II. Il Palazzo dei Soviet
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II. Il Palazzo dei Soviet
www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet culturale e politica del proletario e della sua guida. In base a quanto descritto, appariva subito chiaro che specchio di tali idee e formulazioni dovevano essere anche i nuovi edifici, innalzati ovunque e in particolare nella capitale del primo Stato sovietico: Mosca. La fisionomia dell’edilizia statale doveva imprimere, nel proprio codice genetico, il marchio della potenza e della maestosità del popolo che l’avrebbe resa possibile e conforme a ciò doveva essere la loro scala e grandezza, senza tralasciare il fatto che l’architettura di questi edifici, pronta a sancire il sodalizio totale e completo del socialismo con la propria nazione e con la propria gente, doveva riflettere, nelle forme e proporzioni le aspirazioni del popolo a una vita felice e armoniosa. Questi furono i parametri, le motivazioni e le disposizioni che soggiacevano ai progetti per la realizzazione dell’avveniristico Palazzo dei Soviet a Mosca, perché era, appunto, la capitale a essere stata scelta per divenire il «faro luminoso», il volto dell’Unione Sovietica visibile e mostrabile a tutti, il modello esemplare di quella che presto sarebbe stata la vita di ciascuno. Nella lotta per la raffigurazione della «autentica arte proletaria», si generò un fenomenale rifiuto della nuova architettura in favore della valorizzazione dell’eredità classica, che creò, come risultato, una tendenza architettonica “degli anni Trenta”, unica nel contesto internazionale, in quanto fusione di architettura moderna e classica. L’obiettivo da perseguire consisteva nell’uscire dagli schemi abituali della solennità protocollare, dalla immagine stereotipata, per trasmettere la globalità degli intenti progettuali, mediante la diretta e “venerabile” aspirazione alla massima altezza e verticalità della costruzione, dotando l’intera macchina dell’architettura socialista di forme e mobilità proprie, riassunte in quel “ritmo cinetico” che avvolse, in ogni istante e momento, l’intera operazione progettuale e realizzativa. 2. Il Palazzo dei Soviet Nascita di un progetto: genesi storica del Palazzo dei Soviet Il concorso per il Dvorec Sovetov, il Palazzo dei Soviet, a Mosca si collocò come uno dei momenti più rilevanti e decisivi nella storia dell’architettura del XX secolo. Senza dubbio fu uno dei concorsi maggiormente significativi e che, in maniera del tutto completa e manifesta, ha meglio incarnato gli ideali politici, sociali ed estetici della propria epoca. Non solo l’intera progettazione, avvenuta in successive fasi di elaborazione, attraversò lo sviluppo della architettura sovietica per quasi tre decenni, ma diede anche vita, nella stragrande maggioranza della popolazione dell’immenso Paese, alla immagine visibile della nuova, tanto attesa e luminosa era che si andava prefigurando. Con il concorso, che scandì il tramonto dell’avanguardismo, sia in URSS che nei Paesi dell’Occidente e che consacrò il definitivo connubio tra architettura e politica, si risolse la drammatica contraddizione tra l’architettura d’avanguardia e lo storicismo, il tradizionalismo che aveva caratterizzato gli anni Venti.28 In relazione ai canoni estetici del nuovo mondo socialista, l’architettura divenne espressione del mondo che esso stesso aveva creato, destinata, nelle sue concretizzazioni più alte e degne a rimanere un monumento straordinariamente saldo dell’epoca e del momento che desiderava, con tutte le proprie energie, rappresentare, testimone, davanti ai posteri, dei voli del pensiero e dei sentimenti dell’attuale società. L’arte viene concepita come sublime esperienza della vita di massa, somma di tutti i provvedimenti che l’organizzazione ideologica alla base della realizzazione di un fabbricato edilizio o della più ampia pianificazione urbana richiedeva, affinché potesse risultare immediatamente evidente al proletariato. Ciò che ora l’ideologia aveva il compito di rappresentare era, quindi, l’identità 24 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet Come ricordato, la vicenda del Palazzo dei Soviet