JOINT VENTURE IN CINA: ERRORI FATTI, ERRORI EVITATI

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JOINT VENTURE IN CINA: ERRORI FATTI, ERRORI EVITATI
JOINT VENTURE IN CINA: ERRORI FATTI,
ERRORI EVITATI, LEZIONI IMPARATE
di Marco Bianchi
Estero >> Commercio Internazionale
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Sommario
Introduzione ..........................................................................................3
La scelta del tipo di investimento ..............................................................4
Negoziare in Cina: «Consigli per gli acquisti» ..............................................5
Conclusioni ............................................................................................8
Glossario ...............................................................................................9
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INTRODUZIONE
«La Cina è vicina»: quasi quaranta anni fa, nel 1967, così annunciava il titolo di un film di
Marco Bellocchio, anche se in realtà la trama del film, ambientato nella provincia italiana,
aveva poco a che fare con la Cina. Oggi possiamo dire che la Cina per molti imprenditori
italiani sembra veramente vicina, qualunque sia la latitudine dalla quale si intenda misurare
questa vicinanza: un mercato potenziale per esportare i prodotti di casa nostra, dal fashion alle
macchine utensili, una fonte di manodopera a buon mercato ed una testa di ponte per entrare
nei mercati dell’Asia o un temibile concorrente delle nostre industrie, o quantomeno, almeno
per il momento, di quelle industrie maggiormente labour intensive.
Quale che sia il «grado di vicinanza» con la Cina di ognuna di esse, è certo che sempre più
società italiane (per necessità, perché vi intravedono delle opportunità o magari soltanto per
seguire il vento del momento) si affacciano a quel mercato, non soltanto per esportare i propri
prodotti ma anche per verificare la possibilità di costituirvi una presenza stabile, sovente
coinvolgendo partner cinesi o acquisendo partecipazioni in società cinesi già esistenti.
E’ necessario però essere ben consci che la complessità del «Pianeta Cina» si fa via via
maggiore in funzione della complessità degli accordi che si vanno a negoziare: non così diversi
da quelli a cui si è già abituati quelli più semplici, quali possono essere i contratti di fornitura
ed approvvigionamento di beni prodotti localmente, molto più complessi quelli che invece
presuppongono una collaborazione di lunga durata ed investimenti diretti in Cina, come nel
caso in cui si decida di costituire una equity joint venture con un partner cinese.
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LA SCELTA DEL TIPO DI INVESTIMENTO
In realtà, il mercato cinese non è più «res incognita» per molti operatori italiani che già vi
operano, seppur con vario grado di successo e di soddisfazione ormai da molti anni.
Quali lezioni si possono dunque trarre da tale presenza, e quali consigli si possono offrire a
quegli imprenditori che si apprestano a negoziare una qualche forma di stabile collaborazione
con un potenziale partner cinese?
Prima di tutto capire che, contrariamente all’assunto del titolo del film di Bellocchio, la Cina
«non è (così) vicina», almeno da un punto culturale, sociale e soprattutto negoziale, e che
comportamenti sperimentati in altre nazioni del mondo, non possono essere immediatamente
traslati nella negoziazione con una controparte cinese.
In secondo luogo aver ben chiara che la tipologia dei problemi che l’investitore straniero si
troverà a dover poi affrontare è comunque condizionata dallo strumento scelto per investire in
Cina: l’alternativa più immediata è quella tra la costituzione di una Wholly Foreign Owned
Enterprise - Wfoe, una società a capitale interamente straniero e l’avvio di una
collaborazione con un partner cinese, mediante la formazione di una Sino-Foreign Equity
Joint Venture (fermo restando che in entrambi i casi la normativa cinese richiede la
preventiva approvazione del Ministry of Commerce - Moc).
E’ indubbio che negli anni recenti le Wfoe siano ormai diventate lo strumento maggiormente
preferito dai foreign investors, se non altro perché consentono all’impresa straniera di gestire i
propri investimenti in Cina importandovi con più immediatezza la propria cultura manageriale e
senza dover «soffrire» gli esiti di un negoziato infinito con un partner cinese, come spesso
accade nelle equity joint venture. E’ però altrettanto vero che le equity joint venture ancora
oggi rappresentano spesso una scelta obbligata per l’investitore straniero. Ciò anche in quanto
gli investimenti stranieri in Cina devono comunque rispettare i criteri e le direttive del Foreign
Investment Industrial Guidance Catalogue. Come è noto a chi si è già avvicinato alla Cina, tale
«catalogo», a seconda del settore merceologico, distingue tra investimenti incoraggiati, vietati
e limitati; per questi ultimi l’Investment Catalogue impone all’investitore straniero, tra le altre
limitazioni, l’obbligo di operare attraverso una società congiuntamente partecipata da un
partner cinese, una joint venture per l’appunto, e, almeno per diversi settori «strategici», il
divieto di possedere quote di maggioranza nella società comune così costituita.
