Palermo - Corriere del Mezzogiorno
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Venerdì 30 giugno 2013 Speciale Gastronomia SAPORI E COLORI DI ALTRI TEMPI di ANTONIO SCOLAMIERO E sistono solo pochi altri posti al mondo dove quando si parla della cucina e della gastronomia si può, senza ombra di smentita, parlare di un viaggio nel viaggio. La Sicilia è uno di questi luoghi. Una cultura gastronomica iscritta nella tradizione mediterranea, e che affonda la sue radici nella notte dei tempi e sfruttando a pieno la contaminazione etnica tra le varie culture e popolazioni che nel corso dei secoli hanno invaso e governato l’Isola. Le tante dominazioni hanno, dunque, non solo lasciato monumenti e ruderi a testimonianza, ma hanno anche profondamente segnato il paesaggio con le colture introdotte e seminato tracce in abitudini e modi di vita facilmente riscontrabili ancora ai giorni nostri soprattutto in cucina. Non è possibile parlare di cucina siciliana come di un’unica entità: le diversità originate dalle differenti influenze culturali si sono incrociate con quelle determinate dalla diversità tra cucina della costa e dell’interno; due mondi ancora lontani, ma tra i quali, a causa delle difficoltà di spostamento, esisteva un tempo un solco profondo. Pensare alla tradizione gastronomica siciliana è allora come immaginare una tavolozza di colori, tonalità forti, accanto a tinte sfumate, un gioco di richiami e di rimandi suggestivi più che decifrabili. Come in tutte le cucine povere è ad esempio ricorrente l’abitudine del piatto unico; le paste di vario tipo e cucinate in modi diversi, arricchite dai prodotti del posto finiscono col diventare l’intero pasto. È il caso della pasta con le sarde, piatto che da Palermo si è diffuso ovunque sull'isola; delle paste con ortaggi e legumi dell’interno; delle varie paste al forno quali la pasta ’ncaciata messinese, per giungere alle varianti ricche di echi culturali come la catanese pasta alla Norma (con pomodoro, melanzane e ricotta salata). Prima ancora della pasta è però il pane ad assolvere questa funzione nutritiva. I tanti tipi di pane di cui la Sicilia è ricca si sono sempre accompagnati a quanto la zona offriva, olio, origano e pomodoro per il più diffuso pane cunsato (condito), da consumarsi caldo, appena sfornato al più insolito pane ca’ meusa crostino con la milza venduto sulle bancarelle per le strade di Palermo. La familiarità con i prodotti naturali ed una semplicità di fondo è ciò che ancor oggi più caratterizza la cucina della parte orientale dell’isola. È facile riscon- trare analogie con la cucina dell’interno segnata da abitudini contadine e caratterizzata dall’utilizzo di verdure ed ortaggi. La melanzana ne è un esempio significativo, da essa traggono origine piatti appetitosi fino a giungere alla sua glorificazione nella parmigiana. I prodotti della pastorizia hanno un posto di rilievo, mentre il consumo della carne è un’eccezione spesso riservata alla festa. Senza dimenticare la parte a mare con il pescato che riveste un ruolo principe in alcuni piatti della tradizione che potrebbero essere annoverati nella tradizione mondiale della cucina. E come non sottolineare l’abbondanza di frutta, arance e agrumi su tutti e per chiudere l’apoteosi di dolcezza con i dolci tipici. Insomma un mondo nel modo che vale una visita sull’Isola più bella del mondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA 2 PA Palermo Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno I dati in crescita Enoturismo, è boom «Sicily Tasting Network», ecco l’innovativa rete promozionale per la diffusione del settore I dati sono eloquenti: il segmento di mercato dell’enoturismo, a differenza del trend negativo che ormai da anni caratterizza l’industria delle vacanze italiana, va a gonfie vele. Gli appassionati del buon bere si moltiplicano lungo tutto lo stivale, così come gli eventi e le manifestazioni dedicate al tema. La conferma di tali dati in controtendenza è emersa in occasione del convegno «Vino, cultura e turismo», organizzato dalla Federazione strade del vino e andato in scena a Palermo. A fornire le interessanti analisi e statistiche è stato direttamente Paolo Benvenuti, direttore di Città del vino: secondo le elaborazioni effettuate dall’osservatorio sul Turismo del vino il mercato del turismo enogastronomico risulta in crescita tra il 2011 e il 2012 con un ritmo che si attesta intorno al 12%. Ed è proprio in tale direzione che, sempre in Sicilia, nasce un nuovo progetto in grado di sfruttare al meglio le sinergie tra mondo del turismo ed universo enogastronomico. Si chiama «Sicily Tasting Network» l’innovativa rete di promozione e diffusione del turismo enogastronomico dell’isola, allestita da Confindustria Sicilia Alberghi e Turismo, Federazione Strade del Vino e dei Sapori di Sicilia, Movimento Turismo del Vino e Enterprise Europe Network. Partners importanti per un’iniziativa che si pone l’obiettivo di promuovere le eccellenze dell’agroalimentare siciliano tramite la creazione di pacchetti turisti- ci ad hoc in grado di regalare ai visitatori esperienze polisensoriali indimenticabili. Come ha ben spiegato Ornella Laneri, presidente di Confindustria Sicilia Alberghi e Turismo, l’intento del progetto «è quello di fare da collettore tra le varie realtà del mondo del turismo e di quello enogastronomico». I contorni del progetto sono stati già delineati grazie alla stipula di un protocollo tra tutti gli alberghi aderenti che saranno chiamati a promuovere e commercializzare i prodotti, diventando snodi di partenza per gli itinerari verso le Strade del Vino. Il Movimento Turismo del Vino Sicilia si occuperà, invece, di integrare l’offerta con le visite nelle cantine e fornirà i contenuti per la costruzione di package turistici. Enterpri- Il Movimento Turismo del Vino Sicilia si occuperà di integrare l’offerta con le visite nelle cantine e fornirà i contenuti per la costruzione di package turistici se Europe Network, infine, chiuderà il cerchio creando le basi per l’internazionalizzazione delle offerte. Anche Poste Italiane darà il suo contributo, realizzando un sito per l’e-commerce di prodotti e servizi alberghieri oltre a permettere una veloce ed economica distribuzione dei prodotti agroalimentari. Prodotti che del resto sono inseriti nella lista del presidi Slow Food. Per ottenere questo contrassegno identificativo si deve essere in linea con i criteri stabiliti dalla Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus. Più in generale, il Presìdio Slow Food è applicato a prodotti rari ed eccellenti a rischio di estinzione, ai gruppi di contadini, allevatori, pescatori che li producono, ai disciplinari ed alle regole di produzione che li contraddistinguono. Diverse sono le tipologie prese in esame: cereali, conserve ittiche, derivati carnei, dolci, erbe e aromi, formaggi, frutta, legumi, mieli, ortaggi, pane, pesci, razze e salumi. Ad oggi la Sicilia ne conta ben 27, ecco quali. Ortaggi: aglio rosso di Nùbia, cappero di Salina, cipolla di Giarratana. Frutta: limone interdonato, mandarino tardivo di Ciaculli, mandorle di Noto, melone purceddu d'Alcamo, oliva minuta, pistacchio di Bronte, susine bianche di Monreale. Legumi: fagiolo badda di Polizzi, lenticchia di Ustica. Razze: ape nera sicula, asino ragusano, capra girgentana, razza modicana, suino Nero dei Nebrodi. Pesci: masculina da magghia. Formaggi: maiorchino, provola dei Nebrodi, provola delle Madonie, vastedda del Belìce. Erbe e aromi: sale marino integrale artigianale di Trapani. Pane: pane nero di Castelvetrano, pane tradizionale di Lentini. Dolci: cuddrireddra di Delia Manna delle Madonie. Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Dettagli Basilico, origano, aglio e cipolla Ecco i «protagonisti» in cucina L’impiego degli aromi nella preparazione dei piatti L a fortuna della cucina siciliana deve molto all'impiego degli aromi locali. I più diffusi sono il basilico e l’origano, seguiti da alloro, rosmarino, salvia, timo, zafferano e ruchetta. Inutile dire dell’aglio e della cipolla, padroni assoluti della cucina siciliana, e dell'immancabile prezzemolo, presente in tutti i piatti. L’uso dell’olio d’oliva è generalizzato, preferito ad ogni altro grasso, mentre la sugna è destinata alla preparazione di speciali impasti per focacce o dolciumi. Si preferisce l’uso del sale marino al salgemma; e se proviene dalle saline di Trapani o di Vindicari, ancora meglio. Gli antipasti non fanno parte della tradizione, e quelli esposti nei ristoranti altro non sono che il companatico o il secondo piatto — se non l’unico — della cucina povera: frittatine, pomodori secchi, olive condite, melanzane, verdure domestiche e selvatiche. Senza pane in Sicilia non si va a tavola, sarebbe inconcepibile. Ogni paese, ogni città vanta decine di qualità di pane, diverse per l'impasto, la forma, il tempo di lievitazione o di cottura: ed infiniti sono i nomi che si danno ai pani per distinguerli gli uni dagli altri. Altrettanto numerosi sono i pani «votivi» o festivi, preparati appositamente per certe feste patronali, con preciso intento di simbologia protettiva. Il siciliano nutre per il pane un profondo rispetto: se ne cade un pezzettino a terra, lo raccoglie e reverentemente lo bacia. Gli spaghetti furono creati per la prima volta in Sicilia; persino il termine «macarones», che originerà quella di «maccheroni» è stato coniato nell’isola. Unica regione italiana lambita da tre mari, la Sicilia è ricchissima di pe- Le proprietà Tradizionale alleato del pomodoro nella caprese e nei sughi estivi, il basilico fa subito profumo di cucina, ci rimanda a un’alimentazione di tipo mediterraneo, parla italiano ed è in genere legato a doppio filo alla pizza. Ma in realtà il basilico ha anche una valenza erboristica: in particolare, utilizzandolo fresco, si trasforma in un rimedio naturale assai efficace per tanti disturbi, in particolare dell’apparato digerente. sce, amato da tutti gli isolani: ne vengono consumate non solo le specie più pregiate, ma tutte e ed in ogni stagione, con una spiccata preferenza per sarde e tonni, polipi e triglie. Carne preferita in assoluto è invece quella suina; seguono i bovini (ma poiché la carne locale è sempre stata dura si è inventato il tritacarne per farne polpette e polpettoni), gli ovini, il pollame e la cacciagione. Quasi del tutto ignorata la carne equina. Tra le preparazioni risultano più numerose quelle che utilizzano le parti meno costose, come le interiora: sono nate così alcune specialità estremamente gustose, come il fegato nella rete, il cuore ripieno, la gelatina di maiale, la gamma di piatti a base di trippa, e le animelle. Le verdure e i legumi hanno in percentuale surclassato tutti gli altri alimenti nella dieta isolana, vuoi per gusto ma più spesso per necessità: due soli ma straordinari esempi di piatti, la caponata e il maccu di favi. Esistono in Sicilia delle tecniche di cottura molto originali. Una è la cottura nella cenere: in genere uova che si mettono tra la cenere calda, o rocchi di salsiccia avvolti nella carta paglia da macellaio preventivamente bagnata con vino. C'è poi la cottura nel sale, oggi di moda ma da sempre praticata in Sicilia dal momento che l’isola è stata grande produttrice di sale fin dall'antichità: fino agli anni cinquanta era sconosciuta al di là dello Stretto. Altra specialità è la cottura delle anguille con la sabbia: le anguille vengono ricoperte con sabbia di fiume o di mare e poi arrostite sulla brace. Il grasso che cola, insieme alla sabbia via via aggiunta, creano una crosta esterna che a fine cottura viene rimossa e che lascia la carne bian- Il condimento L’uso dell’olio d’oliva è generalizzato, preferito ad ogni altro grasso, mentre la sugna è destinata alla preparazione di speciali impasti per focacce o dolciumi ca e ben cotta. Altra tecnica infine, oggi del tutto scomparsa, era quella della balata di zolfo. Gli zolfatai del Nisseno facevano liquefare il minerale per separarlo dalle scorie; ancora liquido e caldissimo lo zolfo veniva colato in apposite vasche, dette balate, dalle quali poi venivano ricavati i pani di zolfo. Un pollo veniva messo dentro la balata, cuoceva all'intenso calore e veniva estratto cotto a puntino, spaccando il pane di zolfo ormai indurito. Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Palermo Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 3 PA Il piano formativo Il Baro.Qu.e come risorsa L o chiamano il giardino di pietra. È il sud-est siciliano, un territorio di settemila chilometri quadrati tra Catania, Siracusa e Ragusa che racchiude millenni di storia e leggenda, di arte e cultura, e centinaia di chiese e palazzi, le cui facciate portano il segno di quello stile tardo Barocco, patrimonio dell’Umanità, che tutto il mondo ci invidia. Una lingua di terra scolpita da sapienti mani artigiane che hanno dato un’anima a semplici pietre diventate tratto distintivo di un territorio: la nera lavica dell’Etna, la giallo-oro degli iblei, la bianca calcarea di Modica e Ragusa. Le stesse pietre su cui ancora oggi crescono le viti, gli aranceti, i mandorleti, gli alberi di pistacchio che colorano un paesaggio e mescolandosi armoniosamente tra loro danno vita alla migliore cultura enogastronomica siciliana portata in tavola. Una terra che esprime anche ottime materie prime nel campo della zootecnia, a cominciare dal maialino ibleo della storica Chiaramonte Gulfi, il canestrato siciliano o il cosacavaddu degli altipiani Ragusani. Una preziosa e opulenta eredità che deve ancora trasformarsi nella principale risorsa di sviluppo economico dell’intero comprensorio puntando oggi alla valorizzazione di migliaia di realtà imprenditoriali del settore turistico e dell’enogastronomia. Ed ecco che partendo da quella risorsa che è il barocco, la società catanese Civita ha messo a punto il piano formativo Baro.Qu.E, dove le desinenze qualità ed eccellenza diventano le parole d’ordine di ogni processo di innovazione cui dovrebbero guardare aziende e imprenditori, utilizzando i nuovi strumenti della comunicazione, della tecnologia, del web marketing e della formazione dei propri dipendenti. Formazione che guarda avanti con docenti d’eccezione come l’esperta di modelling, la peruviana Karla Chumpitaz, lo chef Carmelo Chiaramonte, che hanno diretto i corsi di cake design e di cucina creativa. Ma ci sono anche le nuove tecniche di presentazione di una ricercata carta dei migliori vini Al progetto hanno aderito 102 aziende del settore turistico enogastronomico Territorio di 7mila chilometri quadrati che racchiude millenni di storia, arte e cultura siciliani o di un raffinatissimo carrello di salumi e formaggi, con una particolare attenzione alla degustazione grazie alla quale si può risalire ai luoghi di produzione dei prodotti selezionati. «Baroque è un progetto in carne e ossa che racconta storie d'impresa che fanno la differenza in un territorio a vocazione turistica come il nostro che possiede anche una grande tradizione gastronomica — ricorda Nanda D'Amore, presidente della società Civita — con aziende ormai entrate nella memoria collettiva, come il Caffè Sicilia o la trattoria Carmine a Noto e la cioccolateria Bonajuto a Modica, avamposti di un percorso del gusto che ci porta ad Avola con le specialità alla mandorla, o a Bronte e al suo pistacchio». Al piano BaroQuE (BARO.cco QU.alità ed E.ccellenza), finanziato da Fondimpresa, il fondo interprofessionale di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, hanno aderito 102 aziende del settore turistico-enogastronomico, diretto a 554 dipendenti per 2.980 ore di lezioni programmate, a cui ha partecipato anche il comune di Noto, la prima amministrazione pubblica coinvolta in un piano formativo. Delle 102 realtà imprenditoriali 43 sono di Catania, 35 di Siracusa, 24 di Ragusa. «La formazione continua è importantissima soprattutto in Sicilia perché, in questo momento particolare, — ha aggiunto Nanda d’Amore — può aiutare ed incentivare le tantissime piccole aziende che rappresentano la stragrande maggioranza del tessuto produttivo locale In quest’ottica la formazione professionale diventa uno degli strumenti più importanti per sviluppare le eccellenze dell'area e creare i presupposti per l'integrazione degli altri comparti strategici dell'economia». Letizia Carrara © RIPRODUZIONE RISERVATA 4 Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno PA SUPERMERCATO Maddalena srl VIA DANTE, 92 - PALERMO Tel.: 091.332330 La qualità oltre il market Palermo Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 In cucina Interpreti della tradizione Rigide regole miste all’innovazione, ecco gli chef che portano nel mondo i sapori e la cultura gastronomica siciliana S e non sei siciliano non puoi capire effettivamente quale sia il motivo di tanto pathos instillato in frasi come «appena aperto il frigorifero, la vide. La caponatina! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare. Il pane, nel sacco di plastica, era fresco, accattato nella matinata. Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida». Spesso, il noto scrittore siciliano Andrea Camilleri utilizza la metafora del cibo quando ha da porre l’accento su un momento o un’atmosfera di assoluta passione. Il cibo inteso come «mémoire», materno e sincero, è alla base della nuova tradizione siciliana, vista e rivista da giovani interpreti della «nouvelle vague». Pietro D’Agostino interpreta a suo modo l’essere — al contempo — un noto chef stellato e il figlio naturale della grande tradizione culinaria siciliana. Durante l’infanzia rimane ammaliato dagli odori della cucina di casa, profumata di basilico, pomodori e melanzane, associati a regola d'arte per dar luogo ai magnifici accostamenti (regalo degli arabi che non smetteremo mai di ringraziare). «Credo nella magia, quella del piatto, nel suo percorso dalla cucina al tavolo, e sino alla bocca. Dove gli ingredienti esprimono la loro storia e s'esaltano per la combinazione con cui la mia fantasia ha voluto proporli». Così Pietro descrive il suo modo di intendere la cucina del territorio; nel suo peregrinare in giro per il mondo non si è mai scrollato di dosso i sapori della sua terra, sempre ricercati e rintracciati in ogni ristorante, dove ha lavorato, da Londra, a Roma, passando per la Costa Rica, la Florida e Torino. Sopra, lo chef stellato Pietro D’Agostino all’opera. A destra, la caponata, piatto tipico della tradizione e infine, sotto, la parmigiana dolce Oggi Pietro ha il suo spazio a Taormina, la «Capinera», e soprattutto il suo menu, all'interno del quale è facile rintracciare spesso la voce «alla mia maniera», quasi a voler sottolineare (e ci tiene) una paternità e un orgoglio assolutamente siciliano. Assaggiare la sua parmigiana dolce è un’esperienza indimenticabile. Anche se l'aspetto non ricorda affatto le «poco estetiche» stratificazioni super fritte della nonna, il sapore e l'odore hanno tutto il gusto dei bei ricordi, addirittura di quelli sopiti e atavici di una cucina della lontananza, di un mondo perduto e vivo solo nella nostra memoria. La parmigiana di Pietro sembra figlia di prodigiosi alchimisti, piuttosto che di rubicondi pasticceri, perché non ci si aspetterebbe mai di 5 PA trovare insieme dei gusti all'apparenza tanto distanti: la melanzana appena fritta e il cioccolato amaro, la ricotta dolce e la zuppetta di pomodoro. Malgrado i preconcetti, tutto funziona a meraviglia, il palato rintraccia positivamente ogni singolo tratto della stratificazione, passando in rassegna in maniera sincrona la purea di melanzana, la ricotta, un pizzico di pomodoro e infine lui, il magnifico cioccolato amaro, posto come custode e garante di un pezzo di storia, non stuprata ma piuttosto esaltata e magnificata. Un altro piatto simbolo della cucina siciliana è sicuramente la «caponatina», forse è quello più amato dal commissario Montalbano, quanto dagli estimatori della grande tradizione isolana. Secondo gli storici, la definizione di «caponata» deriverebbe direttamente dal termine capone, epiteto siciliano con il quale si indica la lampuga, un pesce pregiato che veniva servito alle tavole più abbienti, condito con una salsa agrodolce del tutto simile a quella usata nell’attuale caponatina; è probabile che il popolo, non potendo permettersi di acquistare il costoso pesce, prese a sostituirlo con le più economiche melanzane. Sebbene la caponatina possa sembrare un piatto «facile», in verità non lo è affatto, sia l’approccio in cucina che quello a tavola, infatti, seguono regole ben precise tramandate di generazione in generazione. Un sottile e labile equilibrio tra dolce e salato regola la bontà del risultato finale ed è inutile dire che, per realizzarla, è necessario avere a disposizione un'ottima materia prima: le melanzane. Da tempo immemore, la zona del vittoriese è la culla delle migliori coltivazioni orticole e, di conseguenza, fornitore ufficiale delle tavole mediterranee. Vero enfant prodige di questa orticoltura è certamente Giuseppe Libretti (patron dell’omonimo gruppo ortofrutticolo di Vittoria, in provincia di Ragusa) che, da figlio d’arte, ha ben compreso che una gestione manageriale ottimizzata e moderna avrebbe dovuto fare i conti, necessariamente, con prodotti evoluti, in grado di offrire qualità e tradizione gastronomica. Da questa intuizione, nasce la «caponata siciliana» in barattolo, una blasfemìa nei termini, una vera rivelazione di gusto in realtà. L’approccio sarebbe da vero agnosta, ma superata la prima forchettata ci si stupisce; le verdure hanno un ottimo sapore di fresco, polpose e croccanti e il famoso «agrodolce» è ben dosato come nelle migliori tradizioni. Non c’è dubbio, il cibo della memoria sta dalla parte della Sicilia e merita odi e inni (come molte cose che la riguardano), dà sapore e un senso di vittoria nei confronti della insensatezza insipida e inerte delle cose. Venera Coco © RIPRODUZIONE RISERVATA Il focus Quando il successo è una questione di gusto Al Sale Art cafè di Catania, l’alta qualità dei prodotti è una filosofia di vita S e è vero che la cucina è un’arte allora non c’è abbinamento più azzeccato di quello ideato da Andrea Graziano, imprenditore poliedrico e mecenate del gusto che all’età di 25 anni ha lanciato a Catania un nuovo modo di intendere la passione per la forchetta, arrivando dodici anni più tardi a realizzare l’ambizioso progetto di proporre