Repetita iuvant: due contributi di Anna Zambon Hobart in
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Repetita iuvant: due contributi di Anna Zambon Hobart in
CARLA FERMARIELLO Repetita iuvant: due contributi di Anna Zambon Hobart in tema di fratelli Assistiamo con preoccupazione negli ultimi anni in Italia al proliferare di una cultura sui fratelli e sorelle di persone con sindrome Down o con altre disabilità, che attribuisce loro ogni sorta di caratteristiche patologiche, differenziandoli come conseguenza dalle sorelle e dai fratelli in genere. Questo atteggiamento culturale, che pretende di essere scientifico, è in assoluta contraddizione con la letteratura degli ultimi 40 anni. La credenza, tanto diffusa in Italia quanto sbagliata, che la parola siblings in inglese significhi sorelle e fratelli di persone con disabilità, invece che semplicemente fratelli e sorelle di chiunque, contribuisce a differenziare anche a livello linguistico il nostro destino da quello di qualsiasi sorella o fratello. Riproponiamo allora un articolo di Anna Zambon Hobart pubblicato nel 1992 sulla rivista Sindrome Down Notizie. Si tratta della sua risposta a due madri che, dopo aver letto una ricerca sui fratelli e sorelle di un bambino\a con SD, si erano molto preoccupate per il benessere dei loro figli. Le problematiche ci sembrano tristemente attuali ed è per questo che intendiamo riproporre il contributo della Hobart. Anna Zambon Hobart, a cui abbiamo chiesto un commento, è gentilmente tornata sul tema: il suo nuovo intervento segue l’articolo del 1992. 1 Da Sindrome Down Notizie n. 3/1992: ANCORA A PROPOSITO DEI FRATELLI L’articolo “Vivere con un fratello down” pubblicato su Sindrome Down Notizie 2/92 ha suscitato ampio dibattito. Pubblichiamo di seguito una lettera arrivata in redazione ed un contributo della Dott.ssa A.Z. Hobart psicologa del Servizio informazione e Consulenza dell’Associazione Bambini Down. “Siamo le mamme di due bambini con Sindrome di Down e vorremmo esprimere il nostro malessere che abbiamo entrambe provato nel leggere il vostro articolo “Vivere con un fratello Down” pubblicato sul periodico Sindrome Down n°2 1992. Pur non volendo esprimerci sulla validità scientifica di tale ricerca sentiamo di non poter ignorare l’esperienza di “dolore” che alcune frasi o affermazioni dell’articolo ci fanno vivere o rivivere. Nell’articolo si parla di persone Down che vivono e fanno vivere ai loro famigliari una situazione senza speranza e priva di alternative all’ idea preconcetta che tutti abbiamo delle persone Down. Alcuni esempi riportati nell’articolo potrebbero indurre le giovani madri ad assumere un atteggiamento passivo e senza aspettative nei confronti dei loro figli mentre noi sappiamo che tutti gli esseri umani, in parte, sono frutto delle attese che gli altri ripongono su di essi. Ci sembra che l’ articolo in alcuni punti contraddica lo spirito di fiducia che l’ Associazione Bambini Down ha sempre avuto nelle possibilità reali che i nostri figli possono sviluppare pur nei limiti imposti dal loro handicap. Poiché le situazioni che vivono i fratelli intervistati sono tutte negative e l’ articolo nel complesso non presenta spiragli d’ intervento, noi pensiamo che sia estremamente scoraggiante per le giovani madri leggerlo; madri desiderose di provarsi in questa avventura educativa del crescere un bambino Down nel rispetto della sua individualità. Non ci facciamo false illusioni sulla vita dei nostri figli, sappiamo che a trenta anni probabilmente inizieranno ad invecchiare, tuttavia vorremmo che la loro problematica fosse da voi affrontata in modo da lasciare nel lettore, talvolta anche poco informato, una visione con delle possibilità operative. Le potenzialità delle persone Down, come voi ben sapete, non hanno dei limiti così precisi, mentre l’ articolo accentua tutti gli aspetti negativi del vivere con