnologica costituisce oggi l’orizzonte entro cui viene compresa la realtà del mondo. In questo medesimo orizzonte si inscrive l’esperienza del dolore. Oggi la tecnica determina in larga parte le condizioni entro cui gli uomini possono sperimentare il dolore. L’intenzione fondamentale secondo cui la tecnica si costituisce è quella del dominare. Proprio per questo il dolore è oggi compreso come qualcosa che può e deve essere dominato ed è affrontato come dominabile. La convinzione che la natura possa essere dominata, la volontà di trattenerla nei limiti del progettare umano costituiscono le modalità proprie con cui l’uomo contemporaneo abita la terra, e sono perciò il presupposto per cui risulta abituale riferirsi alla tecnica come termine di soluzione dei problemi umani. L’umanità contemporanea, una volta espropriata delle possibilità religiose della pietà, è costretta di contro alla spietatezza. E poiché di contro a ciò che è spietato molto spesso non si regge, allora o si fugge da esso o lo si occulta. Il progresso tecnico consente la fuga attraverso il nascondimento. Le procedure terapeutiche sottraggono il dolore ad ogni sguardo con la giustificazione di amministrarlo. Nella società contemporanea “il costo medio” della sofferenza è sopportato in termini di danaro. Ma 40 41 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 42 l’eco del dolore l’uomo contemporaneo se lo porta dentro, lo vive nella forma dell’inquietudine, se lo tiene nel cuore come ansia. In sostanza , ciò che è venuto meno è il rapporto diretto tra dolore e vita: la sofferenza non entra immediatamente e continuativamente nella quotidianità dell’esistenza. La tecnica circoscrive il dolore secondo criteri di competenza e quindi predispone luoghi idonei per soffrire, luoghi dove è legittimo che la sofferenza si manifesti senza che tuttavia possa invadere la vita. Ma esistono casi in cui la sofferenza dilaga, in cui la lacerazione è troppo grande per poter essere occultata, e allora l’esperienza di chi soffre è resa eterogenea rispetto a chi temporaneamente è preservato attraverso la “spettacolarizzazione”. Lo spettacolo trasforma il disastro in narrazione, rende gli uomini partecipi del dolore evitandone l’immedesimazione, limita la compassione attraverso l’ingordigia della curiosità e il piacere della notizia. Lo spettacolo allontana il dolore poiché rappresentandolo ce lo fa sentire lontano da noi. Il dolore è di altri, noi per fortuna ne siamo fuori, la morte che non ci colpisce diviene in un certo senso godibile. Noi uomini contemporanei non incontriamo più il dolore: siamo sempre composti e civili. La solitudine, la mancanza di solidarietà e di autentico dialogo tra gli individui, la rarefazione e la frammentazione dei rapporti interpersonali, sempre più evidenti nella società moderna, sono la conseguenza della subordinazione delle esigenze dell’individuo a quelle della produzione. La società dei consumi non ha portato né felicità né libertà. L’uomo si è trovato inserito in un congegno sociale in cui è programmato ogni istante della sua esistenza: c’è il tempo del lavoro, c’è il tempo del riposo, quello da dedicare alla famiglia, quello dello studio, delle vacanze, del viaggio, del divertimento, ecc., tutto rigorosamente modulato su “standard” diffusi dai mass-media. La liberazione dell’uomo passa, a questo punto, attraverso una radicale trasformazione della società, capace di porre la tecnologia e la produzione al servizio dell’uomo stesso e non considerare, viceversa, quest’ultimo un accessorio. Bisogna fondare un nuovo umanesimo attraverso la cultura e la libera espressione di sé, restituendo all’uomo la sua autenticità e la sua autonomia di giudizio. Oggi si sente dire, anche da gente qualificata e di cultura, che ”i giovani hanno tutto ciò che desiderano, non si capisce perché sono così inquieti, scontenti e infelici, cos’altro vogliono? Abbiamo esaudito ogni loro richiesta; noi non avevamo tutto ciò che loro hanno, eppure eravamo felici. Forse abbiamo dato loro troppo”. E poi: “i giovani con le autovetture a tutta velocità, o con altri comportamenti al limite, vogliono sfidare la morte. È una caratteristica della loro età: si sentono immortali e non hanno il senso del pericolo. Forse sono la noia e l’esuberanza giovanile che li spingono a questi comportamenti dalle conseguenze tragiche”. E continuando: “i giovani agiscono con gesti e comportamenti plateali perché vogliono rendersi visibili, desiderano in ogni caso essere protagonisti, nel bene e (se non ci riescono) anche nel male, perché non sopportano di restare anonimi all’interno della società”. E chi ha fatto credere ai giovani che se non emergono sono delle nullità? Chi ha imposto loro i valori illusori ed effimeri come grandi mete da raggiungere costi quel che costi? La caratteristica principale della società occidentale, che ha contribuito più di ogni altra cosa a creare tanta alienazione, è il fatto che essa concentra ogni interesse e tutte le proprie energie sul mondo esterno. La scuola, la formazione, la professione sono importanti solo per quanto possano valere nella società. La nostra società è perfetta per allevare gente senz’anima. Ma l’uomo dov’è? I suoi veri bisogni e la sua essenza dove sono? Chi dà senso e significato alla vita solo per mezzo di stimoli e interessi che gli vengono dalla 42 43 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 44 realtà esterna, quando questi gli verranno a mancare e non lo interesseranno più, si troverà dinanzi all’angoscia e al vuoto esistenziale. “I rumori assordanti” cui si sottopongono i giovani sono un modo per tentare di soffocare o lenire il disagio che si portano dentro. Lo stordimento, oltre che subìto, può anche essere ricercato con altri mezzi quali la droga, l’alcool, la confusione e la sofferenza mentale e quant’altro. Pure la “frenesia della vita” ha un significato molto preciso: il “tutto e subito” è un modo di porsi di fronte all’esistenza perché non c’è un progetto valido verso cui tendere per il futuro, e, cosa ancora più drammatica, qualche volta nemmeno la speranza. Ecco forse cosa spinge i giovani a vivere una vita esagerata e spericolata. Molti giovani hanno impegnato la vita e tutte le loro energie per raggiungere i valori illusori ed effimeri di questa società, identificandosi totalmente in questi: il potere, la ricchezza, il successo ed altro. Tanti di loro hanno raggiunto queste ambiziose mete per rendersi conto, in seguito, che la conquista di una o più mete tanto desiderate non risolve, non può risolvere i bisogni autentici dell’uomo, e il malessere esistenziale che li accompagna nel frattempo si è fatto ancora più acuto. I valori autentici su cui i giovani possono impegnarsi e riservare le loro energie sono tanti: l’amicizia, la lealtà, l’amore, la libertà, il coraggio e altri ancora che, se coltivati e realizzati in modo genuino, portano ad una trasformazione radicale della loro vita. I valori genuini non alimentano la sopraffazione, la competizione distruttiva, l’invidia e altri sentimenti negativi che sono caratteristici della nostra società; semmai stimolano l’emulazione, ossia lo sforzo di migliorarsi senza nuocere a nessuno. Come dice Claudio Baglioni nella sua canzone la vita è adesso: sei tu che spingi avanti il cuore ed il lavoro duro di essere uomo e non sapere cosa sarà il futuro sei tu nel tempo che ci fa più grandi e soli in mezzo al mondo con l’ansia di cercare insieme un bene più profondo e un altro che ti dia respiro e che si curvi verso te con un’attesa di volersi di più e non capir cos’è e tu che mi ricambi gli occhi in questo istante immenso sopra il rumore della gente dimmi se questo ha un senso la vita è adesso... 44 45 I giovani, a mio avviso, devono imparare a vedere dentro di sé la luce interiore. Traspare dagli occhi dell’uomo che soffre, dell’uomo che prega, dell’uomo che spera. La luce interiore si trova nei fiori, si trova nel mare, si trova nel cielo, si trova nel cuore. BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 46 Il silenzio che esprime Fabio Pariante Mi chiedevo: l’uomo, cioè noi, vive nella falsità pur di vivere? Se così fosse, non è un specie di contraddizione/mancanza di rispetto, verso la propria religione e in un certo senso anche verso se stessi? Il silenzio, a questo punto, è la via più corretta visto che, essendo appunto un silenzio, esprime forse più di ogni parola perché può essere più liberamente interpretato a differenza delle parole, dove si hanno realtà oggettive e soggettive a cui ci si aggrappa e da cui si è condizionati?! La religione, secondo la mia opinione, è un’amara illusione a cui l’individuo si appoggia. Premetto che sono cattolico, ma vivo il mio essere religioso in modo molto personale. Credo in Dio ma non tanto nella Chiesa. Penso siano due mondi differenti. 47 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 48 Gli haiku di Basho Nicoletta Fossa Basho con i suoi haiku riesce a dare testimonianza dell’esperienza del vuoto: silenzio: penetra la roccia il canto delle cicale Silenzio - rumore - silenzio, senza tregua si alternano. Le parole di Basho si possono forse definire “silenziose” perché non delimitano la realtà, ma traducono il valore del vuoto. Le parole emergono dal silenzio, come le parole scritte da un foglio bianco. Il vuoto è uno stato che supera le dimensioni del silenzio e della parola e che nello stesso tempo le contiene. “Più che al senso aggràppati al silenzio che ha modellato la parola”. Le parole della poesia sono modellate dal silenzio e questo le rende inconsuete e piene di significato. Le parole che usiamo nel linguaggio ordinario, indispensabili per dare un ordine alla realtà, hanno in sé il pericolo di farci perdere di vista il loro scopo, e rischiano di far diventare sterile la realtà. Tutto ha una sua definizione ma niente designa. La realtà, il mondo, non si può ridurre alla parola. Ecco l’importanza del silenzio, e della parola che viene dal silenzio, la poesia. non pare muoiano tra poco: cantano le cicale. 49 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 50 Condivisione e sentimenti Letizia Di Mitrio Ciò che sostiene Jabès è molto interessante. Sarebbero tante le cose da dire in proposito, ma ciò che secondo me emerge più di tutto è che secondo l’autore “nulla è condividibile, perché nulla ci appartiene”. Allora io mi domando: in ciò che non ci appartiene, come fanno a rientrare anche i sentimenti? Dico questo perché secondo me i sentimenti sono assolutamente personali, altrimenti come farebbero ad essere anche diversi da individuo a individuo? Essendo personali quindi sono nostri: ci appartengono. E c’è (sempre secondo me) anche una risposta al fatto che sono condividibili. Sono condividibili perché vedere qualcuno che subisce una certa situazione, per esempio, ha comunque un certo effetto anche su chi non vive la situazione in prima persona, da parte di chi osserva. Questo non significa condividere, anche se indirettamente? 51 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 52 Pensiero e linguaggio Fiammetta Rutoli, un’amica docente Un’educazione linguistica che renda consapevoli gli individui dei processi mentali che essi mettono in atto per “comunicare” non è funzionale soltanto al consolidamento e allo sviluppo delle abilità linguistiche, ma collabora al potenziamento delle operazioni mentali e delle attività di pensiero. Questa è almeno la convinzione di quei linguisti che, oltre a considerare la lingua come condizione di trasmissibilità di pensiero, vedono in essa la condizione stessa di realizzazione del pensiero. “Noi pensiamo un universo che la nostra lingua ha già modellato. Le varietà dell’esperienza filosofica o spirituale dipendono, senza che ne abbiamo coscienza, da una classificazione che la lingua opera per il solo fatto che è lingua e che simbolizza”. Esiste certamente una stretta interrelazione tra pensiero e linguaggio: parlare del linguaggio come di uno “strumento” del pensiero è riduttivo. Lo strumento è per noi qualcosa di passivo, di manovrato dall’uomo; il linguaggio, invece, retroagisce sul pensiero, gli consente di formularsi, di articolarsi, di acquistare piena coscienza di se stesso. 53 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 54 Identità di straniero Nicoletta Fossa Penso che Jabès si aggrappi al linguaggio, alla parola per trovarci un rifugio. Ne ha bisogno per fermare la sua identità di “straniero” e allo stesso tempo per affermare questa identità. “C’è in me – con me – chi tace quando io taccio. C’è in me – con me – chi parla quando io parlo. È la stessa persona?” 55 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 56 Esilio, morte, memoria Roberta Lipari Ho letto tutto d’un fiato l’ottimo lavoro di Tiziana Carlino su Jabès. Mi ha colpito particolarmente l’attenzione all’aspetto letterario, culturale che è alla base della sua formazione condividendo pienamente che “la scrittura si pone come necessità di ridefinire la propria alterità” ma soprattutto la propria identità, in questo caso “instabile”, complessa, talvolta problematica che demarca le traiettorie dell’originalità del Libro. E poi il tema dell’esilio, esperienza devastante che rende “stranieri”, un esilio non solo fisico ma anche e soprattutto interiore. Una vera e propria condizione di subalternità dettata dall’egemonia della sofferenza, una riduzione a quello che Spivak definì lo stato di “silenced subaltern”, ma anche un desiderio o meglio una necessità di conquistare il silenzio, di conquistare quel deserto, “quell’oasi salvifica in mezzo al dolore della guerra e al fragore delle armi”. Un altro aspetto mi ha particolarmente colpita. La riflessione sul legame tra la morte e la memoria. L’affermazione “l’incisione permette che si mantenga intatto un nome, la cui durata è affidata ad un supporto presumibilmente imperituro: la pietra” mi ha ricordato la splendida ode oraziana “Exegi monumentum aere perennius”, nella quale il poeta esprime soddisfazione per l’opera portata a termine e la certezza della sua immortalità e che “usque ego postera crescam laude recens”! L’importanza della funzione eternatrice della poesia, o meglio dell’arte in generale, è proprio quella di vincere la morte e tramandare parole, pensieri e valori, ma soprattutto “permette il ritorno letterario alle origini personali e al luogo di nascita”, alle proprie origini nei momenti di smarrimento e di perdita identitaria. 