nella città di Mosca si articolò e prese corpo nell’arco di ben tre decenni ed esattamente tra il 1922 e la fine degli anni Cinquanta, anni che segnarono, dopo l’avvento al potere di Nikita Kruschëv e la conseguente eclissi della parabola staliniana, l’irrevocabile tramonto di ogni velleità realizzativa del Palazzo dei Soviet e di ogni aspirazione al “verticalismo”, simbolicamente inteso. Ufficialmente, la prima tappa preparatoria del concorso, nata dalle ceneri della programmazione progettuale di un monumento architettonico, che fosse eretto a «simbolo del futuro trionfo del comunismo», per celebrare la formazione del Paese, acquisì i propri natali nell’ottobre del 1922, allorché il presidente del Soviet di Mosca, Lev Borisovic Kamen'ev, sollevò la tematica della costruzione, a Mosca, di un Palazzo del Lavoro. L’edificio in questione era stato pensato come un centro polifunzionale, nel quale avrebbero trovato posto non solo locali utili per il lavoro del Soviet moscovita e uffici per riunioni, ma anche un albergo, biblioteche, sale da concerti e musei. Fu così che nel 1922 l’Associazione di architettura di Mosca, della quale era presidente Aleksej Viktorovic Schusev, bandì un concorso, le cui clausole sottolineavano che il futuro Palazzo del Lavoro doveva possedere, sì, un aspetto ricco, ma espresso e confezionato con forme semplici e contemporanee, fuori dallo stile specifico di qualche epoca passata, sviluppando e portando avanti, però, l’idea che la costruzione principale della capitale sovietica fosse concepita mediante la forma di un “edificio alto”, un grattacielo ultramoderno. Tra i progetti che furono presentati prevalsero quelli che estrinsecavano in modo più puntuale le idee della nuova classe dirigente vittoriosa, ossia il proletariato; classe potente e austera, semplice e ascetica come l'epoca stessa aveva chiarito e forgiato. Quanto descritto e auspicato ebbe, però, unicamente, la funzione di creare quel retroterra politico, culturale e sociale che diede, soprattutto in termini propagandistici, impulso allo sviluppo della “profetica” era socialista, in quanto il concorso per il Palazzo del Lavoro non sortì mai alla realizzazione dell’opera stessa. Infatti, va comunque ricordato che negli anni Venti, l’economia del Paese soffriva ancora dei disastrosi effetti del comunismo di guerra e per giunta, come abbiamo documentato, le esigenze della vita civile richiedevano, quale fattore prioritario, la creazione di luoghi di abitazione e non di «rappresentazioni architettoniche eterne e imperiture». Tuttavia, l’entusiasmo generale nel Paese non andò scemando, ma, al contrario, si accrebbe e nel giro di un decennio tutto apparve nuovamente realizzabile e l’agognato «paradiso socialista» non sembrò più così tanto lontano. All’inizio degli anni Trenta. lo Stato sovietico era pronto per promuovere l’organizzazione di uno spazio unico e rinnovato, non solo nei contenuti, ma anche nelle forme, da plasmare con nuove creazioni architettoniche e “la” costruzione per eccellenza, “il” Progetto per antonomasia, assunse cuore e ragione nel Palazzo dei Soviet. Nei primi mesi del 1931 il governo dell’URSS bandì un concorso pansovietico aperto per la stesura della progettazione del Palazzo dei Soviet, che avrebbe dovuto riprendere e rinnovare l’idea del Palazzo del Lavoro, pur con l’apporto di alcune modifiche, che nel corso del tempo si rivelarono sostanziali e sostanziose. Per la gestione di tutti i progetti, degli elaborati previsti e successivamente dei lavori di edificazione, nell’aprile 1931 fu creato, presso il governo, il Consiglio di costruzione del Palazzo dei Soviet. La prima fase del concorso ebbe un carattere preliminare, il cui scopo mirava alla definizione del compito e delle condizioni per la futura realizzazione e coinvolse rappresentanti di tendenze architettoniche diverse. Non essendo stato però attribuito, a monte e con chiarezza, un compito preciso a questa prima fase, riguardo agli obiettivi che dovevano emergere e che si sarebbero dovuti raggiungere, i risultati conseguiti furono più che altro stimati 25 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet a livello di sceneggiature