Io ti salverò» L`immagine e le sue forme

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Io ti salverò» L`immagine e le sue forme
«Io ti salverò»
L’immagine e le sue forme
SILVIA VESSELLA
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Nel rapporto tra psicoanalisi e psichiatria introdurrò un terzo: il cinema. Il loro è un legame antico,
penso ad esempio al rapporto istituito dal movimento surrealista con il linguaggio psicoanalitico;
alludo a Buñuel, Dalì, e poi a Cocteau, per citarne solo alcuni. Naturalmente il cinema ha i propri
modi di comunicare e le due discipline mediche, da sempre anch’esse interessate all’immagine, alle
storie e alle sue narrazioni, non se ne vogliono né possono appropriare, ma il loro incontro offre
interessanti spunti di riflessione.
Hitchcock, sin dall’inizio della sua attività di regia, conosceva la psicoanalisi e ne utilizzava le
metafore in maniera che può forse apparire schematica, ma che trova la sua grande profondità
comunicativa nel crescendo di uno stato di attesa, nella concatenazione degli eventi, nella sua
capacità di suscitare forti emozioni e negli aspetti formali-artistici, tanto da offrire ancor oggi allo
spettatore risultati avvincenti dal punto di vista cinematografico. In Io ti salverò (1945) il regista
dichiarava programmaticamente: «La nostra storia si occupa della psicoanalisi, il metodo col quale
la scienza moderna tratta i problemi emotivi delle persone sane. L’analista cerca solo di indurre il
paziente a parlare dei suoi problemi nascosti, per aprire le porte serrate della sua mente. Una volta
che i complessi che hanno disturbato il paziente sono stati scoperti e interpretati, la malattia e la
confusione scompaiono […] e i demoni della sragione sono scacciati dall’anima umana». Nel film i
termini psicoanalisi e psichiatria appaiono intercambiabili, anche se sono chiari gli ambiti
d’intervento e quindi l’incontro dei due linguaggi non li confonde e la loro collaborazione conduce
a un finale esemplare. Quello che interessa Hitchcock è l’intensità di un’esperienza a tinte forti e
l’immagine ne è il veicolo. Il riproporre l’intensità di un’esperienza, la sua profondità e luminosità
rende possibile a chi guarda la pienezza di godimento, attraverso eventi di cui partecipiamo e dei
quali nello stesso tempo non ci sentiamo responsabili. La pellicola cinematografica così propone
pensieri ed emozioni, spesso non del tutto previste, attraverso l’incontro con l’immagine e con ciò
che è alluso dal rappresentato, e questo di certo unisce cinema e scienze della mente.
Dietro ogni rappresentazione psichica, dice Bion (1962), preme il mondo degli elementi beta,
mondo dell’irrappresentabile e del non ancora rappresentato, come un universo smisurato che ci
sfida e che vive racchiuso in fatti, aspetti sensoriali, percettivi e propriocettivi, come esperienze non
digerite in cerca di una pensabilità. Nino Ferro (2006) collega proto-emozione e immagine, i
pittogrammi emotivi, in stretto rapporto con la sensorialità dell’individuo. Decidiamo di
abbandonarci al piacere delle immagini di un film, affidandoci, secondo criteri personali di bellezza,
piacevolezza e a volte ricerca di emozioni forti. Nel caso dei film di Hitchcock elementi tutti
presenti. Così la densità delle immagini con l’intensità del loro messaggio ci può consentire
l’esplorazione di nuovi territori della mente. In Io ti salverò troviamo espressa la poetica di
Hitchcock, che ruota attorno al concetto di suspence, come attesa di un evento che provoca
un’angoscia continua, crescente cui aggiunge un sottile umorismo autoironico, che allude ad una
visione del mondo disincantata che sembra dirci: «Tutto è possibile e niente è poi così vero e reale».
Una condizione rappresentata con quel raffinato gusto formale che fa di Hitchcock un
intramontabile artista.
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L’ambiguità dei personaggi e delle situazioni trasmette sensazioni d’insicurezza e attesa di qualcosa
di irreparabile, in termini sempre più coinvolgenti e più drammatici. Gli elementi continuamente
mutevoli della realtà narrata generano invece uno spiazzamento dello sguardo, una rappresentazione
a più vertici della realtà, tutta moderna, che tiene sempre sveglia l’intelligenza dello spettatore. La
trama emotiva è quella d’identità frammentate, di trasformazioni che offrono l’immagine di una
realtà complessa e discordante, con un andare e venire nel tempo, dando spazio al sogno nella
realtà; la sensazione di un tempo disorientante, indeterminato, come secondo uno scorrere psichico.