loro. Potrebbe, in un momento di progresso teorico, di utilizzazione di nuove strategie di insegnamento e di apprendimento, sortire un effetto dannoso e far rivivere l’ antico e noto 2 pregiudizio sulla persona Down. Noi vogliamo una buona qualità di vita per i nostri bambini e ci sembra che questo articolo induca una rassegnazione e una disperazione assolutamente dannose e contrarie agli sforzi che, insieme ad alcuni operatori, noi genitori stiamo facendo per cambiare la figura dell’ idea dell’ handicap.” Queste madri esprimono molto bene lo stesso di senso di disagio avvertito da numerosissimi genitori e fratelli di persone Down nel leggere l’ articolo. Espressioni come “inevitabili sofferenze” o interpretazioni come “bisogni di fughe” o “desiderio dei genitori di allontanarli da una difficile quotidianità”, creano l’immagine di una situazione davvero “senza speranza” come dicono le madri della lettera. Gli autori dichiarano di non avere la pretesa di are delle statistiche, né di voler creare una tipologia dei fratelli, tuttavia nel descrivere le varie problematiche, parlano di atteggiamenti o fanno interpretazioni analitiche su “tutti” o “quasi tutti” con vari “quasi sempre” suggerendo una tipologia ben precisa anche nei genitori. Quattro colloqui non sono sufficienti, io credo, a capire così a fondo l’inconscio di dieci fratelli, tanto meno l’inconscio dei loro genitori. Dalla fine degli anni 50 ad oggi sono state fatte numerose ricerche soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sulla famiglia di una persona con handicap. Finché non ci sarà in Italia una ricerca seria dal punto di vista metodologico, ritengo che sia necessario rivolgersi ad un attento studio delle ricerche altrove, come ripeto da più di trenta anni ad oggi. Altrimenti continueremo come negli anni sessanta a fare supposizioni aprioristiche nostre personali e ad utilizzare modelli applicati sulla psicologia. “Tali modelli spiegano il comportamento in termini di fattori non trattabili ( vedi l’ inevitabilità della sofferenza n.d.a. ) che ostacolano qualsiasi ricerca per spiegazioni alternative e per un intervento e quindi a mantenere lo status quo” . ( Byrne, Cunningham, Sloper 1985) non è questo il contesto per fare un esame della letteratura che è tutta in Inglese. Riporterò comunque dei ldati emersi da alcune ricerche tra le principali. Intanto consiglio il libro, già citato di Byrne, Cunningham e Sloper, recentemente tradotto in Italiano col titolo “ Le famiglie dei bambini Down” (edizioni Centro Erickson 92) e che ritengo sarebbe utile leggere attentamente non solo per i suoi contenuti, ma come esempio di come vada fatta una ricerca metodologicamente corretta. Nell’affrontare lo studio dei fratelli e dunque delle loro famigli, le vastità delle ricerche è legata al grande numero delle variabili considerate. Powekk e Ogle nel loro libro sui fratelli 3 “Brothers&Sisters. A special part of Exceptional Families” (Brookes publishing Co. Baltimore. London 1985) un testo importante su cui si basa in buona parte la ricerca più recente sui fratelli, dichiarano che “i rapporti tra fratelli differiscono talmente che generalizzazioni universali sulla loro natura ed influenza sono impossibili”. Vediamo alcuni dati: Holt nel 1958 in una ricerca su 201 famiglie trova che nel 5% dei casi, i fratelli mostrano imbarazzo o vergogna nei confronti del fratello con handicap. Ma che tale atteggiamento era legato ad un analogo atteggiamento nei genitori. Nel 1959 Farber, un altro dei pioneri della ricerca sulla famiglia, usando come metodo esclusivamente delle interviste ai genitori, ha trovato che l’ adattamento o meno dei fratelli era collegato al livello di gravità e ad un maggiore o minore grado di autonomia della persona con handicap. Erano inclusi nella ricerca vari tipi di handicap. Grossman nel 1972, concordando solo in parte coi dati di Farber, dichiara