letterarie, accompagnate da grafici, schizzi e slogan, addobbati nel tentativo di voler unire l’aspetto evocativo dell’edificio con i nuovi rituali delle azioni di massa e delle manifestazioni. L’unico aspetto nei confronti del quale si pervenne a un risultato, in base a quanto era stato presentato, riguardò, nell’alveo del corpus cittadino, la destinazione e l’ubicazione topografica del Palazzo. L’area che venne designata, su proposta degli architetti raccolti attorno all’associazione ASNOVA, ratificata e avvallata poi dallo stesso Stalin, fu indicata nella superficie su cui si estendeva e si ergeva la cattedrale del Cristo Salvatore.29 Indicativo fu il fatto che l’evento della distruzione del tempio, decretato da Stalin nel 1931, diede piena e completa testimonianza della lettura del peculiare rapporto temporale presente-futuro e del processo di mitizzazione che veniva inscenato, dove il Palazzo dei Soviet, chiamato alla sostituzione di un simbolo oramai “fuori moda”, veniva trattato come già esistente, nonostante lo fosse solo sui fogli di carta. Il 18 giugno 1931 il Consiglio di costruzione si fece promotore di un nuovo concorso pansovietico aperto, che vincolava il luogo di fondazione all’area su cui sorgeva il tempio di Cristo Salvatore, contemplandone, appunto, la demolizione e l’allargamento della piazza antistante. Infatti, il concorso riguardava non solo la progettazione del palazzo, ma anche la più ampia soluzione urbanistica di tutta la zona circostante, nella quale il problema del movimento e del passaggio verso l’adiacente area del Cremlino risultava assai complicato dalla necessità programmatica del rapido flusso di accesso e della contemporanea uscita delle venticinquemila persone di cui l’edificio doveva essere capace. Per la prima volta, il concorso ebbe carattere internazionale e coinvolse una minoranza di professionisti del settore, provenienti da diversi Paesi occidentali, quali Francia, Germania, Italia e Stati Uniti d’America.30 In base alle precisazioni e le specificazioni dettate dalla commissione, lo stesso palazzo avrebbe dovuto contenere, nella formulazione delle differenti proposte, ampi auditori, locali ausiliari ed essere dotato di tutti i comfort necessari, tecnicamente all’avanguardia, al fine di poter garantire la perfetta riuscita di ogni genere di manifestazioni e un possibile allestimento scenico di spettacoli in occasione di parate e festività di massa.31 Il palazzo veniva prefigurato come un immenso forum, le cui sale per le riunioni dovevano essere adattate a una partecipazione non solo passiva e contemplativa da parte dei convenuti, ma che si mostrasse anche attiva e interessata, coltivando insieme, così, quelle forme di vita sociale che meglio rappresentavano lo sviluppo della coscienza collettiva nata dall’ideologia comunista. Al concorso pervennero duecentosettantadue tra progetti e singole proposte. I progetti furono centosessanta, di cui centotrentasei eseguiti da architetti sovietici e ventiquattro inviati dall’estero. I lavori, splendidamente rappresentati ed elaborati con maestria, mostrarono un’ampia gamma di costruzioni architettoniche puramente e quasi esclusivamente costruttiviste da un lato, che, però, dall’altro, si richiamavano a figure stilistiche ostentatamente e volutamente monumentali, eppure, nonostante ciò, stupefacenti per leggerezza ed eleganza. Il Consiglio per la costruzione del Palazzo dei Soviet riconobbe come progetti migliori quelli presentati su ordinazione dagli architetti sovietici Boris Michailovic Jofan32 (Tav. 2) e Ivan Vladislavovic Zholtovskij33 a cui furono conferiti rispettivamente il primo e il terzo premio, e il progetto, pervenuto dopo la chiusura del concorso, dell’architetto americano George Hamilton,34 insignito del secondo premio classificato. I progetti complessivamente leggibili attraverso il prisma della metodologia costruttivista furono, quindi, premiati ma non fu dichiarato ufficialmente alcun vincitore sopra gli altri e si ammise, invece, che un comitato di architetti sarebbe stato nominato per redigere un elaborato definitivo sulla base dei progetti vincitori dei premi. 