II. Il Palazzo dei Soviet

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II. Il Palazzo dei Soviet
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
culturale e politica del proletario e della sua
guida.
In base a quanto descritto, appariva subito
chiaro che specchio di tali idee e formulazioni
dovevano essere anche i nuovi edifici, innalzati
ovunque e in particolare nella capitale del primo
Stato sovietico: Mosca. La fisionomia dell’edilizia
statale doveva imprimere, nel proprio codice
genetico, il marchio della potenza e della
maestosità del popolo che l’avrebbe resa possibile
e conforme a ciò doveva essere la loro scala e
grandezza, senza tralasciare il fatto che
l’architettura di questi edifici, pronta a sancire
il sodalizio totale e completo del socialismo con
la propria nazione e con la propria gente,
doveva riflettere, nelle forme e proporzioni le
aspirazioni del popolo a una vita felice e
armoniosa.
Questi furono i parametri, le motivazioni
e le disposizioni che soggiacevano ai progetti
per la realizzazione dell’avveniristico Palazzo
dei Soviet a Mosca, perché era, appunto, la
capitale a essere stata scelta per divenire il «faro
luminoso», il volto dell’Unione Sovietica
visibile e mostrabile a tutti, il modello
esemplare di quella che presto sarebbe stata la
vita di ciascuno.
Nella lotta per la raffigurazione della
«autentica arte proletaria», si generò un
fenomenale rifiuto della nuova architettura in
favore della valorizzazione dell’eredità
classica, che creò, come risultato, una tendenza
architettonica “degli anni Trenta”, unica nel
contesto internazionale, in quanto fusione di
architettura moderna e classica. L’obiettivo da
perseguire consisteva nell’uscire dagli schemi
abituali della solennità protocollare, dalla
immagine stereotipata, per trasmettere la
globalità degli intenti progettuali, mediante la
diretta e “venerabile” aspirazione alla massima
altezza e verticalità della costruzione, dotando
l’intera macchina dell’architettura socialista di
forme e mobilità proprie, riassunte in quel
“ritmo cinetico” che avvolse, in ogni istante e
momento, l’intera operazione progettuale e
realizzativa.
2. Il Palazzo dei Soviet
Nascita di un progetto: genesi storica del
Palazzo dei Soviet
Il concorso per il Dvorec Sovetov, il Palazzo
dei Soviet, a Mosca si collocò come uno dei
momenti più rilevanti e decisivi nella storia
dell’architettura del XX secolo. Senza dubbio
fu uno dei concorsi maggiormente significativi
e che, in maniera del tutto completa e manifesta,
ha meglio incarnato gli ideali politici, sociali
ed estetici della propria epoca. Non solo l’intera
progettazione, avvenuta in successive fasi di
elaborazione, attraversò lo sviluppo della
architettura sovietica per quasi tre decenni, ma
diede anche vita, nella stragrande maggioranza
della popolazione dell’immenso Paese, alla
immagine visibile della nuova, tanto attesa e
luminosa era che si andava prefigurando.
Con il concorso, che scandì il tramonto
dell’avanguardismo, sia in URSS che nei Paesi
dell’Occidente e che consacrò il definitivo
connubio tra architettura e politica, si risolse
la drammatica contraddizione tra l’architettura
d’avanguardia e lo storicismo, il tradizionalismo che aveva caratterizzato gli anni
Venti.28 In relazione ai canoni estetici del nuovo
mondo socialista, l’architettura divenne
espressione del mondo che esso stesso aveva
creato, destinata, nelle sue concretizzazioni più
alte e degne a rimanere un monumento
straordinariamente saldo dell’epoca e del
momento che desiderava, con tutte le proprie
energie, rappresentare, testimone, davanti ai
posteri, dei voli del pensiero e dei sentimenti
dell’attuale società. L’arte viene concepita
come sublime esperienza della vita di massa,
somma di tutti i provvedimenti che l’organizzazione ideologica alla base della realizzazione
di un fabbricato edilizio o della più ampia
pianificazione urbana richiedeva, affinché
potesse risultare immediatamente evidente al
proletariato. Ciò che ora l’ideologia aveva il
compito di rappresentare era, quindi, l’identità
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Come ricordato, la vicenda del Palazzo dei
Soviet nella città di Mosca si articolò e prese
corpo nell’arco di ben tre decenni ed esattamente tra il 1922 e la fine degli anni Cinquanta,
anni che segnarono, dopo l’avvento al potere
di Nikita Kruschëv e la conseguente eclissi della
parabola staliniana, l’irrevocabile tramonto di
ogni velleità realizzativa del Palazzo dei Soviet
e di ogni aspirazione al “verticalismo”,
simbolicamente inteso. Ufficialmente, la prima
tappa preparatoria del concorso, nata dalle ceneri
della programmazione progettuale di un
monumento architettonico, che fosse eretto a
«simbolo del futuro trionfo del comunismo»,
per celebrare la formazione del Paese, acquisì
i propri natali nell’ottobre del 1922, allorché il
presidente del Soviet di Mosca, Lev Borisovic
Kamen'ev, sollevò la tematica della costruzione,
a Mosca, di un Palazzo del Lavoro. L’edificio
in questione era stato pensato come un centro
polifunzionale, nel quale avrebbero trovato posto
non solo locali utili per il lavoro del Soviet
moscovita e uffici per riunioni, ma anche un
albergo, biblioteche, sale da concerti e musei.
Fu così che nel 1922 l’Associazione di
architettura di Mosca, della quale era presidente
Aleksej Viktorovic Schusev, bandì un concorso,
le cui clausole sottolineavano che il futuro
Palazzo del Lavoro doveva possedere, sì, un
aspetto ricco, ma espresso e confezionato con
forme semplici e contemporanee, fuori dallo
stile specifico di qualche epoca passata,
sviluppando e portando avanti, però, l’idea che
la costruzione principale della capitale sovietica
fosse concepita mediante la forma di un
“edificio alto”, un grattacielo ultramoderno. Tra
i progetti che furono presentati prevalsero quelli
che estrinsecavano in modo più puntuale le idee
della nuova classe dirigente vittoriosa, ossia il
proletariato; classe potente e austera, semplice
e ascetica come l'epoca stessa aveva chiarito e
forgiato. Quanto descritto e auspicato ebbe,
però, unicamente, la funzione di creare quel
retroterra politico, culturale e sociale che diede,
soprattutto in termini propagandistici, impulso
allo sviluppo della “profetica” era socialista,
in quanto il concorso per il Palazzo del Lavoro
non sortì mai alla realizzazione dell’opera
stessa.
Infatti, va comunque ricordato che negli
anni Venti, l’economia del Paese soffriva ancora
dei disastrosi effetti del comunismo di guerra e
per giunta, come abbiamo documentato, le
esigenze della vita civile richiedevano, quale
fattore prioritario, la creazione di luoghi di
abitazione e non di «rappresentazioni architettoniche eterne e imperiture». Tuttavia,
l’entusiasmo generale nel Paese non andò
scemando, ma, al contrario, si accrebbe e nel
giro di un decennio tutto apparve nuovamente
realizzabile e l’agognato «paradiso socialista»
non sembrò più così tanto lontano.
All’inizio degli anni Trenta. lo Stato
sovietico era pronto per promuovere l’organizzazione di uno spazio unico e rinnovato, non
solo nei contenuti, ma anche nelle forme, da
plasmare con nuove creazioni architettoniche
e “la” costruzione per eccellenza, “il” Progetto
per antonomasia, assunse cuore e ragione nel
Palazzo dei Soviet.
Nei primi mesi del 1931 il governo
dell’URSS bandì un concorso pansovietico
aperto per la stesura della progettazione del
Palazzo dei Soviet, che avrebbe dovuto
riprendere e rinnovare l’idea del Palazzo del
Lavoro, pur con l’apporto di alcune modifiche,
che nel corso del tempo si rivelarono sostanziali
e sostanziose. Per la gestione di tutti i progetti,
degli elaborati previsti e successivamente dei
lavori di edificazione, nell’aprile 1931 fu
creato, presso il governo, il Consiglio di
costruzione del Palazzo dei Soviet.
La prima fase del concorso ebbe un
carattere preliminare, il cui scopo mirava alla
definizione del compito e delle condizioni per
la futura realizzazione e coinvolse rappresentanti di tendenze architettoniche diverse.