57 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 58 L’esperienza del dolore Letizia De Mitrio Natoli (ne L’esperienza del dolore) pone il problema del dolore in diverse prospettive, senza per nulla tralasciare la sfera dei sentimenti nei quali appunto rientra anche il dolore stesso. A proposito di ciò, vorrei aprire una piccola parentesi facendo riferimento a Jabès il quale sostiene: “nulla è condividibile perché nulla ci appartiene”. Ciò per porre una domanda credo lecita: “come fa un sentimento come il dolore a non appartenerci e a non essere quindi condividibile?” Dico questo perché Jabès dice che nulla ci appartiene e quindi si suppone che in questo “nulla” rientrino anche i sentimenti. Secondo me il dolore è un sentimento che appartiene fortemente a chi lo vive sulla propria pelle, ma al tempo stesso, però, è un qualcosa di completamente condividibile: provare dolore fa scaturire una reazione anche in coloro che assistono a questo dolore e quindi il solo fatto che questa reazione si verifichi (positiva o negativa che sia) rende partecipe appunto chi assiste. Ed essere partecipe secondo me significa anche condividere. Il dolore quindi è un argomento che presenta varie sfaccettature, e - per quanto ampio sia - lascia ben intendere il modo col quale è vissuto in determinati contesti. Il dolore (come ben tutti sappiamo) è definito come un sentimento di profonda infelicità, dovuto all’insoddisfazione dei bisogni, alla privazione di ciò che procura piacere, al verificarsi di sventure. È proprio seguendo questa linea che mi piacerebbe discutere l’ argomento. Quando si prova dolore si entra qualche volta, o forse spesso, in una condizione di irrazionalità ed è proprio 59 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 60 l’irrazionalità che porta poi a fare determinati gesti, qualche volta anche estremi. Con questo vorrei fare riferimento a Natoli quando sostiene che l’individuo che prova dolore può reagire in vari modi tra i quali: isolarsi dal mondo circostante; attirare l’attenzione per mostrare il proprio dolore, per esempio essendo violento verso gli altri ecc… A proposito di ciò, parlerei anche di Freud che come Natoli (ma probabilmente in modo sostanzialmente diverso) mi ha chiarito le idee e quindi ha dato risposta ai molti punti interrogativi che avevo sull’argomento dolore, vita e morte. Ritengo quindi che Freud sia un completamento per la comprensione di questi argomenti anche perché è importante comparare vari punti di vista ai fini di trarre le proprie conclusioni (almeno lo è stato per me). A proposito di questa posizione, vorrei formulare queste riflessioni: Adattarsi alla realtà esterna potrebbe arrecare dolore, perché non sempre ciò che ci circonda fa per noi oppure non coincide perfettamente con quelle che sono le nostre idee sul saper vivere in un determinato contesto. Modificare la realtà esterna, invece, o per lo meno apportare modifiche che possano permetterci in qualche modo di soddisfare i nostri bisogni, potrebbe comunque avere i suoi lati negativi. Mi spiego: modificare significa mutare in parte o completamente e quindi cambiare la natura di qualcosa. Ciò è (secondo il mio punto di vista) sbagliato, perché anche se una cosa può risultare negativa o comunque non piacevole dovrebbe restare tale. Anche dalla negatività qualche volta si possono trarre benefici o addirittura insegnamenti. A proposito dell’insoddisfazione dei bisogni (quindi del dolore) Freud dice: gli istinti vogliono soddisfazione, cioè la produzione di situazioni nelle quali i bisogni organici vengono appagati. L’abbassamento di tensione dei bisogni viene avvertito dalla coscienza come piacere, l’accentuazione di quella tensione viene invece subito sentita come dolore. Le oscillazioni della tensione determinano dunque tutta quella gamma di sensazioni di piacere e dolore, sulla quale l’intero apparato regola la propria attività. Freud quindi parla di un “dominio del principio del piacere”. Freud giunge alla conclusione che esistono due modi per appagare i propri bisogni: adattarsi alla realtà esterna; modificare la realtà esterna producendo in essa quelle condizioni che rendono l’appagamento possibile. 60 61 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 62 Le parole come maschere Raffaella Iaconantonio Le parole? Maschere. Giù la maschera! Silenzio. Danzano nell’ombra del testo senza mai esser scoperte. Le cogli? Le hai perdute. Le leggi? Vuoto. Scorrono fiumi di parole Sbattono sulle rocce dell’Incomprensibile Sfociano nell’Essere estraneo. Non sono un poeta, ma ho cercato in breve di darmi una definizione di “parola”. Quando parlo di maschera, mi riferisco al celarsi delle parole, al loro non rivelarsi, a ciò che nascondono. Danzano perché si seguono una dopo l’altra in un incessante movimento (parola come punto di fuga di un vertiginoso discorrere) nel mistero del testo. (Abbiamo parlato di una tematica anti-illuminista che vede l’ombra come chiarore, come luce. Abbiamo bisogno di vivere nell’ombra, di perdere i concetti, di spogliarci dei nostri ruoli, di liberarci di false giustificazioni, di vivere ai margini, di preferire l’incertezza e l’inquietudine alla sicurezza e alla tranquillità, la vita alla morte). Quando crediamo di aver capito le parole, in realtà le abbiamo perdute. Non dobbiamo fermarci al senso, ma dobbiamo essere “veggenti”: vedere oltre, sentire ciò che suscita in noi la parola, dobbiamo ascoltare quel silenzio che si nasconde alle sue spalle perché è Lui a parlare – non la parola. “Sbattono sulle rocce dell’Incomprensibile”: mi riferisco al dramma dello scrittore costretto a scegliere una parola che riesca ad esprimerlo compiutamente, ma che non 63 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 64 sarà mai quella giusta perché l’Incomprensibile è qualcosa che egli stesso non sa e che non è fatto di parole. Lo sfociare nell’Essere estraneo indica che le parole, come fiumi, sfociano nel mare di colui (l’Essere) che legge e che è estraneo a ciò che legge perché non può capire ma solo interpretare. Alla fine della poesia con ”Essere” intendevo il “lettore” che nella lettura, alla quale corrisponde l’azione dello sfociare dei “fiumi di parole”, non può cogliere l’Incomprensibile, ovvero ciò che l’autore vuole esprimere, ma che in realtà lui stesso non sa. Per questo parlo di estraneità dell’individuo nei confronti delle parole scritte. Non intendevo l’ Essere come condizione di vita perché abbiamo parlato di quanto per Jabès sia fragile, infondato, insensato il nostro Essere - e questa idea si concretizza nella figura di Adamo (pag. 33 del Libro della condivisione). “L’individuo è una mancanza d’essere” (Sartre, ripreso da Jabès). 64 Pensiero e disegno Martina Caschera Davanti al testo di Jabès mi sono ricordata cosa significa “vivere un testo”. Vorrei fare, un secondo, una piccola parentesi prima di scriverle i miei dubbi su alcune (molte, troppe) delle questioni che il libro mi ha posto (parlo del Libro della condivisione... che, per amor del vero, ammetto di non aver terminato ancora di leggere...). Volevo dirle che il quaderno degli appunti del suo corso è strapieno di disegni. In ogni spazio vuoto ho messo un disegno e questo non accade spesso, diciamo che non accade mai. Durante gli altri corsi lavoriamo come dattilografi; invece durante questo, in particolar modo durante il tempo dedicato alla lettura di Jabès, ho avuto molto spazio in cui far vagare la mia penna. Per me pensiero e disegno sono, molto spesso, la stessa cosa. Io penso che quest’esame sia prima di tutto una grossa prova di sensibilità. Mi sono chiesta più volte cosa significhi il Libro. Cosa sia, per Jabès il libro. E cosa sia Dio. Parola, uomo. Silenzio, dio. Quando leggeremo gli spazi bianchi avremo compreso il mistero divino? Ciò che non siamo capaci di ascoltare (non ancora, ma qualcuno, a quanto pare, sì) è il regno divino. Con la parola, cerchiamo di tappare il buco dell’ignoto, della morte, del vuoto e di Dio. È Dio questo incomprensibile, questo impensabile? No. A volte, tra queste pagine, Dio mi pare solo qualcosa di dispettoso, un contraltare, la stessa pietra che ci affonda. L’infinito che ci limita, che ci costringe al cammino. L’errare che sta tra il libro ed il libro. Allora il libro cos’è? il percorso stesso? la sfida a dio? o la nostra sconfitta suprema? 65 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 66 Perché è vero, la parola ci schiaccia ma quei silenzi tra le parole? Non siamo noi a crearli? Forse sì, ma non siamo capaci di leggerli. Il Libro finisce per dominarci, il nostro desiderio di scrivere ci spinge ad una lotta fino alla morte. È vero. Ma è anche un cammino a ritroso, verso le radici tutte umane. E per Jabès non può che essere un cammino verso il libro poiché il suo “popolo” è nato dal Libro, più di ogni altro. È quindi un muoversi verso le origini, verso il vuoto, passando per la negazione dell’eternità e della condivisione (la parola). Il Libro diviene la nostra unica domanda (perché di risposte qui non ce ne sono). Spero di essere stata chiara un minimo anche se la cosa non penso sia poi così possibile dato che questa lettura causa in me, più che lucide riflessioni, sprazzi di colore. La scrittura e il deserto in Jabès Rossella Di Felice Merleau-Ponty, ne La fenomenologia della percezione, scrive che l’uomo sin da quando nasce è condannato al senso, ossia a conoscere attraverso il corpo e in risposta all’ambiente. Il “cogito” di Merleau-Ponty, quindi, è sempre relazionato agli altri e all’esterno: il corpo è la via di accesso privilegiata al mondo. Ma la percezione dell’essere è sempre impossibile da attuare, perché rimane aperta ad altre possibili percezioni. Credo che questo modo di vedere la percezione dell’essere sia collegato alla crisi di identità di Jabès di cui si parla anche nel saggio che ci ha dato nell’ultima lezione. Jabès non smette mai di cercarsi nel libro forse perché ogni parola che scrive gli apre nuovi orizzonti e questi nuovi orizzonti lo pongono di fronte a 1000 altre domande che, invece di ricostruire il suo essere, lo lacerano. In fondo, per Jabès, la scrittura è il deserto, il luogo / non-luogo in cui il silenzio ti lacera ma allo stesso tempo ti ridona a te stesso come essere frammentato. La ricerca non avrà mai fine, dunque, perché non ha mai avuto neanche inizio. “Parlare è un mezzo per esprimere se stessi agli altri, ascoltare è un mezzo per accogliere gli altri in se stessi”. Stavo leggendo questo pensiero di Wen tzu (saggio cinese) e pensavo che ciò che dice è proprio ciò che Jabès vuole comunicarci attraverso il tema del silenzio. Una parola che nasca dalla riflessione e dal silenzio ha certo più valore di un discorso convenzionale. Ma ciò che lacera Jabès, l’interrogazione principale che si pone, è “come è possibile esprimere qualcosa di autentico, qualcosa di sé se si usano espressioni di comodo”. Non serve a nulla, però, restare in silenzio se dentro di noi la parola 66 67 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 68 continua a logorarci. Nietzsche (che, come avrà capito, amo particolarmente) dice che, se si tace per un anno, si impara a parlare e si disimpara a chiacchierare. Spesso, secondo me, l’incapacità di ascoltare gli altri deriva da un vincolo troppo forte che ci tiene legati al nostro ego (ed è questo vincolo che Jabès vuole dissolvere attraverso le sue opere). Così, se mentre si ascolta l’altro si continua a pensare a cosa rispondere, la parola non è che una barriera fra noi e l’altro (forse Jabès predilige la scrittura perché non ti obbliga a replicare subito... ma ti dà il tempo di avere bagliori di pensieri). A volte mi capita di non riuscire a smettere di pensare e mi sento intrappolata in una sorta di monologo interiore... il pensiero, le parole, le immagini si rischia di impazzire. A volte c’è bisogno di una pausa, di un silenzio nel silenzio della mente, di una parola / non-parola he annulli tutte le altre, di un vuoto dentro cui abbandonarsi per poi riemergere nella vita di tutti i giorni e poi... poi continuare a respirare fra i rumori del mondo, cercare di ridare aria agli occhi guardando il cielo. 68 Il silenzio dell’uomo Valentina Punzi Tu presti fede a quel che senti dire. Ma dovresti credere a quanto non vien detto: il silenzio dell’uomo si accosta alla verità più della sua parola. Kahlil Gibran Jesus the Son of Man 69 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 70 Perché il dolore? Francesca Aufiero Ieri abbiamo parlato della morte e del fatto che il corpo muore e che la mente, talvolta, resiste integra anche in un corpo che sta cedendo. Camus invita a vivere la vita fino in fondo, a “bruciarci”, a liberarci da convenzioni, da un linguaggio esterno. Penso che non sia facile bruciare visto che si vive in un mondo di convenzioni, regole sociali. Ho avuto rari momenti in cui ho vissuto intensamente un’emozione. Quando penso a ciò, mi accorgo che non sto vivendo la mia vita a pieno, la faccio vivere dagli altri e ho paura di ciò perché penso che all’improvviso potrebbe arrivare la morte o un dolore forte. Il mio corpo mi abbandonerà e la mia mente? Riuscirà a liberarsi fino in fondo? Può accadere che il dolore arrivi e che si manifesti lentamente, deteriorare giorno dopo giorno una persona che sente ancora di dover vivere, di godere un po’ della vita, ma non può perché un male rode pian piano il suo corpo fino alle ossa. Perché tanta sofferenza? Ciò spesso anche a bambini che hanno smesso di vivere perché un evento esterno (la forza della natura) li ha soffocati quasi distruggendoli. Costoro non avevano ancora vissuto, non avevano scelto tra il sì e il no di Camus. Altri, uomini, vivono la quotidianità, si lasciano vivere, ma il loro sguardo è vuoto! E allora torna la frase bellissima di Camus “i soli paradisi sono quelli perduti”. 71 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 72 La vera ricchezza è la ricchezza del cuore Antonio Abbate Nella lezione di ieri, 20 gennaio, dedicata a Il libro dell’ospitalità di Jabès, ho capito che è importante non tanto la parola, l’informazione dettagliata ma al contrario poche parole, espressioni che smuovono te e forse (o quasi sicuramente) anche gli altri. Più il linguaggio si restringe, più si arricchisce perché la ricchezza sta nell’utilità ma soprattutto nella rarità! Il calore della parola è come l’acqua per le piante, è il sole della terra, il pane della vita. Il calore della parola è la musica del cuore, vince il buio della notte, il dolore di chi soffre (...). Mi sono reso conto che più di una volta avete ripetuto che si trattava dell’ultima frase o racconto o dialogo, ma tuttavia non si giungeva mai ad una conclusione. E questo lo posso ben capire, perché la spiegazione conclusiva veniva continuamente interrotta da “things that quicken the heart” (cose che accelerano il battito cardiaco) ossia storie che entrano ed escono come onde dalle narrazioni ufficiali, disturbando la loro logica. Emerge una ferita aperta nelle nostre vite, che propone un linguaggio che scaturisce dall’incertezza (eternità, infinito, nulla, morte). Queste parole (“inebriate di abisso, in esse ci perdiamo”) di cui non possiamo dire nulla, mi hanno aperto però un nuovo immaginario (anche perché è con i concetti di eternità, infinito, nulla, morte, che abbiamo il senso del conoscibile). All’improvviso il mio sguardo volava lontano (...). Ho provato a immaginare l’eternità come un momento in cui gli uomini si destano in una luce immensa e non esiste il male, il peso, la misura, il tempo. Un momento di musica eccelsa, di gioia pura, di occhi sinceri: senza il dubbio, la notte, la tempesta. Un momento in cui non esistono tramonti e paure, lacrime e vecchiaia, malattia e morte, spazio e confini. 