Read the first chapter!

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Read the first chapter!
Sciltian Gastaldi
Tutta colpa
di Miguel Bosé
Storia di un bambino metrosessuale
I edizione: ottobre 2010
© 2010 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
ISBN: 978-88-6411-144-5
www.fazieditore.it
A Memi,
per quel brindisi che s’avvicina.
Ad Arrigo (1961-2009),
che m’ha rimesso in piedi ed è andato oltre.
Ogni riferimento a cose o persone esistenti è casuale. Chi, da Miguel Bosé in giù, dovesse riconoscersi troppo se la prenda con il
Caso, la verosimiglianza della letteratura, la menzogna romantica,
la verità romanzesca, eccetera. Insomma: non con l’autore. Come
disse Goethe: «L’arte e la vita sono due cose ben diverse; ecco perché una si chiama arte e l’altra si chiama vita».
Ho già scoperto che è impossibile per me
baciare un uomo e innamorarmi di una vedova;
oh-oh, come farò che qui
ci sono solo froci e belle ereditiere.
NOBRAINO, Narcisisti misti
You had to sneak into my room
just to read my diary
it was just to see
just to see
all the things you knew
I’d written about you.
MORRISSEY, Suedehead
Una gallina gallinologa
dopo aver studiato molto il problema
disse che le galline non erano animali
e non erano nemmeno uccelli.
«E allora che cosa sono?», domandarono
[le compagne.
«Le galline sono galline», disse la gallina
[gallinologa
e se ne andò via impettita.
LUIGI MALERBA, Le galline pensierose
Me-tro-ses-suà-le: 1. agg. e s. m. e f. Composto dal gr. métron, misura, e dal lat. sexus, sesso, e terminazione -alem indicante appartenenza. Neologismo del XXI secolo: persona abitante di metropoli post-moderna e capitalista che pone a misura
della sua vita il piacere sessual-sentimentale, spesso declinato in
modo indifferentemente eterosessuale, omosessuale o bisessuale, passando da un rapporto etero a un rapporto omosessuale e
viceversa, o a più rapporti etero e omo in contemporanea. Sin.
bisessuale, diversamente etero. Con. eterosessuale, omosessuale. A. 2010. 2. agg. e s. m. Dall’inglese-americano metrosexual,
composto di metropolitan e heterosexual. Neologismo della fine
del XX secolo: uomo eterosessuale abitante della società post-industriale e capitalista che ha una forte preoccupazione per il suo
modo di apparire e il suo stile di vita, e che mostra dettagli estetici stereotipicamente attribuiti agli uomini omosessuali. Sin.
Dandy, elegante, metropolitano. Con. Pacchiano, provinciale,
paesano, contadino. A. 1994. 3. agg. e s. m. Nuova generazione
di uomini eterosessuali, tendenzialmente metropolitani, consumatori di cosmetica avanzata, curatissimi nell’aspetto e salutisti.
Sin. Azzimato, affettato. Con. Sciatto, trascurato. A. 2007.
In questo romanzo, seguiamo la definizione numero 1.
Non foss’altro perché l’ha inventata il nostro protagonista.
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Super Superman
Fu tutta colpa di Miguel Bosé. O merito suo, a seconda del punto di vista. Era il 1979, Sandro Pertini era presidente da un anno, e il cantante spagnolo sculettava
gaio sull’onda di Super Superman, successo internazionale approdato anche a Discoring. L’artista iberico si presentava fasciato da una tutina aderente che sottolineava
tutto ciò che una tutina aderente può sottolineare sul
corpo di un aitante ballerino di ventitré anni. Aitante e
bòno, diciamoci la verità. Perché hai voglia oggi a fare
gli schizzinosi, ma nel 1979 Miguel Bosé era un fico che
lèvati, e sembrava pure più giovane della sua età. Sarà
stata la salopette, saranno state le mosse della colorata
coreografia, ma quanto il nostro fosse gayo nella sua danza non era un mistero per nessuno. Tranne per me, ovvio, allora privo di etichette e nozioni riguardo pressoché l’intero universo. A riguardarlo oggi (You Tube santo subito, sempre sia lodato), non gli dài più di diciannove anni al Miguel Bosé di quella fine Settanta, ma per
me allora aveva in ogni caso il fascino dell’uomo fatto e
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adulto. Già perché era appunto il 1979 e io di anni ne
avevo solo cinque, ma quel movimento pelvico, unito al
passo laterale deciso e poi alla piroetta a mostrare glutei
perfetti a sostegno d’un corpo slanciato e magro, fu come una rivelazione: sarei stato un bimbo molto originale
nei miei gusti televisivi (all’epoca pensavo solo alla TV;
poco più avanti avrei pensato solo al sesso). Un bambino dif-fe-ren-te. No, non gay, termine che nei piombanti Settanta non s’usava in Italia e che proprio non faceva
parte del mio limitato vocabolario personale. Io ero “un
bambino sensibile”, al quale non piaceva decidere, o meglio, non piaceva escludere. A me piaceva Superman, ma
anche Wonder Woman. Il rosso Barbaforte e la violetta
Barbabella. L’intero cast maschile e femminile di Grease, a cominciare da John Travolta, Olivia Newton-John,
Stockhard Channing e Lorenzo Lamas. Più avanti, mi
sarebbero piaciuti Five e One; Miguel Bosé e Sophie
Marceau. Il biondo Luis Miguel e la bionda Nikka Costa. Eros Ramazzotti con le sue manone e Valeria Golino con la sua vociona roca. Le spaccate di Heather Parisi e gli sguardi di River Phoenix. Starsky e Hutch. I due
Chippies, sia il biondo Larry Wilcox che il moro Erik
Estrada. Bo, Luke e Daisy della contea di Hazzard. Antonio Cabrini e Paolo Maldini. Will & Grace. E Amanda Lear, che valeva per due ieri, oggi e tomorrow. Era ormai chiaro: io sarei stato il primo esemplare italiano di
bambino inclusivo. Inclusivo ieri, metrosessuale oggi. Al
top della favolosità, scüüüsa!