Non essendo stato però attribuito, a monte e
con chiarezza, un compito preciso a questa
prima fase, riguardo agli obiettivi che dovevano
emergere e che si sarebbero dovuti raggiungere,
i risultati conseguiti furono più che altro stimati
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a livello di sceneggiature letterarie, accompagnate
da grafici, schizzi e slogan, addobbati nel tentativo
di voler unire l’aspetto evocativo dell’edificio
con i nuovi rituali delle azioni di massa e delle
manifestazioni. L’unico aspetto nei confronti
del quale si pervenne a un risultato, in base a
quanto era stato presentato, riguardò, nell’alveo
del corpus cittadino, la destinazione e l’ubicazione
topografica del Palazzo. L’area che venne
designata, su proposta degli architetti raccolti
attorno all’associazione ASNOVA, ratificata e
avvallata poi dallo stesso Stalin, fu indicata nella
superficie su cui si estendeva e si ergeva la
cattedrale del Cristo Salvatore.29 Indicativo fu il
fatto che l’evento della distruzione del tempio,
decretato da Stalin nel 1931, diede piena e
completa testimonianza della lettura del peculiare
rapporto temporale presente-futuro e del processo
di mitizzazione che veniva inscenato, dove il
Palazzo dei Soviet, chiamato alla sostituzione di
un simbolo oramai “fuori moda”, veniva trattato
come già esistente, nonostante lo fosse solo sui
fogli di carta.
Il 18 giugno 1931 il Consiglio di costruzione si fece promotore di un nuovo concorso
pansovietico aperto, che vincolava il luogo di
fondazione all’area su cui sorgeva il tempio di
Cristo Salvatore, contemplandone, appunto, la
demolizione e l’allargamento della piazza
antistante. Infatti, il concorso riguardava non
solo la progettazione del palazzo, ma anche la
più ampia soluzione urbanistica di tutta la zona
circostante, nella quale il problema del
movimento e del passaggio verso l’adiacente
area del Cremlino risultava assai complicato
dalla necessità programmatica del rapido flusso
di accesso e della contemporanea uscita delle
venticinquemila persone di cui l’edificio
doveva essere capace. Per la prima volta, il
concorso ebbe carattere internazionale e
coinvolse una minoranza di professionisti del
settore, provenienti da diversi Paesi occidentali,
quali Francia, Germania, Italia e Stati Uniti
d’America.30
In base alle precisazioni e le specificazioni dettate dalla commissione, lo stesso
palazzo avrebbe dovuto contenere, nella
formulazione delle differenti proposte, ampi
auditori, locali ausiliari ed essere dotato di tutti
i comfort necessari, tecnicamente all’avanguardia, al fine di poter garantire la perfetta
riuscita di ogni genere di manifestazioni e un
possibile allestimento scenico di spettacoli in
occasione di parate e festività di massa.31 Il
palazzo veniva prefigurato come un immenso
forum, le cui sale per le riunioni dovevano
essere adattate a una partecipazione non solo
passiva e contemplativa da parte dei convenuti,
ma che si mostrasse anche attiva e interessata,
coltivando insieme, così, quelle forme di vita
sociale che meglio rappresentavano lo sviluppo
della coscienza collettiva nata dall’ideologia
comunista. Al concorso pervennero duecentosettantadue tra progetti e singole proposte. I
progetti furono centosessanta, di cui centotrentasei eseguiti da architetti sovietici e
ventiquattro inviati dall’estero. I lavori,
splendidamente rappresentati ed elaborati con
maestria, mostrarono un’ampia gamma di
costruzioni architettoniche puramente e quasi
esclusivamente costruttiviste da un lato, che,
però, dall’altro, si richiamavano a figure
stilistiche ostentatamente e volutamente
monumentali, eppure, nonostante ciò, stupefacenti per leggerezza ed eleganza.
Il Consiglio per la costruzione del
Palazzo dei Soviet riconobbe come progetti
migliori quelli presentati su ordinazione dagli
architetti sovietici Boris Michailovic Jofan32
(Tav. 2) e Ivan Vladislavovic Zholtovskij33 a
cui furono conferiti rispettivamente il primo e
il terzo premio, e il progetto, pervenuto dopo la
chiusura del concorso, dell’architetto americano
George Hamilton,34 insignito del secondo premio
classificato. I progetti complessivamente
leggibili attraverso il prisma della metodologia
costruttivista furono, quindi, premiati ma non
fu dichiarato ufficialmente alcun vincitore sopra
gli altri e si ammise, invece, che un comitato di
architetti sarebbe stato nominato per redigere
un elaborato definitivo sulla base dei progetti
vincitori dei premi.
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porzione nuova della città, un “cuore” urbano,
assai articolato, tutto racchiuso in una straordinaria
unità figurativa che si sarebbe trasformato, di fatto,
in una parte della storia urbana; frammento di città
e luogo entro cui vivere come se il tempo vi
avesse sovrapposto, man mano, una particolare
atmosfera vissuta e partecipata. Da questo
punto di vista, il progetto di Le Corbusier pose
un fondamento basilare di concreto metodo
disciplinare e fornì una precisa indicazione
relativamente alle questioni del rapporto tra
analisi urbana e progetto, sottolineando come
tutto il complesso archi-tettonico del Palazzo
dei Soviet e ogni suo segmento, spazialmente
considerato, si sarebbe inserito in modo
assolutamente naturale dentro Mosca, con la
viva consapevolezza di aver mantenuto, nel
proprio elaborato, una con-tinuità di ricerca con
il passato.
Le Corbusier affrontò e accettò l’evoluzione degli eventi del concorso con una tale
maturità professionale da superare di fatto i
limiti dell’occasione e del tempo, obiettivamente conscio e comunque omaggiato
dell’indiscutibile qualità architettonica da lui
espressa.
Nella delibera del Consiglio di costruzione del 28 febbraio 1932, Sull’organizzazione
dei lavori per la stesura definitiva del progetto
del Palazzo dei Soviet dell’URSS, si osservò
che, come già ricordato in precedenza,
nemmeno uno dei tanti progetti presentati,
compresi quelli che erano stati premiati, potesse
considerarsi definitivo e, pertanto, furono
nuovamente formulati e aggiornati i requisiti
per i lavori della fase successiva del concorso.
Tra gli elementi salienti spiccava quello di voler
concepire il Palazzo dei Soviet come un unico
complesso monolitico e come un’audace ed
elevata composizione coronata da un qualche
elemento architettonico, non precisamente
specificato. Si desiderava racchiudere il
Palazzo - simbolo di un’intera epoca - in un
unico volume, visto come compagine spaziale
integra, facendo ritorno con la mente, in
qualche modo, all’ardita struttura alta con cui
Prima di trattare lo svolgimento della seconda
tappa del concorso per il Palazzo dei Soviet,
tenutasi nel 1933, una breve parentesi, sulla
quale vale la pena di soffermarsi, va destinata
e concessa al progetto di Le Corbusier (Tav,
1). La sua opera non venne scelta dalla giuria,
né tanto meno premiata, ma fu riconosciuta
dagli esaminatori del concorso come un
«capolavoro del funzionalismo» e, per via di
scelte tecniche innovative e caratteristiche del
tutto peculiari al contesto per cui si svolgeva
la selezione, fu poi considerata la più alta
espressione del Costruttivismo.
Di fronte al tema proposto, Le Corbusier
si propose un programma molto rigoroso,
secondo il principio che: «l’architettura è nel
mettere in ordine, nel raggiungere e nel rilegare
e organizzare secondo una intenzione elevata,
e nel dare alle opere della tecnica l’unità e la
grazia che dovunque la natura ha manifestato
nelle sue creazioni».35
All’interno di questa scelta di principio,
la tematica della rappresentatività monumentale ben si legava alla situazione del giovane
stato sovietico, alla particolare espressività
eroica del suo momento di sviluppo e, al tempo
stesso, ottimamente si collegava all’idea della
città esistente e del suo volto da rinnovare.
