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Lunedì
9 luglio 2007
32
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LA FINESTRA Negramaro
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ADRENALINA Finley
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VICKY LOVE Biagio antonacci
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Morgan nel passato
per uscire dal gregge
«Da A ad A» raccoglie suggestioni di quando Beatles in testa - nello studio di registrazione
si cercava di sperimentare: non è un disco
perfetto ma certamente ha il merito
di sfuggire al conformistico grigiore imperante
Da A ad A. Dada, per dirla come gli inquilini del Cabaret Voltaire. Ma si tratta anche
degli estremi enunciati da dal matematico
francese René Thom nella cosiddetta “teoria
delle catastrofi”. Oppure, mescolando, dalle aspera fino agli astra anche se il gioco si
completa passando da Asia a Anna Lou e
qui chi si interessa più di gossip che di musica (ovvero tutti, ahimè) potrebbero già aver
riconosciuto Morgan che, dopo l’omaggio a
De André, è tornato a pubblicare con questo
disco, dalla genesi complessa quasi come il
titolo. Al punto che l’autore è arrivato a definirlo «disco incompiuto».
Alle spalle c’era un’idea innovativa, in quest’era di vendite ridicole: un doppio pubblicato in due tranche. Prima un cd con l’alloggiamento anche per un secondo supporto.
Qualche tempo dopo la pubblicazione della
seconda parte: sarebbe bastato presentarsi al
negozio, vecchia custodia alla mano, per ottenere l’altro dischetto gratuitamente. Tutti
d’accordo tranne gli altri, si potrebbe dire.
Quindi rescissione di contratto, pausa di riflessione, e, ora, Da A ad A, influenzato dalla lettura del Mito di Sisif” di Camus, da Battiato, come sempre, ma anche dai grandi
sperimentatori del passato. In effetti, nell’anno del quarantesimo anniversario di Sgt.
Pepper, questo sembra, indirettamente, il
miglior tributo possibile. Perché di
Lennon
e
McCartney (e
Harrison), (e
George Martin), Morgan
non riprende
troppo né lo
stile né gli
stilemi. In
compenso è
tornato a giocare in sala
d’incisione,
ricordandosi
che un tempo anche lo
studio era
considerato
uno
strumento
da
manipolare
per creare
suoni e alchimie. Nastri al contrario,
apporti sonori
arrivati da
chissà dove,
voci e suoni
filtrati, distorti, quasi
violentati in
nome di una sperimentazione pura, non sapendo bene cosa si sarebbe potuto ottenere
ma, quasi misteriosamente, ottenendolo. La
tecnica che ha portato alla nascita
di“Revolver, “gt. Pepper’s lonely hearts club
band stesso e pure tutto quello che ruota attorno a Magical mystery tour. Tutti presero
nota, dai Pink Floyd della stanza a fianco all’amato (da Morgan) David Bowie, all’epoca
ancora giovanetto che si affrancava dalla
moda mod. I suoi lavori implumi, molto prima di conoscere il vero successo, traboccano di stranezze, riuscite o meno (andrebbe
riascoltata oggi The laughing gnome, con un
effetto paperinesco sulla voce che spiega,
abbastanza bene, perché Waters e soci non
vogliono che venga pubblicata ufficialmente Scream thy last scream, prodotta con lo
stesso giochetto). Erano altri tempi ma per il
musicista monzese quei tempi non sono
passati oppure, semplicemente, non dovevano passare. Non è un disco perfetto, forse
non è un capolavoro (lo speriamo perché il
buon Castoldi, è un augurio, farà ancora di
più in futuro) ma è un caleidoscopio come
da tempo non se ne ascoltavano al punto
che, proprio come accadeva con i Fab 4, si
perdonano anche brani meno felici in sede
compositiva per la grande estrosità degli arrangiamenti. In fondo era quello il trucco, in
quel periodo, non tanto la canzone in sé,
bella o brutta, originale o meno, ma la tela
da riempire di colori, come se la partitura
non fosse un punto d’arrivo, come è per
troppi, ma solo di partenza, quasi un pro forma anche se in questo caso la forma non è
quasi mai rispettata. Ben vengano, quindi, le
aperture di Amore assurdo ma anche filastrocche come Animali familiari, pezzi da
chansonnier, tanghi, il singolone rock fuori
contesto (Tra
cinque minuti),
il dittico familiare U-blue (la
sua When I’m
sixty four con
uno spruzzo di
Honey pie e la
presenza della
figlia) / Liebestod (il suo sogno numero nove con la partecipazione
di
Asia). Non c’è A
day in the life
ma Da A ad A si
chiude con un
brano
lungo,
epico, ironicamente masochista, Contro me
stesso. Questo è
un disco che
meriterebbe il
successo, per la
volontà di fuga
da temi banali,
sia testuali che
musicali, davvero
egregio
mentre tutto,
intorno, è gregge, è mandria.