prodotti di altissima qualità accessibili a tutti. Il Sale Art Cafè, promotore della rinascita di quel polo della gastronomia catanese che è diventata a tutti gli effetti la zona intorno vico Santa Filomena, a due passi da via Etnea, è un perfetto connubio tra due passioni: quella per i fornelli scatenatasi sin dall’adolescenza a dispetto dei sogni di mamma e papà che immaginavano per lui una carriera diversa, forse più tradizionale, e quella, trasmessa come un gene ereditario, per l’arte. Non è un caso se il luogo dove sorge il Sale Art Cafè è lo stesso dove era prosperata per ben 25 anni la galleria d’arte gestita dai genitori. E l’aria di famiglia si respira pure nel nome del ristorante, un omaggio alle saline in quel di Siracusa di cui si occupavano i nonni. Dall’inaugurazione nel 2002, il Sale Art Cafè è riuscito ad imporsi nel panorama gastronomico catanese, divenendo un sicuro punto di riferimento per gli amanti della gastronomia raffinata e di qualità in Sicilia e non solo tanto che gli appassionati di turismo enogastronomico annotano il suo indirizzo come una tappa immancabile nei loro tour sull'Isola. Il suo segreto? Va ricercato nella ricerca di prodotti di altissima qualità e di tradizioni rivisitate in chiave moderna che hanno decretato il successo della formula. «I primi tempi al Sale sono stati duri — spiega l’imprenditore catanese — L'innovazione nella cucina non era ancora molto apprezzata. Ma col tempo il Sale è diventato un modello da seguire, una finestra sull’alta gastronomia siciliana. Abbiamo ospitato grandissimi chef che hanno partecipato agli eventi organizzati all'interno del locale e fuori, culminati nel 2012 in una grande manifestazione a Parigi che ha coinvolto i nostri produttori d’eccellenza: è stato un successo». Andrea Graziano, oggi 37enne con un bagaglio di esperienze culinarie in giro per l’Europa, ha fatto della ricerca il suo marchio di fabbrica che nel 2012 ha trovato la sua massima espressione in Fud, «una bottega sicula dei sapori» ma soprattutto un brand che riunisce le «creazioni» dei migliori produttori attivi in Sicilia e in Italia con i quali il lungimirante imprenditore ha stretto rapporti di collaborazione sin da tempi non sospetti. Fud è un centro di raccolta delle competenze acquisite in dodici anni di lavoro. Uno spazio informale, contemporaneo che si propone di offrire l’altissima qualità a prezzi accessibili. «Abbiamo lanciato l’idea di tornare ai cibi semplici, da strada, con poca cucina ma grande attenzione alla qualità — sottolinea Graziano — Da noi si trovano carni selezionate, prodotti caseari e insaccati che sono il top dell’espressione siciliana di qualità. In più, ed è questa un’idea a cui lavoravamo da tempo, c'è il marchio Fud, una linea di prodotti che è la sintesi delle professionalità con cui collaboro sin dall'inizio, caratterizzata da una grafica essenziale, senza etichette e definizioni, perché il prodotto si presenta da solo». Clelia Coppone © RIPRODUZIONE RISERVATA Il focus La pregiata razza «rinata» negli ultimi anni Il maiale nero dei Nebrodi Il maiale nero sicilia è conosciuto anche come suino nero dei Nebrodi o nero delle Madonie. È una razza autoctona siciliana di origini antichissime. Suini rustici, di colore nero, quasi selvatici, allevati nelle zone boscose dell'isola, sono presenti in Sicilia fin dai tempi più lontani. Resti fossili e antichi documenti scritti testimoniano la presenza di questi animali fin dal periodo greco e cartaginese (VII-VI secolo a.C.). Durante tutto il Medioevo era diffuso in Sicilia l'allevamento brado, che subì una contrazione solamente durante la dominazione araba per le note motivazioni di ordine religioso. Questa razze è arrivata fino ai giorni nostr, con una diffusione in tutta l'isola ma con una maggiore presenza sui Monti Nebrodi. Già ai primi del Novecento c’era solo il ricordo dei grandi branchi di suini al pascolo. Nello stesso periodo si era diffuso l'incrocio con altre razze migliorate che avevano provocato una forte riduzione del suino nero e una diffusione di soggetti con pezzature bianche o completamente bianchi. Un altro fattore che ha determinato la riduzione del suino Nero Siciliano è stata la graduale scomparsa dei boschi che anticamente Un branco di suini neri in un allevamento coprivano buona parte dei rilievi siciliani. Negli ultimi anni c'è stata una decisa ripresa dell'allevamento di questa razza, sulla quale sono stati effettuati studi mirati alla valorizzazione delle sue produzioni. Il Nero Siciliano è attualmente una razza ufficialmente riconosciuta e dotata di registro anagrafico. Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA 6 PA Palermo Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno I frutti della terra Sua maestà l’arancia Il prodotto siciliano più apprezzato e conosciuto in Italia e nel mondo Un consorzio ne tutela la qualità Q uando si parla di Sicilia è quasi automatico associare l’isola anche al suo prodotto principe: l’arancia. Un frutto conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Tre le principali qualità: il Tarocco. Questa qualità — si legge nel sito del consorzio che raccoglie i produttori di arance rosse siciliane Igp — si pensa nasca da una mutazione gemmaria del comune Sanguinello scoperta in un agrumeto di Francofonte tra otto e novecento. La maturazione nei terreni in collina e meglio esposti inizia a metà di dicembre e termina, nelle aree tardive, verso metà maggio. I frutti sono di grosso calibro con forma sferica tendente all’ovoidale. Questa varietà si distingue inoltre per il cosiddetto collare o «muso», più o meno prominente. Il colore della buccia è giallo-arancio, arrossato su metà della superficie. La polpa, priva di semi, è giallo arancio, con pigmentazioni rossastre più o meno intense a seconda del momento di raccolta, mediamente succosa e di sapore eccellente. Sono ammessi alla coltivazione i seguenti cloni: Tarocco cumone, Tarocco Galice, Tarocco gallo, Tarocco del muso, Tarocco nucellare 57-1E-1 e 61-1E-4, Tarocco Catania e Tarocco Scirè. Poi c’è la qualità Moro. Originaria della zona di Lentini e ora diffusa nelle aree di Catania e Siracusa, questa cultivar è la prima a maturare tra le arance rosse: è possibile gustarla dai primi di dicembre a metà marzo. È di ca- libro medio con forma fra la sferica e l’ovoidale; la buccia è arancione con sfumature rosso vinose; la polpa, senza semi, è interamente di colore rosso scuro, specialmente a maturazione avanzata. Il colore del succo è sanguigno per la presenza di di antociani (pigmenti naturali) nella polpa e nella buccia. La resa in succo è elevata ed il sapore molto gradevole e leggermente acidulo. Sono ammessi alla coltivazione i seguenti cloni: Moro comune, Moro di Lentini, Moro nucellare 58-8D-1. Infine c’è il Sanguinello, che è presente da lungo tempo nelle aree arancicole delle province di Catania e Siracusa. Insieme al Sanguinello moscato, è la più importante cultivar italiana di media stagione: infatti la maturazione inizia in febbraio ma il grosso della raccolta avviene tra marzo e aprile. I frutti sono di cali- La curiosità Gli agrumi, buoni anche da indossare Avveniristico progetto di una ricercatrice catanese C ’è anche un team siciliano tra i protagonisti di Changemakers, il programma di accelerazione d’impresa promosso da Telecom Italia e Expo Milano 2015 con l’obiettivo di cambiare la vita di 10 milioni di persone. Uno dei progetti — Orange Fiber ideato da quattro giovani catanesi — fa parte infatti delle 10 migliori idee selezionate a livello nazionale per essere sviluppate e trasformate in potenziali startup sostenibili e innovative. Orange Fiber è un progetto di moda «sociale» che, attraverso l’utilizzo delle nanotecnologie, punta a trasformare gli scarti di agrumi in materie prime tessili e abiti in grado di rilasciare vitamine a contatto con la pelle, realizzati da donne in difficoltà e persone svantaggiate. Ideato da Adriana Santanocito, designer 35enne, e da Enrica Arena, 27enne professionista della comunicazione, il progetto si avvale anche delle professionalità di Stefania Cauzo, 27enne laureata in economia aziendale, e di Manfredi Grimaldi, 32 anni, esperto di economia agroalimentare. L’intuizione di un tessuto fatto con le arance che rilasci vitamine al contatto con la pelle piace. Prima un premio dalla provincia di Milano, poi l’arrivo in finale alla business plan competition Start cup Lombardia, infine l’assegnazione del premio «dall’idea all’impresa» di Assolombarda. Nel giro di un anno, Adriana Santanocito, catanese, 35 anni, ha visto Orange fiber — la sua idea professionale di moda ecosostenibile — ottenere un riconoscimento dopo l’altro. Si è trasferita da Catania a Milano poco più di quattro anni fa, per iniziare a studiare per diventare fashion designer. Al momento di pensare alla tesi finale, «avevo una gran voglia di mettere in piedi qualcosa di nuovo». E così ha fatto. «Ho sempre trovato molto interessante lo studio dei materiali e partivo dal presupposto che il mio obiettivo fosse creare un nuovo tessuto, che derivasse dalla parte biodegra- La scheda Il procedimento di realizzazione delle fibre consiste nel prendere gli scarti trasformarli in capi d’abbigliamento. Si estrae cellulosa buona per essere filata, e il processo per farlo è sostenibile. Non si abusa delle materie prime né si intaccano prodotti alimentari. Il valore aggiunto, poi, è anche un altro: le nanotecnologie hanno permesso di applicare nei vestiti delle microcapsule che, a contatto con la pelle, rilasciano vitamine A, C ed E, quindi danno un beneficio reale e visibile all’utente. dabile di sostanze biologiche vegetali: sono siciliana, la prima cosa che m’è venuta in mente è stata un’arancia». Santanocito ha progettato una collezione, in vendita a partire dal 2013, composta da 10 abiti, tutti fatti di una stoffa creata a partire dagli scarti dell’industria agrumicola siciliana. «Ho cercato un collegamento tra la mia terra e il lavoro». Con Enrica Arena, 26 anni, laureata in Cooperazione internazionale, Adriana Santanocito ha costruito una squadra legata dalla fiducia. «È un’amica di sempre e mi piaceva l’idea che potesse dare un valore aggiunto al progetto con la sua professionalità – spiega la stilista – perché non si può pensare di lavorare solo in Italia». Insieme a lei, e con l’aiuto del Politecnico di Milano, Orange fiber è diventato un progetto di ricerca prima e imprenditoriale poi, con un brevetto adesso in attesa di approvazione». «Le arance hanno perlopiù tre destinazioni: la vendita diretta, la lavorazione a scopo alimentare e quella a scopo cosmetico. Tutte queste finalità producono scarti», afferma Santanocito. A quelli, si aggiungono i frutti che non vengono usati perché non idonei per il mercato alimentare. A causa, per esempio, di bucce troppo spesse, colorito non uniforme o imperfezioni dovute agli agenti climatici. A vederlo fa impressione, ma ci sono tappeti di arance che vengono buttate perché non se ne può fare nulla». Orange fiber prende gli scarti e li trasforma in capi d'abbigliamento. «Estraiamo cellulosa buona per essere filata, e il processo per farlo è sostenibile — precisa — Non abusiamo di materie prime né intacchiamo prodotti alimentari». Il valore aggiunto, poi, è anche un altro: «Le nanotecnologie ci hanno permesso di applicare nei vestiti delle microcapsule che, a contatto con la pelle, rilasciano vitamine A, C ed E, quindi danno un beneficio reale e visibile all’utente». Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Qualità Tre le principali varietà di arance, abbiamo il Tarocco, il sanguinello e il moro bro medio con forma oblunga o sferica; la buccia è di colore arancio intenso con sfumature rosse. La polpa, senza semi o quasi, è di colore arancio con numerose screziature sanguigne, molto succosa e di sapore eccellente. Sono ammessi alla coltivazione i seguenti cloni: Sanguinello cumune, Sanguinello moscato, Sanguinello moscato nucellare 49-5-3 e 49-5-5, Sanguinello moscato Cuscanà. Come detto, per la tutela di questo tipo di frutto, nel 1994 è nato Il Consorzio di Tutela di Arancia Rossa, nella forma di associazione di produttori dell'arancia rossa, quale soggetto proponente all'Unione Europea il riconoscimento dell’Igp. L’arancia rossa rientra quindi fra le prime produzioni tipiche tutelate a livello nazionale. Sucessivamente viene avviato l'iter per la costituzione del Consorzio di Tutela vero e proprio oggi esistente, con il coinvolgimento di tutte le fasi della filiera (produzione e condizionamento). Per potersi fregiare di questo titolo un prodotto deve avere le seguenti caratteristiche: essere originario della regione o area indicata; possedere una determinata qualità, reputazione o altra caratteristica che possa essere attribuita all'origine geografica; almeno una fase del processo produttivo e/o di trasformazione deve avvenire nell'area geografica determinata. È stato rilevato che il consumatore italiano percepisce i prodotti nazionali come garanzia di bontà e gusto. Tale garanzia è particolarmente riconosciuta alle arance rosse prodotte in Sicilia. La garanzia di qualità, origine e tracciabilità offerta al consumatore per Arancia Rossa di Sicilia grazie al marchio Igp (Identificazione Geografica Protetta), rappresenta perciò un elemento molto importante di visibilità, trasparenza e ottenimento di fiducia dai consumatori. Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Palermo Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 7 PA Le eccellenze Il «continente» del vino Dalla scorsa vendemmia tutti i prodotti sono stati raggruppati nella Doc Sicilia V ini di montagna, di collina e di pianura. Vini di sole e di neve. La Sicilia è l'unica regione d’Italia ad essere così eterogenea, basti accostare terre come quella di Pantelleria e dell’entroterra palermitano. O soffermarsi sulla valle dell’Etna, un microcosmo che non ha eguali, un piccolo continente a sé, che resiste alle pendici del suo vulcano, e il cui gioco di climi e suoli è tale da creare vini con caratteristiche sempre diverse. La regione è un vero e proprio continente del vino che dalla scorsa vendemmia è stato raggruppato nella Doc Sicilia (anche se non tutti — si pensi alla Doc dell’Etna — hanno aderito). I primi prodotti sono stati presentati allo scorso Vinitaly con un buon successo. La nuova Doc è stata aiutata anche dall’incremento della produzione. Nel 2012, nonostante le condizioni climatiche non favorevoli, è cresciuta del 15,6%, tornando ai livelli del 2010 e invertendo il trend negativo che dal 2009 al 2011 aveva determinato un calo complessivo del 22%. Per la Doc Sicilia si stimano 520 mila ettolitri potenziali per circa 70 milioni di bottiglie. Se il dato fosse confermato, la Doc Sicilia sarebbe la settima nella classifica nazionale per volumi e la più estesa d'Italia (diecimila ettari). Anche se il vino siciliano è ancora prevalentemente Igt (59%). L'obiettivo della Doc è quello di imprimere una nuova spinta, dopo il successo degli scorsi anni, al vino siciliano. Se, infatti, l'obiettivo tecnico dichiarato della denominazione regionale è di garantire al consumatore un prodotto controllato, di origine certa e con standard qualitativi garantiti, questa doc possiede anche un grande valore strategico nel rafforzamento del brand Sicilia, permettendo ai vini di qualità dell'isola di essere più facilmente riconoscibili e quindi appetibili soprattutto agli occhi del consumatore straniero. Il 2013 è quindi un anno importante per la promozione della produzione regionale spinta anche dagli appuntamenti (degustazioni, convegni, serate mondane) che si susseguono a Marsala, proclamata quest'anno Città europea I numeri Nel 2012, nonostante le condizioni climatiche non favorevoli, è cresciuta del 15,6%, tornando ai livelli del 2010 e invertendo il trend negativo che dal 2009 al 2011 aveva determinato un calo complessivo del 22% del vino. A rendere il clima ancora più allegro arriveranno i campionati mondiali di kitesurf, che si svolgono questo weekend a Marsala con la possibilità di sfruttare la Laguna dello Stagnone come palcoscenico naturale per aperitivi e degustazioni, mentre si esibiscono kite e wind surfer. Una viticultura, quella siciliana, che in alcune zone — come Pantelleria, per esempio — diventa eroica a causa della continua riduzione della produzione e delle condizioni di lavoro quasi proibitive. Ma c'è ancora chi scommette sulla Le stime di produzione Per la Doc Sicilia si stimano 520 mila ettolitri potenziali per circa 70 milioni di bottiglie. L'obiettivo della Doc è quello di imprimere una nuova spinta, dopo il successo degli scorsi anni, al vino siciliano Sicilia come il manager bergamasco Massimo Lentsh che in questi giorni ha inaugurato a Lipari la più grande cantina delle Eolie, nella frazione di Quattropani. Da qualche anno Lentsh, titolare della «Tenuta di Castellaro», produce nella più grande isola dell'arcipelago e dalla prossima vendemmia potrà anche vinificare a Lipari. L’estensione dei vigneti è di venti ettari dei quali nove vitati e undici da vitare nei prossimi 5-8 anni con l'obiettivo di arrivare a una produzione annua di 120 mila bottiglie. «Tutto il processo di vinificazione — spiega Massimo Lentsch — avviene per caduta senza l'ausilio di pompe nei diversi travasi ed è previsto il solo uso di lieviti indigeni. L'orientamento è la produzione di vini naturali di eccellenza valorizzando nei blend prodotti i vitigni autoctoni delle Isole Eolie (la Malvasia delle Lipari nel Bianco Pomice e il Corinto nel Nero Ossidiana). Oltre a questi due vini, a gennaio 2014 sarà presentata la Malvasia delle Lipari Doc». Simona Licandro © RIPRODUZIONE RISERVATA 8 PA Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno Palermo Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 9 PA Il focus / 1 Nel cuore di Ragusa Incastonata nel centro storico di Ibla, da 60 anni la Locanda Don Serafino è tappa obbligata per chi arriva in città S i scrive Locanda Don Serafino, si legge eccellenza gastronomica, premiata dal 2007 con la prestigiosissima stella Michelin. Il ristorante, nato nel 2000 per volontà dei fratelli Antonio e Giuseppe La Rosa, si è rapidamente affermato come uno dei migliori in Sicilia. E pensare che tutto cominciò negli anni Cinquanta sul litorale di Marina di Ragusa, dove il papà, don Serafino, gestiva un lido che quest’anno festeggia 60 anni d’attività dove ebbe inizio la sua avventura gastronomica con una cucina semplice, basata prevalentemente su pietanze a base di pesce. «Negli anni Novanta — spiega Giuseppe La Rosa, 46 anni — io e mio fratello Antonio rivoluzionammo l’offerta dello stabilimento sia sotto il profilo gastronomico che sotto l’aspetto del relax per i clienti. Fu allora che maturammo l’idea di dare vita a un ristorante d'eccellenza che mantenesse le caratteristiche e le modalità della cucina siciliana». Oggi il Don Serafino è una tappa obbligatoria per i buongustai che visitano l’Isola, che possono anche pernottare nel vicino boutique hotel inaugurato nel 2004. «Ci sono sere in cui la sala è piena e si parla solo inglese», sottolinea Giuseppe La Rosa che proprio per questa ragione ha scelto di far frequentare ai suoi dipendenti i corsi di lingua inglese inseriti nel progetto Baroque della società catanese Civita e finanziato da Fondimpresa. Il fascino del ristorante deriva non solo dalla bellezza del locale ricavato nella suggestiva cornice offerta da una grotta adiacente alla chiesa dei Miracoli, immersa nei vicoli che caratterizzano il cuore barocco di Ragusa Ibla, la parte storica del- de maestro Giovanni Vernuccio, è approdato nello staff del Don Serafino nel 2002. Cinque anni più tardi il ristorante ha ricevuto la tanto ambita stella Michelin, da allora sempre confermata, e nel 2008 Candiano è stato premiato come migliore chef emergente del Sud Italia. E pensare che avrebbe voluto fare altro «da grande». «Sono arrivato alla cucina per caso, quasi per sbaglio — dice di sé — In estate, finita la scuola media, decisi di lavorare in un ristorante. Iniziai come cameriere e nel giro di meno di un mese mi ritrovai promosso ad aiuto in cucina. Mi piacque talmente tanto quel mondo che alla fine dell'estate tradii la scuola d'arte, mia prima passione, con l’istituto alberghiero di Modica». La sua vena artistica l’ha espressa tra i fornelli proponendo una cucina raffinata ma legata al territorio e ai prodotti di stagione born in Sicily, frutto di quella Food Valley che è il fiore all’occhiello della provincia di Ragusa. Il menu è soggetto a variazioni che rispettano la creatività dello chef e il ciclo delle stagioni, ma da sei anni un piatto che non manca mai è una vera delizia per il palato: gli spaghetti di nero in salsa di ricci a crudo e ricotta vaccina siciliana. A completare l'offerta una carta dei vini che conta ben mille etichette da tutto il mondo, una carta degli oli e una, addirittura, dei sigari. Negli anni Cinquanta sul litorale di Marina di Ragusa, don Serafino, gestiva un lido che quest’anno festeggia 60 anni d’attività dove ebbe inizio la sua avventura gastronomica la bella cittadina riconosciuta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Un ambiente che mescola con sapienza il candore della roccia naturale agli arredi di design, che ha indotto il direttore della guida Michelin a classificarlo come uno dei più bei locali d’Italia. Buona parte del suo appeal è dovuto a una questione di sostanza, perché la sua cucina creativa e raffinata non dimentica il legame con il territorio e con le materie prime, ma al contrario lo reinterpreta e lo valorizza affidandosi all’estro dello chef Vincenzo Candiano, ragusano di 34 anni, un vero e proprio artista dei fornelli. Candiano, formatosi alla scuola del gran- Clelia Coppone © RIPRODUZIONE RISERVATA Il focus / 2 L’antica pasticceria Corsino a Palazzolo Acreide Il focus / 3 Balestrate a ridosso del golfo di Castellammare Quando la decorazione dei dolci diventa una vera e propria arte Q uella del decoro è un'arte antica nella pasticceria siciliana. Lo sa bene la famiglia Corsino, che a Palazzolo Acreide, da cinque generazioni, custodisce una tradizione che nelle sue linee curve così armoniose e opulente riporta a quello stile tardo barocco diventato tratto distintivo di un intero territorio del sud est siciliano. Sono passati centoventi anni, era il 1889 quando il primo Corsino, Giuseppe, aprì