Queste intenzioni e problematiche venivano
rifinite e incastonate, progettualmente, nel
rapporto con l’area del Cremlino, ma non per
contrapposizione di un momento architettonico
a un altro, non per mimesi o analogia stilistica,
bensì come continuità di espressione architettonica che riconsiderava, in maniera differente,
non solo i rapporti immediati e di semplice
fruibilità dell’intera zona circostante, del sito,
ma trascendeva la particolarità del soggetto alla
ricerca di motivazioni di perpetuità innovata e
innovante, in costante colloquio con la più vasta
realtà dell’immagine della città, attraverso un
mondo simbolico carico di contenuti, che
verificasse e rendesse ragione dell’effettivo
completamento e riempimento spirituale del
luogo, in relazione della presenza “storica” del
Cremlino. Si andava specificando, così, una
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dell’accentuazione monumentale e oggettuale
aveva il compito di attribuire alla città
un’immagine pregnante ed esemplare, che
incarnasse, da sola e bastante , il “socialismo
conquistato”.
A partire da questo momento, il mondo
dell’arte non sarà più creazione, ma fenomeno
dichiaratamente obbediente e al potere
asservito, e lo stesso Costruttivismo venne
rimosso dalla vita quotidiana della società
sovietica. Fece, quindi, il proprio pomposo
ingresso, senza remore e senza scrupoli, uno
stile che si assunse, in toto, il compito di fissare
i dogmi ideologici e le illusioni sociali del
proletariato, dando vita a un’architettura che
fruiva degli indistruttibili canoni classici e la
cui stabilità consentiva di esprimere la solidità
della nuova epoca. Nel 1934, nella variante
definitiva approvata dal Consiglio, l’edificio
proposto da Jofan e dai suoi collaboratori
riprendeva i criteri del precedente, con un
sensibile aumento, però, delle altezze dei
gradoni per accentuare la verticalità dell’intero
complesso e in modo da permettere, così, un
rapporto più coerente con la figura di Lenin
elevata fino all’altezza di ottanta metri, mentre,
nel progetto ultimativo del 1939, la statua fu
innalzata fino a cento metri, rendendosi visibile
solo in giorni di particolare nitore atmosferico
e in assenza di nubi. Bisogna pure ricordare
che, nella versione del progetto definitivo del
Palazzo dei Soviet, l’altezza complessiva
dell’edificio con la scultura avrebbe misurato
ben quattrocentoquindici metri, superando
anche, nell’eterna competizione con gli Stati
Uniti d’America, l’Empire State Building di
New York, eretto nel 1931, fermo a trecentottantuno metri. Il futuro profilo architettonico
della città di Mosca si disegnava regolandosi,
quindi, sulla verticale gigantesca e infinita del
nuovo palazzo.
Contemporaneamente, fu elaborata, con
cura, anche l’idea dell’allestimento artistico degli
ambienti interni e dell’esterno dell’edificio,37 che
avrebbe dovuto raccontare in modo comprensibile
“la grandezza dell'era staliniana”, soprattutto
negli anni Venti si era evocata l’immagine di
questo edificio. Le ricerche dovevano essere
volte all’utilizzo dei nuovi e più efficaci
procedimenti dell’architettura classica, dove il
«classicismo» andava inteso, in questo caso,
come la perfezione classica di una mentalità e
non come una semplice utilizzazione di
qualunque forma antica solo perché classica,
servendosi, di conseguenza e al tempo stesso,
delle più recenti conquiste della tecnica della
costruzione architettonica moderna.
Il nuovo concorso interno attraversò due
fasi, da marzo a luglio del 1932 e da agosto a
febbraio del 1933. Alla sua conclusione,
avvenuta nel maggio del medesimo anno, si
prese a riferimento l’approvato e vincente
progetto dell’architetto Boris Jofan,36 che si
configurava come una composizione alta e
compatta, formata da tre volumi cilindrici, a
creare una gigantesca torre gradonata, poggiante
su uno stilobate rettangolare con due ordini
architettonici, costituiti da un colonnato
perimetrale continuo (Tav. 5). Leggeri e
disinvolti pendii, dotati in parte di lunghe
scalinate, lo collegavano alla piazza. L’intera
costruzione era sovrastata, alla propria
sommità, dalla scultura del lavoratore, già
presente nel progetto che vinse il primo premio
nel 1931. Nella delibera del Consiglio costruttivo
del 10 maggio 1933, si precisava che, nella
successiva elaborazione del progetto di Jofan,
l’edificio del Palazzo dei Soviet dovesse essere
coronato da un monumento a Lenin di cinquanta/settantacinque metri di altezza, affinché
il palazzo costituisse una sorta di piedistallo
per la figura di Lenin. A progettare la susseguente variante furono chiamati, in qualità
di coautori, anche gli architetti Vladimir
Alekseevic Schuko e Vladimir Georgievic
Gel’frejkh (Tav. 8).
L’idea del Palazzo dei Soviet come luogo
per forum popolari iniziò a trasformarsi in
quella di un monumento al «Capo», come in
una sorta di percorso propiziatorio, reiterato
attraverso il rituale di un’esasperata rappresentazione simbolica, dove il carattere
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attraverso quel gigantismo esasperato dalle tre
torri e mediante l’orizzontalismo della base
d’appoggio.
Quanto finora esposto non fa che rendere
ancora più evidente come, nelle diverse fasi del
concorso, l’idea che soggiaceva al disegno di
costruzione del Palazzo dei Soviet fosse mutata
radicalmente: se prima a determinarla era stata
la coscienza collettiva, ossia la risultante
dell’attività sociale del proletariato, ora,
l’immagine del palazzo appariva come la
personificazione della mitologia statale, che
aveva creato l’utopico sogno della vita felice e
lieta nella nuova società comunista.
Finalmente, nel 1937, si diede inizio ai
lavori per il Palazzo dei Soviet e verso il 1939
erano già state gettate le fondamenta della parte
elevata, formata da due poderosi anelli
concentrici di calcestruzzo. Alla vigilia della
Seconda guerra mondiale si cominciò a
montare l’armatura d'acciaio. Nella fase di
progettazione e relativa costruzione si tenne
conto dell’esperienza edilizia dei grattacieli
americani e furono messe a punto, strada
facendo, nuove soluzioni tecniche, che meglio
si adattassero alle esigenze ideologiche e
architettoniche del momento. Ma, con l’inizio
della guerra, in base a una disposizione del
Consiglio dei commissari del popolo (SNK) del
19 dicembre 1941, l’edificazione del Palazzo
dei Soviet fu interrotta e venne congelata,
poiché l’attività dell’organo preposto alla
sovrintendenza dei lavori fu dirottata su
necessità militari. Per esigenze legate alla difesa
del Paese, i materiali da costruzione vennero
distribuiti a vari enti, a commissariati del
popolo e stabilimenti. Nei primi anni del
dopoguerra l’attenzione si concentrò, soprattutto, sul risanamento dell’economia
prostrata e sulla ricostruzione di numerose città,
paesi e villaggi, ma, ben presto, riaffiorò nella
coscienza nazionale l’entusiasmo e il desiderio
di ritornare o dare fiato ai “fasti” prebellici di
matrice architettonica. In occasione della
celebrazione dell’ottavo centenario della
fondazione di Mosca (1947), con uno sforzo
straordinario, nei luoghi nevralgici dell’area
metropolitana, furono poste le fondamenta di
sette grattacieli,38 le cosiddette «sette sorelle»
- la cui struttura doveva far rivivere le forme
dei templi antico-russi - che furono edificati a
partire dal 1948. Nel frattempo, del Palazzo dei
Soviet poco si parlava, se non per studiare e
analizzare, dietro le quinte, nuove varianti che
prevedevano l’introduzione di una nuova
tematica legata all’eroica vittoria ottenuta sui
campi di battaglia. Dopo la morte di Stalin, nel
1953, nel Paese incominciarono a delinearsi
seri cambiamenti che, con l’avvento al potere
di Nikita Kruschëv, finirono con l’influenzare,
pure, il campo dell’architettura, segnando, nella
teoria e nella prassi, il lento avvio del definitivo
tramonto della vicenda del Palazzo dei Soviet.