che il fattore principale legato all’ accettazione o meno del fratello con handicap è legato all’ atteggiamento dei genitori, in particolare della madre. Altre ricerche del 1959 ( Shipler) basate non solo su test eseguiti sui fratelli, ma sulla storia dei genitori e visite domiciliari, notarono che il 75% dei fratelli mostravano di essere sereni e ben adattati. Nel 1965 Schreiber e Feeley sostengono che per una maggioranza di fratelli l’ esperienza di vivere con un fratello con handicap contribuisce ad un maggior senso di responsabilità e maturità. Numerosi studi di fatti durante gli anni settanta descrivono i fratelli dei portatori di handicap come più responsabili, generosi, riflessivi. Nel 1981 in un’ ampia ricerca Cerreto e Miller, analizzando anche i precedenti studi, sostengono che i risultati sono positivi sia per quello che riguarda l’ adattamento dei fratelli che per le loro famiglie. Altri studiosi hanno evidenziato alcuni fattori di rischio per i fratelli ( Cerreto, Miller 1981) , ma li hanno correlati all’ atteggiamento dei genitori sia per quello che riguarda un eccessivo senso di responsabilità nei confronti del fratello con handicap, soprattutto da parte delle sorelle maggiori, ( Cleveland, Miller 1977) che per problemi di identità, soprattutto in fratelli vicini come età a quella del portatore di handicap ( Simeonsson e Baley 1983). Gli autori suggeriscono che una maggiore competenza sull’ handicap può favorire un migliore adattamento. Altre ricerche molto interessanti sono quelle che riguardano il paragone tra il rapporto con il fratello con handicap e quello con gli altri fratelli. Schaefer ed Edgerton nel 1981, Miller (1974) ed Ogle (1982) esaminando la natura del rapporto tra i fratelli in contesti vari, riportano analoghi risultati e cioè che un fratello furante i diversi stadi della vita mostra complessivamente un rapporto più affettuoso nei confronti del fratello con handicap che nei confronti degli altri fratelli. 4 Ciccirelli nel 1982, descrivendo il processo dello sviluppo del rapporto tra i fratelli in genere, suggerisce che il rapporto è stabilito durante l’ adolescenza “ i ruoli determinati dalla posizione nella famiglia e le varie caratteristiche della personalità sono già chiaramente strutturate”. Questi ultimi dati confermano ciò che è condiviso dagli studi sui fratelli nel vasto campo della psicoanalisi. Nella loro ricerca sulle famiglie di Manchester, Byrne, Cunningham, Sloper (1988) trovano che i rapporti tra i fratelli verso il Down sono altrettanto buoni se non migliori che nel gruppo di controllo. La ricerca sulla famiglia dalla fine degli anni ottanta ad oggi continua ad evidenziare in modo esplicito che la quantità di stress e nella famiglia della persona Down è parallela a quella di qualsiasi famiglia ( J. Carr in una ricerca durata 20 anni, Crnic 1990 e Gargiulo nel 1991 in uno studio sui fratelli). La ricerca attuale si sta volgendo all’ importanza delle risorse e dunque alle diverse problematiche a seconda della fasce d’ età e delle diverse culture. Possiamo dire che la presenza di una persona con un handicap può avere effetti positivi per la famiglia e quando sono negativi, questo dipende da molteplici e complessi fattori quali gli atteggiamenti dei genitori, le loro reciproche storie, le aspettative, la personalità dei fratelli, le loro interazioni, le diverse culture, anche religiose e così via. Come per qualsiasi famiglia di fronte a un qualsiasi disagio. Il disagio, però , può divenire inevitabile quando mancano le risorse. Ed è questo il caso di molte famiglie con persone Down e non. Direi che quando mancano adeguate soluzioni per un Down adulto e da noi mancano più che altrove, il problema, per molte famiglie può diventare grave quanto quello che riguarda gli anziani non autonomi, la malattia mentale, i tossicodipendenti, gli alcolisti, insomma tutte le