Tutto questo produce il racconto di una realtà problematica a molte facce, che suscita timore,
dubbio e incertezza, e un senso di precarietà emotiva che coinvolge nella ricerca; contesto narrativo
complesso insomma, che trova in un aspetto formale speciale sapienza comunicativa.
La storia è nota. Un giovane affascinante medico, John Ballantine, giunge in una clinica psichiatrica
per occupare il posto del vecchio Direttore. Mostra da subito evidenti segni di difficoltà
psicologiche che sorprendono una collega, la dottoressa Costanza Petersen. La donna, figura algida,
dedita alla scienza, si avvicinerà a lui prima con curiosità scientifica e subito poi colta da
improvvisa e, per lei inspiegabile, passione. In un incontro drammatico l’uomo le confesserà di
essere convinto di avere ucciso il vero Direttore, nominato a dirigere la clinica, per sostituirsi a lui.
La dottoressa intuisce che la verità di Ballantine ne cela altre e inizia una ricerca. Giunge così, con
l’aiuto del vecchio maestro Brulov, che la aiuta nell’interpretazione del sogno-incubo, centrale nella
vicenda, alla catarsi finale. Si scoprirà che l’uomo è malato di un complesso di colpa per la morte
del fratello, avvenuta nell’infanzia in circostanze drammatiche; per questo si attribuisce anche la
morte del Direttore, causata da un misterioso incidente sulla neve. In un crescendo poliziesco
emerge il vero responsabile: il vecchio Direttore della clinica, deciso a conservare in questo modo il
suo posto. Emerge la nuova Verità. L’enigma poliziesco è risolto con l’individuazione del
colpevole; anche all’altro quesito, quello su come opera la psicoanalisi, è data risposta: l’amore per
la Verità trionfa contro l’odio, si risolve il sintomo e il malato guarisce.
La collocazione spaziale delle emozioni all’interno della vicenda, con momenti narrativi lenti ed
esplosioni repentine drammatiche, segna l’incontro e un confronto fra psichiatria e psicoanalisi,
producendo le necessarie distinzioni fra le due discipline, che così collaborano nella ricerca della
verità. I momenti di tensione amplificano e illuminano un punto, sottolineando le specificità e le
criticità ed è qui, dove è forte l’intensità dell’emozione, che avvengono importanti cambiamenti.
Nel film ad esempio il sogno-incubo, illustrato da Salvator Dalì, segna l’acme drammatico e il
massimo dell’enigmaticità; in esso sono addensate tutte le vicende reali ed emotive della storia ed
insieme le chiavi della soluzione, intorno alle quali nasce la tensione dialettica tra i protagonisti.
Hitchcock in questo film ci racconta un mondo, quello dei professionisti della malattia mentale, la
sua fecondità e le possibili deviazioni. L’ambiente in cui si muove Costanza è una clinica modello,
contornata da una serie di professionisti dei mali dell’anima. È una vita di reparto psichiatrico
tranquilla dove ci sono seri professionisti, dediti al proprio lavoro, ripetitivo, anche noioso, che con
attenzione applicano i protocolli di cura: ascolto, attenzione ai segnali del corpo e infine medicinali,
lavoro all’aperto, giardinaggio, nuoto. Il personaggio femminile, Costanza, (che nome allusivo!) è
una psichiatra fredda e austera, precisa nel lavoro, distante e professionale nei rapporti umani, come
gli altri suoi colleghi, e in più con un’attenzione a un nuovo strumento terapeutico: la psicoanalisi.
La passione di Costanza per il lavoro e per la ricerca nella parte iniziale della storia è del tutto
intellettuale, a causa della mancanza in lei di un’intensità e profondità dell’esperienza di vita.
Costanza sembra cercare all’interno della propria professione anche un equilibrio tra le due
discipline, psichiatria e psicoanalisi, ma il tema di una relazione possibile non riguarda solo lei.