Alessio
Brunialti
Salvate il soldato Ryan (Adams)
Dopo l’esordio solistico con «Heartbreaker» arrivò
una valanga di dischi - addirittura tre in dodici mesi -,
poi nel 2006 la pausa di riflessione e finalmente
un lavoro rilassato e molto più a fuoco: «Easy tiger»
Deve esserci qualcosa di perverso nel volersi chiamare
Ryan Adams. Il soggetto in questione, all’anagrafe, come
primo nome ha David. Certo, magari mamma lo invitava a tavola usando il “middle name”, magari per gli amici era “Ry” ma quando ti butti nel business dello spettacolo, e fai rock, perché costringere tutti, i discografici, i
promoter, i critici, perfino i fan, a presentarti con la frase
«Hai sentito l’ultimo di Ryan Adams, No, non Bryan
Adams... Ryan Adams, quello...» e così via.
Complicarsi la vita? Forse. Ma c’è il serio dubbio che costui l’abbia fatto apposta, per un sottile, perverso piacere. Stiamo poi parlando di uno che non aspettava altro se
non ottenere un minimo di successo, arrivato, dopo l’esordio solistico Heartbreaker, con l’acclamato Gold. Non
vedeva l’ora: in seguito ha pubblicato una raccolta di demo (Demolition), un disco registrato in quattro e quattr’otto per ripicca contro la casa discografica che non ne
voleva uno troppo deprimente e, quindi, Rock’n’roll, dopo, ancora, la succitata opera triste, però spezzata in due
mini, Love is hell. Infine, due anni fa, tre titoli nell’arco
di dodici mesi: Cold roses (pure doppio), Jacksonville
city night e 29. Nel 2006 i ripensamenti, fortunatamente,
e il lavoro in compagnia del vecchio Willie Nelson. Forse è stato proprio lui a dire a Ryan, come Mary Jane disse
a Peter Parker, Easy tiger, «piano tigrotto».
Insomma, rallenta un po’. E questo nuovo disco, se non è
un capolavoro, è quello che focalizza meglio influenze
come Gram Parsons e, soprattutto, Neil Young che aleggiano un po’ ovunque. Tra i migliori Oh my God, whatever, etc., Off Broadway e These girls, ballate acustiche
che sarebbe bello scaturissero ancora dalla penna del re
dell’Ontario, per non parlare di Pearls on a string che potrebbe tranquillamente stare su un vecchio vinile di
Stephen Stills.
Al. Br.
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CALL ME IRRESPONSIBLE Michael Bublè
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TIME OUT Max Pezzali
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SOUNDTRACK ‘96-’06 Elisa
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HANDFUL OF SOUL Mario Biondi
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FLY Zucchero
Nick Drake, una vita
in alta definizione
Scrivere di Nick Drake è stato per molti esercizio di docu-fiction. Il personaggio si prestava bene, la sua storia è sempre apparsa a tutti tragica al limite del romanticismo. Il periodo, abbastanza lontano da meritare la connotazione storica, e per molti aspetti pionieristica. Almeno se si inquadra il contesto nell’Inghilterra della seconda metà degli anni
sessanta; con il mondo musicale ancora ignaro di Woodstock, ma nel pieno dei fermenti
che a quell’evento avrebbero condotto; la
union-jack alta sulle classifiche discografiche di tutto il mondo; i vapori della swingin’
London ancora percettibili, la cinematografia di Peter Sellers e i prati verdi di sua maestà. Più i Beatles.