famiglie con un membro più fragile e bisognoso di aiuto. Questo è vero soprattutto in una cultura come la nostra, dove si tende a privilegiare la famiglia come supporto a qualsiasi problema piuttosto che lo Stato. Io condivido pienamente quello che mi sembra essere il messaggio più importante secondo gli autori dell’ articolo e cioè che dobbiamo rivolgerci anche ai fratelli. Ma come indicano Ogle e Byrne, Cunningham e Sloper, i fratelli hanno bisogni molto concreti: durante l’ età evolutiva essere informati sull’ handicap per poter collaborare in modo lucido, dunque più maturo e sereno con la famiglia. Nell’ età adulta i bisogni cambiano e diventano ancora più concreti ed in quanto tali si possono e si debbono risolvere. Per risolverli dobbiamo soprattutto continuare a lavorare per favorire la creazione di strutture adeguate come la comunità alloggio e concrete possibilità di inserimento 5 lavorativo che permettano al Down adulto una vita il più possibile autonoma dalla famiglia e dunque più soddisfacente per l’ uno e per l’ altra. Come abbiamo visto dalle ricerche e come abbiamo verificato nel nostro lavoro la presenza di una persona Down può rappresentare un arricchimento per i suoi fratelli. ANNA ZAMBON HOBART **** Ogni volta che nasce un bambino o una bambina con Sindrome di Down, per i genitori le emozioni provate hanno radici molto profonde che riguardano gli aspetti personali, le conoscenze o meno sulla sindrome, gli stereotipi, il sentito dire, e soprattutto le proprie fantasie personali su quello che sarà o potrà essere il destino loro e quello dei figli. Lo stesso vale per alcuni operatori sociosanitari o per chiunque affronti l’argomento in base alle proprie fantasie, ignorando gli studi sulle famiglie e soprattutto le ricerche sui fratelli e sulle sorelle che appartengono a una cultura ormai assolutamente consolidata. I risultati delle ricerche più recenti infatti continuano a confermare quelli menzionati nel mio articolo del 1992 Janet Carr ha continuato a seguire le famiglie della ricerca citata per altri 20 anni e dunque le famiglie di persone con SD e le famiglie del gruppo di controllo, sono state seguite complessivamente per 40 anni (“Families of 40-Year Olds with Down Syndrome” JoDDvol 14 n.2,2008). I risultati dei due gruppi continuano ad essere sovrapponibili e la Carr conclude riflettendo su quanto sarebbe stato rassicurante per le famiglie conoscere i dati della sua ricerca al momento della nascita 40 anni prima. Cito le sue parole: “….Certamente dopo 40 anni il numero dei partecipanti della ricerca è diminuito perché deceduti….Tuttavia tra i sopravvissuti non c’è alcuna indicazione che le loro vite siano divenute negli anni più stressate né le famiglie traumatizzate. Se fosse stato possibile dirlo alle famiglie al momento della diagnosi dei loro bambini, quando l’angoscia su quello che sarebbe stato il futuro….era devastante, i genitori avrebbero potuto trovare conforto e grande incoraggiamento”. Lo stesso vale per le famiglie di Manchester di Cliff Cunningham grande studioso e amico la cui scomparsa recente ha lasciato nel mondo della Sindrome di Down un vuoto incolmabile. 6 Le ricerche di Carr e Cunningham rappresentano i capisaldi delle ricerche longitudinali sui fratelli e sorelle a cui si aggiungono varie ricerche tra le quali vorrei citare due in particolare Una su 53 famiglie di Cuskelly M., Gunn “Perspectives of mothers, fathers and children.” Journal of Intellectyual Disability Research 2007. Si tratta di una ricerca eseguita con una metodologia particolarmente rigorosa nel senso che un gruppo di 53 famiglie di persone con SD è stato paragonato a un gruppo di controllo di 53 famiglie senza persona con disabilità come accade in ogni seria ricerca, ma le famiglie dei due gruppi sono state selezionate e paragonate una ad una secondo parametri i più analoghi possibile e non generici come