E’ dunque ben possibile che l’imprenditore italiano, per scelta, o perché a ciò obbligato dalla
normativa cinese, si trovi nella necessità di costituire una joint venture company con un
partner cinese, sia esso un imprenditore privato e, come più spesso succede, una state-owned
enterprises, società che ancora costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese cinesi,
per lo meno nei settori più rilevanti dell’industria e della finanza.
Se è probabilmente possibile riscontrare una maggior comunanza di comportamenti
manageriali con i privati, il rapporto con le aziende cinesi a partecipazione statale si rivela
quasi sempre ben più «cinese» di quel che ci si potrebbe aspettare (o, quantomeno, di quello
che forse auspicherebbe l’impresa italiana): mentre i privati, necessariamente, al pari dei loro
colleghi italiani, hanno un approccio sostanzialmente mirato al profitto della loro impresa ed
alla soddisfazione delle esigenze del mercato cinese (e non solo di quello…), le state-owned
enterprises hanno spesso obiettivi più articolati e comunque molto più influenzati da
motivazioni di carattere politico e sociale.
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NEGOZIARE IN CINA: «CONSIGLI PER GLI ACQUISTI»
E’ proprio dall’esperienza negoziale per la costituzione di equity joint-venture tra imprese
italiane ed imprese di Stato cinesi che sono tratte le considerazioni ed i suggerimenti qui
proposti (molti dei quali possono comunque essere utili a quanti intendano «andare in Cina»,
seppur con uno strumento diverso da una joint venture con una state-owned enterprise).
I contributi dei partner alla joint venture
Nelle joint venture i partner mettono in comune le rispettive risorse e capacità, in quanto
complementari tra loro, al fine di raggiungere un obiettivo condiviso. Di solito l’investitore
straniero presume di apportare alla joint venture le proprie conoscenze manageriali e
tecnologiche, quel know-how e quella tecnologia che gli hanno consentito di operare con
successo in patria.
A fronte di tali conoscenze tecnologiche molto spesso, l’unico vero contributo che il partner
cinese è in grado di offrire è rappresentato dai suoi stabilimenti, nonché dalla sua posizione e
notorietà sul mercato cinese (notorietà e quota di mercato alle quali non necessariamente
corrisponde un elevato grado di efficienza dell’organizzazione imprenditoriale dell’impresa
cinese ed un adeguato livello di profitto…).
A questo punto una prima domanda è d’obbligo: l’impresa italiana apporta la tecnologia, il
partner cinese porta «il mercato cinese», ma chi contribuisce il capitale necessario per
sviluppare le future attività della joint venture? La risposta, almeno dal punto di vista del
potenziale partner cinese non è poi così difficile: in fin dei conti, almeno da un punto di vista
meramente ideologico, tra i due partner, la state owned enterprise ed il foreign investor, il
«capitalista» è quest’ultimo…
Una negoziazione senza fine
Nell’esperienza cinese sovente la sottoscrizione del contratto non rappresenta la fine delle
negoziazioni, ma soltanto il momento in cui le parti concordano il frame di una never ending
negotiation, con il partner cinese sempre teso a massimizzare il profitto derivategli dalla
collaborazione instaurata con il foreign partner. Non si può quindi dare per scontato che, anche
dopo la firma del contratto, il partner cinese non cerchi di «aggirare» le pattuizioni contrattuali,
dandone all’occorrenza una interpretazione del tutto unilaterale. In realtà nel gestire una jointventure in Cina è essenziale non soltanto predisporre un contratto che ci tuteli, ma anche
«presidiare» l’esecuzione del contratto e monitorare la sua pratica applicazione. In Cina
spesso la firma del contratto rappresenta dunque soltanto l’inizio della negoziazione con il
partner cinese.
Il ruolo dei leader nella negoziazione
Una delle caratteristiche di una negoziazione in Cina, che è spesso fonte di grande frustrazione
per un imprenditore italiano, è rappresentata dai suoi tempi, spesso lunghissimi o comunque
del tutto distonici rispetto a quelli propri di un negoziato «occidentale».
Spesso la tentazione per l’imprenditore occidentale è quella di provocare, nelle prime fasi della
negoziazione, un incontro tra i primi livelli delle due società (come spesso capita in Europa),
così da concordare «i punti più importanti» del deal, e velocizzare la negoziazione del
contratto e la conclusione dell’accordo. Non è detto che in Cina un simile approccio funzioni
sempre (anzi, probabilmente è vero il contrario).
Ben difficilmente il partner occidentale riuscirà ad ottenere dalla controparte cinese una
risposta netta sui punti essenziali che maggiormente lo interessano, un sì o un no su cui
orientare, in un senso o nell’altro, il prosieguo della negoziazione.