bottega in piazza Pretura facendosi pagare dai clienti solo la manodopera: la gente portava nel suo laboratorio uova, farina e frutta, e lui realizzava per loro i dolci della domenica. Ancora oggi il segreto dell'antica pasticceria Corsino sta nella selezione delle materie prime, dalle mandorle di Avola al pistacchio di Bronte, dal sesamo al cioccolato di Modica. Sapori antichi, unici e inconfondibili che esprimono un territorio austero e festoso nello stesso tempo. Un'alchimia di gusti e fragranze pienamente naturali, alcuni dei quali, conosciuti sin dall'antichità e che oggi fanno il giro del mondo. "Far conoscere fuori dall'isola ed esportare i prodotti della pasticceria iblea è una scelta maturata da una precisa convinzione - spiega Marcella Monaco, la giovane imprenditrice che ha preso in mano le redini dell'azienda- di proporre un pezzo della nostra storia". Ma quando si parla di prodotti gastronomici siciliani non si può fare a meno di considerarli delle vere opere d'arte. Cosa sarebbe una cassata, la regina dei dolci siciliani, senza quelle festose decorazioni di frutta candita che riconducono alla policromia degli altrettanto celebri carretti siciliani. O quelle ricche ceste di frutta Martorana, a colori vibranti, confezionate con pasta di mandorle chiamata pasta reale, così come i pupi di zucchero o le antiche torte nuziali erette in colonne corinzie, La scheda La cassata, prodotto della pasticceria siciliana, e più specificatamente di Palermo, merita il posto d'onore tra i dolci tipici di questa regione; la cassata nata per celebrare la Pasqua dopo i sacrifici quaresimali, è divenuta di consumo comune durante tutto l'anno. I suoi decori sono barocchi, e sontuosi e la sua derivazione in realtà è di origine araba: il suo nome deriva dal vocabolo arabo "Quas'at", che significa scodella grande e tonda, e la ricchezza dei suoi ingredienti rispecchia le caratteristiche della cucina saracena. che lasciano a bocca aperta e non solo per la voglia di mangiarle. Conservare la tradizione non significa, comunque, non guardare alle nuove tendenze e a quella passione che esplode in arte creativa e che oggi assume le forme più bizzarre. E così, accanto ai dolci delle migliori ricette della nonna, come la pignoccata, 'u ciascuni, o le ossa dei motti, facendo ben attenzione a non lasciarsi corrompere da una gastronomia da non sottovalutare, nella pasticcieria Corsino si trovano anche le modernissime torte ricoperte di glasse di zucchero e decorate con petali di fiori, perle bianche e grandi fiocchi. Tutti pazzi per quello stile tutto britannico, che oggi spopola con il nome di cake design, che fece il suo battesimo ufficiale addirittura nel 1840 al matrimonio della regina Vittoria e che da allora fa il giro su migliaia di blog, siti dedicati e tra milioni di appassionate che si cimentano a inventare e colorare pupazzetti e cartoons. "Bisogna sempre guardare alle tradizioni ma è necessario anche saper proiettarsi nel futuro - suggerisce Sebastiano Monaco, responsabile della produzione della pasticceria che oltre trent'anni fa ha sposato una Corsino doc, Itria Gallitto. Con uno sguardo che trasuda ancora passione e dedizione, Sebastiano, il vero artista di casa Corsino trascorre più di dieci ore al giorno nella sua cucina. Al fianco della docente, la peruviana Karla Chumpitaz (specializzata nel modelling, della Scuola di "Silovoglio Kitchen" di Milano) durante il corso sul cake design organizzato dalla società di formazione Civita nell'ambito del progetto Baroque, è il primo ad apprendere le nuove tecniche, ma poi gira lo sguardo e assicura, sotto la glassa, c'è tutta la nostra Sicilia! Letizia Carrara © RIPRODUZIONE RISERVATA Da Clà, esperienza indimenticabile I l ristorante Da Clà, inaugurato lo scorso 14 Giugno, nasce dalla passione di Claudio Palazzolo, per la cucina di alta qualità. Il servizio attento, la cura dei dettagli e lo stile inconfondibile dell'ambiente, sono gli elementi chiave che contraddistinguono questo ristorante. La cucina si basa su un menu pensato ed elaborato per esaltare tutti i profumi tipici della tradizione culinaria siciliana. Materie prime di ottima qualità, sapientemente lavorate dallo chef Guglielmo Asta secondo le più moderne filosofie gastronomiche dell'alta cucina. I piatti reinterpretano i sapori della tradizione del territorio, accostando con cura ed originalità ingredienti volti a dare un’identità forte e decisa alla cucina del ristorante Da Clà. I fusilli lunghi di Gragnano con vongole, pesto di tenerumi, mandorle e Brunoise di pomodoro; gli spaghetti con tartara di tonno fresco, gambero marinato al lime e scaglie di bottarga; la zuppetta al gelo di anguria con frutta macerata al rosolio, gelato alla cannella e cialda al cacao, e il cannolo siciliano con riduzione di passito di Pantelleria e granulone ai fichi d'india. Questi sono solo alcuni dei piatti particolari che si possono gustare Da Clà. «Nell’ideazione del menu — afferma lo chef — non ho dimenticato la mia passione per la semplicità in cucina, per questo oltre ai piatti importanti ho voluto mantenere alcuni dei miei classici preferiti, come gli spaghetti con i ricci o i paccheri di gragnano con ciliegino e mozzarella di bufala». Claudio Palazzolo, ha voluto realizzare una location che fosse all’altezza del menu proposto. A Balestrate, in provincia di Palermo, a ridosso del golfo di Castellammare il mare fa da cornice ad una terrazza vista mozzafiato, uno spazio interamente arredato in stile shabby chic che rende emozionante e suggestiva una cena Da Clà. «Voglio che i miei clienti sentano il calore e l’ospitalità del mio ristorante, come fossero a casa mia, un luogo dove accoglierli e coccolarli per un’esperienza culinaria indimenticabile. Per questo — dice Claudio — consiglio sempre ai miei clienti di provare la cena in piena estate all’ora del tramonto, quando i piaceri del palato possono fondersi con il piacere di ammirare uno spettacolo della natura che ogni sera regala forti emozioni. A volte, nelle ore più tarde, quando soffia il vento, si rimane fino a tardi per gustare i desserts ascoltando il rumore delle onde del mare».ù Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA 10 Palermo Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno PA Il caso Contaminazioni world Nella patria dei dolci sta prendendo piede la moda di decorare con la pasta di zucchero I nfluenzati dalla cultura americana anche in Sicilia ha preso campo la moda del momento in campo dolciario, e cioè ricoprire e decorare le torte con la coloratissima pasta di zucchero. Insapore, al palato rilascia solo un gusto dolce. Sebbene sia giusto sperimentare cose nuove, e a Palermo ci sono già diversi cake designer, è oltraggioso voltare le spalle ad una cassata per strizzare l’occhio a qualche monumento di zucchero. In Sicilia la pasticceria è raffinata arte fatta di tradizione, cultura, suntuosità, ricchezza di colori e di gusti, ma a far da padrona è senza dubbio lei: la crema di ricotta. Diversi sono i laboatori di dolci che esistono a Palermo da generazioni e che hanno contribuito a scrivere la storia di questa terra. Camminando per i vicoli della città è facile essere travolti e inebriati da profumi peccaminosi che provendono da qualche piccola saracinesca alzata. Chi arriva a Palermo è preparato, sa che deve provare almeno il cannolo e la cassata, ma per chi volesse addentrarsi un po’ di più e farsi avvolgere da gusti nuovi e portare le papille gustative a fare la ola da stadio, non può esimersi dal fare un tuor più succulento. Golosi avanti tutta. Innanzitutto bisogna fare tappa alla Pasticceria Cappello, in via Colonna Rotta 68, una traversa di Corso Alberto Amedeo prima di arrivare a Piazza Indipendenza. Tra le golosità che si possono assaporare c’è la torta Kenia a base di cioccolato e caffé, la setteveli al cioccolato o al pistacchio di bronte, praline e tavolette di cioccolato di tutti i tipi ed altre infinità di prodotti. La famiglia Cappello si tramanda la passione per la pasticceria dal 1950, recentemente é stata inserita tra le pasticcerie italiane storiche pubblicate nella guida «L’Italia dei dolci» appena pubblicata dal Touring Club Italiano in collaborazione con Legambiente, Eurochocolate e la Confederazione Nazionale dell’Artigiano e, inoltre, è dal 2003 nella guida «Bar d’Italia» del Gambero Rosso. L'unica a Palermo a realizzare le «dita d’apostolo» è la Pasticceria Scimone di via Imera 8 angolo con via Miceli e anche a Mondello con un altro punto vendita in viale Regina Elena 61. Questo dolcetto consiste in una soffice pasta all’uovo ripiena di una mouss di panna e ricotta con firma alla cannella. Anche la pasticceria Scimone è storica, direi un’istituzione, aperta dal 1950 già citata nella guida Michelin. Altro pilastro della pasticceria a Palermo è sicuramente la pasticceria dei Fratelli Magrì di via Isidoro Carini 42, anche questa aperta il 1950 è capace di offrire una produzione artigianale ricca di molte prelibatezze. Famosa per la torta Castagna, La Patata (dolcetto fatto con pan di spagna farciti con crema pasticcera e ricoperti da uno strato di pasta di martorana), La Diplomatica con crema gialla, tutt’oggi viene riconosciuta e visitata per questi dolci e non solo. Infatti, negli anni i pasticceri si sono specializzati anche nella produzione di dolci con conserva, di cui un tempo la pasticceria siciliana era la principale rappresentante. Produzioni esclusive sono i dolcetti da Riposto (così chiamati perché era possibile riporli nella dispensa e conservarli), la Cubaita, La Coto. Una specialità estiva è il «gelo di mellone», una delle migliori pasticcerie a proporlo è il Bar Costa di via Vittorio Alfieri 13 (in fondo a via della Libertà). Il gelo di mellone (rigorosamente con due L) si gusta in ciotoline oppure con una base di frolla, è facile da realizzare, si ottiene un dolce dalla consistenza di un budino al succo di anguria arricchito con Insapore, al palato rilascia solo un gusto dolce. A Palermo ci sono già diversi cake designer cannella e fiori di gelsomino, ottimo per contrastare la canicola estiva. Per gli amanti del gelato e dei sorbetti non si può non far tappa alla storica gelateria Ilardo (Foro Umberto 12) che si trova al Foro Italico di fronte al mare, davanti ad un’incantevole paesaggio è possibile gustare le granite al limone o ai gelsi rossi, oppure viene servito il tipico «pezzo di gelato» prodotto con antichi metodi artigianali, particolari i gusti «scorzonera e cannella» e «cassata». Insomma golosi, date fuoco alle polveri e divertitevi ad assaporare Palermo in questo viaggio dentro il viaggio che la pasticceria siciliana offre. Alessia Rotolo © RIPRODUZIONE RISERVATA I capisaldi in pasticceria Cannoli siciliani, la tradizione che resiste ad ogni moda Il Cannolo è un dolce costituito da un involucro cilindrico di pasta fritta, farcito con un impasto di ricotta, zucchero e frutta candita. È una tipica specialità siciliana che viene esportata ormai in tutto il mondo. Sono pochi quelli che non l’hanno ancora assaggiati, e quindi non sanno cosa si sono persi. Ogni luogo ha una ricetta lievemente diversa della preparazione di questo tipico dolce, il quale comunque rimane