La ricerca di dialogo, in ogni ambito scientifico, ma soprattutto nelle scienze affini, ha una lunga
storia ed ha subito alterne vicende, producendo nel tempo un affinamento degli strumenti di
confronto, dettato dal desiderio di evitare gli errori delle esperienze precedenti e di uscire da
arroccamenti auto-confermanti. Anche la storia del rapporto tra psichiatria e psicoanalisi parte da
lontano. Kandel (2007) esamina la questione dal secondo dopoguerra, quando la psichiatria apre
alle nuove prospettive sulla complessità dei processi mentali proposte dalla psicoanalisi. Questo
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nuovo rivoluzionario punto di vista amplia gli orizzonti di entrambe le scienze e insieme accoglie
un punto di vista fondamentale: la centralità del paziente, cui dedicare un ascolto attento e partecipe.
Le due discipline procedono così in stretto collegamento producendo avanzamenti importanti. Negli
anni sessanta con l’avvento di una moderna psicofarmacologia, insieme alla pubblicazione e
diffusione del primo DSM, la psichiatria ritornerà nell’alveo della medicina: le strade si divaricano
e ciascuno procede all’interno della propria disciplina nell’ambito di una maggiore specializzazione.
Oggi i progressi delle neuroscienze hanno offerto importanti conferme e nuovo impulso al dibattito
fra le scienze e all’interno delle rispettive peculiarità e prodotto un diverso avvicinamento.
Smorzatosi il dibattito fra «vera e falsa scienza», mentre si acquisisce l’idea che anche il modo di
concepire una malattia ha una propria storia, si assiste alla scomparsa delle categorizzazioni «forti».
Si procede alla ricerca di un riconoscimento delle differenze e degli ambiti di competenza dove
interesse e rispetto si fondano su un dialogo «alla pari». Giova a tale atteggiamento la
consapevolezza che la «categoria malattia» ha origini complesse e confini fluidi, non rigidi. Lo
studio di realtà complesse necessita sia dell’emergenza di criteri differenziali sia di un ampliamento
dello spazio per il dispiegarsi di percorsi possibili.
Per godere di un film, come per fare emergere un nuovo punto di vista, traumatico o meno che sia,
ci soccorre la possibilità psichica di immersione in un «tempo senza tempo» e, come suggerisce
Winnicott (1956) parlando di holding, in uno stato senza soggetto, che includa l’isolamento del
soggetto nel suo stato di continuità dell’essere, per fondare su questo una propria forte ricettività. Se
un evento si presenta a forti tinte emotive, con le caratteristiche dell’ignoto, sottolinea Winnicott
ampliando il concetto di holding all’attività materna facilitante nel «proporre gli oggetti», c’è
bisogno di uno spazio di aggiustamento dello sguardo, finché non si sente qualche elemento di
familiarità, per accedere al nuovo. Lo scopo sembra essere quello di avvicinarsi con un proprio
tempo a ciò che ci turba, così da poterlo poi portare al centro dell’attenzione.
Mechthild e Hanus Papousek hanno indagato quell’area primitiva che chiamano «struttura del
sostegno sociale» che si cela nelle forme intuitive delle cure genitoriali, e tra queste hanno proprio
segnalato l’importanza della distanza/vicinanza e del mettere al centro del campo visivo. Tale
rilevazione nell’osservazione madre-bambino trova riscontro negli studi dei neuroscienziati sugli
eye neurons nell’amigdala. E’ stato evidenziato come questi neuroni mandino impulsi quando gli
sguardi si incontrano attivamente: sarebbero cioè attivati specificamente dallo «sguardo-nellosguardo» e non da un’immagine statica del volto. Ci deve essere stato, ad esempio, anche una sorta
di accomodamento sociale, sul cursore realtà-finzione, che ha avuto bisogno di un tempo, una sorta
di holding ambientale, anche rispetto alla nuova forma di arte, il cinema, se alla Prima del film dei
fratelli Lumiere si narra che gli spettatori fuggirono dalla sala, atteggiamento che ora mi sembra
replicato dal fastidio con cui alcuni affrontano le immagini in 3D. E forse uno degli scopi delle
narrazioni è proprio questo: rendere domestiche emozioni e pensieri selvaggi. Zizek (2004), in uno
studio su Hitchcock, riporta il fatto che il regista era ossessionato da alcune immagini ricorrenti e
suggerisce che inventasse le sue storie solo per poter girare quel certo tipo di scene. Avanza poi
l’ipotesi che sia proprio questa sua peculiarità, di una tale densità emotiva, la cifra che fa sì che i
suoi film continuino a fungere da oggetti del nostro desiderio. La densità dell’immagine insieme
con la ripetizione di alcuni motivi danno una sorta di corporeità all’immagine, che stabilisce
all’interno della ripetizione una specie di risonanza incrociata e che produce nello spettatore la
sensazione di pienezza di godimento.