73 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 74 “Tu esisti perché io ti attendo”. “Il vero luogo è il desiderio di avere un luogo”. Sono queste le frasi, che più di tutte, mi hanno colpito. Mi hanno fatto riflettere sul fatto che noi esistiamo solo nella misura in cui attendiamo, desideriamo, amiamo. È il desiderio che ci fa amare e ci fa capire la bellezza e l’essenza delle cose. Noi esistiamo nell’attesa e nel desiderio ... Vocazione di Abram Raffaella Iaconantonio Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”. (Genesi 12:1) La storia del popolo ebraico inizia con una migrazione e continua di esodo in esodo con esili. Jabès in prima persona oltre ad essere un poeta è uno Straniero. “L’écrivain est un étranger” e in lui vediamo il combinarsi di due figure: quella di ebreo e quella di scrittore. Nel Libro delle interrogazioni, come afferma Derrida, c’è un rapporto tra scrittura, ebraismo e sofferenza. Jabès cerca, attraverso la tragica parabola di Sarah e Yukel (vittime dell’Olocausto), di dar voce alla storia ebraica ricca di dolore, angoscia e inquietudine. È lo stesso Jabès ad affermare che i suoi libri sono autobiografici e a scrivere “Tu sei colui che scrive e che è scritto”. Il poeta è dunque il soggetto del libro e il libro il soggetto del poeta (Derrida). Nel Libro c’è una nostalgia delle proprie origini, un ritorno alle proprie radici attraverso l’immagine del deserto che rappresenta proprio il legame di Jabès con tutta una tradizione (ebraica) a cui appartiene. “Le désert fut, pour moi, le lieu privilégié de ma dépersonalisation”. Il deserto diventa una dimora, una casa per lui che è straniero, esiliato, nomade, senza luogo (L’assenza di luogo è il titolo di una poesia di Je batis ma demeure). Tiziana Carlino parla di una similitudine tra il libro e il deserto, proprio perché il libro diventa il suo deserto ed è attraverso la scrittura che può riappropriarsi della sua terra, può di nuovo toccare quella sabbia, può non sentir- 74 75 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 76 si uno straniero. “Le retour au livre est retour aux sites oubliés”. Il deserto è anche il luogo in cui Mosè riceve le Tavole, quindi è il luogo del dialogo tra l’uomo e Dio e – nel caso di Jabès – tra l’autore e la poesia. Nel Libro di Jabès c’è un’assenza non solo del luogo, ma anche dello scrittore. Derrida dice che scrivere vuol dire ritrarsi dalla scrittura stessa. Essere poeta significa lascia parlare da sola la parola. Questo si può vedere, ad esempio, anche nel modo in cui scrive Jabès. Il Libro, infatti, ha un aspetto frammentario e discontinuo (come lo definisce Tiziana Carlino) e vi compaiono poesia e prosa, domande, risposte, brani di diari dei due protagonisti e dell’autore stesso, citazioni inventate di rabbini immaginari. Le continue domande, e le risposte dissonanti con le domande che le precedono, richiedono una perpetua attenzione da parte del lettore. Sono d’accordo con quanto scrivono Derrida e la Carlino. Mi incuriosisce, ma soprattutto mi affascina il fatto di considerare il libro come una casa. È forse il desiderio di avere un luogo che spinge Jabès a rifugiarsi nella scrittura perché sa che è l’unica possibilità per riappropriarsi delle sue radici. È un po’ come il Foscolo che strappato alla terra madre, Zante, ha nostalgia perché consapevole di non potervi più tornare. L’esiliato è colui che vive nel desiderio. Jabès dice “Chi non ha un luogo fa del suo desiderio di avere il luogo il suo luogo”. 76 Il libro della sovversione non sospetta (passi che “fanno venire la pelle d’oca”) Ivana Carandente La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte. Folle è il mare per non poter morire con una sola onda. Vivere è far propria la sovversione dell’istante, morire far propria quella, irreversibile, dell’eternità. Se la parola rischiara, il silenzio non oscura: rigenera. Le immagini nell’inconscio s’offuscano, ma non si spengono: barlume d’oblio. La distanza, qualunque essa sia, è pur sempre concepibile: se breve, è preda dello sguardo, se incommensurabile, è preda dell’immaginazione. C’è un solo cielo, come c’è un solo foglio. L’interrogazione è d’ombra. La risposta un fuggevole bagliore. Credi di sognare il libro. Sei sognato da lui. C’è sogno solo nell’oblio di una parola. Dio s’offre in lettura, egli non legge. Puoi contare soltanto i giorni che perdi. 77 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 78 Che cos’è il dolore Roberta Lipari Per me il dolore è privazione e si trova nella vita in quanto credo che il nostro vivere sia, come affermò Schopenhauer, “come un pendolo che oscilla sempre tra dolore e noia”. Perché dovremmo soffrire se non perché si vuole ciò che non si ha, e della cui carenza si soffre? Tutta la vita si sviluppa, quindi, tra l’illusione di felicità e la delusione della vita stessa intesa come “sogno ingannevole”, una visione – questa – condivisa da grandi pensatori dell’antichità e della modernità. Questi ultimi furono influenzati sicuramente da opere dell’età barocca come, ad esempio, quella del poeta e scrittore spagnolo Calderòn de la Barca chiamata proprio La vida es sueño, nella quale si mette in rilievo, attraverso la metafora del sogno, il carattere illusorio dell’esistenza e l’inevitabile caducità di tutto ciò che è terreno. Ma da questo pessimismo cosmico dettato dal Sehnsucht, ossia dal desiderio inappagato, ho tratto una mia personale conclusione. Dopo aver letto il libro di Salvatore Natoli ritengo che, sebbene vivere equivalga a soffrire, il dolore se accettato, interpretato, vissuto, può avere una valenza positiva. Il titolo del libro di Natoli è emblema di questa tematica esistenziale. “Esperienza del dolore”: esperire il dolore, dunque. “Temprarsi nel dolore” e “temperare il dolore” e ancora “soffrire come esperienza sensata”. Credo che per quanto la sofferenza possa essere dura, atroce, agonica, essa abbia una funzione formativa importantissima. È un viaggio sperimentale nel proprio essere alla scoperta dei propri limiti, ma anche della propria insostituibilità. (Ma l’uomo moderno non è “paziente” come Giobbe, non è forte abbastanza da reggere tale “onus”. Egli è solito isolarsi lasciando vincere la passività). 79 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 80 Il dolore, inoltre, può essere paragonato a un’anticipazione della morte la quale, secondo la lezione epicurea “Media vita in morte sumus”, è un’esperienza chiave della nostra esistenza. Questa stessa esperienza ci fa capire il vero senso della vita, e potenzia la nostra volontà di vivere. Ho letto un libro molto bello e intenso di Paulo Coelho dal titolo Veronika decide di morire, nel quale una giovane, fallito un tentativo di suicidio, viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico dove incontrerà il dottor Igor. Questi, attraverso una serie di colloqui, cerca di eliminare “l’Amargura, l’Amarezza che la intossica privandola del desiderio di vivere”. Due aspetti mi hanno particolarmente colpita: come la consapevolezza della morte spinga alla consapevolezza della vita insegnando a “saper vivere ogni giorno come un miracolo” e il rapporto della protagonista con il dottor Igor, figura (a mio avviso) salvifica in quanto il dialogo che instaura con la giovane malata rappresenta qualcosa di diverso dal mutismo e dal solitario delirio. Credo quindi che si debba toccare il fondo per poi risalire, accettando il dolore in tutte le sue forme, carpendone il senso e mostrandosi agli altri poiché reputo indispensabile uscire dal mutismo della modernità. E inoltre occorre tener presente che il dolore è un mezzo per interrogarsi sulla problematicità della propria esistenza e che, se si riesce a interpretarlo, ed a fronteggiarlo, esso può divenire occasione di crescita e consolidamento di sé. 80 Su Antonio Nicoletta Fossa Ho letto lo scritto di Antonio e mi è piaciuto molto. Credo che i giovani dovrebbero essere più ascoltati. Ciò che nessuno insegna è un’educazione ai sentimenti. Mi rendo conto che non è una cosa semplice, per il semplice fatto che poche persone sono in grado di riconoscere i sentimenti, e sono d’accordo con Antonio quando dice: “La nostra società è perfetta per allevare gente senz’anima”. Leggendo il libro di Corrado Pensa La tranquilla passione, mi ha colpito molto quando, parlando della meditazione, scrive che con la pratica della meditazione si impara a coltivare la gentilezza. Aprirsi con gentilezza ai nostri pensieri ed emozioni insegnerà ad aprirci a tutte le persone che incontriamo nel mondo e ad aprire le nostre menti e i nostri cuori. 81 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 82 Jabès e la via Rossella Di Felice Rileggendo alcune pagine di Jabès mi sono soffermata su alcuni passaggi che mi hanno colpito di più. L’uomo di cui ci parla Jabès è un uomo sradicato dal suo essere, o meglio, è semplicemente pura esistenza. Il suo esistere, però, è un travaglio perché non è definito, l’uomo deve progettarsi sempre (Da qui si spiega la grande importanza che Jabès attribuisce al futuro. Il presente infatti non si restituisce a noi preso isolatamente). Per riconoscersi (lavoro che Jabès cerca di fare in tutta la sua riflessione) l’uomo ha due modi: può farlo rispecchiandosi nel mondo o in se stesso. Nel primo caso egli scoprirà sicuramente un’esistenza inautentica, che non gli appartiene, nel secondo invece prende coscienza di una cosa di importanza massima: la morte. Comprenderci a partire dalla morte, però, ci provoca angoscia: l’essere si ritrova solo di fronte al nulla (“uomo di un pensiero estraneo, senza luce, né ombra, senza cammino, incatenato al nulla”). Se è così, allora per dare valore all’esistenza bisogna trasformarla in atto di libertà (“nell’addentare la mela Eva sapeva che stava divorando la sua anima?”). Eva, secondo me, lo sapeva benissimo, ma ha voluto scegliere il significato della sua esistenza nel mondo: anziché diventare un’anonima “chiacchiera”, ha deciso di mutarsi in “parola di solitudine” e “immolarsi” con essa. Noi siamo in Dio e ci muoviamo in lui: siamo infatti viandanti. Il viandante prende tale nome, ed è viandante, per la parola “via”. Se si domanda pertanto a un viandante, che cammina e che si muove in una via infinita: 1) dove si trovi, risponderà: nella via; 2) e se gli si domanda dove si muova, la sua risposta sarà: nella via; 83 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 84 3) e se gli vien chiesto da che cosa muova, dirà: dalla via; 4) e se sarà interrogato circa la meta cui tende, affermerà: dalla via alla via. In tal modo la via infinita viene designata come il luogo del viandante, ed essa è Dio. Quella via, al di fuori della quale non è dato trovare alcun viandante, è dunque l’essere senza principio e fine, dal quale il viandante ricava tutto ciò che è e ha onde essere viandante. Jabès e la Cabala mistica Dario De Cesare Scrivere un’introduzione alla Cabala mistica non è affatto facile, sia perché l’argomento è vastissimo (potenzialmente infinito) sia perché è materia estremamente complicata che richiede anni di pratica per essere padroneggiata (e a me questi anni di pratica mancano). A ogni modo, dare uno sguardo al che cos’è può servire ad interessare persone all’argomento e quindi aprire nuovi orizzonti a tutti coloro i quali studiano per ottenere risultati nella vita che non siano solo bei voti a scuola. Inoltre, essendo la Cabala un argomento fortemente caratterizzante della cultura ebraica, può fornire una serie di delucidazioni su questo popolo altrimenti impossibili da ottenere. Qualora Jabès non avesse mai avuto a che fare con la Cabala (e la faccio difficile al riguardo) egli rimane autore innegabilmente connesso alla tradizione ebraica che di certo non prescinde dalla cabala stessa. In sostanza, cerco di giustificare questo scritto a tutti coloro (compreso me stesso) che di primo acchito potrebbero considerarlo poco utile ai fini della comprensione di un autore complesso quanto Jabès. Allora, cos’è la Cabala? La Cabala è una delle tre dottrine principali che hanno caratterizzato il pensiero ebraico (matrice di quello europeo, ricordiamoci che Gesù e Paolo erano giudei). In ordine abbiamo: 1) Le scritture che compongono il Vecchio Testamento 2) Il Talmud, raccolta dei più eruditi commentari riguardo al vecchio testamento 3) La Cabala, ovvero l’interpretazione mistica delle scritture 84 85 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 86 In sostanza il Vecchio Testamento costituisce il corpo attorno al quale si sviluppano le altre due discipline maggiori, Talmud e Cabala. Gli antichi rabbini chiamavano questi ultimi due rispettivamente l’anima razionale e lo spirito immortale delle scritture (ovvero del corpo). La dottrina cabalistica si riassume in un glifo che, secondo i più rinomati studiosi della tradizione mistica occidentale, rappresenta il migliore e più completo simbolo di meditazione di cui disponiamo: l’Albero della vita. Studiare tale diagramma richiede molto tempo e dedizione, padroneggiarlo e ragionare in base ad esso significa aver fatto propri gli insegnamenti cabalistici. Il grafico, a livello macrocosmico rappresenta la storia dell’evoluzione e della creazione in dieci passaggi rappresentati dai dieci santi Sephirot. A livello microcosmico invece, esso rappresenta il funzionamento dell’uomo (fatto a immagine e somiglianza del divino). Insomma, il diagramma si propone di rappresentare in maniera dettagliata e completa l’universo. I rabbini avevano compreso che la coscienza, l’Io possiede una capacità di comprensione limitata, tale limite è rappresentato dal linguaggio. Ciò non vuol dire che la comprensione dei fenomeni sia ferma a livello del linguaggio, ma la loro spiegabilità lo è sicuramente. È possibile comprendere senza avere la possibilità linguistica di spiegare ciò che si è compreso. Un fenomeno troppo sublime per le parole può essere afferrato in altri modi, ad esempio per aggregati emozionali. I dieci passaggi che segnano lo sviluppo del grafico cabalista prendono in considerazione anche quegli stadi di comprensione che vanno oltre il linguaggio, ma non solo quelli. 