26 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet porzione nuova della città, un “cuore” urbano, assai articolato, tutto racchiuso in una straordinaria unità figurativa che si sarebbe trasformato, di fatto, in una parte della storia urbana; frammento di città e luogo entro cui vivere come se il tempo vi avesse sovrapposto, man mano, una particolare atmosfera vissuta e partecipata. Da questo punto di vista, il progetto di Le Corbusier pose un fondamento basilare di concreto metodo disciplinare e fornì una precisa indicazione relativamente alle questioni del rapporto tra analisi urbana e progetto, sottolineando come tutto il complesso archi-tettonico del Palazzo dei Soviet e ogni suo segmento, spazialmente considerato, si sarebbe inserito in modo assolutamente naturale dentro Mosca, con la viva consapevolezza di aver mantenuto, nel proprio elaborato, una con-tinuità di ricerca con il passato. Le Corbusier affrontò e accettò l’evoluzione degli eventi del concorso con una tale maturità professionale da superare di fatto i limiti dell’occasione e del tempo, obiettivamente conscio e comunque omaggiato dell’indiscutibile qualità architettonica da lui espressa. Nella delibera del Consiglio di costruzione del 28 febbraio 1932, Sull’organizzazione dei lavori per la stesura definitiva del progetto del Palazzo dei Soviet dell’URSS, si osservò che, come già ricordato in precedenza, nemmeno uno dei tanti progetti presentati, compresi quelli che erano stati premiati, potesse considerarsi definitivo e, pertanto, furono nuovamente formulati e aggiornati i requisiti per i lavori della fase successiva del concorso. Tra gli elementi salienti spiccava quello di voler concepire il Palazzo dei Soviet come un unico complesso monolitico e come un’audace ed elevata composizione coronata da un qualche elemento architettonico, non precisamente specificato. Si desiderava racchiudere il Palazzo - simbolo di un’intera epoca - in un unico volume, visto come compagine spaziale integra, facendo ritorno con la mente, in qualche modo, all’ardita struttura alta con cui Prima di trattare lo svolgimento della seconda tappa del concorso per il Palazzo dei Soviet, tenutasi nel 1933, una breve parentesi, sulla quale vale la pena di soffermarsi, va destinata e concessa al progetto di Le Corbusier (Tav, 1). La sua opera non venne scelta dalla giuria, né tanto meno premiata, ma fu riconosciuta dagli esaminatori del concorso come un «capolavoro del funzionalismo» e, per via di scelte tecniche innovative e caratteristiche del tutto peculiari al contesto per cui si svolgeva la selezione, fu poi considerata la più alta espressione del Costruttivismo. Di fronte al tema proposto, Le Corbusier si propose un programma molto rigoroso, secondo il principio che: «l’architettura è nel mettere in ordine, nel raggiungere e nel rilegare e organizzare secondo una intenzione elevata, e nel dare alle opere della tecnica l’unità e la grazia che dovunque la natura ha manifestato nelle sue creazioni».35 All’interno di questa scelta di principio, la tematica della rappresentatività monumentale ben si legava alla situazione del giovane stato sovietico, alla particolare espressività eroica del suo momento di sviluppo e, al tempo stesso, ottimamente si collegava all’idea della città esistente e del suo volto da rinnovare. Queste intenzioni e problematiche venivano rifinite e incastonate, progettualmente, nel rapporto con l’area del Cremlino, ma non per contrapposizione di un momento architettonico a un altro, non per mimesi o analogia stilistica, bensì come continuità di espressione architettonica che riconsiderava, in maniera differente, non solo i rapporti immediati e di semplice fruibilità dell’intera zona circostante, del sito, ma trascendeva la particolarità del soggetto alla ricerca di motivazioni di perpetuità innovata e innovante, in costante colloquio con la più vasta realtà dell’immagine della città, attraverso un mondo simbolico carico di contenuti, che verificasse e rendesse ragione dell’effettivo completamento e riempimento spirituale del luogo, in relazione della presenza “storica” del Cremlino. Si andava specificando, così, una 27 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet dell’accentuazione monumentale e oggettuale aveva il compito di attribuire alla città un’immagine pregnante ed esemplare, che incarnasse, da sola e bastante , il “socialismo conquistato”. A partire da questo momento, il mondo dell’arte non sarà più creazione, ma fenomeno dichiaratamente obbediente e al potere asservito, e lo stesso Costruttivismo venne rimosso dalla vita quotidiana della società sovietica. Fece, quindi, il proprio pomposo ingresso, senza remore e senza scrupoli, uno stile che si assunse, in toto, il compito di fissare i dogmi ideologici e le illusioni sociali del proletariato, dando vita a un’architettura che fruiva degli indistruttibili canoni classici e la cui stabilità consentiva di esprimere la solidità della nuova epoca. Nel 1934, nella variante definitiva approvata dal Consiglio, l’edificio proposto da Jofan e dai suoi collaboratori riprendeva i criteri del precedente, con un sensibile aumento, però, delle altezze dei gradoni per accentuare la verticalità dell’intero complesso e in modo da permettere, così, un rapporto più coerente con la figura di Lenin elevata fino all’altezza di ottanta metri, mentre, nel progetto ultimativo del 1939, la statua fu innalzata fino a cento metri, rendendosi visibile solo in giorni di particolare nitore atmosferico e in assenza di nubi. Bisogna pure ricordare che, nella versione del progetto definitivo del Palazzo dei Soviet, l’altezza complessiva dell’edificio con la scultura avrebbe misurato ben quattrocentoquindici metri, superando anche, nell’eterna competizione con gli Stati Uniti d’America, l’Empire State Building di New York, eretto nel 1931, fermo a trecentottantuno metri. Il futuro profilo architettonico della città di Mosca si disegnava regolandosi, quindi, sulla verticale gigantesca e infinita del nuovo palazzo. Contemporaneamente, fu elaborata, con cura, anche l’idea dell’allestimento artistico degli ambienti interni e dell’esterno dell’edificio,37 che avrebbe dovuto raccontare in modo comprensibile “la grandezza dell'era staliniana”, soprattutto negli anni Venti si era evocata l’immagine di questo edificio. Le ricerche dovevano essere volte all’utilizzo dei nuovi e più efficaci procedimenti dell’architettura classica, dove il «classicismo» andava inteso, in questo caso, come la perfezione classica di una mentalità e non come una semplice utilizzazione di qualunque forma antica solo perché classica, servendosi, di conseguenza e al tempo stesso, delle più recenti conquiste della tecnica della costruzione architettonica moderna. Il nuovo concorso interno attraversò due fasi, da marzo a luglio del 1932 e da agosto a febbraio del 1933. Alla sua conclusione, avvenuta nel maggio del medesimo anno, si prese a riferimento l’approvato e vincente progetto dell’architetto Boris Jofan,36 che si configurava come una composizione alta e compatta, formata da tre volumi cilindrici, a creare una gigantesca torre gradonata, poggiante su uno stilobate rettangolare con due ordini architettonici, costituiti da un colonnato perimetrale continuo (Tav. 5). Leggeri e disinvolti pendii, dotati in parte di lunghe scalinate, lo collegavano alla piazza. L’intera costruzione era sovrastata, alla propria sommità, dalla scultura del lavoratore, già presente nel progetto che vinse il primo premio nel 1931. Nella delibera del Consiglio costruttivo del 10 maggio 1933, si precisava che, nella successiva elaborazione del progetto di Jofan, l’edificio del Palazzo dei Soviet dovesse essere coronato da un monumento a Lenin di cinquanta/settantacinque metri di altezza, affinché il palazzo costituisse una sorta di piedistallo per la figura di Lenin. A progettare la susseguente variante furono chiamati, in qualità di coautori, anche gli architetti Vladimir Alekseevic Schuko e Vladimir Georgievic Gel’frejkh (Tav. 8). L’idea del Palazzo dei Soviet come luogo per forum popolari iniziò a trasformarsi in quella di un monumento al «Capo», come in una sorta di percorso propiziatorio, reiterato attraverso il rituale di un’esasperata rappresentazione simbolica, dove il carattere 28 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet attraverso quel gigantismo esasperato dalle