in altre ricerche. Secondo i risultati della ricerca non ci sono differenze significative tra i fratelli e le sorelle dei due gruppi per quello che riguarda il comportamento e le competenze. Ma soprattutto nessuna differenza per quel che riguarda i rapporti con gli amici e i risultati accademici. E questo ci sembra particolarmente interessante Sue Buckley commentando la ricerca di Cuskelly e Gunnin “Brothers and Sisters and Down Syndrome” (dse online) conclude dicendo che “su ogni misurazione presa, la vita dei fratelli e delle sorelle di bambini con Sindrome Down è la stessa dei fratelli e sorelle di bambini senza alcuna disabiltà”. In una ricerca precedente su due gruppi di 54 famiglie Cuskelly e Gunn (”Sibling relationship of children with Down Syndrome perspectives of mothers and fathers and siblings” Am. J. ment. Retard. Jul. 2003) hanno verificato in base a interviste fatte ai genitori,che non ci sono differenze tra le sorelle e i fratelli di bambini con SD e quelli del gruppo di controllo, per quel che riguarda la qualità del rapporto tra fratelli e sorelle. Ma i fratelli e le sorelle di bambini con SD sono più gentili e tra quelli dello stesso sesso c’è maggiore empatia che nel gruppo di controllo Un interessante articolo è quello di Skotko Levine (SkotkoBG, Levine SP 2006 What the other children are thinking: Brothers and Sisters of persons with Down Syndrome. Am J. Genet Part C SeminmmMedGenet 999:1-7) Gli autori citano numerosi studi che se condotti con rigore nel metodo e in contraddizione con precedenti ricerche eseguite dagli stessi autori,evidenziano più aspetti positivi che negativi nel gruppo di sorelle e fratelli con SD rispetto al controllo, come una maggiore collaborazione e senso di responsabilità, un maggiore rispetto per la diversità delle persone e un maggiore impegno correlato aun senso di empatia nei confronti della la sorella o del fratello con SD. Infine qualche accenno su un sondaggio eseguito nel 2011 degli stessi autori che hanno inviato vari questionari che includevano valutazioni da 1 a 7 e domande aperte a tutte le famiglie di persone 7 con SD (genitori e fratelli e sorelle) segnalate da sei Organizzazioni non profit in tutto il paese (USA). Si tratta di risultati relativi alle persone che hanno risposto e che sono una minoranza rispetto al gruppo totale costituito anche da Afroamericani e Ispanici che meno collegati al sistema sociosanitario hanno risposto al questionario in modo assai minore rispetto alla popolazione bianca. I risultati di questa ricerca sono i seguenti e mi limito a citare solo i dati su 822 sorelle e fratelli. Tra i fratelli e le sorelle da 12 anni in poi Il 94 % di etàha espresso un sentimento di orgoglio nei confronti della sorella o del fratello con SD. Il7 %provano imbarazzo Il 4% lo\a scambierebbero con un altro\a senza disabilità L’88% dicono di sentirsi persone migliori grazie al fratello o sorella con SD Tra i fratelli e sorelle da 9 a 10 anni Il 97% dice di amare il fratello o sorella con SD Il 90% dice che i loro amici stanno bene col fratello\sorella con SD Attualmente e riprendendo altre ricerche iniziate negli anni sessanta da J Carr e via via da molti altri studiosi, si paragonano famiglie di persone con SD a famiglie di una persona con altre disabilità soprattutto con AUTISMO assumendo che la diversa disabilità e in particolare i diversi modi di rapportarsi all’altro,possano determinare delle differenze anche nei genitori e nei fratelli e sorelle. Anche in questo tipo di ricerche le famiglie dei due gruppi dovrebbero essere il più omogenee possibile secondo ogni parametro socio- economico- culturale . Per quello che riguarda la famiglia di una persona autistica, la situazione sembra indubbiamente più complessa per vari aspetti,dall’origine ancora controversa dell’autismo, alla diagnosi che avviene in modo assai meno precoce che nella SD, all’importanza