Tre anni più tardi, in questa atmosfera di forti
mutamenti, fu bandito un nuovo concorso per
la creazione del palazzo, che ancora potesse
utilizzare le fondamenta poste alla fine degli
anni Trenta sull’area dove si ergeva, un tempo,
il tempio di Cristo Salvatore. Nulla sembrava
essere mutato, almeno nelle intenzioni. Pur
mantenendo, però, l’idea di considerare l’opera
intera come un monumento a Lenin, dalle
clausole del concorso furono escluse le misure
ipertrofiche del progetto originario e indicate
le “reali” dimensioni d'ingombro dell’edificio
in poco più di seimila posti a sedere complessivi
nelle due sale maggiori, mentre la superficie
totale non doveva superare i trentaseimila metri
quadrati, contro i centodiecimila del progetto
del 1939. Mutò anche l’obiettivo iniziale che
voleva fare del palazzo un “piedistallo” per la
scultura di Lenin, visto ora, invece come un
generico monumento architettonico al capo,
perdendo, forse, parte del proprio valore
simbolico intrinseco, mitologico e contemplativo allo stesso tempo. All’inizio del
1957, con la delibera del governo Sullo
svolgimento del concorso del monumento a V.I.
Lenin del Palazzo dei Soviet, fu mutato il luogo
su cui si sarebbe, da sempre, dovuto edificare
il palazzo, decidendo per un trasferimento nella
zona sud-ovest di Mosca, sulle cui colline e
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pendii, si bandì, per la prima volta, un concorso
separato. Nonostante fossero stati presentati
ben centoquindici tra progetti e proposte, fu
deciso, dagli organi competenti, di non
assegnare alcun premio. Un tentativo, che si
rivelò finale e conclusivo, a cui furono chiamati
a partecipare gli autori che, nella prima fase,
avevano ricevuto il secondo ed il terzo premio,
fu compiuto nel 1959. Ma anche l’ultimo
concorso non sortì alcun risultato positivo. A
poco a poco, in modo quasi impercettibile, il
problema della costruzione dell’edificio
principale del Paese, fu depennato dall’ordine
del giorno. Il luogo fisico necessario a Mosca
al lavoro dei congressi di Partito, fu costruito,
per volontà di Kruschëv, senza bando di
concorso, nel Cremlino, mentre sull’area della
demolita cattedrale di Cristo Salvatore,
utilizzando le robuste fondamenta del Palazzo
dei Soviet, quegli enormi anelli concentrici che
ben ad altro avevano fatto pensare e alludere,
si costruì una grandiosa piscina riscaldata
all’aperto, che ebbe vita fino a quando la
cattedrale riprese, di diritto, il suo posto nel
landscape moscovita e assunse nuova effettività tra i ricordi della popolazione russa.
Terminava, così, ingloriosamente l’epopea del
Palazzo dei Soviet, portando con sé il pieno
significato-significante e la piena responsabilità
di aver dato lustro alla più emblematica ed
eloquente tra le utopie del mondo sovietico.
percepito, in prima istanza, dal nostro corpo
come esperienza del luogo e poesia del ricordo,
si distingueva senza ombra di dubbio dalla
finzione, un tempo in cui la finzione copiava il
reale.
Nell’epoca moderna e, ciò che a noi
interessa sottolineare e denunciare, nella
peculiarità degli anni Trenta sovietici, succedeva
esattamente l’inverso: era il reale a copiare la
finzione. Il “monumento”, il “Palazzo”, si
illuminava nel cuore della gente, tra le sapute e
consapevoli trame dei corridoi del potere, per
assomigliare il più possibile a una scenografia.
Abbiamo ricordato che, proprio nel
periodo staliniano, furono le categorie del
tempo e dello spazio le prime a saltare e a
modificare lo statuto ontologico, a mutare
aspetto e concezione di applicabilità tout court,
senza possibilità di scampo. Stalin operò,
infatti, un arresto nello scorrere naturale degli
eventi, immobilizzò la Storia e la fece
procedere, a proprio piacimento e gusto,
secondo regole e categorie di sua esclusiva
scelta. Fecero la propria comparsa nuovi colori,
nuovi sfondi che, ben presto, assunsero una
direzione dinamicamente inquietante, patrocinando e legittimando il «carnevale
staliniano», 40 dove la mitizzazione di un
passato, nemmeno troppo remoto, e la tendenza
al futuro veniva, in qualche modo, proposto
come già reale ed esistente, sulla falsa riga di
un passato grandioso ed epico. L’operazione
di carnevalizzazione staliniana, che si avvalse
in primo luogo della categoria principe del
rovesciamento di valori e di costumi, nei quali,
comunque, ci si potesse riconoscere e gustare
in essi la gioia di una vita “gentile”, serena e
armoniosa, trovò la sua massima espressione e
manifestazione nell’ambito di quegli spazi che
possono essere definiti «non-luoghi». 41 Il
substrato cultorologico e, in questo caso,
cronologico, che investì l’Unione Sovietica e che
le magniloquenti rappresentazioni architettoniche,
nate sul proprio terreno, portavano con sé,
autorizza a pensare, prima di tutto, che l’immagine
di un mondo chiuso e autosufficiente sia stata
Reale e Virtuale: il concetto di luogo e nonluogo
Il castello della Bella Addormentata si staglia sul cielo,
con le sue torri e con le sue cupole, simile, stranamente
simile alle foto viste sui giornali e alle immagini della
televisione. Era senza dubbio questo il primo piacere di
Disneyland: ci si offriva uno spettacolo in tutto e per
tutto simile a quello che ci era stato annunciato. Nessuna
sorpresa [...] Ci rendemmo ben presto conto che, al
contrario, sarebbe stata la sua assenza a essere sospetta.39
Nel cammino della storia esisteva e forse è
sempre esistito, dunque, un tempo in cui il reale,
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messinscena. Lo spettacolo stesso veniva
spettacolarizzato. Come nell’odierna Disneyland: la scena riproduce quel che era già
finzione, dietro lo schermo, c’è ed esiste
solamente e nient’altro che un altro schermo.
La distinzione tra luogo e non-luogo passa
attraverso l’opposizione del luogo con lo
spazio, dove lo spazio, per essere luogo, deve
essere praticato, ossia assumere l’identità di
luogo vivendo quotidianamente un’esperienza
di relazione con il mondo da parte di un essere
situato in «rapporto a un ambiente», da parte
di un corpo che abita lo spazio ed il tempo.43
Nel «carnevale socialista» il reale si trasformò
invece in teatro. Tutto era così, perfettamente,
come sarebbe dovuto essere. Sfruttando le
logiche della teatrocrazia staliniana, la
“passione” del dionisiaco sovietico non poteva,
però, riempire la forma apollinea, che in quella
realtà e in quella cultura, rimanevano tragicamente vuote, perché alimentate e nutrite
dal «fotomontaggio», come fecero i cineasti
degli anni Venti e Trenta. Ciò che si proponeva
al popolo fu, di conseguenza, l’esperienza del
vuoto e della libertà elevati alla massima
potenza, una libertà senza oggetto, senza
ragione e senza posta in gioco. In contraccambio, era richiesto una “credenza per
procura” nei confronti di quell’esistenza che
fece della falsificazione della realtà una nota
di orgoglio. Dati eccezionali, smisurate
conquiste e traguardi raggiunti, ma l’importante
era che la popolazione si sentisse parte
integrante di questa “ruota panoramica” e che,
abbandonandosi a un perverso gioco di inganni
e autoinganni, si fosse comportata, sempre,
come se ci avesse creduto, per poi essere finita
con l’averci creduto davvero.
I più autentici e veri non-luoghi della
cultura staliniana, che meglio si prestavano a
questo tipo di operazione-spettacolarizzazione,
furono i parchi, le fiere, le mostre, e la
costruzione di edifici maestosi, autentici e
incontestabili palcoscenici per l’esibizione del
potere, raggiunto e raggiungibile, e della
grandezza di una nazione costantemente oltre
qualcosa di utile e necessario al fine del tentativo
di realizzazione di qualcosa, che altrimenti, a
priori, non sarebbe mai potuto nemmeno
accadere. Non una menzogna, dunque, ma un
mito approssimativamente iscritto nel suolo,
fragile come il territorio di cui fondava la
singolarità e sul quale si fondavano le eterne
aspirazioni, soggetto, come le frontiere, a
eventuali rettifiche e cambiamenti di rotta; ma
un mito condannato, per questa stessa ragione,
a parlare sempre dell’ultimo spostamento come
della prima fondazione, in una perpetua
inversione di ruoli, solo dopo aver dotato, però,
la popolazione del “passaporto” del vivere
collettivo, come via di accesso, senza possibili
contraddizioni, ai luoghi e ai non-luoghi
esemplari della cultura staliniana.