squisito in ogni caso, quindi vediamone assieme una delle tante varianti. La storia: La leggenda narra che il cannolo prenda il suo nome dalla parola volgare «canna», ossia «rubinetto» in Siciliano. Ed è proprio così, come dimostratoci anche da vari documenti dell’epoca che attestano senza ombra di dubbio che il collegamento tra il dolce e i rubinetti, dai quali per scherzo si faceva uscire crema di ricotta invece di acqua, effettivamente esiste. E un dolce con una storia così lunga non può che entrare nella leggenda, e arrivare fino a noi così da poter provare quello che provarono i nostri antenati centinaia di anni fa, assaggiando questa prelibatezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Palermo 11 Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 PA L’evento Cous cous La festa L a pietanza forte sarà servita a settembre, ma un gustosissimo antipasto è appena andato in scena, tra mare cristallino e buon cibo. Lo scorso weekend, per tre giorni, San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani — tra le più belle mete turistiche estive dell'Isola — è stata ancora una volta la capitale del cous cous, facendo il pieno di un pubblico di appassionati e curiosi, in occasione del Cous Cous Preview, rassegna che è il degno prologo tutto italiano del Cous Cous Fest: alla fine della tre giorni, in cui si sono sfidati a suon di gustosissime ricette alcuni chef del Belpaese, è stato individuato l’italiano che parteciperà alla sfida internazionale in programma, sempre a San Vito Lo Capo, dal 24 al 29 settembre; ha vinto Emanuele Russo, che parteciperà con la delegazione italiana — capitanata dalla chef sanvitese Antonella Pace — al Cous Cous Fest. Russo, di Marsala, chef al ristorante «Le Lumie», ha vinto la concorrenza grazie a un cous cous con granchi dello Stagnone, profumato al limone con polpettine di finocchietto selvatico e vellutata di patate all’aglio rosso di Nubia; niente da fare per gli altri due finalisti, Corrado Parisi, nato a Ispica ma cresciuto in Germania, che ha presentato la ricetta «Incursio», e il tunisino Belhassen Berbat, che lavora tra Venezia e Messina, e ha presentato il piatto «Tunisi, Milano, Trapani», tris di cous cous di verdure, carne e pesce. Il Preview è stata una festa popolare con — oltre alla gara — degustazioni pubbliche, coking show, visite al mercato del pesce, aperitivi in riva al mare, lezioni di danza del ventre, corsi di cucina sulla spiaggia e concerti gratuiti sotto le stelle in piazza Santuario. A settembre andrà in scena la sedicesima edizione del Cous Cous Fest, la rassegna gastronomica più importante di Sicilia, una manifestazione capace di attrarre ogni anno migliaia di visitatori, in nome del piatto a base di semola della pace, comune a moltissime popolazioni, che è il simbolo del multiculturalismo del mar Mediterraneo e dell'integrazione tra le nazioni; in quell’occasione la delegazione italiana se la vedrà — come nella passa- Tradizionalmente il cuscus veniva preparato con semola di grano duro, Triticum durum A settembre San Vito Lo Capo ne diventa la capitale internazionale ta edizione — con ben otto squadre straniere, in rappresentanza di Costa d’Avorio, Egitto, Francia, Isreale, Marocco, Palestina, Senegal, Tunisia. L’evento, che è organizzato dall’agenzia di comunicazione palermitana Feedback, ha ormai risonanza internazionale, con una rassegna stampa dall’estero che cresce costantemente, la presenza costante di grandi nomi dell’enogastronomia, di una giuria di qualità con giornalisti gourmet italiani e stranieri, delle voci più importanti della musica leggera. La macchina organizzativa mastodontica, ormai è ben oliata e ha meccanismi perfetti. Dalla scorsa edizione e anche nella successiva, poi, il coinvolgimento del pubblico di appassionati del cous cous è totale, visto che si svolge anche una gara tra cuochi dilettanti: sono i vincitori del concorso Bia Chef Moi; per iscriversi c’è tempo fino al 15 luglio (il regolamento su biacouscous.it) ed è sufficiente inviare la propria ricetta di cous cous; gli ideatori di quelle considerate più originali e interessanti si sfideranno a San Vito Lo Capo. I giorni del Cous Cous Fest hanno il ritmo dolcemente indolente che caratterizza San Vito Lo Capo. Dopo il risveglio, vi aspetta la spiaggia sanvitese, l'abbraccio del mare e la carezza del sole. Il pranzo si avvicina, è il tempo di seguire le fasi della La gara di cous cous, un confronto colorato e goloso tra chef e ricette da tutto il mondo. Il pomeriggio è il tempo delle Villaggio Gastronomico tra le diverse case del cous cous, alla scoperta di sapori e aromi inconsueti, ma anche di una passeggiata lungo il corso, dove si sviluppa l’Expo Village, tra prodotti dell'artigianato e tante curiosità. Al tramonto del sole è il tempo del Live show: suoni e canti del mondo protagonisti nella piazza antistante il Santuario. Inizia così la lunga notte sanvitese, in attesa di un nuovo cous cous day. Salvatore Lo Iacono © RIPRODUZIONE RISERVATA Questo piatto è l’alimento tradizionale di tutto il Nordafrica, al punto che lo si potrebbe definire «piatto nazionale» dei Berberi In gran parte di Algeria, Marocco, Tunisia e Libia Immerso in un magnifico verde, sul mar Jonio, tra il vulcano Etna e la romantica città di Taormina. Deliziose camere in stile siciliano, tutte con terrazza propria ombreggiata. 12 PA Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno Palermo 13 Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 PA La curiosità Street food palermitano Dal «pani ca’ meusa» ai «cicireddu», dagli «sfinciuni» alle «arancine» Ecco quel che si mangia per la strade e proprio pasto) e assaggiare il miglior cibo di strada siculo. Distese di arancine invitanti e panelle dorate fanno capolino dai banconi dei venditori. Alla Vucciria andate dal purparo. Vende polipo fresco appena pescato. Alcuni li cuoce in una pentola con acqua salata e in pochi minuti il polpo è in bella mostra sul bancone a disposizione di chi vuole assaggiare questa prelibatezza. Da mangiare sul momento con limone e prezzemolo. Il purpo insieme ai cicireddu, pesciolini fritti serviti nelle friggitorie, è l’unico tipo di pesce che si può mangiare per strada. Di natura economica, eppure appetitosa e sostanziosa, la cucina popolare palermitana prevede molta carne, ma sempre scarti della macellazione e interiora. I meno schizzinosi potranno apprezzare una specialità che a detta di tanti è imbattibile. È il pani ca’meusa, milza, oppure polmoni o scannarozzato (trachea) di vitello, ripassati nella saimi (strutto) e mangiati nella vastedda (tipico panino tondo spolverato con semi di sesamo). Ordinatelo maritato se lo volete con l’aggiunta di ricotta e caciocavallo, schietto se lo preferite semplicemente bagnato da gocce di limone. E siamo arrivati al grande vanto della cucina palermitana, le arancine. Sempre calde e fragranti. Timballi di riso allo zafferano con piselli, carne macinata e caciocavallo. Nella versione originale le arancine sono fatte con il salame tritato piuttosto che con la carne, o con l’aggiunta di entrambe. E non si può dimenticare di citare il mitico sfinciuni, pizza alta e soffice, condita con pomodoro, cipolla, acciughe e caciocavallo, e la squisita panella forse la regina della cucina da strada palermitana. Questi deliziosi rettangoli di farina di ceci fritti a volte si accompagnano con i cazzilli, conosciuti anche come crocché, crocchette di patate. Q uante volte capita di passeggiare per strada e fermarsi a mangiare qualcosa al volo, in piedi anzi in bilico. È una delle esperienze che accomuna terre tanto lontane fra loro: è il cibo di strada, quello dei chioschi e dei mercati del cibo all'aperto. Secondo una recente classifica, redatta da VirtualTourist e pubblicata da Forbes, al vertice dello street food mondiale c’è la capitale thailandese, mentre solo una città italiana si guadagna una posizione nella top ten. Si tratta di Palermo, al quinto posto dopo Bangkok, Singapore, Menang e Marrakesh. A entusiasmare i turisti di tutto il mondo è la varietà del cibo di strada siciliano, si va da specialità che i più conoscono come le arancine di riso e i cannoli, ad altre leccornie. Ma è l’Asia che sbanca la classifica. VirtualTourist incorona Bangkok come la migliore al mondo, soprattutto per la quantità di posti in cui si possono assaggiare migliaia di varietà di piatti: insalata di papaya verde, pollo al curry, pad Thai e riso al mango. Al secondo posto c'è Singapore, famosa per i suoi mercati del cibo all'aperto e per le commistioni con la cucina cinese, malese e indiana. Al terzo posto Penang, in Malesia. Quarta posizione per la parte vecchia della città marocchina di Marrakech dove c'è un centinaio di chioschi all'aperto dove degustare agnello arrosto, cous cous e kebab. Dopo Palermo vengono menzionate Ho Chi Minh City, Istanbul, Mexico City e le ultime due posizioni sono per Bruxelles e Ambergris Caye nel Belize. Nei mercati di grascia, Ballarò, Vucciria e Borgo i buffittieri non sono scomparsi. Tra un acquisto e l’altro potrete stuzzicare (o fare un vero Nelle foto, alcune delle pietanze tipiche dello street food palermitano, «pani ca’meusa», «cicireddu», «sfinciuni» e «arancine» Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Prodotti di nicchia Birra, se fatta in «casa» è meglio Nel cuore di Palermo c’è il «brew pub» Spillo77 L a birra a Palermo non solo si beve, ma si produce. Una tendenza che sta diventando business, quindi, e che ha incoraggiato le scommesse degli imprenditori. A puntare su bionde e rosse è stato Mauro Ricci che, assieme ad alcuni soci, ha fondato «Spillo» il primo brew pub di Palermo. Un locale, cioè, che non solo vende la birra artigianale ma ne produce anche con un proprio marchio. La prima nata è «Spillo 77», una birra di media gradazione alcolica, una bionda dalla schiuma abbondante e con un buon equilibrio tra aromi e sapori vagamente fruttati, con un tono di agrumi, che nel finale lasciano emergere lievi note dolci di malto e una coda secca e asciutta che invita ancora a bere. L'idea è piaciuta e da poco tempo anche il birrificio Palenque, in via Principe di Belmonte, ha deciso di investire sull’autoproduzione artigianale. Il brew pub, gestito da Thea Balsamo e Umberto Avanzati, produce una weiss e una barleywine, entrambe birre ad alta fermentazione, dense e corpose. Il progetto è quello di farle conoscere attraverso il pub per poi iniziare la commercializzazione. Una moda che ha stimolata la nascita di eventi a tema, come l’Accademia della birra, tenutasi nei giorni scorsi nel giardino di Villa Malfitano in via Dante. Vi hanno partecipato oltre venti birrifici artigianali italiani: tra emergenti, noti e meno noti. Tra questi il giovanissimo Foglie d’erba, i siciliani Paul Bricius e Rocca dei Conti, il lombardo Extraomnes, gli abruzzesi Opperbacco e Majella, il pescarese Al- Supplemento della testata © Distribuito con il Corriere della Sera non vendibile separatamente Marco Demarco direttore responsabile Maddalena Tulanti vicedirettore Carmine Festa redattore capo centrale Il brew pub, gestito da Thea Balsamo e Umberto Avanzati, produce una weiss e una barleywine Editoriale del Mezzogiorno s.r.l