Oddio, in realtà mi ci sarebbe voluto qualche altro
anno per capire che quella strana sensazione di calore
dietro alle orecchie, provata tutte le volte che la telecamera regalava primi piani del volto del Miguel naziona14
le, fosse legata in qualche modo al cuore. Calore dietro
alle orecchie e un formicolio bizzarro in fondo allo stomaco, ecco, sì. A cinque anni era così facile capire che ci
si era innamorati. Bona tempora cucurrerunt!
La passione per Miguel Bosé fu messa subito a dura
prova dalla presenza, in casa, di ben due esemplari di
animali domestici: una sorella e un fratello maggiori. Ma
non di poco. No, no: ben 10 e 12 anni in più, e ciascuno
convinto di essere una sorta di genitore di scorta, almeno per quanto riguardava il rispetto che si deve all’autorità. Col tempo, avrei capito di essere un figlio tanto imprevedibile quanto imprevisto. Un figlio di OginoKnaus, non a caso nato nell’anno del primo Scudetto
della Lazio, il 1° aprile 1974: sorpresa!
Ora, è vero che ci sono tante situazioni peggiori nella
vita.
Ti può capitare di nascere in Biafra, per dire, ed essere uno di quei poveri pupi color cioccolato fondente,
secchi secchi con uno stomaco gonfio così, che la RAI dell’epoca riprendeva a colori ma con austerità a ore pasti.
Il Biafra, nella fine Settanta, si portava moltissimo nelle
tavole della borghesia italiana, complici i soliti servizi del
primo canale. Erano trasmissioni subliminali, alla
Orwell, per farti capire che non era proprio il caso che tu
facessi storie per finire il minestrone in tavola. «Pensa ai
bimbi del Biafra», mi ripeteva infatti la mia bellissima
mamma tutta puffosa. E, traditrice, m’infilava un’altra
cucchiaiata di fetenti carote lesse in bocca. Detto tra noi,
dopo molto tempo: io ci pensavo davvero a quei poveri
disgraziati del Biafra. Ma non ho mai capito cosa gli po15
tesse cambiare in meglio se io mangiavo le mie fetenti carote lesse. Sarà per quello, sarà per il mio metabolismo
veloce, sono sempre rimasto un bimbo magro.
Oppure ti poteva capitare di nascere “oltre cortina”:
in Germania dell’Est o in Bulgaria, e di vivere tutta l’infanzia e l’adolescenza in grigio: senza colori e senza pubblicità, come erano i Paesi del Patto di Varsavia. Oddio,
senza pubblicità forse non sarebbe stato poi così male,
se avete presente il livello medio di uno spot italiano.
Ma i colori, quelli no, li voglio; di più: li pretendo. Proprio come avrebbe urlettato Raf da lì a poco.
Tuttavia, anche nascere metrosessuali nella sacra
città di Roma, con due fratelli maggiori e – dimenticavo i dettagli – uno virilmente iscritto al Movimento Sociale Italiano corrente rautiana, l’altra integralista cattolica, gran recitatrice di novene sin da bambina e poi
natalista autoflagellante col cilicio, è un’esperienza di
tutto rispetto.
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Aggiungeteci:
un padre militare di carriera, colonnello della Guardia di Finanza;
coi baffi alla Carlo Alberto;
col tabù della (omo)sessualità;
accanito giocatore prima di pinnacola e poi di burraco;
con la passione dei film di guerra.
Condite con:
– una mamma cantante di piano bar;
– cotonata più della Lollobrigida;
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– cremosa e ancora bomba-sexy;
– splendidamente irrazionale e barocca, come la sua natia Lecce;
– accanita giocatrice prima di pinnacola e poi di burraco;
– con la passione dei musical.