Saranno, quindi, questi i luoghi e gli spazi
la cui analisi e la cui progettazione ebbero senso,
perché sono stati investiti di senso, perché luoghi
del senso iscritto e simboleggiato, e ogni mossa,
ogni percorso e decisione di sorta nei riguardi
di costoro, ne convalidò e confermò, sempre e
in ogni istante, la necessità determinata. Per
questo, non vi era alcun dubbio, che, stando così
la questione, nei termini e nei fatti edulcorati
dal periodo del Realismo socialista, essi fossero
percepiti come reali, e ancora più reali della
realtà stessa, scomoda e tragica, invece, allo
stesso momento.
Credetti di capire quel che c’era di seducente nell’insieme
di quello spettacolo, il segreto del fascino che esercitava
su quanti vi si lasciavano prendere, l’effetto di realtà, di
surrealtà che produceva quel luogo di tutte le finzioni.
Noi viviamo in un’epoca che mette in scena la storia, che
ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la
realtà.42
A Stalinland, prodotto per eccellenza di una
cultura, artificialmente definita popolare, voluta
e agognata dalle masse, che, come per magia,
soddisfaceva le esigenze di ognuno e tranquillizzava anche i più scettici, nel piacere del
riconoscimento totale della realtà circostante,
come vero e proprio made di un’idilliaca realtà,
accadeva e avveniva la medesima dissimulata
31
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
i parametri di sviluppo prefissatisi. Ma a
sostegno di tale esibizione non si sottrae
nemmeno la componente, non certamente meno
reale, del terrore e della gioia di stato, l’insieme
dei cantieri, le città stesse dell’utopia socialista
e tutti quegli oggetti privilegiati e adattati a essere
trasformati in scena, parti di un atto, arene di
rappresentazione e celebrazione a senso unico.
Tutto ciò che, in maniera diretta e inequivocabile,
si offriva come modello della cultura circostante,
nutriva lo scopo di spingere la gente più al
riconoscere che all’inedito, esperienza, questa,
nuova e non sempre prevedibile. e generava, al
contrario, un bisogno di immagine, per credere
nel reale e accumulare testimonianze per essere
sicuri di aver vissuto.
Lo spazio del non-luogo non crea, così,
né identità, né relazione con qualcuno o qualche
cosa, ma solitudine e similitudine, secondo le
regole, non formulate, del saper vivere e del
vivere felici e spensierati, volte a creare il mito
di un’identità condivisa e collettiva. Il nonluogo prende a prestito le proprie parole e le
proprie strutture di codificazione e illusorietà
dal territorio, vive esclusivamente nel presente,
ma di fatto nulla emerge, nulla si vede, è e
rimane solo un’idea, una parola, come in un
opuscolo turistico che all’ideale non oppone il
reale, bensì, ancora una volta, l’idea stessa di
luogo, rimodellata dalla intelligenza e dalla
immaginazione, di chi, in prima istanza,
produce la finzione e di chi, in seconda battuta,
la assimila o si trova, in qualche modo, costretto
a farlo, per non essere indotto a negare che ciò
che appare sia riconoscibile immediatamente
anche nel reale e non viceversa. L’immagine
associata al concetto di non-luogo è quella di
un universo ove mai nessuno è solo, ove tutti
quanti sono oggetto di un controllo diretto e
continuamente, nel tempo, verificabile, dove
il passato, in quanto tale, viene rigettato in toto.
Nel mondo sovietico degli anni Trenta,
il non-luogo per eccellenza fu rappresentato e
incarnato dal Palazzo dei Soviet, che racchiuse
in sé l’intero ed esaustivo mondo sottomesso
alle leggi dell’effimero, del passaggio e del
provvisorio, spazio dedito e concentrato a
svolgere il proprio ruolo di significante e di
funzione popolare, riposti nella realtà di
un’immagine percepita come reale, fruibile e
già esistente, grazie alla contemporaneità della
sua presenza su carta. Come nell’idealizzazione
disneyana, anche la città di Mosca doveva
investirsi del sommo compito di proiettare al
proprio popolo, secondo una versione integrale
di artificio e laccatura dell’esistenza quotidiana,
ideologicamente intesa, quegli spazi e quegli
edifici che, essi soli, dovevano essere ricordati,
perché mantenevano e offrivano agli occhi
dello spettatore caratteristiche estranee e
familiari, passate e future, eliminando, invece,
realtà socio-urbanistiche scomode e refrattarie
all’integrazione protocollare del nuovo byt
staliniano. Il Palazzo dei Soviet avrebbe
dovuto, significativamente, creare quello spazio
culturale, non dominio della quotidianità, ma
la cui presenza avrebbe, indelebilmente, fatto
da rituale collante nei confronti della società,
dove il concetto di esibizione ed esposizione
perpetua, rimasto solo nelle intenzioni, avrebbe
favorito il riconoscimento, mediante la sapiente
tecnica di creare l’inesistente, di spacciare il
modello per il vero assoluto e farlo uscire da
quel bozzolo sufficientemente mitizzato ed
epicizzato, nel reiterato e incompiuto cammino
dei progetti e dei concorsi attuati per la futuribile
costruzione e concretamente propagandati, per
essere trasformato in reale nella storia. Tutto si
cristallizzò nell’idea. Ogni cosa accadeva come
in una favola, dove mito e finzione riuscivano,
tranquillamente, a coesistere, dove passato e
futuro fuoriuscivano dalla categoria del tempo,
per sprofondare in un presente che sarebbe,
nell’oggi, divenuto, hic et nunc, altrettanto epico
e ideale. La forza e la potenza del messaggio e
della creazione del mito del Palazzo dei Soviet
fu possibile grazie alla mediazione che stabilì
un legame degli individui con il loro ambiente
nello spazio del non-luogo, scelto accuratamente per la realizzazione fisica del progetto,
percorrendo quel nuovo mondo composto di
rassicuranti parole e rigeneranti testi. Parole e
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
testi, infatti, che aiutarono la collettività a
crearsi e a forgiare delle «immagini», la cui
evocazione bastava ad appagare gli spettatori che
né furono e mai sarebbero stati i beneficiari. Il
peso delle parole e delle immagini, le fasi del
concorso, gli innumerevoli progetti, disegni,
compitati a voce altisonante e contrassegnati, ogni
volta, da bordate di euforia e lunghi sognanti
respiri, possedevano, così, la stessa forza
evocativa, che inscenava, attraverso l’allegoria e
il simbolo, una realtà già confezionata, pronta e
realizzata, dove a contare era solamente il risultato
e non il procedimento attuato o attuabile. Forse il
non-luogo del Palazzo più grande al mondo,
almeno per l’epoca in cui si svolse l’intera
vicenda, non sarebbe esistito, se non attraverso le
parole e le immagini che ebbero la forza di
evocare. Naturalmente, veniva approntato e
perseguito qualcosa che si situava, anche
spazialmente, molto lontano dal reale, ma che
implicava una precisa “volontà di mondo”,
sorretta, coadiuvata e giustificata da un unico
modello interpretativo, nel quale, solo, potesse
essere percepita l’esperienza narrativa delle idee
e non dei fatti, fondando l’illusione di vivere in
uno spazio autosufficiente, autonomo, in cui la
realtà della fantasia veniva ingegnosamente
dissimulata: esattamente come a Disneyland.
Stalin “ebbe a cuore” il progetto di
trasformare il Paese, dunque, in un enorme
parco a tema, dove l’eleganza delle forme
risuonasse vulnerabile alle eterne sinfonie della
felicità e dell’abbondanza. Il processo di
scambio e di rovesciamento tra l’universo così
raffigurato e quello effettivo fluiva, anche a
Stalinland, quasi spontaneo. Nel mondo
staliniano del non-luogo l’esistenza era una
categoria che poteva non essere verificata,
mancava, appunto, l’interpretazione. Ma il
momento e lo spazio della realtà fittizia e non
riscontrabile stava comunque per l’esistenza e
per il senso. Un mondo e un non-luogo nato
per essere spettacolo, per incarnare sé stesso e
convincere ognuno del proprio esistere e
apparire e della conseguente liceità, luogo di
esposizione e modello per la terra intera.