tre torri e mediante l’orizzontalismo della base d’appoggio. Quanto finora esposto non fa che rendere ancora più evidente come, nelle diverse fasi del concorso, l’idea che soggiaceva al disegno di costruzione del Palazzo dei Soviet fosse mutata radicalmente: se prima a determinarla era stata la coscienza collettiva, ossia la risultante dell’attività sociale del proletariato, ora, l’immagine del palazzo appariva come la personificazione della mitologia statale, che aveva creato l’utopico sogno della vita felice e lieta nella nuova società comunista. Finalmente, nel 1937, si diede inizio ai lavori per il Palazzo dei Soviet e verso il 1939 erano già state gettate le fondamenta della parte elevata, formata da due poderosi anelli concentrici di calcestruzzo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale si cominciò a montare l’armatura d'acciaio. Nella fase di progettazione e relativa costruzione si tenne conto dell’esperienza edilizia dei grattacieli americani e furono messe a punto, strada facendo, nuove soluzioni tecniche, che meglio si adattassero alle esigenze ideologiche e architettoniche del momento. Ma, con l’inizio della guerra, in base a una disposizione del Consiglio dei commissari del popolo (SNK) del 19 dicembre 1941, l’edificazione del Palazzo dei Soviet fu interrotta e venne congelata, poiché l’attività dell’organo preposto alla sovrintendenza dei lavori fu dirottata su necessità militari. Per esigenze legate alla difesa del Paese, i materiali da costruzione vennero distribuiti a vari enti, a commissariati del popolo e stabilimenti. Nei primi anni del dopoguerra l’attenzione si concentrò, soprattutto, sul risanamento dell’economia prostrata e sulla ricostruzione di numerose città, paesi e villaggi, ma, ben presto, riaffiorò nella coscienza nazionale l’entusiasmo e il desiderio di ritornare o dare fiato ai “fasti” prebellici di matrice architettonica. In occasione della celebrazione dell’ottavo centenario della fondazione di Mosca (1947), con uno sforzo straordinario, nei luoghi nevralgici dell’area metropolitana, furono poste le fondamenta di sette grattacieli,38 le cosiddette «sette sorelle» - la cui struttura doveva far rivivere le forme dei templi antico-russi - che furono edificati a partire dal 1948. Nel frattempo, del Palazzo dei Soviet poco si parlava, se non per studiare e analizzare, dietro le quinte, nuove varianti che prevedevano l’introduzione di una nuova tematica legata all’eroica vittoria ottenuta sui campi di battaglia. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, nel Paese incominciarono a delinearsi seri cambiamenti che, con l’avvento al potere di Nikita Kruschëv, finirono con l’influenzare, pure, il campo dell’architettura, segnando, nella teoria e nella prassi, il lento avvio del definitivo tramonto della vicenda del Palazzo dei Soviet. Tre anni più tardi, in questa atmosfera di forti mutamenti, fu bandito un nuovo concorso per la creazione del palazzo, che ancora potesse utilizzare le fondamenta poste alla fine degli anni Trenta sull’area dove si ergeva, un tempo, il tempio di Cristo Salvatore. Nulla sembrava essere mutato, almeno nelle intenzioni. Pur mantenendo, però, l’idea di considerare l’opera intera come un monumento a Lenin, dalle clausole del concorso furono escluse le misure ipertrofiche del progetto originario e indicate le “reali” dimensioni d'ingombro dell’edificio in poco più di seimila posti a sedere complessivi nelle due sale maggiori, mentre la superficie totale non doveva superare i trentaseimila metri quadrati, contro i centodiecimila del progetto del 1939. Mutò anche l’obiettivo iniziale che voleva fare del palazzo un “piedistallo” per la scultura di Lenin, visto ora, invece come un generico monumento architettonico al capo, perdendo, forse, parte del proprio valore simbolico intrinseco, mitologico e contemplativo allo stesso tempo. All’inizio del 1957, con la delibera del governo Sullo svolgimento del concorso del monumento a V.I. Lenin del Palazzo dei Soviet, fu mutato il luogo su cui si sarebbe, da sempre, dovuto edificare il palazzo, decidendo per un trasferimento nella zona sud-ovest di Mosca, sulle cui colline e 29 