Scrive Fausto Petrella nel 2009, a proposito della realtà cinematografica: «laddove non si può
costruire la continuità dell’esperienza, il mondo assume aspetti enigmatici. Il soggetto perde la
presa pratica, mnestica, cognitiva elementare, che assicura la stabilità della relazione col mondo
oggettuale […] ogni capacità di contenimento si perde e si viene costituendo una dimensione
catastrofica caratterizzata dalla perdita della familiarità dell’esperienza e da un’angoscia di
spaesamento» e questo, come dimostra l’autore, può rendere incomprensibile il messaggio
cinematografico… e naturalmente non solo quello. Ricordo in proposito un paziente difficile che si
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forzava ad andare al cinema e per lungo tempo usava sedersi nell’ultima fila laterale, ma doveva
uscire precipitosamente dalla sala appena arrivava il buio e iniziavano le immagini del film.
È un lavoro di elaborazione complesso. Ogden (2008) distingue tra il concetto di holding di
Winnicott e quello di «contenitore–contenuto» di Bion. Il primo come concetto ontologico che
riguarda la continuità dell’essere, il secondo come luogo per l’elaborazione di pensieri inconsci, che
permette all’esperienza vissuta conscia di essere alterata in modo da essere disponibile per il lavoro
psicologico di generare pensieri onirici (nel senso bioniano del termine). Come per promuovere
l’esperienza del bambino la madre deve rimanere sullo sfondo, così nella sala cinematografica deve
esserci per lo spettatore un proprio mondo rassicurante che si offra come cassa di risonanza
rassicurante per la proprie esperienze emotive anche forti. In fondo l’incontro tra scienze differenti
è assimilabile a quello fra culture o menti diverse e può crescere solo su un territorio comune di
curiosità scientifica e di passione investigativa, che consenta un tuffo nell’ignoto.
Ogden (2008), in un suo lavoro dal titolo significativo «Uno scrittore scrive», parla di quella
speciale ossessione che la scrittura introduce nel tempo della vita. Egli così esprime la sensazione
provata per cui «la scrittura mi sogna nell’esistenza così come io sogno la scrittura”: racconta di una
sua sensazione spaesante, come se perdesse il controllo della propria mente, fin quando in lui non si
sviluppa un modo di vivere «nello stato di scrittore» insieme allo svolgersi del resto della sua vita e
quello che si produce nell’ipotesi migliore è una conversazione vivente con se stesso, che si
costituisce come un sognare. Per Baudouin (1972), nel suo «Psicoanalisi dell’Arte», l’opera d’arte
trasmette più di quanto creda attraverso la speciale «intuizione» che l’uomo ha del suo simile, che si
basa su di un «istinto gregario», che agisce attraverso l’«identità delle immagini», che in ognuno
produce associazioni intime e personali. Sotto di esse vive la regione dell’inconscio collettivo, di
«quei vasti fondali umani in cui i miti nascono», che fondano su simboli universali, ed è questo che
fa sì che l’arte comunichi. Didier Anzieu (1992) in «Beckett», suo interessantissimo romanzo e
saggio nello stesso tempo, ha indagato le implicazioni soggettive e gli aspetti simmetrici
dell’incontro tra Beckett e Bion, partendo dai resoconti dell’analisi iniziata e interrotta dopo poche
sedute, che diviene, sotto il vertice osservativo di Anzieu, spunto di indagine biografica e anche
autobiografica.
I protagonisti allora divengono tre, l’analista Bion, l’artista Beckett e il lettore Anzieu, che
dialogano a distanza anche temporale e, arricchiti dalla reciproca conoscenza, portano i risultati
nell’ambito della propria personale ricerca artistica e scientifica. Dirà Anzieu: «la mia testa e la mia
pelle formano un immenso recipiente sonoro […] a questo livello non si tratta ancora di pensieri
miei, io non ne sono l’autore, ne sono soltanto lo scrivano, diventeranno pensieri miei quando li
scriverò, li correggerò, li trasformerò […] l’autore che sono io […] raccoglie echi sconosciuti o
dimenticati […] una serie primitiva di echi di provenienza ignota». È nelle situazioni di criticità che
il dibattito si fa più stringente, la necessità riparativa impellente e la situazione di crisi produce
nuove intensità e profondità, accompagnando nella ricerca verso risposte nuove.