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Ciò anche perché culturalmente il negoziatore cinese è più portato a costruire gradatamente il
consenso verso le proprie posizioni, piuttosto che a far emergere chiaramente l’esistenza di un
dissidio.
Quel che deve essere ben chiaro al negoziatore occidentale è che il fatto che la controparte
cinese non risponda un chiaro «no», non sottende che implicitamente essa sia disponibile a
pronunciare il «si» a cui anela il partner occidentale.
Per contro, nel prosieguo della trattativa, risulterà assai invece difficile ri-negoziare o rimodulare qualsivoglia concessione fatta dal top management dell’impresa occidentale durante
questi colloqui, magari soltanto verbalmente e nel tentativo di convincere il partner cinese a
fare anch’esso una qualche concessione. Il più delle volte condurre una trattativa in Cina
comporta pazienza, l’accettazione dei ritmi della controparte ed una rigorosa negoziazione del
testo contrattuale, clausola per clausola.
Guardarsi dalla «grande famiglia» cinese
In Cina (ma, se è per questo, non solo in Cina) se un parente diventa ricco si suppone che poi
aiuti e sostenga tutti i parenti meno fortunati. Molto spesso lo stesso discorso vale anche per le
joint venture tra una società cinese con una impresa occidentale: se la joint company è
profittevole, il pericolo è che i profitti, oltreché e prima che agli azionisti della società comune,
vengano allocati presso altre società controllate dal partner cinese, per il tramite di contratti
infragruppo con prezzi tutti a svantaggio della joint company partecipata dall’impresa italiana.
In altri casi sono la tecnologia ed il know-how che l’impresa italiana ha conferito alla joint
venture company a «defluire» dalla società comune verso altre società o altre attività del socio
cinese.
Da qui la necessità per il partner italiano di assicurarsi, per quanto possibile, il controllo dei
rapporti intercompany che coinvolgano la sino-foreign equity joint venture ed il partner cinese
(ed il «controllo» a cui ci si vuole riferire non è tanto, o soltanto, quello previsto da una
clausola da inserire nel contratto di joint venture, quanto piuttosto quello da attuare giorno per
giorno, durante lo svolgimento dell’attività operativa della joint venture company).
La struttura organizzativa e i manager della sino-foreign equity joint venture
company
Anche in Cina è del tutto normale che, all’atto della costituzione della joint venture company,
ognuno dei due azionisti si riservi di indicare alcuni dei manager della joint venture company.
Va detto che per l’impresa italiana è altrettanto opportuno (ed addirittura forse più importante)
identificare per tempo i potenziali candidati, espatriati italiani o manager reclutati localmente,
da inserire nella struttura organizzativa della joint venture. A tale riguardo deve essere ben
chiaro all’impresa italiana che la possibilità di reperire un management adeguato, formato da
espatriati italiani o da manager cinesi reclutati in loco, dipende anche da dove vengono ubicate
le attività della joint venture: se non si pone attenzione fin dall’inizio al problema
dell’individuazione delle risorse umane si finirà per scoprire troppo tardi che candidati per
Shanghai, cinesi o stranieri che siano, magari ve ne sono moltissimi, ma molti meno sono
invece disponibili per «location» cinesi meno attraenti.
Da un diverso punto di vista, occorre sottolineare l’importanza di definire il ruolo e le deleghe
attribuite ai singoli top manager della sino-foreign equity joint venture. Come peraltro avviene
anche al di fuori della Cina, normalmente nel contratto di joint venture ognuno dei contraenti si
riserva di indicare alcuni dei top manager della joint venture company così da assicurare un
grado di controllo sull’operativa della società. «A loro il General manager, a noi il Direttore
finanziario. A loro il Direttore finanziario, bene noi avremo il Controller, a noi il Direttore
commerciale, a loro il Direttore marketing».
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Se la ricerca di una effettiva co-gestione operativa si traduce semplicemente nella ricerca di un
bilanciamento degli «spazi» occupati dai nominees della società italiana e del partner cinese,
ebbene ciò potrebbe rivelarsi un errore: non si può dare infatti per scontato che i ruoli e le
deleghe di un Chief Financial Officer in Cina siano necessariamente quelli che siamo abituati ad
attribuirgli in Europa. Preoccupiamoci quindi di presidiare le aree sensibili destinate a
governare l’attività della società comune, ma preoccupiamoci ancor di più di identificare
contrattualmente i poteri e le responsabilità dei manager, cinesi ed italiani, a cui si intende
affidare la gestione della joint venture.
Produrre per il mercato cinese o per l’export?