86 La struttura della realtà, così come è rappresentata dall’Albero della vita, ha una natura frattale, e quindi ciclicamente si ripete a livelli di complessità maggiori o minori. Se è contemplabile uno stadio di comprensione delle cose in cui il linguaggio è superfluo e deve essere soppiantato da aggregati emozionali, è deducibile che esistano altri stadi in cui gli aggregati emozionali non basteranno più e dovranno essere soppiantati da qualcos’altro. Discutere di tali stadi inconcepibili è la cosa più inutile di questo mondo, tuttavia, bisogna avere presente che questi esistono o possono esistere. Il punto appena spiegato, l’Inconoscibile, viene rappresentato esternamente all’albero della vita (...). Questo è il Triplice velo di negatività, ciò che segna il bordo, il confine di ciò che vale la pena studiare. Spero di essere stato sufficientemente chiaro su questo punto: confine non significa fine, significa confine (...). Allora, riassumendo, abbiamo parlato dei primi tre santi Sephiroth, tre di dieci, ma non abbiamo ancora spiegato come funzionano e come sono connessi tra loro. Per adesso, affrontare questi tre basta e avanza per comprendere il cabalismo di Jabès, almeno a un livello superficiale (...). I cabalisti che sono succeduti agli antichi rabbini ebrei e che si sono appropriati della tradizione cabalistica, hanno implementato il sistema delle associazioni che la Cabala suggeriva per i suoi sephirot e i suoi sentieri (le 22 lettere dell’alfabeto) attraverso l’utilizzo praticomeditativo che si è fatto della Cabala. Sostanzialmente, meditare su un particolare sentiero dell’Albero della vita significa pensare costantemente alle associazioni suggerite da una lettera (o un Sephirah) e sopprimere tutte le idee non pertinenti che sorgono sulla soglia della coscienza. 87 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 88 Con un po’ di pratica ci si accorgerà che il cervello inizierà a lavorare automaticamente sulle immagini del sentiero scelto e, molto probabilmente, attingendo dal suo bagaglio emozionale-culturale, implementerà le visioni indotte con alcune di completamente nuove e tuttavia pertinenti. Il sistema cabalistico è a tutti gli effetti un sistema di meditazione che alcuni importanti autori hanno giustamente definito come “Yoga dell’occidente”. Tra i superni e gli altri sette Sephiroth esiste uno spazio che nella Cabala è chiamato l’Abisso o il Deserto. Tale spazio sarà poco più avanti motivo di discussione e connessione con Jabès. (...) Un occultista scomodo da citare (e che quindi non citerò) paragonò molto intelligentemente la Cabala ad uno schedario. Imparare a memoria le associazioni cabalistiche e come le une siano connesse alle altre, significa piantare dei semi nel nostro cervello e far germogliare in esso stesso l’albero della vita. Il risultato di tale operazione è semplicemente quello di fornirgli le istruzioni, i simboli e i comandi necessari per spingere il linguaggio a livello di aggregato emozionale oltrepassando i limiti della parola. Non si tratta di apportare modifiche al proprio pensiero, si tratta semplicemente di acquisire un metodo per catalogarlo e quindi tenerlo sotto controllo (che è né più né meno di quello che fanno gli Yogi) (...). La Cabala si rivela quindi un pratico sistema di associazioni di idee: ogni idea appartiene a un campo riconducibile a qualche sentiero o sephirah dell’albero. Sembra accertato in maniera più o meno nozionistica, che Jabès si fosse dedicato un po’ alla Cabala. Io ne sono praticamente convinto. 88 Il capitolo più “cabalistico” che ho potuto scorgere nel Libro della condivisione è intitolato Uso. “Credi di aver guadagnato un libro. L’hai perduto per sempre. Affidarsi al corpo per appagare le esigenze dell’erranza. Affidarsi allo spirito per spodestare l’oblio”. Il libro è la forma materiale delle idee di un autore. Binah insegna che legarsi a una forma apre tutta una serie di possibilità che permettono all’idea originaria di interagire con il mondo materiale. L’unico contro a questa opportunità è che, qualsiasi sia la forma prescelta, si è destinati a perire. Scrivere un libro, una storia, una vita, significa dargli forma materiale e quindi, paradossalmente, anziché guadagnarlo lo perdiamo. Ma nella Cabala la forma non è il male. La forma è un passaggio tanto necessario quanto lo è lo stadio che l’ha preceduta, o quello che la seguirà. L’incarnazione, la ricerca di una forma da parte dell’entità che non la possiede, sono comportamenti del tutto naturali; lo spirito “erra” per dirla alla Jabès alla ricerca di un corpo. Il corpo, dal canto suo, inizia a morire dal momento in cui nasce, ed è soggetto ad un sentimento di separazione dal tutto che è definito Oblio. “Dall’informe impensato, il pensiero trae la sua nuova forma. così l’informe, forse, è soltanto l’immensa notte ove ogni forma si dibatte. E il pensiero è il punto da cui si irradia il giorno”. L’informe impensato è il famoso triplice velo di negatività dal quale Kether scaturisce inspiegabilmente. Kether e Chockmah stessi sono impensabili, in quanto precedenti all’idea di forma nella scala dell’albero. “Dalla lettera al vocabolo, fragile passerella che lega la realtà del niente, l’irrealtà del tutto. E se questa passerel89 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 90 la fosse l’arco appena abbozzato d’un sogno al di sopra dell’abisso? Vulnerabile più del tempo sarebbe l’eternità”. (Il testo parte sparatissimo affermando “il tao che può essere detto non è l’eterno tao”). La fragile passerella che attraversa l’abisso cabalistico è il sentiero Gimel, il cammello, che lega la realtà del niente di Kether all’irrealtà del tutto rappresentata da Tipharet, il famoso sephirah al di sotto dell’abisso (...). Jabès ha dimostrato di sapere il fatto suo scrivendo una cosa del tipo: “La verità si offre a noi nuda. Noi la copriamo di veli. L’abbagliamento non si addice all’uomo. La prova? Lo acceca”. Il processo di meditazione cabalistico conduce per mano il praticante attraverso una serie di esperienze aldilà del linguaggio e che gli permettono di oltrepassare i confini entro cui esso ci delimita. La differenza sostanziale che ho riscontrato tra il cabalismo e le forme di meditazione orientali più diffuse (e maldestramente praticate) stanno proprio nella visione del linguaggio che queste tradizioni offrono. Per i cabalisti il linguaggio è una componente fondamentale. La scrittura è il simbolo di un’intera civiltà. Lo Yogi, l’asceta, il taoista, di solito sono figure che disdegnano il linguaggio. Per questo motivo, mi sentirei di sconsigliare fortemente di associare Jabès alla mistica orientale. Jabès è associabile al taoismo nella misura in cui la Cabala è associabile ad esso. Il che non vuol dire che non siano associabili. Cabala e I-ching, testo fortemente impregnato dal taoismo, posseggono più cose in comune di quante ne avrei volute trovare. Tuttavia esistono differenze nette ed evidenti, ergo cabalista non significa taoista. Ciò che sicuramente accomuna la mistica in generale, è un superamento delle barriere dell’Io che, non mi stancherò mai di ripetere, trae la sua forza dal linguaggio. Pensavo che uno dei libri più illuminanti al riguardo fosse il Tao Te-ching, e non ho ancora cambiato idea. 90 “L’io non è la posta in gioco, ma è il gioco imposto”. Posta in gioco e gioco imposto? Ma siamo matti? Dopo aver letto questa frase ho urlato al miracolo. Per il modo diretto, sublime, eccelso e sintetico con cui viene resa tutta una serie di dinamiche della mistica più pura. L’incredibile di questo testo, forse, è nel fatto che probabilmente Jabès è l’erede di una tradizione più vicina alla nostra di quella cinese e per questo motivo, la frase sopra citata ha avuto un effetto forte come e più delle varie massime del libro di Lao Tze. Non si può e non si deve prescindere né dalle parole né dall’Io. Si devono saper mettere da parte in tutti i casi in cui risultano superflui. Io e linguaggio rappresentano un di più e un sovrappeso ogni qualvolta stiamo tentando di nutrire la nostra anima, la nostra spiritualità. I paradossi linguistici di Jabès e di tutti i più rinomati testi di religione mistica hanno spesso la funzione di insegnarci tutto questo. Ma tali scritti sono solo un punto di partenza: imparare a trascendere il linguaggio attraverso il linguaggio mi sembra una cosa molto stupida. (A pensarci bene forse non lo è: esistono vie mistiche che seguono proprio questa procedura, per esempio le scuole Zen che iniziano gli allievi attraverso i famosi paradossi linguistici chiamati Koan). In conclusione, mi sembra di aver parlato troppo della Cabala e troppo poco di Jabès. C’è anche da dire che molti passi di Jabès mi sembrano messi lì apposta per essere colti a un livello subliminale e quindi, non mi sembra possibile spiegarli tutti a parole. 91 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 92 La Cabala potrebbe essere però lo strumento necessario per cogliere tali passi. Se anche Jabès avesse scritto la sua roba di getto e mai avesse davvero studiato le attribuzioni cabalistiche, bisognerebbe comunque tenere in conto la Cabala in quanto matrice della cultura di cui egli si è fatto continuatore. Tutte queste cose vanno affiancate e non sostituite a ciò che su Jabès si legge o si scrive. La condivisione impossibile in Jabès Fortuna Balzano “Molto presto mi sono trovato di fronte all’incomprensibile, all’impensabile, alla morte”, a tutto quello di cui non si può dire niente, cose che sfuggono al nostro intelletto (e, prima ancora, alla nostra esperienza e al nostro controllo). Perché tutto quello che ci è immediatamente chiaro e manifesto è esprimibile con le parole. Finestra. Albero. Paura? Amore? Già queste parole pretendono di essere più di quello che sono, racchiudono un universo inafferrabile. Leggo sul dizionario, è proprio qui sulla scrivania: “amore: sentimento di affetto vivo, trasporto dell’animo verso una persona o una cosa, profonda tenerezza, devozione”. Basta una parola a descrivere un turbinio di emozioni e sensazioni? E quelle “farfalle nello stomaco”di quando ci troviamo davanti la persona amata, come si definiscono? E la voglia allo stesso tempo di legarla a noi e che sia libera, e felice anche senza di noi? Basta una parola a dire questo (e molto di più)? “Amo le patatine”, dicevamo in una lezione, non ricordo più a proposito di cosa… Che cos’è una parola? È solo il più imperfetto dei simboli. Insomma, con queste seppur scarne premesse, figuriamoci cosa si possa dire della morte (la nostra), dell’inconoscibile, dell’impensabile (dal momento che il pensiero è fatto proprio di parole)… Mi sono interrogata spesso sul valore delle parole. Penso che quando parlando con qualcuno vengono fuori solo cose già dette e sentite, allora è tanto meglio starsene zitti a guardarsi le mani. Perché il silenzio produce imbarazzo? Perché tutti sentono il bisogno continuo di muovere le proprie bocche? Perché pensano che “dire niente” sia uguale a “essere niente”? Queste domande me le pongo spesso. 92 93 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 94 A volte (spesso) trovo che sia inutile parlare. Le parole non aggiungerebbero niente. Ed ecco che Jabès mi parla proprio di una parola non detta, una parola di silenzio, che non è parola reale, non è fatta di lettere e congiunzioni e verbi…, ma è forse l’unica che significhi veramente qualcosa. È quella parola che sta solo dentro di noi. Penso che tutti la sentiamo, ma nessuno può averne coscienza. Jabès allude (probabilmente) alla nostra “idea di fondo”, non so come chiamarla, quella che guida tutto il nostro essere e agire, e i nostri pensieri sul mondo e sulle cose. Si riferisce a quella parola. Quella è l’unica vera e l’unica che non si può esprimere. Forse avevo già un certo sentore di questa parola, ma non la vedevo chiara come ora grazie a Jabès (chiara, si fa per dire, in realtà non è chiara per niente, è una figura con i contorni sfumati, che tuttavia riesco a distinguere “beh, anch’io mi sono trovata costretta a scegliere una parola, e ho scelto la meno peggio, non ne ho trovate di più pregnanti…”). Ora capisco che il mio problema (ancora una parola che non mi sembra dire quello che intendo) rispetto al linguaggio e allo scambiarsi parole (più o meno vuote) sta nel fatto che noi non potremo mai comunicarci quell’unica parola che conta davvero, e che ci dice chi è l’altro. Ma Jabès mi porta oltre: bisogna accettare questa incomunicabilità, questa condivisione impossibile. Anche se non possiamo scambiarci nessuna verità (la Verità), potremo darci l’un l’altro (anche - e soprattutto - senza parole) dei pezzetti della nostra umanità. Non so come spiegarlo. Forse sono proprio quei frammenti di verità. Questi frammenti li trovo più spesso in persone di scarsa cultura, che pensano e vivono in modo semplice, che stupiscono per la loro ingenuità, piuttosto che in coloro che pretendono di insegnare, che sanno tutto del mondo senza sapere nulla di loro stessi. E penso che valga la pena 94 di impegnarsi a cogliere questi cocci nascosti in ognuno di noi, ben sapendo che il vaso è distrutto per sempre. E il mondo ci piacerà un po’ di più. Ecco, proprio la “vita come lettura”: ognuno di noi è un libro, libro è il mondo, da leggere avidamente pagina per pagina. Fino alla fine - la nostra - non quella del libro. Proprio qualche notte fa si parlava con degli amici, tra vino e sigarette fino a tardi, del “senso della vita” (parola grossa…), cercando di raggiungerlo un pezzo alla volta (la famiglia l’amore la religione… le parole… guardacaso) per poi ricomporre questo improbabile puzzle. E alla fine, ovviamente (penso che lo sapessimo già tutti prima di incominciare a discuterne), la risposta all’ultima domanda, all’ultimo perché, era sempre “e chi lo sa”… Mi sono ormai rassegnata a non trovare mai quella risposta, ma ci sono tante piccole scoperte, tante domande più semplici (sempre per modo di dire…) che aspettano una risposta, e penso (ma questa è una cosa già sentita) che davvero l’uomo - ogni uomo - abbia come ruolo quello di porsi continuamente domande e cercare di rispondersi, magari servendosi anche di quello che altri hanno già scoperto e proposto, ma mai accettandolo acriticamente, sempre comunque rielaborandolo dentro di sé, facendolo proprio. E pensare che volevo solo commentare una “paginetta” di Jabès… non mi aspettavo una riflessione sulla vita. Sono ancora all’inizio del libro, purtroppo sono riuscita a procurarmelo solo ora, e la prima pagina mi ha colpito molto, leggerlo di persona è diverso da sentirlo leggere. È come se avesse acceso una candela nella mia testa. Fioca, incerta, ma pur sempre luce. Non so se sia un effetto proprio della sua scrittura, ma mi sembra davvero che non abbia fatto altro che dirmi qualcosa che già sapevo, ma non riuscivo a esprimere e quindi a capire. 