e alla varietà dei sintomi autistici. Dalle ricerche emerge che l’entità maggiore del disagio nei fratelli e nelle sorelle cambia anche a seconda di molti fattori che non sono legati in modo specifico alla SD o all’ASD,ma che riguardano il tipo di famiglia, il modo di affrontare i problemi tra i membri che la compongono e la presenza di risorse sul territorio. Vorrei citare due ricerche importanti. Un sondaggio di Hodapp e Urbano su 284 famiglie di persone con SD e 176 con ASD e Orsmond GI e Seltzer MM con una ricerca su un gruppo di 77 fratelli e sorelle di persone con SD un altro su fratelli e sorelle di persone con autismo della stessa 8 età e dello stesso sesso (Journal Of Intellectual Disability September and December 2007) Data la difficoltà a valutare i due gruppi di famiglie non omogenee, gli autori descrivono le differenze caso per caso in base alle caratteristiche delle famiglie piuttosto che al tipo di disabilità. Concludono comunque che tra i fratelli e sorelle di una persona autistica ci possano essere maggiori preoccupazioni per il futuro e quindi più aspetti depressivi, maggiore distacco e frequentazione del fratello o sorella nell’età adulta a seconda delle sue caratteristiche affettive e comportamentali e così via. Altre ricerche più attuali confermano più o meno gli stessi dati sottolineando la criticità della vita adulta quando il distacco tra fratelli e le sorelle tende ad aumentare. Sto pensando a quanto più o meno disagio possa creare nella famiglia la violenza di una persona autistica aggressiva ad esempio rispetto alla violenza di un padre alcolista o di una madre con Alzheimer o di un fratello tossico dipendente. Vale la pena fare ricerche di questo tipo? Francamente non saprei. Attualmente si studia il rischio di autismo tra i fratelli e sorelle di una persona autistica. Per ora i dati sono molto controversi e contraddittori e quindi sono necessarie ulteriori ricerche. Mi sembra che sebbene la sanità o la patologia in una famiglia in cui nasce e cresce un bambino con o senza disabilità siano in buona parte sovrapponibili, si debba riflettere su tutto quello che si può e si deve fare per migliorare la qualità della vita di ogni bambino con o senza disabilità come base essenziale per facilitare uno sviluppo futuro migliore. Quello che vale per ogni famiglia è la comunicazione e il rispetto di ognuno per la capacità di capire dell’altro. I genitori dovrebbero parlare, spiegare al più presto, rendere gli altri figli\e consapevoli e informati\e,rispondere anche alle domande che non fanno, senza preoccuparsi mai che non siano in grado di capire. Il bambino anche piccolissimo che non fa domande può tacere perché rispetta il silenzio dei genitori . Dai ricordi e dalle osservazioni di sorelle e fratelli adulti sono emersi segni chiarissimi che bambini fin da due anni e mezzo, tre anni, sono in grado di capire, consolare e proteggere il neonato con SD e in qualche modo anche i propri genitori.(vedi le testimonianze del gruppo Siblings che riguardano ricordi precocissimi). Pensiamo che i genitori in grado di riconoscere ed apprezzare gli aspetti più precoci, adulti e generosi dei propri figli,ne favoriranno la crescita. In qualsiasi tipo di famiglia. E in presenza di qualsiasi disabilità. Numerose ricerche ci dicono che non solo tra le sorelle e i fratelli di una persona con SD ma in qualsiasi famiglia di una persona con qualsiasi disabilità,ci possano essere maggiori aspetti positivi 9 rispetto alle famiglie“normali”. Notiamo che le sorelle e i fratelli adulti che sono diventati a loro volta genitori, osservano i propri figli con grande attenzione e riflettono con molta serietà e impegno sul proprio ruolo di genitori. Forse grazie alla presenza nella loro vita di una sorella o di un fratello diversi ? Sarebbe interessante fare una ricerca su questi aspetti. ANNA ZAMBON HOBART (Luglio 2013) 10