Vincenzo Divella presidente Giorgio Fiore vicepresidente Domenico Errico amministratore delegato Sede legale: Vico II S.Nicola alla Dogana, 9 80133 Napoli - Tel: 081.7602001 Fax: 081.58.02.779 Reg. Trib. Napoli n. 4881 del 17/6/1997 © Copyright Editoriale del Mezzogiorno s.r.l. Tutti i diritti sono riservati. Nessu- mond, il sofisticato Birrificio del Ducato, il palermitano Spillo e poi Baladin, Maltusfaber, Birra del Borgo, Orso verde, Barley, B94, Birranova, Olmaia, Menaresta, Free Lions, Birrificio Rurale, Birra Amiata, 32 via dei birrai. Tutti con le birre più rappresentative e interessanti del panorama italiano. Obiettivi della manifestazione erano la promozione e la valorizzazione dei micro birrifici artigianali italiani e le loro produzioni di eccellenza. Ad accogliere il pubblico c’è stato lo swing dei Ballroom Kings e la bossanova di Jerusa Barros. La grande festa cominciata venerdì con il primo dei tre Beer Lab di degustazioni speciali condotti sotto l'egida di Mobi e del Kuaska Instituut da Lorenzo Dabove. Nei tre laboratori su prenotazione al costo di 15 euro, è stato possibile incontrare le speciali di Baladin, le bizzarre Del Borgo e molte altre chicche della produzione birraia italiana in abbinamento a cioccolato, salumi e formaggi siciliani. L'appuntamento di venerdì è intitolato «Dalla birra fatta in casa al successo internazionale», degustazione di cinque grandi birre create da birrai diventati famosi partendo da esperimenti fatti in casa. E ancora dibattiti sul «Made in Italy: birre a centimetro zero», con degustazione di cinque grandi birre create da birrai che utilizzano ingredienti legati al loro territorio. E infine «Progettare grandi birre», degustazione di cinque grandi birre nate da birrai con idee, filosofie e storie diverse. Simona Licandro © RIPRODUZIONE RISERVATA La scheda Ecco come si prepara La birra è la bevanda più diffusa sul nostro pianeta e pur essendo una bevanda attualissima vanta origini molto antiche. La sua storia ha oltre cinquemila anni e la sua origine va situata fra Mesopotamia e Antico Egitto. A seconda dei tempi e dei Paesi ha modificato la sua natura, senza però mai tradirla, adeguandosi ai gusti, alla cultura, alla disponibilità delle materie prime. La preparazione della birra richiede numerose fasi di lavorazione. La prima riguarda la preparazione del malto, che deve essere ricavato da orzo o altri cereali di buona qualità e perfettamente maturi. Una volta selezionato e ripulito, l’orzo viene immesso nelle vasche di macerazione, dove per circa tre o quattro giorni riceve l’acqua e l’ossigeno necessario per la na parte di questo quotidiano può essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge. Rcs Produzioni spa Via Ciamarra, 351 - 00169 - Roma Tel. 06. 68.82.8917 Sped. in A.P. - 45% - Art.2 comma 20/B Legge 662/96 - Filiale di Napoli Pubblicità: Rcs MediaGroup S.p.A. 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Fanno parte della famiglia una varietà di birre: Bitter Ale, Pale Ale, Scothc Ale, Strong Ale ecc. in funzione del metodo con cui vengono prodotte. Ricerche di personale € 100; Commerciale € 104; Occasionale € 129; Posizione prestabilita più 20%; Ultima pagina più 25% © RIPRODUZIONE RISERVATA Proprietà del Marchio: © RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani Distribuito con il Direttore responsabile: Ferruccio de Bortoli 14 Palermo Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno PA Dal latte Tutto il buono L del formaggio a Sicilia vanta un’antica tradizione casearia e dispone di varietà molto interessanti sia nella forma che nella lavorazione. A cominciare dal caciocavallo Ragusano, che è uno dei formaggi più antichi della Sicilia. Il nome Cascavaddu (Cacio a Cavalcioni) si pensa che derivi dalla tecnica di asciugatura che avviene su un asse tipico della zona. Formaggio dal sapore amabile e intenso ma delicato e particolare, è esportato fuori dai confini del Regno delle delle due Sicilie sin dal XIV secolo. Nel XVI secolo un’opera intitolata a Ferdinando il Cattolico e Carlo V faceva cenno del caciocavallo ragusano . In Sicilia esistono due varietà principali di tale prodotto il caciocavallo palermitano (o di Godrano) e il ragusano Dop. Il ragusano è un prodotto a pasta filata. Il disciplinare (che gli attribuisce la denominazione d’origine protetta con il nome di «ragusano») limita solo alla provincia di Ragusa e a tre comuni del Siracusano (Noto, Palazzolo Acreide e Rosolini) l’ambito di produzione. Il peso va dai sei ai dodici chilogrammi. Per la salatura si fa ricorso alla salamoia. Con la stagionatura il formaggio diventa piccante e la crosta più scura: è consuetudine capparla con morchia d’olio. La pasta è naturalmente più dura e consistente, a volte con leggera occhiatura. Apprezzato come antipasto o dessert, il ragusano stagionato è anche un eccellente formaggio da grattugia. La Sicilia vanta grande tradizione nella produzione lattiero-casearia continuare a essere prodotto dal latte crudo, anche se la Comunità Europea stabilisce l’obbligo del latte pastorizzato per produrre i formaggi. È esclusivamente un formaggio da tavola. Maiorchino Le modalità di produzione sono antiche di secoli (qualcuno le fa risalire al XVII). . Il latte coagula, con l’aggiunta di caglio d’agnello o capretto, a 39 gradi. Dopo la rottura la cagliata è ancora riscaldata fino a raggiungere i 60 gradi, quindi il tutto è raccolto in una sola massa sferica che si pone in una fascera, la garbua, e quindi su un piano di lavoro denominato mastrello. Del tutto particolare la consuetudine dei casari di bucherellare la pasta Caprino con una sottile asta metallica o Le origini di questo formag- Il caciocavallo di legno per favorire l’uscita del gio risalgono al XI secolo a.C. I Il nome Cascavaddu siero. L’attrezzo si chiama minaformaggi caprini siciliani, sono (Cacio a Cavalcioni) si cino. Dopo quarantotto ore, il unici nel loro genere, perché namaiorchino viene salato a secscono da un latte di grandi ca- pensa che derivi dalla co, con sale marino, per un periratteristiche organolettiche e tecnica di asciugatura odo di venti, trenta giorni. La nutrizionali, ottenuto da capre lunga stagionatura avviene in di razza Maltese e Girgentana locali di pietra interrati, a volte in grotte o cantiche si nutrono solo ed esclusivamente di essenze ne che garantiscono temperatura costante.Il saspontanee, presenti in zone impervie e dunque pore ètendente al piccante il peso varia tra i dieci difficilmente raggiungibili. Oggi però la produe i dodici chilogrammi. È adatto per cominciare zione è molto limitata per la progressiva scomo finire un pasto ed è utilizzato in cucina in molparsa degli allevamenti. te ricette come formaggio da grattugia per la pasta alla carrettiera, la pasta ncasciata, le polpette Fiore sicano di carne trita e altro. In un tipico antipasto viene Nel panorama caseario dell’isola il fiore sicano servito a scaglie insieme a rapanelli. fa storia a sé. È infatti l’unico formaggio molle a pasta cruda, fortemente caratterizzato da muffe autoctone, che non ha niente in comune con il Palermitano fiore sardo. La leggenda vuole che questo tipo di Formaggio ricordato fin dal 1412 in un voluformaggio, conosciuto dai siciliani come tumazme dedicato ad Alcuni calmieri palermitani del zu ri vacca, sia nato per caso, frutto della dimenti’400. Si fa con latte vaccino intero nella provincia canza di un produttore distratto. Un Decreto Legdi Palermo e in due comuni di quella di Trapani. ge speciale della Regione Sicilia che lo tutela e ne Il latte coagula intorno ai 35 gradi per l’aggiunta riconosce l’appartenenza ai formaggi storici sicidi caglio di agnello: il casaro fa spurgare la caglialiani. Grazie a questo decreto, il Fiore Sicano può ta servendosi di un recipiente di legno particola- Rinomato nel mondo Bronte patria del pistacchio, l’oro verde della Trinacria I l pistacchio (dal greco Pistàkion) è una pianta originaria del bacino Mediterraneo (Persia, Turchia), coltivata per i semi, utilizzati per il consumo diretto, in pasticceria e per aromatizzare gli insaccati di carne. Era noto e coltivato dagli antichi ebrei e già allora ritenuto un frutto prezioso. Per curiosità cronologica riscontriamo per la prima volta la parola «pistacchio» nell’Antico Testamento, successivamente nella Genesi (origine-nascita del mondo) capitoli 42/43 versetto 11. Ancor oggi, nella parlata dialettale conserviamo i termini «frastuca e frastucara» che stanno ad indicare rispettivamente il frutto e la pianta. Nel dialetto brontese dei nostri nonni il termine «frastucata» indicava un dolce a base di pistacchio e «frastuchino» il colore verde pistacchio. Furono gli Arabi, dunque, strappando la Sicilia ai Bizantini, ad incrementare ed a attrezzarsi nella coltivazione del pistacchio che nell’Isola, particolarmente alle pendici dell’Etna, trovò l’habitat naturale per uno sviluppo rigoglioso e peculiare. Il pistacchio verde di Bronte potrebbe a buon titolo ricoprire la carica di emblema della città: la sua longevità e resistenza, la sua forza di voler sopravvivere a tutte le avversità, addirittura a fruttificare malgrado sia abbarbicato su aride rocce laviche, rispecchiano alla lunga molte caratteristiche del popolo brontese. Un popolo che non teme il lavoro e la fatica, che ha sempre lottato per portare a casa il necessario. Dominato e sottomesso per secoli da vassallaggi fuori tempo ed avversità storiche incredibili contro i quali ha sempre lottato tenacemente. Un popolo che sul pistacchio ha costruito ricchezza, cultura e le proprie tradizioni ma anche l’abitudine del rispetto e della salvaguardia per il territorio nel quale vive. Il pistacchio di Bronte presenta caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono rispetto al pistacchio coltivato in altre aree siciliane (Caltanissetta o Agrigento) o estere (Medio Oriente, Grecia o California e Argentina). Frutto di alto pregio, è molto apprezzato e richiesto nei mercati europei e giapponesi per le dimensioni e l’intensa colorazione verde. Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA re, conosciuto dai siciliani come ciscia. Dopo una cottura di quattro ore la pasta viene deposta sulla cannara, un graticcio che ne consente la pressatura, quindi sospesa a un bastone di legno detto appizzatuma perché perda quanto rimane del siero. All’indomani la massa così lavorata viene tagliata e messa nel piddiaturi, un contenitore in cui è filata con l’aiuto di un bastone di legno che si chiama vaciliatuma. L’ultima destinazione è il tavoliere, dove il formaggio assume la caratteristica forma a parallelepipedo. Segue, il giorno dopo, l’immersione nella salamoia: dura dai dieci ai dodici giorni, mentre la successiva stagionatura si protrae da un mese a quattro quando si vuole un prodotto semi-stagionato, ancora di più se si preferisce un sapore più piccante. Il palermitano ha crosta sottile, liscia e di colore ambrato, pasta giallo paglierino compatta con sfogliature più evidenti con l’avanzare del tempo. L’odore è fragrante, il sapore piccante. Le forme pesano tra gli otto e i dodici chilogrammi. Da consumare a tavola soprattutto quando è fresco, il palermitano diventa, stagionato, un ottimo formaggio da grattugia. La forma quadrata Nella foto in alto, la particolare forma del caciocavallo ragusano Dop. Sotto, un pezzo di formaggio siciliano abbinato con olive bianche e un cocktail Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA Palermo 15 Corriere del Mezzogiorno Domenica 30 Giugno 2013 PA Eccellenza L’oro rosso ereditato dagli Aztechi Il pomodoro di Pachino è il più ricercato in tutta Europa È strano pensare come due delle più grandi eredità i siciliani le debbano agli Aztechi. Infatti oltre al cioccolato di Modica a loro si deve il successo del Pachino, ricercato in tutta Europa. La domesticazione del pomodoro, secondo le ipotesi più accreditate, fu opera degli Aztechi i quali, sfruttando l’enorme variabilità genetica della specie presente nell’area messicana, selezionarono i genotipi più idonei al loro uso alimentare. A seguito della sua introduzione in Europa, avvenuta con i conquistadores, si è diffuso prima in Spagna e poi nel resto del Mediterraneo divenendo un alimento abituale sia cotto sia crudo. In Italia, il pomodoro fu introdotto prima negli orti botanici e poi, grazie a condizioni pedoclimatiche favorevoli, la sua coltivazione si diffuse in tutto il Paese. Inizialmente, la pianta di pomodoro era ritenuta pericolosa per la salute sia a causa delle sue affinità con altre piante contenenti alcaloidi (mandragora, melanzana) sia a causa del naturale rifiuto del nuovo. La difficoltà degli europei a riconoscerne immediatamente l’utilità fu dovuta all’incapacità del pomodoro, a differenza di patata, fagiolo e mais, di saziare la fame delle popolazioni continuamente in guerra o colpite da carestie. Soltanto iniziando a utilizzarlo cotto, eliminando le temute sostanze sospette, si scoprirono le sue caratteristiche intrinseche apprezzandone i vari usi. Il pomodoro è una delle specie orticole più diffuse al mondo, molto importante per l’alimentazione umana. La sua produzione si attesta intorno ai 126 milioni di tonnellate, quantitativo cresciuto nell’ultimo decennio grazie non solo all’aumento della superficie investita ma soprattutto al miglioramento Sopra, un campo dove si coltivano i pomodorini di Pachino Una produzione che sfrutta appieno le qualità del terreno delle rese produttive. È l’emblema di piatti tipici e caratteristici contribuendo notevolmente alla diffusione della cucina italiana nel mondo. Due sono le produzioni italiane di qualità tutelate a livello europeo: il San Marzano dell’agro-Sarnese-Nocerino (Campania) e il Pachino dell’area di Vittoria (Sicilia). Grazie al made in Italy il nostro Paese ha riguadagnato le posizioni perse nei confronti dei grossi competitor del Mediterraneo, Turchia ed Egitto. L’introduzione della coltivazione del pomodoro ha favorito lo sviluppo del settore agroalimentare italiano il quale, soprattutto al Sud, ha consentito lo sviluppo industriale del territorio (industria meccanica, conserviera, logistica, imballaggi e così via). Il pomodoro potrebbe definirsi un alimento dei ricorsi storici e culturali: da pianta selvatica poliennale diventa fondamentale per l’apporto vitaminico; da coltivazione silente e diffusa, soprattutto tra i poveri, diventa nel XX secolo sempre più sofisticata (colture in serra, idroponiche e aeroponiche); da pianta considerata nociva e pericolosa diventa oggetto di studi e speranze nel campo medico grazie all’alto contenuto di sostanze antiossidanti, alla protezione cardiovascolare e antitumorale. Il pomodoro è oggi una delle specie vegetali più studiate a livello gene- tico e genomico, non solo a causa della sua importanza economica, ma anche perché possiede un genoma piuttosto piccolo. Ciò ha contribuito a farne un sistema modello per tutta la famiglia delle Solanacee e per le altre specie in generale. Il sequenziamento del suo genoma pubblicato sulla rivista Nature del 31 maggio 2012 ha consentito di stabilire il numero dei geni (35 mila) e le tappe della sua evoluzione iniziata circa 60 milioni di anni fa. Uno dei luoghi comuni più diffusi identifica il vero pomodoro di Pachino con la varietà detta comunemente ciliegino. Niente di più sbagliato. Il disciplinare del Pomodoro di Pachino Igp classifica e tutela ben quattro tipologie diverse di pomodoro, tutte con peculiarità diverse, e destinate a diversi segmenti di mercato. Sono tutte tipologie accomunate da un elevato grado brix, da una straordinaria resistenza post raccolta e da un colore brillante e attraente. Impariamo a conoscerli meglio, per sfruttarne le molteplici potenzialità d’impiego nella gastronomia di alta qualità. Pomodoro di Pachino «tondo liscio»: piccolo e rotondo, di colore verde scuro, inconfondibile per il gusto molto marcato. È molto apprezzato dai consumatori d’oltralpe. I suoi frutti sono di consistenza ineguagliabile. Pomodoro di Pachino «a grappolo»: a grappolo o snocciolato, può essere verde o rosso. Tondo, liscio, dal colore brillante e attraente, con il colletto verde molto scuro. Il suo peso varia in base alla salinità del terreno di coltivazione. Pomodoro di Pachino «costoluto»: frutto di grandi dimensioni, esteticamente molto attraente, dalle coste marcate, di colore verde molto scuro e brillante. Questa tipologia ha conquistato il favore del consumo nazionale sostituendo nel periodo invernale (periodo ottimale per la produzione di questa tipologia) il tondo insalataro. Il pomodoro costoluto evidenzia le migliori caratteristiche se coltivato in terreni la cui salinità è molto alta. Pomodoro di Pachino «ciliegino»: caratteristico per l’aspetto a ciliegia, su un grappolo a spina di pesce con frutti tondi, piccoli, dal colore eccellente e il grado brix elevato. Nelle immagini, due delle preparazioni tipiche che si possono effettuare con i pomodori Pachino. In alto, un sughetto che condisce la pasta. Sotto, la preparazione Red. Spe. © RIPRODUZIONE RISERVATA I prodotti / 1 I prodotti / 2 Capperi e olio d’oliva, tesoro che arricchisce i piatti della tradizione Vastedda o pucciddatu: croccanti e dorati, sono i pani della Sicilia T ane, anche quando parlia- la pasta fino al XVIII secolo vemo di questo alimento ba- niva fatta con la tumminia, grase, in Sicilia ne troviamo no duro di primavera. Si suppodi tante varietà e con materie ne che il nome «pane forte» deprime differenti, ma tutti sem- rivi dall’uso del grano duro già pre di altissima qualità. Sull’Et- adottato nel ’500. Ieri fatto solo na il pane tradizionale è fatto con grano duro perché ritenucon semola di grano duro, ac- to di meno valore, oggi il pane qua, sale e lievito madre (cri- duro si avvale invece della fariscenti). I formati tipici sono na di grano tenero considerata due (entrambi da 1 o 1,5 chili). sul piano nutrizionale meno La vastedda è una pagnotta lar- pregiata della prima. Coi grani ga, bassa e tonda, con la crosta teneri nell'hinterland catanese spessa, croccante e color noc- veniva fatto un pane detto ciola. Il pucciddatu (in dialetto «cucchia» a forma ovoidale significa «forato») è una ciam- con spacco centrale, quasi a simboleggiare la bella dallo stesfertilità femmmiso impasto, con nile. Nel giarrese un foro al centro si dice ancora dal diametro di «nasciu na cuc10, 15 centimechia» per annuntri. Oltre alla lieciare la nascita di vitazione naturauna bambina. le, si è conservaE ancora abbiata la tradizione mo la papalina. Il della cottura a lenome ha precisi gna e sopravviriferimenti eccleve ancora qual- Un cesto di pane siali per la ricche raro forno di pietra in cui si alimenta il chezza degli ingredienti. Nella fuoco con rami di olivo e gusci Valle del Belice un pane simile, di mandorle. In quest’ultimo ma senza uova, prende il nome caso il pane è particolarmente di «vastedda» o «cucciddatu di aromatico, con un buon profu- S. Giuseppe». Pupi cu l’ova: è mo di olivo, che si sente anche tradizione vivissima quella di in bocca. Altra tipologia è il pa- confezionare pani speciali conne forte. L’uso di grano tenero tenenti delle uova intere per le per la produzione del pane, de- festività pasquali: dai popoli stinato alle città ed alle classi primitivi ai giorni nostri l’uovo meno abbienti, ebbe inizio in ha sempre avuto una valenza Sicilia intorno al ’500. La varie- trascendentale. Queste forme tà utilizzata era il Maiorca, per- incorporano al loro interno ché si coltivava un po’ dapper- una o due uova e vengono finetutto, ma era di difficile espor- mente intagliate, decorate e intazione perché soggetto al ri- cise fino a diventare dei veri cascaldamento. Per la panificazio- polavori. Red. Spe. ne popolare si usava invece il «forte» o grano duro, mentre © RIPRODUZIONE RISERVATA utti certamente cono- dotate di proprietà toniche e scono l’Arancia rossa digestive. Gli olii che si ricava(Igp), famosa per il suo no dai capperi sono invece idesapore intenso e per le sue ali per massaggi e come disinproprietà benefiche. Certa- fettanti. Contengono anche mente un primato del Sud Ita- un principio amaro stimolanlia nel Mondo, ma la Sicilia è te della funzione gastrica. In una terra ricca di prelibatezze cucina, si sposa alla perfezioe, anche al di là delle sue aran- ne con olive nere, pomodori, ce, i prodotti che può offrire acciughe e origano nel rinosono veramente molti. Vale al- mato Pesto pantesco. Camlora la pena cercare di cono- biando genere, c’è poi da sotscerli, almeno alcuni, com- tolineare il gusto e il profumo prenderne l’unicità per scopri- dell’olio d’oliva dell’Etna re un vero e proprio mondo di (Dop). In questo caso la coltisapori e profumi. Qualche vazione risale a tepi antichissimi ad opera dei esempio? Si parFenici e in seguite da uno di to dei Greci. La quei prodotti presenza del vulche sulle tavole cano ha alimentadel Sud non to il mito di quepuò proprio sta coltura. Nei mancare: i capPoemi Omerici il peri. Famosi ciclope Polifemo quelli di Pantelfu infatti accecaleria. Ed è proto del suo unico prio sulla splendida isola di ori- Capperi appena raccolti occhio da Ulisse e i suoi compagine vulcanica che crescono queste preliba- gni, proprio con un ramo d’ulitezze, favorite dalla composi- vo. Nel corso dei secoli la prozione estremamente acida del duzione oleicola in questa zoterreno. La raccolta dei fiori e na ha subito un notevole svidelle radici avviene nei primi luppo fino a diventare una colperiodi primaverili, poco più tura di rilevante importanza tardi quella dei frutti. La rac- per l’economia della zona. Gracolta, viene effettuata ancora zie al sapore fruttato, l’olio a mano, e deve essere ripetuta Monte Etna rappresenta il conad intervalli 5 giorni, per co- dimento ideale sia a crudo, gliere i nuovi boccioli che via per verdure fresche, insalativia si formano. Oltre alla loro ne selvatiche e bruschette, sia capacità di insaporire i piatti, in cottura su verdure bollite, i capperi di Pantelleria hanno minestre di legumi e arrosti di poi diverse proprietà interes- pesce. Insomma, l’ingrediente santi. Pare infatti che la cortec- perfetto per rendere veramencia delle radici abbia impor- te unico ogni piatto. Red. Spe. tanti proprietà diuretiche, i boccioli contengono sostanze © RIPRODUZIONE RISERVATA P 16 Domenica 30 Giugno 2013 Corriere del Mezzogiorno PA da Sabato 06 Luglio a Domenica 08 Settembre 2013 Saldi