95 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 96 Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare Nicoletta Fossa Molto bello il testo di Dario, interessantissimo. Conoscevo la Cabala solo per sentito dire, è bello scoprire cose nuove. Intrigante il coinvolgimento di Jabès con la Cabala! Penso che è vero che “ciò che accomuna la mistica in generale è il superamento delle barriere dell’io, che trae la sua forza dal linguaggio” ma anche che “si può imparare a trascendere il linguaggio attraverso il linguaggio”. Mi è venuto in mente il mantra (...): si può usare la parola, causa di allontanamento dalla verità degli esseri umani, invertendone il ruolo per far sì che diventi strumento di avvicinamento alla verità ultima, l’essere. È interessante vedere come ogni religione e relativa mistica abbia affrontato il problema del superamento dell’essere. 97 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 98 Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare Tiziana Carlino, ebraista, laureata all’Orientale La Cabala, via mistica dell’ebraismo complessa e non riassumibile in alcun semplice schema (o glifo), prevede che il mistico raggiunga l’estasi attraverso la meditazione sulla parola (o attraverso la ripetizione continua di una data parola/formula). Ovvio che la parola in questione debba essere in ebraico. Jabès non conosceva la lingua della Torah (eccezion fatta per qualche parola). Il suo interesse per la Cabala (non così forte come potrebbe sembrare) nasce all’interno di un più vasto interesse per i testi sapienziali ebraici (Mishnah e Talmud che costituiscono la codificazione scritta della legge orale). Jabès lesse queste opere in traduzione – francese – in un particolare periodo della sua vita, cioè dopo l’esilio (1957, un anno dopo la guerra di Suez) che costrinse lui (come molti altri ebrei) a prendere coscienza di una certa ebraicità da cui non si poteva rifuggire (l’inevitabilità dell’esodo, il ripetersi della diaspora). Il riavvicinamento alla cultura ebraica nella sua accezione più tradizionale (ma anche più ampia) costituiva un passo verso la comprensione, la conoscenza, di una componente della propria identità di singolo e non. Ciò detto, va sottolineato che Jabès non era un religioso ortodosso e osservante (fu lui a parlare di un judaisme après Dieu). Riprende la struttura interrogativa dei testi della tradizione rabbinica in maniera assolutamente ‘creativa’ e postmoderna. La forma è un mezzo… e qui sono pertinenti le osservazioni di Derrida, secondo cui Le Livre des Questions e tutti i libri seguenti) danno voce ad un’inquietudine ebraica e, aggiungo io, assolutamente contemporanea e attuale (nella forma e nella sostanza). 99 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 100 Riporto qui di seguito le parole dello stesso autore tratte da Du désert au livre: “Je crois avoir retrouvé une certaine tradition dans la mesure où je me suis abondamment plongé dans la Cabale et le Talmud. J’ai lu beaucoup, aussi, autour de ces livres car ce sont évidemment des ouvrages qu’on ne peut, d’entrée, aborder seul. J’ai lu aussi, en traduction naturellement, la plupart des maîtres spirituels juifs... Ces lectures rejoignaient tout à fait mes préoccupations d’écrivain. Elles me semblaient non seulement exciter ma propre interrogation mais la prolonger dans un passé immémorial”. 100 Il silenzio Raffaella Iaconantonio Il tema del silenzio è uno di quelli a cui sono più legata, forse perché nella mia anima sono più gli spazi bianchi che quelli neri. Il Silenzio è un linguaggio completo: puoi ascoltare la sua voce perché ti parla, puoi vedere immagini perché ti regala il dono dell’immaginazione, puoi quasi sentirlo se diventi tutt’uno con esso. Quella in cui viviamo è una dimensione comune, che ci tiene legati in gabbie imposteci dalla società, siamo vittime di un processo che ci ha reso deboli (antropologia della debolezza). Per questo motivo dobbiamo “liberarci” di tutto questo,”trasferirci” in un’altra dimensione, ma soprattutto cercarla (nomadismo: ricerca infinita). La strada del silenzio non è forse sicura come quella della parola (“segno”), ma è quella della vita, dell’essere nomadi alla continua ricerca del vuoto. 101 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 102 La tentazione nel giardino dell’Eden Fortuna Balzano E Dio creò Adamo, un uomo che non è uomo, perché orfano del suo passato. E l’uomo è nulla senza passato, perché non è come una pietra sempre uguale a sé stessa. Senza ogni singolo istante vissuto finora, non saremmo quello che siamo. Senza i no, senza i baci della mamma, senza le porte sbattute in faccia, senza le lettere non scritte. Senza i saggi consigli inascoltati... Eva nasce dal sonno di Adamo. Eva è diversa da lui. Eva passa le sue giornate (sì, le immagino anch’io abbastanza noiose) seduta sotto quel melo: - Eppure sembra così dolce e succosa… Perché ci hanno detto che non si può? Cosa ci sarà di così tremendo…? Quasi quasi la provo…. Ed è così che Eva scopre che tutto è possibile, così conquista la sua umanità. Nella trasgressione, nel desiderio di sentire le cose sulla propria pelle. Fuori dall’Eden! E allora? Adesso è libera. Libera di scegliere, di pensare, di crearsi giorno per giorno. L’uomo non è nulla senza passato, ma è molto poco senza libertà, perché solo nella libertà può realizzarsi pienamente. La libertà non è un dono dell’Onnipotente, ma va conquistata scalciando, e il prezzo da pagare è il rischio: la mia scelta potrebbe essere quella sbagliata. La conseguenza del mio errore sarà la sofferenza. Ma se non provo, se per una volta non esco dai binari, se non mi rifiuto di seguire il modello sul quale cercano di plasmarmi, non lo saprò mai. Perderò la possibilità di assaggiare i frutti più dolci. Non sarò uomo, sarò come quella pietra. Sono passati millenni da quel giorno che sancì contemporaneamente la nostra condanna e la nostra possibilità di riscatto, ma il serpente lo portiamo ancora con noi. Il 103 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 104 serpente è l’assenza, l’angoscia, il bisogno di sapere, di superare i confini. È lo stesso serpente che convinse Prometeo a rubare il fuoco agli dei, salvando l’umanità (...). Avevo scritto queste cose tempo fa, sotto la spinta di tutt’altra ispirazione. Il serpente a cui pensavo è tutto quello che tentano di sopprimere dentro di noi, tutto ciò che abbiamo di diverso, di “non conforme”… tutto ciò che vorrebbero farci odiare di noi, e che è in realtà la cosa più preziosa che abbiamo. Vogliono farcelo ricacciare nell’oscuro della nostra anima. È figlio dell’altro serpente, quello che Eva ascoltò in quel fatidico giorno di sedizione, dolore, libertà. Vogliono farci credere che il serpente sia male, ma io penso che Dio (se è davvero così buono come dicono) l’avesse messo lì apposta, perché lo seguissimo, perché potesse insegnarci che l’Eden non è un punto di partenza, ma un arrivo, e solo se ci rendiamo liberi e usiamo questa infinita libertà in modo giusto potremo vivere un paradiso sulla terra (la strada è lunga e tortuosa, e non è detto che abbia fine). Sta a ognuno cercare il significato di quella parola: giusto. Ma questa è un’altra storia. Jabès – saggezza nascosta, da scovare nella potenza così dolce delle sue parole – ci dice tutto questo. E lo fa nel senso che lascia aperte tutte queste buste vuote dietro di sé, e ognuno vi legge quello che avrebbe desiderato scrivere a sé medesimo, servendosi della mano del suo corrispondente. Mi rendo conto che è proprio quello che sto facendo. Ho questa mania di leggere un insegnamento di vita in ogni pagina. Raccolgo frammenti di verità. La ricerca continua… 104 Silenzio, parole, scrittura Martina Caschera La cultura del grido, il recupero del silenzio. All’assurdo i tragici greci rispondevano col grido e col pudore. Il grido, senza controllo, il pudore, massimo sfoggio di volontà e forza virile. Il greco conviveva col dolore, la sua dimensione naturale. Dal punto di vista musicale la società moderna, le ultime generazioni in particolare, reagiscono in maniera contraddittorie e tutte interessanti. Parziali verità, singhiozzanti tentativi di sopravvivere. La voce straziata di Janis Joplin che sembra scoppiare, corde vocali straziate. La lotta tra il grido ed il silenzio è vecchia quanto l’uomo e forse anche di più: Dio non avrebbe creato l’uomo se non fosse stato stanco del silenzio e del nulla. L’uomo nasce da questo nulla e la sua morte è lì che lo riporterà: il grido ed il pudore, le risposte al cammino nel deserto. Lo stesso cammino è come affogare e riemergere nel mare delle parole che ci affondano e, nel silenzio, ci tirano su. Il punto per Jabès è proprio questo: la parola ha senso perché circondata dallo spazio bianco o, viceversa, è lo spazio bianco ad assumere valore grazie alla limitazione della parola? Come l’alfabeto morse, come Dio che crea l’uomo e lo costringe all’angoscia, all’assurdo... E questo dovrebbe essere l’amore, la condanna a non comprendere mai il Libro, a riscriverlo e a tradirlo nel tentativo di riemergere dall’acqua. L’intera storia della società può essere letta, a mio avviso, come un oscillazione, un arrampicarsi affondando nelle dune di questo deserto spazzato dal vento. Ed eccoci qua, umanità, che dalla culla del tragico – i greci – è arrivata al secolo dei media. Più che mai la parola perde il suo valore, il grido perde la sua funzione espressiva. 105 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 106 Pasolini già parlava di società di massa, di grigiore del singolo confuso in ciò che viene detto. Il discorso si dirama nella sociopsicologia, nella politica, nella filosofia, nella letteratura: ognuno ha dato una sua interpretazione all’affogare della parola nella linea, sempre più lontana dal silenzio e dalla comunicazione: “un giorno arriveremo a leggere gli spazi bianchi”. Proviamoci. Nel frattempo anche la musica risponde e risponde recuperando alcune delle esperienze del corpo. Viene ritrovata l’esigenza di annullare la richiesta di risposte e affogarla nella percezione e nei sensi. L’assurdo è quanto mai sentito nelle ultime generazioni. (Potrei approfondire questo argomento e portarle esempi di testi di canzoni. Un solo esempio: Sigur Ros, The nothing song). Ecco una poesia di Eugenio Montale, a parer mio totalmente appropriata: non chiederci la parola non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. ah l’uomo che se ne va sicuro agli altri e a se stesso amico e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì. qualche storta sillaba e secca come un ramo. codesto solo oggi possiamo dirti ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. (Ossi di seppia, Eugenio Montale) 106 È vero: il silenzio spaventa perché lì dentro covano le parole, lì dentro può esserci proprio quella parola che non va detta, che non deve essere detta. Quella che aspettiamo da sempre. Oppure non c’è nessuna parola, c’è solo la morte. Nel silenzio c’è la dimostrazione della nostra vittoria e quella della nostra sconfitta ed è per questo che il silenzio è il luogo della disperazione e dell’amore più assoluto. Ogni persona che condivide con noi il suo silenzio ci apparterrà e ci cambierà per sempre. Basta solo capire che così ci consegna il suo frammento di verità, e noi avremmo tra le mani la cosa più preziosa che esiste: non avevamo mai visto, prima, cosa bella quanto la verità del silenzio. “La verità si offre noi nuda”, un po’ come l’arida e irriguardosa bellezza dei paesaggi in cui si immerge Camus nell’Estate. La verità, nuda, viene ricoperta di veli che possono essere le parole. Quando cade il loro schermo, quando viene percepita l’inutilità, l’assurdità delle parole, percepiamo che non può esserci condivisione se non nella nudità del silenzio. No, non è vero che nulla ci appartiene. Nonostante l’incomprensibile e l’impensabile e la morte, c’è qualcosa che davvero ci appartiene: questi piccoli spazi bianchi della nostra vita, gioielli preziosi. Vorrei appunto soffermarmi su questa frase di Jabès: “Molto presto mi sono trovato di fronte all’incomprensibile, all’impensabile, alla morte”. Ecco: per me l’accostamento dei primi due concetti al terzo non ha nulla di traumatico: sono le nostre barriere, i luoghi di fronte a cui dobbiamo fermarci, dentro cui dobbiamo perderci. I primi ci lasciano forse una speranza, si possono aggirare. L’ultimo no, ma forse proprio per questo ci offre la possibilità più bella: la vita stessa. 107 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 108 Mi colpisce, in particolar modo, la figura dello scrittore che, pur sapendo, pur essendo il primo a sapere, non può evitare di costringere la sua vita e i suoi pensieri nella forma delle parole. Deve tagliare, piegare, tentare fino alla morte del senso. Deve arrendersi all’infinito spazio bianco tra due parole! Ma a quel punto la sua rinascita: nelle bocche, nelle menti, nelle vite altrui, i suoi spazi così sudati e guadagnati prendono altre forme. Silenzio e parole Fortuna Balzano Il silenzio è la forza del linguaggio. Se il compito del linguaggio è comunicare, il silenzio è la forma più alta di linguaggio. In silenzio possiamo ascoltare noi stessi. In silenzio, uno sguardo può dirci ciò che mille parole non riuscirebbero nemmeno a farci intuire. Il silenzio è il tempo della riflessione, la parola (detta) è disgiunta dal pensiero. Mentre si parla, non si pensa. Semmai si pensa prima di parlare. In silenzio, appunto. Il silenzio delle parole ci fa sentire il mormorio del mondo, il suo respiro. Gandhi passava giornate intere senza dire una parola… Il silenzio è più forte. La parola lo ignora, è debole, lo teme. Ha paura che si possa avvertire tutto il non detto. Il rumore, come la parola, è sordo. Impedisce l’espressione. Non ascolta, non accoglie, è chiuso a chiave, è impenetrabile. Non si ha la sensazione quasi di non esserci, di sparire in mezzo a tanto rumore? La parola più forte è quella scritta. Si scrive in silenzio, si ascoltano i sussulti dell’animo. Siamo nel buio, la vera vista è preclusa ai più. Scrivere è vedere nitidamente. Impossessarsi del linguaggio, e trasformarlo in qualcosa che va oltre il linguaggio: in musica, immagini, emozioni. Un gabbiano che vola nella stanza. Un dizionario è pieno di parole, ma trasmette anche solo una scintilla di vita? Una parola in sé e per sé non dice niente. Lo scrittore è una cosa sola col libro: il libro è la sua voce, e parla in silenzio, urla in silenzio, geme e piange in silenzio. Ride silenziosamente. Il silenzio amplifica ogni cosa. 108 Tutto questo forse il mondo inconsciamente l’ha capito, e ha orrore del silenzio. Perché bisogna imporre se stessi, anziché ascoltare l’altro. Perché lui è peggiore di noi. E se non riusciamo a zittirlo, penserà di essere migliore… 109 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 110 Perché bisogna essere sempre “attivi”, bisogna correre continuamente (chi si ferma è perduto!), e la parola è più veloce del pensiero. Perché se ci fermiamo un attimo, e guardiamo, e ogni rumore tace, vedremo quanto sia infame e triste e infermo e vuoto questo mondo con i suoi abitanti di plastica. Perché pensano di stordirci con le loro parole morte. Perché il silenzio è gratis… La crisi del linguaggio e il silenzio Francesca Aufiero “Il silenzio non è debolezza del linguaggio. È al contrario forza. La debolezza della parola è ignorarlo. Più che al senso aggràppati al silenzio che ha modellato la parola. Il silenzio è universo di solitudine”. Mi ritorna in mente una frase “Ci capiamo in quanto ci capiamo poco”, siamo abituati a scambiarci parole senza significato e troppo povere. Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos, scrivendo a un destinatario immaginario, si accorge dell’arbitrarietà delle parole e osserva che: “mentre tento di parlare, le parole si disfano in bocca”. Non riesce più a parlare, in altri termini. Dal canto suo, Jabès invita al silenzio, agli spazi bianchi: “Un giorno arriveremo a leggere gli spazi bianchi tra le parole, grazie ai quali soltanto possiamo avvicinarle”. Non è facile arrivare a ciò, vista l’epoca in cui viviamo! Oggi si dà importanza all’io, alle parole, e nessuno sarebbe in grado di concepire un mondo senza parole. Siamo troppo presi dal linguaggio, utilizziamo parole che non sono nostre. Sono parole, ma già utilizzate. Credo che ci siano poche persone come il personaggio di Sheckley (La decima vittima, 1954), che tenta di imparare il linguaggio dell’amore. Il protagonista del racconto lo fa in maniera “scientifica”, ma è comunque apprezzabile che si sia accorto che le parole che usa per esprimere i suoi sentimenti non sono idonee (...). Oggi non siamo capaci né di vedere le cose, né di pensare senza le parole che abbiamo appreso. Come dice Camus, non siamo capaci di percepire la voce del mondo, la sua bellezza. Camus fa capire che il mondo sospira verso di noi, e invita a cogliere il miracolo di tale sospiro. Jabès, invece, fa leva sul silenzio per riflettere sulla vita: 110 111 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 112 “Diventare a nostra volta silenziosi nella speranza di fonderci con essa. Ma non possiamo prenderne coscienza che attraverso la parola. E questa, purtroppo, ogni volta ci allontana dalla meta”. Parola detta e parola cantata Annapaola Mazzoccoli Vorrei sottolineare la grande differenza che intercorre tra una parola cantata e una pronunciata. La parola cantata, infatti, esprime sensazioni emozioni... a differenza di una parola pronunciata. Ecco parole di Janis Joplin: When I’m there, I’m not here. I can’t talk about my singing: I’m inside it. How can you describe something you’re inside of? (Quando sono lì non sono qui. Non posso parlare del mio cantare: io sono dentro di esso. Come puoi descrivere qualcosa in cui tu sei dentro). Mi sono molto piaciute queste poche parole, perché esprimono la difficoltà ad usare le parole per esprimere ciò che si ha dentro... Ho scelto Janis Joplin perché è una di quelle persone che ha bruciato: “chi non brucia non incendia” . Lei sì che ha vissuto ogni istante come se fosse l’ultimo! 112 113 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 114 “La peste” di Camus Ivana Carandente (...) Per tutti arriva un momento in cui il dolore stanca e sfinisce a tal punto che si desidera la fine, qualunque essa sia. E c’è poi la paura del contagio. Perché la peste è nel cuore anche di coloro che non ne sono infetti (...). 115 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 116 Il Libro delle interrogazioni Alessandra Bruno e Chiara Minieri Il problema posto da Edmond Jabès affonda le radici nel concetto di lingua come comunicazione. A suo avviso le regole della comunicazione si ergono su false basi: le parole, i vocaboli, non sono sufficienti, anzi, sono codici completamente sbagliati per comunicare. C’è bisogno di un radicale cambiamento, di un’innovazione che individui i suoi orizzonti nel silenzio. Si tratta di riappropriarsi della libertà alla quale si giunge attraverso le interrogazioni, le domande che – sottolinea l’autore più volte – assicurano la vita. L’assenza della parola consuma lo scrittore, che sa di non poterla mai trovare, che sa di essere obbligato alla falsità. Forse, colui che si libera da questa falsa comunicazione è il poeta, che riesce a trovare la parola giusta, una parola che sia per metà silenzio. Il poeta avvolge d’ombra le parole, offusca la loro luce. La verità, per Jabes, è proprio lì, al buio, nel silenzio. Dio stesso è silenzio, l’autenticità nel mutismo. Quando si tace, nell’imbarazzo delle bocche chiuse si avvertono frammenti di verità, che si allontanano non appena si ricorre di nuovo alle parole. Lo spazio di silenzio è anche quello della penombra. È un ragionamento che contrasta fortemente con quanto si ritiene comunemente. Nella penombra ci si può muovere, lentamente, ma pur sempre muovere. La luce è per antonomasia rappresentata da Dio, e quindi, inizialmente, il ragionamento porterebbe a credere che, secondo Jabès, Iddio non detenga la verità. Invece, pare cambi semplicemente la maniera di concepire il Signore, costantemente invocato dall’autore, e sempre chiamato in causa. In Lui, nella Sua lingua, nel Suo silenzio, v’è la vera comunicazione, le autentiche parole di verità. 117 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 118 Dio è costantemente chiamato in causa, ma è diverso l’atteggiamento nei suoi confronti rispetto a quello adottato nel Libro della condivisione. Nel Libro delle interrogazioni c’è un’intimità maggiore, un rapporto a due, si parla con Dio, lo si definisce, lo si tira giù per parlare di Lui. È indubbiamente difficile da capire, bisogna leggerlo e rileggerlo, lo si comprende in frammenti, ma iniziamo a chiederci se l’obiettivo finale di chi l’ha scritto non fosse proprio questo. È affrontato anche il problema dell’essere ebrei, un problema portato all’estremo con la strage dei campi di concentramento. Essere ebrei è un fardello, fonte di sofferenza, e umanamente non può non essere capito. Ci ha profondamente colpito la breve frase pronunciata da uno dei tanti rabbini immaginari che parla di un sogno in cui lui non era più ebreo, e il dolore lancinante nello scoprire, al suo risveglio, che lo era ancora. Perché è evidente che essere ebrei è una condizione di vita, che trascende la religione, che condiziona tutti gli aspetti dell’esistenza, e scivola anche nella ricerca. Un filo sottile pare collegare l’ebraismo e la ricerca della terra promessa (terra di libertà) con la ricerca della verità, di Dio nel suo silenzio. La terra degli ebrei non è mai qui, non è mai circoscritta in termini formali, è un continuo errare, un continuo sondare il terreno, proprio come l’estenuante ricerca del verbo perfetto, della parola di silenzio Sembrano proprio la stessa cosa. È un popolo eletto, eletto da Dio, ma anche dalla sofferenza, dall’inquietudine. È bellissima la canzone che parla delle razze, dei colori. Un continuo riferimento al viaggio, al vagabondare. Yukel nasce e muore tante volte per parlare della terra di Dio, di Sarah, di come è morto lui, di come muore lei. Tutti gli elementi sono presi in considerazione e guardati sotto una luce diversa, nella penombra divina. Continue manifestazioni di Dio, del suo volto senza nome. La morte è presente nel libro, così come è presente il cielo, e l’acqua, e gli astri. 118 119 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 120 L’esperienza del dolore Lina D’Angelo Il dolore si conosce per esperienza, un po’ come un oggetto strano con il quale ti ritrovi a giocare all’improvviso, una forma particolare che giri e rigiri e non sai come prenderlo, come quei cubi colorati che devi mettere a posto. Io stessa non avrei mai potuto capire cosa fosse il dolore se non lo avessi affrontato guardandolo negli occhi. Arriva improvviso e subdolo, sconvolgendo il ritmo abituale dell’esistenza. All’improvviso ti accorgi che tutto è diverso da come ti è sempre apparso, perfino lo spuntare del sole ha un sapore diverso perché sei cosciente che quella potrebbe essere la tua ultima alba. Si soffre tanto poiché c’è l’egoismo di vivere. Solo attraverso l’esperienza del dolore si può assaporare l’anticipo di quella che sarà la morte, non è tanto essa che spaventa ma la sua attesa. Presa coscienza della propria sofferenza, non resta che indossare una “maschera”, unico modo per dire la sofferenza. Si cerca di confrontare il proprio dolore con quello altrui, e so bene che l’unico oggetto di conversazione di una sala d’ospedale in cui tutti attendono, o meglio, prendono coscienza di quello che li attendeva, è il proprio dolore. Si cerca di parlare, per quel poco che è possibile, con la forza che resta, quasi come un atleta stanco verso il traguardo. Quando il dolore fa parte del tuo essere, quando ti è dentro e non puoi sentirti che una mela bacata, è l’unico argomento delle tue conversazioni. Ripensando a Giobbe: “Ma, se io parlo, il mio dolore non si lenisce, e se taccio, non se ne và via da me…” Estranei al mondo in cui si è sempre appartenuti, sappiamo d’illuderci poiché il dolore non è scambiabile con gli altri. Ci si confronta, si scambiano false speranze… Secondo Natoli, le persone sofferenti cercano di condividere il proprio dolore con gli 121 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 122 altri: non c’è cosa più vera. È anche vero che le parole non servono a chi soffre, ma quando ti ritrovi con un caos mentale che ti assale, quando vorresti dire molte cose, e rischieresti di sbagliare e di non esprimere davvero ciò che senti, ecco che c'è ... la poesia. È come se non scrivessi più con la mano e con un semplice oggetto qual è la penna, ma con una forza che ti parte dal petto, incontrollabile e smisurata che non puoi fermare con la razionalità. Di alcune persone, spesso non resta altro che il risuonare delle loro parole nella mente, soprattutto quando dopo una settimana si ritorna nell’ospedale e da una sedia vuota s’innalza un denso fumo di ricordi e suoni, mentre il corpo è svanito... Ne ho udito molto spesso di simili cose: consolatori molesti siete voi tutti. Avranno mai fine queste parole di vento? La cosa peggiore è che non ti senti padrone del tuo corpo, un po’ come quando ti si addormenta una mano: tu la vedi è lì, è tua… ma non la senti. È in quei momenti che il dolore diventa tragedia. Il dolore c’è, ci sarà sempre, ma il segreto sta nel saperlo affrontare. Ci sono giorni in cui inizi a “soffrire” appena apri gli occhi al mattino, e magari vorresti un risveglio diverso, sereno con l’odore del caffè che viene dalla cucina, una carezza che ti fa iniziare meglio la giornata, e magari invece ti trovi a far fronte alle situazioni più assurde e sconfortanti, ma non bisogna affliggersi. Convivere con il dolore, farlo entrare a far parte della tua esistenza ma sapendolo affrontare… tenendolo al guinzaglio come una tigre, sapendo che in qualsiasi momento potrà azzannarti una gamba, un braccio… e la tua forza sta nell’asciugarti le ferite senza troppi capricci. Continuare a camminare per andare verso la luce che ti chiama, verso l’obiettivo della tua giornata. 122 Al mondo non c’è cosa più bella di vivere la vita, senza attendere nulla dopo di essa, immergendosi nella natura, nelle cose più semplici… sposandosi con il mondo. Nozze di Camus potrebbe essere un valido vademecum per iniziare a guardare la vita con occhi diversi. Amo questa vita con abbandono e voglio parlarne liberamente: essa mi dà l’orgoglio della mia condizione di uomo. Pure, spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui essere fiero. Sì, qualcosa c’è: questo sole, questo mare, il mio cuore che balza di giovinezza. Solo quando si è coscienti che la vita può esserci strappata da un momento all’altro, che tutto ciò che facciamo verrà preso dalla morte, si può capire e vedere la semplicità nelle cose: un sorriso sembra più luminoso, il volo di un uccello sembra farci librare in aria con lui, il cibo ha un sapore diverso, i colori sono più vivi e… le persone, beh… immaginando di poterle perdere s’impara ad apprezzare anche i loro difetti, e a lasciarsi persuadere da un senso di reale amore per il prossimo. L’idea della morte, del dolore che non ci abbandona, non deve portare a rinchiudersi in un pessimismo radicale, e lasciarsi sopraffare dall’angoscia, ma a vivere attimo per attimo, un po’ come il carpe diem oraziano: Sii saggia, mesci il vino – breve è la vita – rinuncia a speranze lontane. Parliamo, e fugge il tempo geloso: cogli l'attimo, non pensare a domani. 123 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 124 Passione e autonomia nella scrittura di Jabès Maiko Siano La scrittura è intesa come nascita e passione: nascita, perché il linguaggio viene considerato come una radice ferita, e i rami, le foglie, i fiori di questa radice sono le parole (nascita perché nascita delle parole); passione, perché questo processo non è visto come qualcosa di banale, ma come un iter doloroso che parte da una ferita (la lingua) e che prosegue con la scelta, che a sua volta è sottomissione. Siamo abituati a vedere nella scelta uno dei gesti che più e meglio riassumono, e rappresentano, il nostro modo di concepire la libertà intesa come libero agire. Qui tale visione viene completamente rovesciata: scegliere comporta un bivio, un aut aut che ci costringe a scegliere una cosa piuttosto che un’altra. Non siamo noi a scegliere liberamente, ma è la scelta stessa che ci impone di scegliere ed è in virtù di questa imposizione che l’uomo è sottomesso. Detto questo sarebbe troppo facile dire che per Jabès il poeta non è libero o che la libertà non esiste. Non è così. La libertà esiste solo in funzione di quello che è il processo di creazione di un’opera da parte dello scrittore, anzi (molto di più) è qualcosa che fa parte di questo processo. La libertà come la intendiamo noi non esiste di fronte alla scelta, eppure la libertà ci porta alla scelta. La libertà concepita in questa maniera diventa autonomia. Per Jabès è l’autonomia a diventare libertà, un’autonomia che si compie in questa passione. Penso che l’autonomia sia rappresentata da Jabès come una libertà parziale. È impossibile essere totalmente liberi, la nostra vita è sottoposta a una continua scelta. Dal momento in cui ci svegliamo, il nostro io, la nostra anima, ma soprattutto la nostra mente sono vittime di una serie impressionante di scelte e del nostro autolesionismo. 