Arte e ideologia: il sodalizio degli anni
Trenta
Fin dall’inizio degli anni Trenta la società
sovietica fu, come abbiamo già avuto modo di
evidenziare, percorsa, indubbiamente, da
processi complessi e profondamente ambigui e
particolari, che trovarono ambito di discussione
e teorizzazione all’interno delle discipline
dell’arte e dell’architettura. Il ruolo principale,
giocato dalle nuove idee in corso, partenogenesi
del realismo socialista, consistette, formalmente
e in generale, nel rispondere alle esigenze
materiali e spirituali dell’uomo e della società.
Ma, nelle peculiari condizioni dello stato
totalitario, che, all’epoca stava rapidamente
rafforzandosi, sotto la guida di Stalin, l’uomo
stava divenendo una parte sempre più piccola
dell’ingranaggio di un enorme apparato
burocratico. Le istanze ideologiche penetrarono,
sempre più a fondo, in ogni settore della vita
quotidiana, compresa la sfera architettonica e
artistica. Nuove esigenze, dunque, imposero la
ricerca di rinnovati indirizzi e mezzi espressivi
nei diversi campi del sapere, affinché questi
potessero essere «nazionali nella forma e di
matrice socialista nel contenuto». Questo
significò la nascita della cosiddetta «arte
proletaria» e indagine di un nuovo orientamento
che inaugurasse, de facto, un processo di
marcata e definitiva «socializzazione dell’arte».
Parlare della nuova arte russa equivaleva, ora
e necessariamente, parlare della vita sovietica.
La rivoluzione, infatti, diede l’occasione
di portare l’arte direttamente nella vita di tutti
i giorni. Mutando le funzioni vitali, sociali e
pubbliche dell’arte rispetto al passato, essa
stessa garantì indipendenza materiale e
commerciale e, prima di ogni cosa, un vivo e
fervido contatto con il proletariato. Nuove idee
e nuovi impulsi furono propugnati, in primo
luogo, mediante l’abbandono, a tappe forzate,
dell’individualismo, a favore del roboante e
fragoroso concetto di collettività. Nel corso
degli anni Venti, il governo sovietico si applicò
per edificare e rendere plausibile, con materiali
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
La teoria generale del Realismo socialista postula un’arte
che dia rappresentazioni veritiere e storicamente concrete
della realtà, [...] che veda la realtà sociale nel suo
processo di sviluppo, la cui principale forza motrice è la
lotta delle contraddizioni di classe, e che veda la vita
dinamicamente e mostri i reciproci rapporti e le
connessioni tra le parti e il tutto. Tratto caratteristico del
realismo socialista deve essere la visione dialettica della
realtà: occorre vedere non soltanto la cosa, ma anche
tutto il suo processo, il quale avviene attraverso la lotta
di contraddizioni.45
accessibili, analizzati, controllabili e rigorosamente verificati, una «nuova formazione
sociale e di civiltà», nella quale l’arte e
l’architettura urbana, insieme, ebbero un posto
e una collocazione ben diversa da quella che
avevano avuto, fino ad ora, nella cultura sociale
del periodo passato, di cui ornavano la facciata
con agili e variopinti giochi decorativi.44 L’arte
russa desiderava esprimersi e concretizzarsi,
quindi, sull’anima e sulla volontà collettiva di
un popolo che andava così formandosi,
disegnando e tracciando la propria esistenza su
di una superficie immacolata e intatta: la
frontiera del nuovo mondo socialista.
Sdoganati, quindi, gli anni Venti e i
fervori rivoluzionari, valicata simbolicamente
questa frontiera e questo nuovo confine, la
prima vittima illustre del nuovo corso adottato
dell’estetica staliniana fu l’avanguardia che,
sbocciata nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, mantenne
i propri connotati ed ebbe potere di proliferare
e, in un certo qual modo, di resistere fino alla
fine del decennio rivoluzionario, senza riuscire,
però, a oltrepassare linee di cesura e di
demarcazione tracciate nel campo artistico e
architettonico dal fronte del “nuovo mondo” e
dall’irrevocabile affermazione, egemonicamente ispirata da Stalin, del Realismo
socialista. Con l’avvento del Realismo, la
cultura dell’avanguardia nel suo complesso fu,
in pratica e senza mezzi termini, posta fuori
legge e progressivamente liquidata. Alcuni dei
maggiori esponenti di questo movimento
culturale e artistico furono costretti a emigrare,
altri scomparvero semplicemente dalla circolazione, altri ancora, furono indotti a proseguire
la propria esistenza in un clima di totale
isolamento, con la magra e precaria soddisfazione di poter, eventualmente, mostrare le
proprie opere solo agli amici più vicini e fidati.
La cultura ufficiale del periodo stalinista
deve essere considerata, prima di tutto, in
relazione alla sua logica immanente, al suo
mondo interno, in ordine a esigenze di
rappresentazione di una “cultura vera e reale”.
Lo sguardo del Realismo socialista aveva la
funzione e lo scopo, dunque, di penetrare, come
radiograficamente, nella profondità della realtà
e mostrare, di conseguenza, il rapporto della
singola cosa con i fenomeni sociali in tutta la
loro complessità dialettica, abbandonando e
lasciando da parte categorie estetiche che, delle
epoche passate, avevano reso, quasi cinematograficamente, la vita in maniera disordinata
e caotica, per cedere, invece, il passo a una vita
armoniosa, organizzata secondo un unico e
univoco progetto artistico, che fosse, e ciò
contava più di ogni altra cosa e di ogni ragione
possibile, soprattutto, esteticamente «bello» e,
in questo, conforme al volere del Partito. La
mimesi del Realismo era, fuori di ogni metafora,
mimesi della volontà staliniana, identificazione
intima dell’artista con Stalin, chiamato a
consegnare, nemmeno troppo idealmente, la
soggettività del proprio io artistico e l’oggettività
di una sentita partecipazione all’ideale in gioco,
in cambio dell’efficacia collettiva del progetto
comune. Il «tipico» del Realismo era, dunque,
il mondo del sogno staliniano reso visibile e
percettibile, anche se non sempre palpabile e
reale, il riflesso della sua immaginazione e di
quella di una nazione intera, così come era stata,
volutamente, progettata. L’esistenza quotidiana
spicciola acquisì un forte accento emozionale,
dove la realtà divenne, al pari di un’immagine
allo specchio, allo stesso tempo, fonte diretta
di poesia, dove l’atmosfera della vita si caricò,
come per magia, di lirismo, ossigenata dalle
continue e incessanti conquiste dell’utopia
staliniana. Veniva costruita, giorno per giorno,
una realtà immaginaria, dove l’alternanza e la
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
coesistenza nella commedia, quotidianamente
inscenata, di tempi verbali passati, presenti e
futuri, uniti alla sovrapposizione di elementi
visibili e invisibili, dal cuore fantasioso e
realistico, conferivano al testo artistico,
letterario e architettonico, insieme e colti pure
distintamente, una dimensione tra l’onirico e
il prosastico, preparando il terreno al particolare
sviluppo dell’intreccio teatrale. I testi artistici
dell’epoca tendevano a costruire, secondo la
forza ispiratrice dei canoni estetici staliniani,
un mondo possibile a cui il destinatario poteva
non immediatamente credere, ma con il quale
si doveva, comunque, identificare, di cui doveva
a tal punto subire la fascinazione da lasciarsi
coinvolgere fino ai limiti della persuasione, non
concedendo benché minimo spazio al dubbio e
alla, decisamente remota, possibilità di spiare
dietro il «sipario». Sopra ogni cosa presiedeva e
disciplinava, naturalmente, quell’inconfutabile
principio pedagogico, ampiamente interiorizzato
dalla popolazione che, basato e fondato
sull’importanza del progetto di collettività e di
collettivizzazione, in perfetta sintonia con le
linee governative del periodo, si faceva
promotore dell’organizzazione della gioia, come
stimolo per la felicità del domani.
Coltivando il desiderio di voler richiamare
anche in campo architettonico, oltre che in quello
più strettamente artistico-pittorico, la perseguita
e auspicata realizzazione del «bello» come
genere estetico dominante e qualificante del
rinnovato modus vivendi sovietico, l’idea di
rivolgersi all’eredità artistica classica diede una
notevole spinta per arricchire l’archivio
espressivo dell’architettura socialista degli anni
Trenta.