Il tema delle immagini e della loro complessità e intensità coinvolge il tema dello sguardo: di chi
guarda e del modo in cui guarda. La riuscita di un film, sostiene Zizek (2004), dipende dalla
visionarietà dei fantasmi del regista, che si appoggiano sui fantasmi sociali contemporanei: «siamo
sempre dei visti prima che essere dei visibili». Per questo possono esserci immagini ben fatte che
restano irrilevanti e altre più comuni, che colpiscono. Suggerisce poi che ciò che attira non è tanto
la scena affascinante, ma la sensazione di qualcuno che ci sta guardando, cioè l’idea che siamo
degli oggetti nel sogno di qualcun altro. Una sorta di profondità dello sguardo all’indietro come in
scatole cinesi. Il successo del web, del «grande fratello», sembra avvalorare questa idea di uno
sguardo che ci accompagni perennemente come garante dell’essere soggetto. Non è forse a questo
bisogno che risponde il mondo della tecnologia quando costruisce televisori con spegnimento a
tempo, che possano essere lasciati accesi per permettere di addormentarsi e spegnersi da sé nel
pieno della notte… e del sonno, come una sorta di «materno-sociale»? Il tema è oggi
particolarmente interessante, se si pensa alla solitudine del soggetto, sperso in un incommensurabile
villaggio globale.
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Nel film di Hitchcock il destino dello «sguardo» ha una propria vicenda figurativa, che va di pari
passo con il chiarimento della vicenda psichica. Il titolo originale del film Spellbound allude alle
atmosfere allucinate, in cui si muovono i personaggi. Non sono i sogni che si presentano in
un’atmosfera onirica che ne confonde i contorni, ma è tutta la storia che si muove in un’atmosfera
«perturbante», dove sogni, realtà, luoghi del passato e del presente vivono immersi in un’atmosfera
impalpabile. Ballantine, per tutta la parte del film in cui crede senza speranza di essere un assassino,
si muove lievemente allucinato, lo sguardo fisso, come «affascinato» dal baratro della follia che
sembra attrarlo, contro la fatica della ricerca di una propria verità cui è forzato dalla fede
incrollabile di Costanza.
La traduzione italiana del titolo originale «Io ti salverò», mette invece più direttamente in contatto
con il contenuto emotivo, una certezza salvifica che fa da collante profondo, dando la possibilità di
svilupparsi alla storia, che altrimenti sarebbe finita velocemente con un ricovero, come avviene per
altri pazienti della clinica «Villa Verde», oppure con un altrettanto veloce epilogo suicidario di
Ballantine, come avviene per il suo alter-ego, il paziente della clinica che soffre per senso di colpa.
E logicamente non poteva che essere quello l’epilogo, se non ci fosse stato un incontro tra Costanza
e Ballantine in cui tutto cambia.
Ballantine in un incontro drammatico rivelerà a Costanza che se si guarda in uno specchio non vede
che il vetro. Uno specchio che rimanda un terrorizzante nulla identitario, il timore di un eterno buio
presente, come quello di una sala in cui non può iniziare mai il film, nel quale non si inscriva alcuna
singolarità, non avvenendo nessuna storia. Per questo per Ballantine sembra più tranquillizzante
l’identità di assassino. Ma Costanza trova un primo indizio e fa notare a Ballantine che ha un
portasigarette che reca delle iniziali, presumibilmente le sue. Ballantine sviene: è evidente che ha
visto troppo e tutto insieme in quel varco verso la propria identità. E Costanza risponderà
sorprendentemente abbracciandolo: «Caro non avere paura! Stai guarendo, stai già meglio… e io ti
salverò!». La risposta rispecchiante «materna» di Costanza poggia su una sua fede salvifica, una sua
profonda capacità di holding, che ha ritrovato all’interno della sua capacità di amare. Questo
permetterà a Ballantine di vedersi e di nutrire una qualche fiducia.