125 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 126 È l’autonomia a salvarci dalla completa sottomissione e dalla follia. È impossibile essere totalmente liberi, ma è altrettanto impossibile essere completamente sottomessi. Autonomia come processo interno alla passione. In quanto tale, essa non è qualcosa di predeterminato, ma una conquista che lo scrittore acquisisce gradualmente. Dice Jabès: “La libertà è uguale allo stelo della rosa. La spina annuncia il petalo”. Non solo l’autonomia si acquisisce, ma comporta una serie di ostacoli e perdite. La libertà è qualcosa di cui sentiamo di non poter fare almeno ma che ha un costo. Penso a Yukel e penso a chi come lui ha vissuto nei campi di sterminio di massa tedeschi, penso a Primo Levi. Una frase emblematica è quella di Gabriella Sobrino che, parlando con lui, gli disse: “non sei mai uscito da Auschwitz”. Yukel, come Levi, trova la sua soluzione nel suicidio. Questo ci induce a pensare ai nostri dolori: sono paragonabili a quelli di Levi? Il nostro modo di sentire la morte può avvicinarsi a quello di Yukel? Di fronte a tutto ciò reputo i miei dolori infinitamente piccoli. Di fronte a queste domande credo che l’ unica risposta possibile sia, né si né no, ma semplicemente ricordare e non pensare. Quando Jabès parla della libertà in questi termini, il mio pensiero non può fare a meno di allargarsi alla concezione della vita. In fondo credo che la libertà non sia altro che un aspetto di un sistema più grande, cioè la vita. Oggi più di ieri e ogni giorno ancor di più, la vita è fatta per la maggior parte di dolore e morte, e questa nostra consapevolezza aumenta se ai nostri piccoli dolori aggiungiamo una situazione mondiale che non parla d’altro che di guerre e carestie. A questo proposito mi chiedo se di fronte a grandi tragedie come quelle di oggi o del passato si possa dire qualcosa. Quello della scelta, a mio avviso, è un discorso da non sottovalutare perché la travagliata nascita della parola comporta un rischio, cioè il non detto, l’indicibile che incombe di fronte alle grandi tragedie della vita come la morte: “Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte” (sopravvissuto di Hiroshima). Sembra quasi che in questi frasi siano implicite le domande che si pone Jabès. Inoltre, è interessante vedere come che chi ha visto la morte vera, chi ha vissuto la morte come pane quotidiano, non possa trovare altra soluzione dal suicidio e questo è ciò che capita a Yukel. 126 127 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 128 Osservazioni su Maiko Siano Tiziana Carlino Dal discorso di Maiko emergono due dimensioni importanti del Libro. Sono osservazioni ben formulate (scrivo le mie in margine proprio in omaggio a Jabès – anche gli studenti stanno in fondo scrivendo un altro Livre des marges). C’è una cosa che viene fuori molto rilevante. Jabès non aveva conosciuto l’Olocausto e dunque non era un sopravvissuto. Ma, come per i reduci e gli ebrei europei vittime dell’antisemitismo, arrivò a percepire che per la razza uscita dal libro (questa è la definizione di Derrida) la libertà forse non esisteva o che comunque era una cosa ‘difficile’. Jabès non poté scegliere di restare in Egitto, non fu libero di vivere dove era nato. Da qui e dalla dolorosa esperienza dell’esilio rinnovato scaturisce Il Libro. Di fronte al dramma della Shoah credo che sia rimasto sconvolto (come molti ebrei ‘orientali’ che non immaginavano le proporzioni della tragedia) e il suo Yukel che sceglie il suicidio (come molti scampati di cui abbiamo parlato), sceglie, in fondo, il silenzio. 129 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 130 Il Libro della sovversione non sospetta Irene Tortorella Leggendo il capitolo “Pagine bruciate” del Libro della condivisione mi sono venute in mente alcune poesie di Federico Fiumani, un poeta e chitarrista di un gruppo dark rock decadente della scena new wave fiorentina degli anni ‘80. Una di queste è senza titolo: Davanti al libro che desidero mi fermo e penso: se lo leggo l’amerò così tanto che i miei pensieri saranno uguali ai suoi, perderò la retta via, non nasceranno i fiori che con tanta cura ho innaffiato d’inverno. Mi fa quasi sorridere la sua paura di “condividere appieno” un libro. Per fortuna, e in questo sono pienamente d’accordo con Jabès, “non si condivide mai un libro, non foss’altro che per la diversità dei modi di accostarci che suscita”. Fiumani si accosta alla lettura dopo un inverno di cure amorose ai suoi fiori, una metafora che non mi spingo a tradurre ma di cui percepisco il senso. Ognuno di noi, in ogni momento della nostra vita, si avvicina alla lettura con stati d’animo differenti. A volte credo che alcuni libri ci capitino sottomano in libreria perché fremono per essere letti, perché quello è il momento giusto non per condividerne la morale o il significato, ma per uno scambio equo in cui “avremo tenuto tutto per noi o concesso tutto senza contropartita”. Le parole che scambiamo con gli altri sono usurate. Sicuramente questa comunicazione ci aiuta a vivere ma mette a disagio il poeta che sente dentro di sé qualcosa pre131 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 132 mere per venir fuori: “una parola più forte di tutte le altre - più personale anche. Parola di solitudine e di certezza, così nascosta nella notte che a malapena è udibile da se stessa”. È la parola che non si può condividere. È ciò che resta celato anche nei discorsi più ampli. È fuori dalle parole. Nel Libro della sovversione non sospetta, tutto ciò che sconvolge l’ordine precostituito è sovversivo: il risveglio interrompe il sonno, il pensiero vince sul nulla, la parola rompe il silenzio e la lettura mette in questione lo scritto. La vita stessa è sovversiva, si erge contro la morte spontaneamente perché è così che la sconfigge, senza sforzarsi di farlo ma in un clima di non sospetto, con un comportamento assolutamente naturale. Anche il pensiero è ribelle quando si pone in contrasto con l’impensato, così come il libro che si scrive si pone contro il libro già scritto. Per trovare un equilibrio interiore di fronte a questi infiniti atti di sovversione dobbiamo impegnarci a vivere senza sforzarci di farlo, con naturalezza, accogliendo la nostra lenta evoluzione. E soprattutto dobbiamo affrontare la vita, il pensiero e la scrittura, luoghi conflittuali. Provando a diradare i conflitti possiamo tentare la via del dialogo, che non è quella della condivisione ma ricerca della verità, del silenzio dietro alle parole, nonostante esso non sia percepibile. È forse questo che può dare un senso alla vita: non arrivare alla verità ma cercare di avvicinarla per quanto ci è possibile. È una piccola ancora di salvezza, “una fessura da cui sgorga la vita”. Disponibilità e ospitalità Luca Moretti Due riflessioni formulate leggendo il libro di Jullien Il saggio è senza idee. La prima riguarda il concetto di verità. Per i filosofi la verità è una meta da raggiungere tramite un processo logico che parte dall’idea e che poi si trasforma in una tesi da dimostrare. La saggezza invece vuole intraprendere un cammino che sicuramente non porterà ad una verità, perché è al di fuori della nostra comprensione, ma è necessario per non rimanere rigidi nel proprio pensiero. “Al contrario della filosofia, che può essere esposta metodicamente, la saggezza dà luogo non a progressione ma a variazione”. Questa frase racchiude l’essenza della saggezza, perché fa capire come la cosa fondamentale sia la ricerca continua di un giusto mezzo (variazione) e non tanto una conoscenza raggiunta attraverso la dimostrazione di un’idea di base (progressione). Il pensiero taoista ha sintetizzato fin dall’antichità ciò che per noi occidentali, a causa del retaggio culturale, è molto difficile da comprendere: non esistono grandi verità a cui possiamo arrivare perché, anche se ci fossero risposte alle domande fondamentali della nostra esistenza, probabilmente non potremmo capirle. Non abbiamo, infatti, una visione esterna del nostro mondo. La cosa importante è cercare di fondersi il più possibile con la “via” di modo che noi stessi entriamo a far parte dell’esistenza del mondo. La seconda è scaturita dalla discussione in aula sul pensiero di Jabès a proposito dell’ospitalità e dalla lettura di questa frase: “la disponibilità non è solo l’assenza di ogni posizione fissa, irrigidita nella sua verità, ma è, più radi- 132 133 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 134 calmente, la cancellazione di ogni posizione, sia essa dell’altro o di sé”. Mi sembra che i concetti di ospitalità e disponibilità siano quantomeno simili perché tutti e due sottintendono un’apertura dell’individuo verso l’esistenza nella sua totalità, in modo da non rimanere legati ad una singola concezione. Venendo a mancare un punto di partenza, si ha la libertà necessaria a percorrere, e quindi essere, la via. Dolore, compassione, e altri temi Giovanna Sodano Ripensando al concetto secondo cui osservare il dolore altrui produrrebbe dolore nell’osservatore per il semplice fatto che quest’ultimo vi vede riflesso ciò che potrebbe colpirlo (Natoli), mi sembra che non si sia presa in considerazione la “compassione”. Se mi capita di percepire o, peggio ancora, di vedere sul volto di una persona cara l’ombra del dolore, non ho mai pensato che la sofferenza che si proietta su di me sia dettata dalla paura di poter provare lo stesso, in un futuro più o meno prossimo, ma dalla semplice tendenza a condividere (com-patire) la situazione di questa persona. La compassione di cui parlo non ricalca il concetto di matrice religiosa ebraico-cristiana, che definirei, piuttosto, “pietà”, ma si riferisce ad un sentimento più ampio, che credo sia presente nella stessa natura umana. Non credo che “tutti gli uomini siano buoni”, ma ciò che chiamo compassione può fungere da molla che spinge un essere umano normale alla scelta del volontariato in ambienti disadattati o a partire, lasciando affetti e sicurezze, per una terra sconosciuta messa in ginocchio da guerra e povertà o, ancora (e più semplicemente) a slanci di umanità e commozione di fronte ad immagini di sofferenza infantile… Forse sbaglio, ma credo (o almeno spero!) che ciò non implichi un condizionamento religioso, magari dettato dalla speranza del “premio”, ma dalla consapevolezza di esistere, tutti, “sotto lo stesso cielo”. In merito al testo prodotto con gli interventi relativi alla seconda parte del corso. Non ho ancora letto il libro di Jabès, con le sue riflessioni sulle parole e sul silenzio, ma, mentre riflettevo sulle impressioni e i commenti ad esso riferiti, mi è venuta subito in mente una considerazione che, tra l’altro, ho poi 134 135 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 136 riscontrato in alcuni dei miei “colleghi”: che cosa c’è di più espressivo e, al tempo stesso, arcano delle scritture ideografiche, ancora oggi in uso presso alcune civiltà orientali? Io studio giapponese, una lingua che, le assicuro, sembra aver dischiuso davanti a me un’infinità di mondi nuovi. Ripenso ai primi approcci, non certo semplici, con una lingua ed una cultura estremamente complesse e raffinate. In particolare, le primissime volte che ho avuto a che fare con quei misteriosi caratteri, confesso di averli trovati piuttosto inconsueti, a volte addirittura inutili... Poi ne ho subito il fascino innegabile e ora trovo che la semplice riproduzione di un solo kanji su un foglio bianco lo riempia, come una nota isolata riempie un silenzio assoluto. Per non parlare, poi, della poesia haikai: quando ne ho studiato le forme e apprezzato i contenuti, ho riscontrato la stessa ricerca o, meglio, tensione verso l’infinito che ravvisavo nell’Ermetismo europeo: questi brevi versi, incastonati in supporti di silenzio, riescono ad esprimere concetti celati che la “prosa” farebbe fatica a raccontare in un’intera collana di volumi. A tal proposito, volevo proporre un concetto, che esprimerò tramite l’esposizione di un mito d’origine persiana, il quale ha colpito la mia immaginazione a causa della sua originalità, e ha anche suscitato la mia ammirazione per quel che considero come un forte esempio di lucidità. Stanchi della propria esistenza mediocre e inutile, gli uccelli si lanciano alla ricerca del loro re mitico, Simorgh. La maggior parte di loro, spossata, delusa, o sedotta dalle sorprese del viaggio e dagli idoli che incontra, si ferma per strada. Un piccolo gruppo di uccelli ostinati, guidati dall’upupa, attraversano il deserto e le sette valli dell’incanto e del terrore. Esausti, con le ali bruciate, giungono infine alla presenza dell’uccello-re. Cento tende si scostano, una viva luce brilla, ma essi non vedono che uno specchio. Una voce dice loro che questo specchio è la sola verità. Questo Simorgh che hanno cercato, è loro stessi. Non bisogna attendere altro. La voce aggiunge: “Avete compiuto un lungo viaggio per giungere al viandante”. Credo che anche Camus, in qualche modo, abbia potuto compiere questo lungo viaggio. “Kare eta ni / karasu no tomaritaru ya / aki no kure “(Matsuo Basho) (ramo essiccato/un corvo si adagia/tramonto d’autunno) Soldati “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie” (G. Ungaretti) Sfogliavo gli appunti relativi alle sue lezioni e, tra gli altri, sono stata particolarmente colpita da un passo riguardante la scelta “radicale” (che personalmente trovo meravigliosa, eccezionalmente coraggiosa e senza fronzoli banali!) di Camus e del suo Straniero che, pur sapendo di dover morire l’indomani, rifiuta l’inganno estremo della religione per godere della meravigliosa sera d’Algeria. 136 137 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 138 La cultura mediterranea nel “Libro delle interrogazioni” di Jabès Irene Tortorella Nel Libro delle interrogazioni Jabès mostra una predisposizione verso la cultura mediterranea tipica di Camus. Yukel, soggiogato dalla sua storia di esiliato, cerca rifugio nella vista del mar Mediterraneo. Dopo la morte di Sarah, infatti, sente il desiderio di partire verso Sud, per “rivedere il Mediterraneo, ascoltare le lezioni del mare che, con ogni tempo, conserva il suo sale e i suoi colori”. Più avanti Jabès aggiunge: “Nel libro, i colori del mare passano dall'avorio dell'assenza al nero dell'inchiostro. Il mare bagna le rive che i miei passi ritrovano. Nelle conchiglie, ho sentito gemere l’eco del mio nome. Il Mediterraneo ha rigenerato gli sguardi che hanno preceduto il mio; per questo ho voluto che il mare, nel libro, fosse il legame mobile, millenario, e per questo anche i miei sogni, in un mondo straziato dalle partenze, hanno il senso di un salvataggio”. Basi di sale che l'onda non può lambire, il Mar Morto è l'immagine del mare sprofondato. Nessuna affinità con il Mediterraneo: mare mattutino, impulsivo ma distratto e immaginativo; mare amoroso, intenerito; mare della scia e del nuoto. La scrittura di Jabès è pervasa della cultura mediterranea. Egli infatti era nato in Egitto, luogo dal quale era partita la sua diaspora fisica e spirituale. Il deserto, nell’esegesi di Jacques Derrida, è il terreno indefinito in cui sono radicate le radici di Jabès. I suoi luoghi d'origine assediano la sua poesia: “Il poeta – o l'Ebreo – protegge il deserto che protegge la sua parola la quale non può parlare se non nel deserto; che protegge la sua scrittura la quale può lasciare una traccia solo nel deserto” (J. Derrida, La scrittura e la differenza, p. 87). 