…e al quadro avete anche la cornice. Rococò. Anzi, barocchetto romano. Inutile specificare che i miei genitori
s’erano conosciuti su un tavolo verde. E che io non avevo ancora chiaro, dopo tanti anni, chi avesse vinto chi,
su quel benedetto tavolo.
Così, tutte le volte che il mio beniamino spagnolo compariva in tivvù, e la cosa accadeva di frequente, dal momento che nel 1980 aveva vinto con Olympic Games il
Festivalbar per la prima volta, dovevo sorbirmi in silenzio i commentacci del fratellazzo: «Dio quanto è frocio
questo». E mia sorellonza ad annuire, tradendo un minimo di disappunto ormonale: «Che poi è pure caruccio… Un vero spreco!». Il fratellazzo e la sorellonza. Sì,
io li chiamavo così, per esigenze poetiche di rima. Li
chiamavo così col pensiero, ché sennò erano cinghiate
assicurate e in stereofonia, di solito al grido di «Non
pensare che io sia…». E poi bastava sostituire ai puntini
il nome di un qualsiasi altro membro della famiglia (al
primo posto «non pensare che io sia mamma», seguito
da «non pensare che io sia papà», ma col tempo avrei
registrato anche «non pensare che io sia nonna» e «non
pensare che io sia zia Maya», durante le festività natalizie e le riunioni della Chiericato Family), dal momento
che i miei due teneri fratelli erano convinti che tutti gli
altri parenti fossero troppo generosi nei miei confronti
e mi viziassero. Per mia fortuna, ci pensavano loro a
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darmi una raddrizzata, a suon di fraterni schiaffi e, ogni
tanto, amorevoli calci in bocca alla romana. Ma lo facevano per me, chiaro. Fratellazzo e sorellonza, col tempo, si sarebbero meritati anche altri due soprannomi,
più articolati: Sieg-Heil e Senso-di-colpa. Il primo, perché era un suo intercalare “da camerata”. Il secondo
perché era l’unico senso di cui mia sorella disponesse, tra
una novena e l’altra. In compenso, i miei soprannomi,
coniati da loro, erano: Biafra o Secco, per via della mia
splendida magrezza, e Violetto per via della mia passione per Viola Valentino e per le fantomatiche “macchie
viola” che, secondo loro, avevo sui genitali. Cosa che io
ho sempre dimostrato a tutti di non avere, calandomi i
pantaloni e le mutande fino alle caviglie in ogni situazione pubblica o privata. Poi, passata una certa età, il
pater mi avrebbe spiegato che ormai l’inesistenza di
quelle macchie viola era stata appurata non solo da tutti i membri della famiglia, ma anche da diversi inquilini
del nostro palazzo, dalla nostra portiera grassa, da tutte
le amiche cantanti di mamma che venivano a prendere
il tè da noi, dai miei nonni, zii e cugini, dai miei compagni delle elementari e dalla maestra Cecilia, che infatti
un giorno mandò a chiamare il babbo per spiegargli
quanto fossero tutti convinti del fatto che io non avessi
le “macchie viola”. Perché insistere? Ho sempre amato
le maestre sagge.
“Frocio”. Io non sapevo proprio il significato di questa parola nuova: mancava sia sul mio abbecedario che
sul Mio primo dizionario. A giudicare dal modo in cui
mio fratello Eugenio pronunciava quel termine, non pareva essere una cosa positiva. E la conferma veniva an-
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che da mia sorella Euridice*: “spreco” lo sapevo che significava. Il cibo non andava “sprecato”, ossia qualcosa
di simile a gettato via, non utilizzato per ciò che serviva:
a essere mangiato. Quindi “un vero spreco” riferito al
mio Miguel Bosé dava a intendere che non era utilizzato bene. E infatti secondo me era un vero peccato che
danzasse circondato solo da bellissime donne.
Sì, i fratelli Chiericato avevano emesso la loro sentenza con tanto di bollo in ceralacca papale e saluto romano: Miguel Bosé era sbagliato, ridicolo, anormale, invertito, out, un vero spreco, insomma un frocio.
Ma era fuori discussione che era bello. Anzi, bellizzimo.
E io, che bellissimo non mi ritenevo, come avrei fatto se ero almeno un po’ “frocio”?
E se ero una cosa magra, né carne né pesce?
Occorreva approfondire, ma soprattutto tenere la
questione nascosta.
Nascostissima.
Un segreto di Stato.
* Sì, i miei fratelli si chiamano Eugenio ed Euridice. Che volete farci,
in famiglia dare i nomi ai figli più che un dovere è un divertimento;
l’unico criterio è che comincino con il dittongo “Eu”. Ne avrete dimostrazione quando vi dirò come mi chiamo io.
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