Proprio verso la metà di quegli anni, gli
architetti sovietici si dedicarono, anima e corpo,
allo studio dei procedimenti compositivi e delle
forme dell’antichità, del rinascimento e del
classicismo russo, applicandoli nelle proprie
realizzazioni, solitamente commissionate o su
richiesta diretta da parte del Partito, se non da
Stalin in persona. Le nuove forme, pronte a
essere concepite e situate in ogni parte dell’Unione
Sovietica, ma con particolare attenzione alla città
di Mosca, che si stava preparando a vivere una
trasformazione radicale secondo i dettami del
Piano generale di ricostruzione del 1935,
iniziarono a caratterizzarsi per la purezza classica,
quasi a personificare e materializzare il sogno
sociale di un futuro felice, a partire dalla
introduzione di elementi architettonici tratti,
principalmente, dalle tradizioni nazionali e
regionali, creando, così, un ambiente artistico
sufficientemente organico, che si distinse, senza
dubbio, per le proprie particolarità stilistiche.
Si definì, in questo modo, il particolare gusto
artistico-architettonico “dell'epoca staliniana”,
in altre parole, scuola e tangibile tendenza degli
anni Trenta-Quaranta, che presentava tratti di
forte originalità, ma che aveva anche molti
requisiti in comune con la coeva architettura
tedesca, italiana e francese. Difatti. precisamente
il classicismo, più di qualunque altro stile,
affermava la priorità dello stato, del dovere civile
e dell’educazione, contribuendo a rendere
gloriosa la vita di tutti i giorni.
Anatolij Vasil'evic Lunacarskij, amico
personale di Lenin e ministro sovietico della
cultura per un arco di tempo della durata di
dodici anni, a cavallo degli anni Venti, fece
esplicita dichiarazione, in uno dei suoi
interventi al Partito, di come fosse e di come
sarebbe stato importante, al fine di costituire
un modello di arte e di architettura conforme
alle idee del nuovo mondo nascente, ispirarsi
all’architettura dell’antica Grecia, espressione
suprema delle libertà e delle realizzazioni di
quel popolo, punto culminante, nell’arte,
dell’umanità intera.
Dal profondo dell’anima umana cresce di giorno in
giorno più forte un desiderio di chiarezza, armonia e
semplicità; anche il classico moderno mira a una forma
rigidamente condizionata, esattamente equilibrata nelle
sue parti componenti. Di nuovo noi respiriamo l’aria
della tradizione classica [...] Così facendo scimmiottiamo
l’antichità? Sì e no! Tocchiamo le stesse corde, ma
cantiamo altri canti [...] Sulla soglia della nostra epoca
sta di nuovo un’arte classica che chiama nella sua sfera
armoniosa tutti gli uomini di buona volontà.46
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
I teorici sovietici assegnarono ai modelli
classici dell’antichità, del Rinascimento, in
particolare di quello italiano, e dell’impero la
massima importanza, perché, fra tutti gli stili,
il classicismo si era affermato maggiormente
su scala internazionale avendo, tra l’altro,
attraversato sempre quasi “incolume” i diversi
mutamenti e rovesciamenti della Storia; perché
l’antichità aveva creato, nel proprio modo
d’essere e di pensare, forme architettoniche di
massa, monumentali, maestose e fortemente
simboliche, come dimostra l’esistenza, ancora
oggi imperitura, di strutture architettoniche
quali il colosseo, l’anfiteatro e lo stadio.
Apprendere e attingere dal mondo antico, non
equivalse, comunque, a copiare: il Realismo
socialista, in arte come in architettura, non
doveva decisamente significare, ad esempio,
una semplice e facile riproduzione per partenogenesi delle colonne del Partenone o la
ripetizione, illimitata e di carattere seriale, di
imitazioni dei monumenti rinascimentali
italiani e dello stile impero russo. Scopo del
Partito era invece, da una parte, non rinunciare
ai preziosi strumenti, consegnati alla Storia,
dell’arte classica, tradizionalmente intesa, ma,
dall’altra, fare in modo che potessero essere
applicati per la costruzione del nuovo mondo,
attribuendo loro una funzione diversa e, così,
sfruttarli utilitaristicamente, al servizio
dell’ideologia staliniana.
In tal modo, l’arte del Realismo socialista
acquistava il diritto di utilizzare come modello
qualsiasi arte del passato, con cui, in base a
quanto descritto, si sentiva di condividere
«l’ottimismo storico», «l’amore per il popolo»,
«la gioia di vivere», «l’autentico umanesimo»
e altre qualità positive, caratteristiche universali
di qualsiasi arte che intendesse esprimere, gli
interessi delle classi oppresse. In queste
categorizzazioni, per lo più somiglianti e
comparabili a slogan propagandistici, era
racchiusa la forza vitale dell’arte autenticamente
grande: questo era il motivo per cui essa
continuava a vivere anche quando le epoche che
l’avevano generata erano scomparse da tempo.
L’arte realistica classica conservava pure il
proprio significato ideologico ed estetico anche
grazie al suo legame con il popolo.
Conseguentemente, il Realismo socialista
formulava apertamente il principio e la strategia
della propria mimesi, difendendo, da un lato, una
resa severamente obiettiva e fedele della realtà
esterna, ma, dall’altro lato, inscenando e, allo
stesso tempo, preparando e scrivendo la regia di
questa stessa realtà, mediante il trasferimento
di un atto creativo e quasi demiurgico, nella
realtà immediata e approntata a recepire quanto
veniva contestualmente prodotto. Il carattere
mimetico della pittura e dell’architettura
socialista divenne, allora, illusione, o meglio
ulteriore e meta - messaggio, motivato ideologicamente, accanto ad altre giustificazioni
consimili, di cui, in sostanza, “il quadro
generale” proposto e offerto al mondo sovietico,
era costituito da un testo geroglifico e da un
insieme di parole, da leggere più come un’icona,
che non come effettivo “rispecchiamento” di una
qualsiasi e veritiera realtà. L’illusione visiva
tridimensionale del quadro del Realismo
socialista si scompose, così, in segni discreti dal
contenuto “soprasensibile” e “astratto”.
Un’analisi dell’opera e dell’operazione
dell’arte socialista nel suo complesso avrebbe
richiesto, dunque, uno spettatore che avesse
potuto conoscerne i codici e i linguaggi
corrispondenti e che fosse stato in grado di
valutare la realtà circostante, quindi, in base al
risultato di questa lettura e non per la sua qualità
visiva immediata. Ma, essendo venuto a
mancare uno schema interpretativo di fondo,
come abbiamo precedentemente ricordato, che
garantisse la facoltà di scorgere questa libertà,
da parte della gente comune, di guardare dietro
le quinte e che non fosse unico ma al contrario
polivalente, il Realismo socialista rese possibile
l’espressione del proprio dominio ideologico,
artistico e architettonico, attraverso scenografie
urbane idilliache, fuori del tempo, città da fiaba,
su cui giardini e nuovi edifici regnavano
monumenti architettonici ispirati alle epoche
passate.
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
Estrinsecazione e segno manifesto di questi
anni Trenta, parto dell’utopia e dell’arte
staliniana furono, sopra ogni cosa, come
abbiamo visto, i progetti e i caratteri icono-
grafici, di natura quasi mistica e agiografica,
che sublimarono e sostennero l’intera vicenda
della «mitica» edificazione del Palazzo dei
Soviet a Mosca.
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
Perret. Gli architetti sovietici di maggior
rilevanza e considerazione furono Jofan,
Zholtovskij e Ginzburg.
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Internamente il Palazzo dei Soviet, secondo le
indicazioni del Consiglio incaricato per la
costruzione, doveva contenere una grande sala
capace di quindicimila posti a sedere, sistemati
attorno a un vasto spazio libero, palcoscenico
o arena, dove si potessero mostrare i nuovi
metodi del lavoro collettivo e le più recenti
invenzioni e scoperte sovietiche. Uno speciale
settore della sala avrebbe avuto il compito di
ospitare circa trecento personalità, commissari
governativi, membri del consiglio, rappresentanti della stampa estera e del corpo
diplomatico, situati in modo da essere in diretto
contatto con l'oratore. L’edificio doveva poi
accogliere un'altra sala, più piccola, da
seimilacinquecento posti a sedere, destinata ai
congressi, assemblee, discussioni amministrative e tecniche. Tale spazio doveva
comprendere, nel progetto, anche una galleria
con duemila posti, con propria indipendente
entrata e uscita. Previsti furono, inoltre, alcuni
restaurant e guardaroba per uso dei delegati e
del pubblico, oltre a due piccole salette
indipendenti da cinquecento posti ciascuna.