Certo Hitchcock sta inserendo il tema del transfert. Lo fa «a suo modo»; così, dietro la storia
romantica, si nasconde una molla profonda che lo spinge verso certe storie e non altre, la
«necessità» di risolvere i suoi fantasmi, quelli cui allude Zizek: la sua arte sembra guidarlo
intuitivamente nell’esplorazione della relazionalità e nella ricchezza delle sue articolazioni. Si può
dire quindi che trasferisce sullo schermo le sue scene traumatiche cercando per esse la trama di una
storia plausibile. Lo schermo risulta lo spazio potenziale in cui sviluppa il dialogo con il terzo, gli
spettatori, i quali sono dinanzi allo schermo evidentemente alla ricerca di un’analoga esperienza.
Tutto ciò anche al di là della sua consapevolezza. Del resto questa è un’esperienza nota ai registi;
Ingmar Bergman, intervistato a proposito del significato delle sue storie, rispondeva di essere
stupito delle letture che delle sue opere davano i critici, e alcune di non averle mai pensate.
Ma Costanza cosa vede per dire quello che dice? Qual è lo spazio della sua sicurezza? Certamente
quello di una teoria disciplinare, appresa e sperimentata, ma con qualcosa di più che riguarda la
dimensione dello sguardo del clinico, la sua fiducia in una comprensione profonda, una sua
«necessità» di ricerca continua. Costanza si muove nel suo lavoro tra due discipline e due
possibilità narrative: quelle che dipendono da un intervento di routine, psichiatrico o psicoanalitico
che sia, e quelle che portano a indagini e articolazioni sempre più profonde. All’interno del gruppo
degli psichiatri due figure importanti per Costanza raccontano due modi di vedere le professioni di
cura e sono diametralmente opposte: quella che vede la professione come competenza acquisita una
volta per tutte e la conoscenza come potere, e quella dello scienziato appassionato, che vede il
proprio lavoro come costruzione e studio perenne.
Il vecchio Direttore, che deve lasciare la direzione della clinica, spiegherà la sua posizione: ecco «la
legge cui non si sfugge nella scienza: la vecchiaia e la malattia». Imbrigliato nelle trame del potere,
perverte così i principi della sua professione. Il maestro di Costanza invece, Brulov, è un vecchio
psichiatra, che vive in solitudine, appartato dal mondo accademico, ma che conserva una forte
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passione per il proprio lavoro, che lo induce a sviluppare liberamente la propria curiosità scientifica.
In uno dei momenti salienti del film, Brulov parla con un Ballantine allucinato distraendolo, mentre
quest’ultimo ha in mano il rasoio col quale si stava sbarbando, in un contesto carico di una valenza
minacciosa. Come tessendo un dialogo a distanza con il Direttore, Brulov dirà: «Ecco che cos’è la
vecchiaia! Si pensa tutto il contrario che in gioventù; chi combina i guai maggiori a questo mondo?
I vecchi! Sempre preoccupati di quel che accadrà su questa terra quando loro non ci saranno più. E
sono loro che provocano le guerre! Perché la guerra è l’unica cosa che riesce ancora ad animarli un
po’» … e allora: «viva la gioventù che vuole vivere»… «E allora brindiamo alla gioventù, alla
gioventù che non sa fare nient’altro che vivere!»
E così ci offre una prima spiegazione della motivazione che lo indurrà ad allearsi con Costanza
nell’ultima parte del film: lo scienziato è un eterno ricercatore e di fronte ai dilemmi della sua
professione non si ferma alla teoria nota se non risponde sufficientemente alla domanda e questo lo
rende sempre giovane.
Un’altra spiegazione è rintracciabile nell’attenzione che Hitchcock presta al tema «amore» e alle
sue altre letture. Il film è ricco di simmetrie. Simmetria tra Costanza e una paziente della clinica: un
parallelismo tra le due donne, una medico, l’altra paziente, sulla capacità di aderire all’intensità
delle emozioni. La paziente soffre della impossibilità di amare, e Costanza, dicono i suoi colleghi,
sembra «un libro di testo». Manca di emozioni!