Ovviamente la risposta a tale domanda dipende in primo luogo dalla tipologia dei prodotti che
si intende fabbricare in Cina: se i prodotti sono altamente labour intensive è ovvio che la Cina
può diventare una piattaforma produttiva per l’esportazione (anche se ormai molte aziende
cinesi, proprio per ridurre il loro costo del lavoro, hanno iniziato a «delocalizzare» attività
produttive in Vietnam dove i salari sono ancora più bassi di quelli cinesi...).
Qualora i prodotti di cui si intende localizzare la fabbricazione siano invece prodotti
tecnologicamente più complessi, ove il costo del lavoro rappresenta una minima parte del
costo complessivo di produzione, le strategie di export eventualmente caldeggiate all’atto della
costituzione della joint venture company vanno fin da subito attentamente soppesate e
pianificate alla luce di molteplici fattori, tra i quali possiamo citare per esempio:
(i)
(ii)
la verifica dell’esistenza o meno di una rete di sub-fornitori cinesi già in grado di
fornire componenti e sottoassiemi destinati ai prodotti complessi che la joint venture
company, garantendo non soltanto prezzi competitivi qualità (in certi settori
manifatturieri gli scarti di produzione possono arrivare a percentuali che farebbero
inorridire un qualsiasi buyer occidentale), e affidabilità nella programmazione
logistica;
la verifica che i costi, ed i tempi, di trasporto dalla Cina al mercato di destinazione
non siano tali da annullare il vantaggio competitivo derivante dall’aver localizzato
attività produttive in Cina.
Senza un’attenta pianificazione preventiva in alcuni casi si finirebbe per scoprire che esportare
dalla Cina (se non nelle nazioni vicine, e con l’ovvia eccezione, di cui si è detto, di prodotti
«labour intensive») è più complicato di quello che, superficialmente, diamo per scontato
guardando la Cina dall’Italia. Ciò a prescindere dal fatto che normalmente nella negoziazione di
una Sino-Foreign Equity Joint Venture la nostra controparte (e con essa le autorità cinesi)
pretendano con forza che la società comune, a priori, assuma l’impegno di esportare al di fuori
della Cina
Spaventati dalle leggi cinesi?
Generalmente questo non è il caso, quantomeno non nel senso di immaginare che le leggi
cinesi assicurino sempre e comunque una condizione di maggior favore della nostra
controparte cinese a danno del foreign partner. Quel che può preoccupare è piuttosto il recente
proliferare di leggi e regolamenti attuativi (non sempre coordinati tra loro, anche perché non
necessariamente promananti dal medesimo Ministero od Ente statale) e la conseguente
inevitabile maggior burocratizzazione dei processi autorizzativi che l’impresa italiana deve
obbligatoriamente seguire per avviare una qualche attività in loco.
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La complessità è aggravata dal fatto che sovente, nel valutare l’impatto di una specifica
normativa (ed in particolar modo di quelle regulations / interim measures che hanno un
carattere implementativo di norme di portata più generale), può finire per far scoprire che quel
che veramente conta è l’interpretazione data dalle autorità della città o della provincia ove si
opera (non necessariamente in tutto e per tutto identica a quella magari già sperimentata dal
foreign partner in un'altra situazione e in un'altra provincia.
CONCLUSIONI
Quali suggerimenti è dunque possibile offrire all’imprenditore italiano che intenda avventurarsi
in Cina?
Probabilmente il consiglio più importante è quello di non avere paura della Cina ma di capirne
le diversità e non dare per scontato quello che scontato non è.
Le doti più richieste? Nella fase di avvio certamente la pazienza e la cura nel pianificare tempi
e modalità dell’iniziativa che si intende sviluppare (tanto più se con un partner locale, in specie
una state owned enterprise), e nel predisporre e negoziare i contratti, che dopo aver firmato è
necessario aver ben chiara la necessità di presidiarne costantemente la pratica
implementazione.
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GLOSSARIO
Equity joint venture
La Equity Joint Venture è una società a responsabilità limitata, di diritto cinese della quale
uno o più partner stranieri detengono una quota del capitale. I range sono di norma
almeno il 25% e mai più del 99% del capitale della società costituita.
Delocalizzare
Con il termine delocalizzazione si intende quella pratica che consiste nel far fabbricare
parti di prodotti o prodotti completi in un Paese straniero che presenta particolari vantaggi
competitivi rispetto al Paese di origine del committente. La delocalizzazione, infatti,
comporta il trasferimento delle unità produttive a basso valore aggiunto dal proprio
mercato di riferimento verso i mercati emergenti caratterizzati da bassi costi dei fattori
della produzione. Il trasferimento in tali mercati ha l’obiettivo di ridurre sensibilmente i costi
della produzione, per offrire gli stessi prodotti a prezzi più competitivi.
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Documento reperibile, assieme ad altre monografie, nella sezione Dossier del sito
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Fonte: Commercio Internazionale
Quindicinale di diritto e pratica degli scambi con l'estero, Ipsoa Editore
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