Una sala per le esposizioni, una biblioteca e
altri ambienti secondari facevano da corollario
a quest’immenso e maestoso fabbricato. Cfr.
A. Samonà, Il Palazzo dei Soviet 1931-1933.
Officina, Roma 1976, pp. 84-85.
32
Il momento più rilevante nel progetto di B.M.
Jofan consisteva, in questa sua prima variante
del Palazzo dei Soviet (altre infatti seguiranno
nei successivi concorsi e saranno scelte come
versioni definitive per la costruzione finale),
premiata al concorso indetto nel 1931, nella
torre, alla cui sommità si ergeva la scultura
dell’operaio con un faro teso a illuminare la
notte della storia e celebrante, seppure
semplicisticamente, il socialismo come punto
di arrivo dell'umanità. Questo progetto
mostrò il suo lato più interessante nel
tentativo di mediare un certo spirito classico
d'impianto con una espressione archi-
Note
28
A. De Magistris, URSS anni '30-'50. Paesaggi
dell’utopia staliniana, Mazzotta, Milano
1997, p. 79.
29
Il tempio di Cristo Salvatore fu eretto tra il
1839 e il 1883 dall'architetto K. Ton nel centro
della città, sulle rive della Moscova, in
memoria della vittoria del popolo russo
contro la Francia di Napoleone nella guerra
del 1812-1814. Voluta dallo zar Alessandro I
come tributo di riconoscenza della protezione
ricevuta dalla divina provvidenza, che aveva
aiutato la Russia a liberarsi del pericoloso
nemico, la cattedrale, insieme agli edifici che
stanziavano sullo spazio adiacente, furono
fatti saltare con il tritolo il 5 dicembre 1931,
per far posto alla maestosa edificazione del
Palazzo dei Soviet. Il luogo fu scelto, in
maniera simbolicamente irrevocabile, da
Stalin in persona, che vide in quell’area la
giusta rispondenza alle esigenze della
grandiosità del proprio potere, in diretta
confluenza ideologica con la visione del
Cremlino, poco distante. I marmi recuperati
dallo smantellamento della Cattedrale
sarebbero stati utilizzati per la costruzione
della stazione della metropolitana, che avrebbe
portato l’utopistico nome di Dvorec Sovetov
(Palazzo dei Soviet) - Kropotkinskaja.
Terminata l'epopea del fantomatico palazzo,
solamente a metà degli anni Novanta, il
Tempio di Cristo Salvatore venne ricostruito
e i lavori, conclusisi nel Duemila, hanno
riportato all’antico splendore la cattedrale, oggi
copia conforme del primigenio edificio, anche
se slittato di una cinquantina di metri rispetto
alla posizione originale.
30
Gli architetti stranieri invitati a partecipare a
questa fase del concorso per l’edificazione
del Palazzo dei Soviet furono nove, così
ripartiti: Mendelsohn, Pölzig e Gropius,
provenienti dalla Germania; gli statunitensi
Lamb Urban, Storonov e Hamilton; l’italiano Brasini e i francesi Le Corbusier e
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tettonica, ancora per certe parti, all’interno
dei canoni dell’architettura moderna e
dell’esperienza sovietica degli anni Venti.
Cfr. A. Samonà, op. cit., p. 44.
33
Nel proprio progetto L.V. Zholtovskij cercò
di conciliare elementi inerenti al classicismo
con i motivi del castello feudale. Questo
tentativo si concretizzò in una sorta di
recinto porticato delimitante l'intera area, al
centro della quale, compresa in una specie
di colosseo, era disposta la sala maggiore.
Verso il Cremlino un’altissima torre, che
richiamava, appunto, per associazione, le
forme del Cremlino stesso, includeva e
individuava il complesso architettonico. Cfr.
A. Samonà, op. cit., p. 40.
34
G. Hamilton, nella ricerca di un equilibrio
sia sul piano dell'organizzazione d'impianto,
sia su quello dell'espressione, si preoccupò,
principalmente, di raggiungere un effetto
monumentale orizzontale, elaborando
canoni principalmente accademici, che,
però, poco tennero conto del rapporto del
progetto con la città e con la designata
ubicazione del Palazzo dei Soviet. Cfr. A.
Samonà, op. cit., p. 66.
35
A. Samonà, op. cit., p. 59.
36
Boris Michailovic Jofan nacque nel 1891 in
Ucraina. Compì i suoi studi presso la scuola
d'arte di Odessa e, recatosi in Italia, si laureò,
nel 1916, in architettura al Regio Istituto di
Belle Arti a Roma. Innamoratosi del
monumentalismo accademico italiano,
rimase in Italia fino al 1924, anno in cui fece
ritorno in Unione Sovietica, mettendo a frutto
tutte le conoscenze acquisite e divenendo ben
presto uno dei massimi esponenti della
architettura del periodo stalinista e di quella
moscovita in particolare. Morì a Mosca nel
1976.
37
All’interno del Palazzo, la sala grande da
ventimila posti a sedere, si ergeva come un
grandioso anfiteatro sul pianterreno,
accompagnata, lateralmente, da una sala di
dimensioni più ridotte, capace di seimila
posti a sedere. A salire, dovevano prendere
posto tutta una serie di ambienti, destinati alle
più disparate funzioni pubbliche e locali adibiti
a musei, già presenti nella formulazione della
prima versione del progetto presentato da
Jofan. Sulla piazza antistante, la «più grande
d’Europa», dalle mastodontiche dimensioni di
centodiecimila metri quadrati, si pensava di
collocare monumenti dedicati ai padri del
socialismo e del comunismo e, davanti alle
parti in aggetto dell’ingresso principale, i
monumenti a Marx ed Engels. Sui sei piloni,
rivestiti di porfido rosso dell’accesso
principale al Palazzo, dovevano essere incisi
alcuni passi del discorso di Stalin al II
Congresso pansovietico, in cui aveva
esposto gli insegnamenti di Lenin. Al
Palazzo si accedeva da un viale largo circa
duecentocinquanta metri che attraversava il
cuore di Mosca e ne sventrava, senza pietà,
le piazze centrali. Cfr. G. Gorzka, Kultur im
Stalinismus. Sowjetische Kultur und Kunst
der 1930er bis 1950er Jahre, Temmen,
Bremen 1994, pp. 153ss.
38
Cfr. A. Ikonnikov, Gli “edifici alti” di Mosca,
in A. De Magistris, URSS anni '30-'50.
Paesaggi dell’utopia staliniana, Mazzotta,
Milano 1997, pp. 257ss.
39
M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi,
Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 18.
40
G.P. Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie
culturali sovietiche, Einaudi, Torino 2001,
p. 94.
41
«Il non-luogo è il contrario del luogo, uno
spazio in cui colui che lo attraversa non può
leggere nulla né della sua identità (del suo
rapporto con se stesso ), né dei suoi rapporti
con gli altri o, più in generale, dei rapporti
tra gli uni e gli altri, né a fortiori della loro
storia comune.» (M. Augé, op. cit., pag. 75.
42
M. Augé, op. cit., p. 24.
43
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della
percezione, a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore,
Milano 1972, p. 194.
44
L’arte di facciata, a cui si allude, veniva
incarnata dal cosiddetto «decorativismo
borghese». L’arte borghese, infatti, era
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Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet
stimata decorativa anche là dove cessava di
ornare i prodotti per lasciar loro la forma
pura e standardizzata della funzione. Veniva
considerata, in fin dei conti, ornamento,
decorazione della realtà, surrogato di qualità
esistenziali e delle gioie della vita, ma non
parte costruttiva e costitutiva di essa, del suo
movimento e attività. Cfr. K. Teige, Arte e
ideologia: 1922-1933, a cura di S. Corduas,
trad. it. S. Corduas, A D'Amelia e B. Zane,
Einaudi, Torino 1982, p. 61.
45
K. Teige, Surrealismo, Realismo socialista,
Irrealismo: 1934-1951, a cura di S. Corduas,
A. D'Amelia e B. Zane, Einaudi, Torino
1982, p. 9.
46
Citato in V. De Feo, URSS architettura 19171936, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 72.
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