E l’amore per Costanza sarà come un’illuminazione: «Che strano scoprirsi di essere diversi… finora
ero sicura di quello che avevo in mente». Costanza perde all’improvviso il controllo: «Sono entrata
senza sapere quello che facevo» per lasciar posto a un’emotività che non ha nome. In aiuto di
Costanza, interviene il «malato». A lei Ballantine, che sperimenta proprio una malattia della sfera
emotiva, e quindi di essa avvertito, le spiegherà: «qualcosa è accaduto in noi, un attimo come una
luce improvvisa, una luce intensa», mentre si aprono una serie infinita di porte. Esse si aprono ad un
altro modo di guardare. A questo punto è chiaro il livello in cui si svolgerà l’indagine. Il problema è
lì, sotto gli occhi, e anche il vecchio psichiatra Brulov sarà posto di fronte a un dilemma: concludere
la propria funzione con la somministrazione del bromuro a Ballantine, affidandolo subito alla
polizia, o dare ancora spazio all’amore per l’indagine, andando a guardare più in profondità,
ritenendo di avere ancora una possibilità e una capacità curativa? Mi riferisco a una sicurezza e
fiducia avvicinabile a quella che Winnicott, parlando di holding, descrive come una disponibilità
materna totale, una sorta di dedizione allo scopo di aderire e comprendere la realtà del bambino e
assimilabile all’ «Io ti salverò» di Costanza.
Il confronto tra Brulov e Costanza avrà luogo al risveglio di Costanza, mentre Ballantine giace
addormentato a causa del bromuro, ma partecipa inconsciamente, perché, sapremo dopo, sta dando
forma in immagini, in un incubo risolutivo, a tutti gli eventi e personaggi della propria storia. Il loro
dialogo si svolge in un momento drammatico, catastrofico del film e porta a un dibattito serrato tra i
due parametri scientifici, quello psichiatrico e quello psicoanalitico. Sarà un confronto stringente e
uno stimolo reciproco al pensiero e al chiarimento che spingerà entrambi verso la messa a punto
della diagnosi e dell’intervento clinico. A Costanza Brulov racconterà gli eventi intercorsi tra lui e
Ballantine, mentre la donna dormiva; di come, messo in allerta da chiari segni psichiatrici (pupille
dilatate e tremore del braccio sinistro) e sociali (nessuno va in viaggio di nozze senza bagaglio),
veglia in attesa: «Dopo un po’ eccolo arrivare, è agitato… allora chiacchiero e gli do il bromuro».
Poi mostrerà il rasoio che aveva in mano e ne darà una lettura minacciosa: «È un irresponsabile».
Costanza gli farà notare che però non ha usato il rasoio.
Lui: «Non propinarmi le solite illogicità femminili. Riconosci che ne so più di te, ma poi pretendi di
saperne di più».
Brulov ricorre all’autorità della scienza medica, che ne sa di più di quella basata sull’illogico, il
pensiero «debole» dell’affettività. Egli a questo punto considera concluso il compito di psichiatra:
ha impedito a Ballantine di nuocere a se stesso e a Costanza, vuole chiamare la polizia e chiuderla lì.
Ma ecco che Costanza introduce l’altro punto di vista, proprio quello dell’illogicità: «Non giudicate
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con la mente ma col cuore». Costanza gli chiede uno spostamento e ampliamento dello sguardo,
dove Costanza vuole portare la sonda del ragionamento, dentro il linguaggio dell’emotività umana.
Lui: «Stiamo parlando di schizofrenia e il sentimento non c’entra». Tenta di chiudere ancora in una
definizione psichiatrica.
Lei: «Stiamo parlando di un uomo». Perché la dimensione emotiva amplifica la capacità di
comprensione della mente.
Lui: «Vergognatevi Costanza, una promessa della psichiatria, siete una collegiale innamorata di un
divo del cinema».
Brulov si sposta da una diagnosi psichiatrica severa ad una più mite, avvicinabile ad una sorta di
follia amorosa adolescenziale: «Tu sei una collegiale e lui un divo del cinema». Sta mutando il
livello del suo ascolto, mentre costringe, con le proprie obiezioni, Costanza a procedere nel cercare
dentro di sé le ragioni del proprio convincimento.
Lei: «Non è sufficiente la mente, Il cuore vede più lontano alle volte».
Lui: «E se ha ucciso?»
Lei: «Non ha ucciso».
Lui: «Come lo sai? »
E qui Costanza introduce il tema controtransferale: «Lo so… non potrei amarlo se fosse un
malvagio… né sentirei tanta pena per la sua mente smarrita».
Lui: « tu sei venti volte più pazza di lui, sei una bambina».