139 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 140 Il Mediterraneo, contrapposto al deserto, è il luogo dell'armonia dell'uomo, della vita, del sole e della salute. La cultura di questo mare si oppone agli abusi, alle morti, alle conquiste brutali, alle condanne. È ciò che fa anche Jabès: si lascia alle spalle il deserto, l’Olocausto, la condanna del suo popolo ad essere per sempre nomade; non dimentica il passato, ma cerca una patria nuova in cui fermarsi ad ammirare i colori del mondo e della vita. “All'impossibilità d'essere Ebreo che da due millenni dilania il popolo di questo nome, lo scrittore sceglie di scrivere e l'Ebreo di sopravvivere. (Quaderno di Yukel)". Ogni giorno sarà un giorno in più da vivere, con la memoria costante del passato tragico del popolo ebraico. "E fu un mattino, poco dopo l'aurora, che Elohim morì della morte del Suo popolo. Il deserto contò le rughe, e l'aquila e il falcone sparsero subito la notizia. Da allora, per dodici ore, il giorno porta il lutto del giorno”. 140 Caducità e dolore Angelica Cionini Sin dall’antica Grecia la vita è stata sempre vista come connubio di crudeltà e felicità e nei vari secoli a venire religioni e filosofie si sono sempre sviluppate intorno al tema del dolore fino ad approdare alla negazione nietzschiana di Dio e alla consapevolezza dell’uomo di non poter essere felice. Da una lettura recente di “Aforismi sulla saggezza del vivere” ho constatato che Schopenhauer considera l’uomo come un pendolo che oscilla tra il dolore e la felicità ed egli considera la felicità stessa come un momento della nostra esistenza caratterizzato dall’assenza di dolore. La sua è una posizione che mi ha affascinato, se questo filosofo arriva addirittura a dire che la peggior cosa che due esseri umani possono fare è generare un figlio e che simbolo della venuta al mondo è il pianto: dunque è meglio essere nati o non nascere affatto? Il pensiero di Schopenhauer mi affascina. Credo che si avvicini leggermente a quella degli epicurei per i quali la felicità consiste nel non avere dolore, aponìa, e nella mancanza di turbamento dell’anima, atarassìa. E Schopenhauer negli aforismi: “Quindi riconosceremo che quanto di meglio questo ha da offrire è un’esistenza senza dolori, tranquilla, sopportabile e limiteremo le nostre pretese a questo, per realizzarlo tanto più sicuramente. Infatti per non cadere nell’estrema infelicità il mezzo più sicuro è non desiderare una grande felicità. […] – Questo è il punto di contatto con l’epicureismo, credo –. È quindi consigliabile ridurre a una misura assai moderata le proprie pretese ai godimenti, agli averi, al rango, agli onori ecc.; perché proprio l’aspirazione alla felicità e il competere per essa, le ambizioni al lustro e la brama di piaceri provocano le più grandi disgrazie”. 141 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 142 Tuttavia per Schopenhauer l’intera nostra esistenza è qualcosa che sarebbe meglio che non ci fosse. La suprema saggezza sta nel negarla e rifiutarla. Schopenhauer stesso cita la frase di Platone: “Nessuna cosa umana è degna di soverchio zelo” (Oute ti ton anthropìnon àxion megàles spudès) (Rep. X, 604). Epicuro, dal canto suo, propone come soluzione il Tetrafarmakon, le quattro medicine: il timore per l’aldilà e la paura degli dei sono vani; la paura della morte è assurda, perché la morte è nulla; il piacere è possibile per tutti; il male, o è breve, o è sopportabile. Bisogna, dunque, sfrondare i nostri desideri e ridurli al primo nucleo essenziale. Per procurarci questi piaceri noi bastiamo a noi stessi, e in questo bastare-a-noi-stessi (autarchia) stanno la più grande ricchezza e felicità. I filosofi greci hanno sempre considerato l’esistenza come predestinata al dolore, concetto di destino ineluttabile ed invariabile. Basti pensare infatti a Edipo che cercò in tutti i modi di sfuggire alla profezia che lo condannava a commettere prima parricidio e poi incesto con Giocasta. Non vi riuscì e giunto a Colono afferma: “tutto è bene”. Egli è cieco (fisicamente), ma vede attraverso l’occhio della mente e finalmente ha preso coscienza che il patire è nelle mani del destino. Senza addentrarmi eccessivamente nell’analizzare tragedie greche, potrei affermare che il dolore si subisce, ma può essere affrontato. Come? Il mondo romano guarda al dolore da differenti posizioni. Seneca, per esempio, propone nelle Epistulae morales ad Lucilium un atteggiamento di serena accettazione: “Fac itaque tibi iucundam vitam omnem pro illa sollicitudinem deponendo” (Lett. 4 par. 6); “Renditi dunque serena la vita lasciando da parte ogni angoscia”. Ma già Orazio, nelle sue Odi, appariva consapevole del fatto che la vita è dolore e la felicità non può esistere. 142 Ho notato punti di contatto tra la nostra concezione occidentale del dolore e la poetica giapponese dell’epoca Heian. Capisco bene che tra le due vi sono notevoli differenze, ma in questo caso, se si pensa alla cultura giapponese, credo che la concezione occidentale a cui far riferimento sia quella pagana. Studio giapponese e l’anno scorso ho incontrato, nella preparazione all’esame di letteratura, un autore, Kamo no Chomei, che con la sua opera Hojoki, Ricordi di un eremo, affronta il problema esistenziale e lo risolve fuggendo dal mondo. La prima e istintiva fuga dalla capitale fu per Kamo no Chomei un’impennata di orgoglio per le continue frustrazioni sociali subite. Successivamente egli si ritirerà in montagna e da lì contemplerà la città assediata dai mali che contaminano le esistenze degli abitanti (il mappō, le lordure). È allora che Kamo no Chomei decide di voltare le spalle al mondo, come strategia per risvegliare la verità della fede (hosshin) e ricercare da solo la pace interiore che gli avrebbe aperto le porte del paradiso di Amida. La caducità, la precarietà e la triste fragilità dell’essere umano, il mujo, l’inconsistenza delle cose portano i temi della letteratura giapponese verso un lento cambiamento: c’è uno spostamento d’accento dall’intrinseca bellezza dei motivi fondamentali della poesia nipponica (“la luna, la neve, i fiori di ciliegio”) ai “fiori sparsi e foglie che cadono”. È stata una sorte di presa di coscienza, lenta ma inesorabile, che ha portato allo squarcio del velo che non permetteva di vedere il nostro destino di effimeri. Fuggire è negare il dolore, ma anche evitare la vita. Non dico che quello di Chomei sia stato un atto di viltà, ma forse non è il modo migliore per affrontare il dolore. Il dolore nasce da noi stessi, si subisce dall’esterno, e credo che si debba affrontare la vita con la consapevolezza 143 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 144 che soltanto estraniandosi e fuggendo da questo mondo è possibile giungere – quanto meno – ad una pace interiore, condizione di serenità, ma non di felicità. Questa soluzione, in fondo, è una condanna, poiché noi amiamo profondamente la vita, come ogni essere vivente che anche nelle situazioni più disperate non cede mai e lotta fino allo stremo delle forze. Un accenno, infine, a Jabès. L’impatto coi suoi testi mi ha lasciata attonita: la sua scrittura è davvero complessa, ma (al tempo stesso) abbacinante. Ciò che mi ha colpita di più sono le immagini icastiche, laconiche e anche piene di bellezza struggente che credo derivino dal dolore per il suo stato di straniero. Dal punto di vista strutturale, trovo originalissime le pagine bianche tra un aforisma e l’altro: quasi un atollo per permettere di riposare e riflettere sui pensieri che la scrittura del poeta ebreo d’Egitto suscitano al lettore. Mi sono sentita impotente di fronte al suo linguaggio, e forse ho compreso la tematica dell’incomunicabilità della parola: la parola è massima espressione della solitudine dell’uomo. Dolore e reazione al dolore Fabio Pariante Il dolore nasce, vive e muore in noi stessi, in me. La vita non è vita se esso non è presente. Il dolore, tema complesso e forte… Avendolo vissuto sulla mia pelle (come giusto che sia per l’umanità intera!), adesso ‘posso credere’ di aver trovato il mio equilibrio interiore rispetto al dolore esistenziale. La consapevolezza di vivere con esso è tale che negli attimi di felicità, che durano troppo nel tempo, avverto quasi nostalgia del ‘mio soffrire’. Può sembrare un paradosso, ma la verità vera è che nel dolore si imparano cose che servono anche nei momenti di felicità. Il dolore fa riflettere. Il dolore dà vita. L’essere abituato al dolore nelle piccole cose quotidiane anche se in maniera molto lieve - fa sì, talvolta, che si sia più spronati a vivere davvero. Ovvio che la reazione che si ha in tale circostanza è soggettiva, ma nel mio caso dà carica, forza e gioia di vivere. C’è chi si abbatte lungo il proprio cammino anche per avvenimenti futili, al primo ostacolo, magari senza porsi il problema del perché del proprio stato. Forse così ero anch’io un tempo… Ma oggi credo che ciascuno di noi debba cercare - dentro - la vera essenza di sé, mettersi alla prova nei momenti di inquietudine. Ecco perché spesso si dice: gli esami non finiscono mai. Lo diceva Eduardo De Filippo, che ammiro sin da piccolo per la veridicità dei temi che ha saputo sempre trattare con maestria: temi che riguardano soprattutto il dolore nelle sue mille facce, quel dolore così diretto e così familiare che oggi più che mai è presente nella nostra società, nelle famiglie, negli occhi, nella vita di ciascuno di noi, dentro di noi, e che a volte nascondiamo pur di andare avanti a modo nostro. 144 145 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 146 Questo è per me il ‘vincere e convivere’ col dolore. Non è una rassegnazione dell’essere, ma la consapevolezza che bisogna giostrare e pesare nel modo giusto per poi riemergere con coraggio, senza aver paura della propria condizione. La cultura greca è all’origine della concezione del dolore (pathos) con la cultura eroica, considerandolo come centro della vita. Per il greco la sofferenza non ha giustificazione, ma l’uomo deve reagire ad essa, vincerla con la consapevolezza della sua esistenza, l’Aretè. Le virtù che, secondo Socrate, l’uomo deve avere, sono la razionalità e la conoscenza di sé, della fiducia nella ragione. Nelle credenze ebraico-cristiane, invece, il dolore è inteso come una sorte di evento tragico, che ha - come unica forza per andare avanti - la speranza, sentimento di rinascita dal male nel quale ci si trova. Secondo me, occorre avere il coraggio di riconoscere alcune sensazioni, e accendere la candela che c’è in noi e lasciarla sciogliere, ‘farla bruciare’ più lentamente o veloce possibile; ma che bruci… Tutti abbiamo commesso errori e pagato le conseguenze soffrendo, ma ciò non significa che si è condannati a sopravvivere in una forma di vita che non ci si addice indossando una maschera. Come affermava Luigi Pirandello, quella maschera che schiaccia la vera personalità, che non dà libertà di essere. 146 Poi sul molo è silenzio In merito al silenzio, una poesia di Emily Dickinson, ispirata e dominata dal silenzio, è stata suggerita da Tiziana Carlino. Where Ships of Purple – gently toss – On Seas of Daffodil – Fantastic Sailors – mingle – And then - the Wharf is still! Dove navi di porpora oscillano – dolcemente – Su mari di giunchiglia – Dei marinai fantastici – si aggirano – Poi - sul molo è silenzio! 147 BUONO 6-03-2006 13:39 Pagina 148 Indice Premessa Condivisione e sentimenti Pensiero e linguaggio 3 In attesa della morte Ivana Carandente 5 Il respiro del mondo Mirko Vamvakinos 7 Hardware e software Alcuni interrogativi Il nomadismo Mirko Vamvakinos Giovanni Armenio Il saggio è senza idee La parola nuova Il gesto di Eva Sarah Kane René Char Nicoletta Fossa Luca Moretti Valentina Punzi Raffaella Iaconantonio Ivana Carandente Rossella Di Felice Una nuova forma di ascolto Il dolore. La vita è adesso Il silenzio che esprime Gli haiku di Basho 17 19 21 27 29 Rossella Di Felice Linguaggio e azione 15 23 Irene Tortorella Una poesia di Ungaretti 11 13 Rossella Di Felice Le parole come autoinganno 9 Valentina Punzi Antonio Abbate Fabio Pariante Nicoletta Fossa 31 35 37 47 49 Identità di straniero 53 Fiammetta Rutoli 55 Nicoletta Fossa Esilio, morte, memoria Raffaella Iaconantonio Rossella Di Felice 69 Francesca Aufiero 71 Vocazione di Abram Che cos’è il dolore Antonio Abbate Ivana Carandente 77 79 Roberta Lipari 81 Nicoletta Fossa 83 Rossella Di Felice Jabès e la Cabala mistica 73 75 Raffaella Iaconantonio Il libro della sovversione non sospetta Jabès e la via 67 Valentina Punzi La vera ricchezza è la ricchezza del cuore Su Antonio 63 65 Martina Caschera La scrittura e il deserto in Jabès Il silenzio dell’uomo 59 Letizia Di Mitrio Le parole come maschere Pensiero e disegno 57 Roberta Lipari L’esperienza del dolore Perché il dolore? 51 Letizia Di Mitrio 85 Dario De Cesare La condivisione impossibile di Jabès Fortuna Balzano Su “Jabès e la Cabala” di Dario De Cesare Su “Jabès e la Cabala” di Dario 93 Nicoletta Fossa 97 Tiziana Carlino 99 BUONO 6-03-2006 Il silenzio 13:39 Pagina 150 101 Raffaella Iaconantonio La tentazione nel giardino dell’Eden Silenzio, parole, scrittura Silenzio e parole Fortuna Balzano Martina Caschera Francesca Aufiero 111 Annaapaola Mazzoccoli 113 La crisi del linguaggio e il silenzio “La peste” di Camus 115 Ivana Carandente Il Libro delle interrogazioni L’esperienza del dolore 105 109 Fortuna Balzano Parola detta e parola cantata 103 Alessandra Bruno e Chiara Minieri 117 121 Lina D’Angelo Passione e autonomia nella scrittura di Jabès Maiko Siano 125 Osservazioni su Maiko Siano Tiziana Carlino Il Libro della sovversione non sospetta Disponibilità e ospitalità Irene Tortorella Luca Moretti Dolore, compassione, e altri temi Giovanna Sodano 129 131 133 135 La cultura mediterranea nel “Libro delle interrogazioni” di Jabès Caducità e dolore Irene Tortorella Angelica Cionini Dolore e reazione al dolore Poi sul molo è silenzio Fabio Pariante 139 141 145 147