In realtà nella storia di Nick Drake (solo in
parte nella sua discografia) di favoloso c’è
poco. E chissà, forse proprio per questo l’esercizio letterario sulla sua figura è sempre
stato prodigo di spirito romantico. In Italia a
dire il vero, l’unico tentativo editoriale significativo è stato quello di Stefano Pistolini che
Fazi decise di titolare (romanticamente?) Le
provenienze dell’amore - vita, morte e postmortem di Nick Drake. Misconosciuto cantautore inglese, molto sexy. Titolo degno di
un personaggio degl’elfi, non di un cantautore che all’epoca della pubblicazione, il ’98,
non era più misconosciuto, poteva forse essere sexy ma prima di ciò era una sorta di
Jacques Brel inglese. E poi, chi userebbe mai
una definizione del genere per un musicista
morto (probabilmente) suicida a ventisei anni, già devastato da gravi forme nervose sfociate in evidenti patologie, capace di lasciarci tre album e una manciata d’inediti di rara
bellezza? Vabbé, il testo di Pistolini è fresco,
originale, divertente e del titolo chisseneimporta. Rimane il fatto che tanto le chiacchiere degli appassionati quanto i tentativi di riflessione a stampa su Drake siano sempre
stati pervasi di un mistero letto attraverso la
focale di un romanticismo stucchevole. Le
pagina a cura di Mario Schiani - email: [email protected]
MUSICA
GLI ALBUM più venduti in Italia
pagine di Patrick Humphries nel suo Nick
Drake - La biografia cercano di uscire da questo alone, non sono il saggio di un accademico ma provano a restituire un ritratto ampio,
multicolore, sfaccettato e a volte anche contraddittorio del musicista. Understatement
(britannico) grazie al quale il libro scorre veloce, fornisce informazioni a chi non è digiuno dell’argomento e sa incuriosire chi invece
conosce solo i tanti stralci agiografici. E pensare che Humphries non ha potuto contare
sulla testimonianza di Joe Boyd: storico produttore di Nick Drake, anima della Island di
quei tempi e primo sostenitore del cantautore di Tanword-in-Arden tanto da produrre i
suoi tre dischi con un’attenzione alla musica
e al suo autore per nulla giustificata dalle
vendite che questa sapeva restituire alla casa
discografica. Pallini e buone idee dei produttori (di una volta, ahinoi). Nick Drake - La
biografia è perdipiù costruito sulle testimonianze. Spesso sui ricordi dei presenti: ci sono la famiglia, i compagni di Cambridge con
le loro ingenue invidie per le amicizie importanti che Drake iniziava a collezionare nel giro della Londra musicale; qualcuno che con
lui aveva spartito un palco e persino qualche
"redivivo" spettatore dei pochissimi concerti tenuti da Drake. Questione delicata quella
che si archivia alla voce Nick Drake dal vivo.
È nota la ritrosia di Drake per l’esibizione in
pubblico e il libro ne evidenzia le possibili
cause cercando di trovarne l’origine; fa un
elenco di quelli che invece furono (qualche
dozzina, molti in piccoli club o alle feste universitarie) i suoi concerti, mostrandone alcuni dettagli. E poi offre una curiosità: alla Bbc
non si trovano più (ormai da anni) i nastri di
due registrazioni che Nick Drake effettuò per
lo storico programma radiofonico di John
Peel. Pare che per poco onorevoli ragioni di
spazio i manager di allora imponessero di riutilizzare le bobine. Peccato, zia Beeb.
Andrea Di Gennaro
Jim Morrison? «Morì
di droga nel mio night»
Macché morte per cause naturali nel bagno di casa: il leggendario Jim Morrison sarebbe stato stroncato da un’overdose di
eroina in un night-club del Quartiere Latino di Parigi e portato poi in fretta a casa nel suo appartamento parigino da due
trafficanti di droga.
Sam Barrett, uno stretto amico del solista dei Doors, scomparso ad appena 27 anni nel luglio del 1971, ha raccontato il clamoroso retroscena nel corso di un’intervista esclusiva al «Mail
on Sunday» di Londra. All’epoca Barrett - adesso sessantaduenne - era il manager del night-club Rock’n’Roll Circus. Barrett racconta che quella tragica notte del 3 luglio 1971 Morrison arrivò al Rock’n’Roll Circus verso l’una di notte assieme alla girlfriend Pamela Courson: «Era venuto per prendere dell’eroina per Pam. Verso le due Jim scomparve in una toilette. Una
mezz’ora più tardi un addetto al guardaroba venne da me per
segnalarmi di uno che si era chiuso al gabinetto e non usciva
più. Allora chiesi ad un buttafuori di gettar giù la porta».
Fu a quel punto che il manager del night vide il musicista dei
Doors ormai senza vita: «Fummo certi - ricorda - che si trattasse di droga perché c’era schiuma sulle labbra e sangue».
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