Il vecchio psichiatra depone le armi, sono pensieri «bambini», pensieri intuitivi, comunicazioni e
connessioni affettive, quelle dove Costanza ha raggiunto Ballantine, e dove li sta raggiungendo
Brulov, per abbracciare un’altra vista, più proficua alla comprensione della realtà di Ballantine.
I pensieri ora non sono vecchi, quelli che tendono a chiudere con una definizione, quelli che
scatenano le guerre, ma sono quelli che premono per la vita. Potranno nascere pensieri nuovi,
associazioni, emozioni, sogni. Ora Brulov è sceso sullo stesso territorio d’indagine di Costanza. E
Costanza può concludere definendo il contesto medico del loro dialogo: «Siamo medici e dobbiamo
tentare di scoprire in lui la verità, sanare la sua mente malata». Non siamo davanti ad un peccato
d’onnipotenza, ma al sintonizzarsi mediante l’intensità del mondo affettivo per avvicinare realtà
psichiche complesse. La situazione è pronta per dare valore a parti più profonde e possiamo infatti
immaginare che, mentre il dibattito tra i due procede serrato, di pari passo emergano gli scenari del
bellissimo sogno-incubo, con cui Ballantine collabora alla ricerca della propria verità. Le tre menti
sono in grado di vedere tutti gli elementi, le immagini, i fantasmi, ognuno nel proprio ruolo. Tutte le
emergenze figurative sono lì per essere lette.
Ed ecco l’incubo di Ballantine: si aprono drappeggi su cui si muovono occhi giganteschi, appaiono
enormi forbici, occhi tagliati, facce senza fisionomia, un tetto pericolosamente spiovente, il vuoto e
il panico. Non resta che la lettura di queste immagini e dietro c’è una nuova storia e la possibile
Verità. A questo punto il percorso analitico diventa il centro del film, portando alla risoluzione della
vicenda umana, di quella poliziesca e di quella clinica. Si giungerà all’esito finale. I due scienziati si
adopereranno attivamente per l’interpretazione dei simboli e il terzo, Ballantine, li collegherà con le
emergenze della propria realtà ritrovata, dando conferma delle loro scoperte. Il percorso da ora è
segnato. Se ne gioverà la conoscenza umana e insieme scientifica. Servirà alla comprensione di se
stessi e sarà anche una conferma del lavoro dei due specialisti.
Alla fine un ultimo dialogo e un’ultima simmetria:
«Mi hai salvato tu», dirà Ballantine.
«No mi hai salvato tu», risponderà Costanza. Hanno ragione entrambi.
Ovviamente il film non può essere considerato una verifica di carattere scientifico, ma permette
l’immersione in quel territorio comune, sconfinato e profondo, in cui ognuno ha una propria
geografia, confini invalicabili e terre ancora da esplorare. In esso si trovano le emergenze e le
sinergie possibili. In questo modo i linguaggi convivono e dialogano fra loro.
È la percezione da più punti di vista contemporanei, come insegna Bion (1962) con la sua visione
binoculare, che dà la terza dimensione, la profondità dell’oggetto, che ci fa scoprire nuovi territori,
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risultato di ciò che c’era, che permette nuove letture. E così psicoanalisi e psichiatria possono
concorrere alla ricerca e alla narrazione di un’esperienza e alla Verità di una storia.
SINTESI
Psichiatria e psicoanalisi si cimentano in un comune campo operativo a volte come alleati, altre su opposti
fronti. Si propone come terzo, il cinema, poiché lo studio di realtà complesse necessita sia dell’emergenza di
criteri differenziali sia di un ampliamento dello spazio per il dispiegarsi di percorsi possibili. Il coltivare il
dubbio e l’incertezza e un’intensità appassionata ne sono i protagonisti emotivi. Le teorizzazioni di
Winnicott, Bion e le elaborazioni di Ogden chiariscono il contesto dell’alleanza. “Non aprite quella porta!”
sembra dire, temendo l’irruzione di una Verità a senso unico, Ballantine, uno dei protagonisti del film di
Hitchcock “Io ti salverò”. Ma su quali siano le porte giuste, come aprirle e quando chiuderle si interrogano lo
psichiatra e la psicoanalista, alleati nella ricerca di risposte sempre più centrate sulla decodificazione della
figura enigmatica.
PAROLE CHIAVE: Bion, holding environment, - Ogden, pittogrammi, rappresentazione psichica , visione
binoculare, Winnicott.
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