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet pendii, si bandì, per la prima volta, un concorso separato. Nonostante fossero stati presentati ben centoquindici tra progetti e proposte, fu deciso, dagli organi competenti, di non assegnare alcun premio. Un tentativo, che si rivelò finale e conclusivo, a cui furono chiamati a partecipare gli autori che, nella prima fase, avevano ricevuto il secondo ed il terzo premio, fu compiuto nel 1959. Ma anche l’ultimo concorso non sortì alcun risultato positivo. A poco a poco, in modo quasi impercettibile, il problema della costruzione dell’edificio principale del Paese, fu depennato dall’ordine del giorno. Il luogo fisico necessario a Mosca al lavoro dei congressi di Partito, fu costruito, per volontà di Kruschëv, senza bando di concorso, nel Cremlino, mentre sull’area della demolita cattedrale di Cristo Salvatore, utilizzando le robuste fondamenta del Palazzo dei Soviet, quegli enormi anelli concentrici che ben ad altro avevano fatto pensare e alludere, si costruì una grandiosa piscina riscaldata all’aperto, che ebbe vita fino a quando la cattedrale riprese, di diritto, il suo posto nel landscape moscovita e assunse nuova effettività tra i ricordi della popolazione russa. Terminava, così, ingloriosamente l’epopea del Palazzo dei Soviet, portando con sé il pieno significato-significante e la piena responsabilità di aver dato lustro alla più emblematica ed eloquente tra le utopie del mondo sovietico. percepito, in prima istanza, dal nostro corpo come esperienza del luogo e poesia del ricordo, si distingueva senza ombra di dubbio dalla finzione, un tempo in cui la finzione copiava il reale. Nell’epoca moderna e, ciò che a noi interessa sottolineare e denunciare, nella peculiarità degli anni Trenta sovietici, succedeva esattamente l’inverso: era il reale a copiare la finzione. Il “monumento”, il “Palazzo”, si illuminava nel cuore della gente, tra le sapute e consapevoli trame dei corridoi del potere, per assomigliare il più possibile a una scenografia. Abbiamo ricordato che, proprio nel periodo staliniano, furono le categorie del tempo e dello spazio le prime a saltare e a modificare lo statuto ontologico, a mutare aspetto e concezione di applicabilità tout court, senza possibilità di scampo. Stalin operò, infatti, un arresto nello scorrere naturale degli eventi, immobilizzò la Storia e la fece procedere, a proprio piacimento e gusto, secondo regole e categorie di sua esclusiva scelta. Fecero la propria comparsa nuovi colori, nuovi sfondi che, ben presto, assunsero una direzione dinamicamente inquietante, patrocinando e legittimando il «carnevale staliniano», 40 dove la mitizzazione di un passato, nemmeno troppo remoto, e la tendenza al futuro veniva, in qualche modo, proposto come già reale ed esistente, sulla falsa riga di un passato grandioso ed epico. L’operazione di carnevalizzazione staliniana, che si avvalse in primo luogo della categoria principe del rovesciamento di valori e di costumi, nei quali, comunque, ci si potesse riconoscere e gustare in essi la gioia di una vita “gentile”, serena e armoniosa, trovò la sua massima espressione e manifestazione nell’ambito di quegli spazi che possono essere definiti «non-luoghi». 41 Il substrato cultorologico e, in questo caso, cronologico, che investì l’Unione Sovietica e che le magniloquenti rappresentazioni architettoniche, nate sul proprio terreno, portavano con sé, autorizza a pensare, prima di tutto, che l’immagine di un mondo chiuso e autosufficiente sia stata Reale e Virtuale: il concetto di luogo e nonluogo Il castello della Bella Addormentata si staglia sul cielo, con le sue torri e con le sue cupole, simile, stranamente simile alle foto viste sui giornali e alle immagini della televisione. Era senza dubbio questo il primo piacere di Disneyland: ci si offriva uno spettacolo in tutto e per tutto simile a quello che ci era stato annunciato. Nessuna sorpresa [...] Ci rendemmo ben presto conto che, al contrario, sarebbe stata la sua assenza a essere sospetta.39 Nel cammino della storia esisteva e forse è sempre esistito, dunque, un tempo in cui il reale, 30 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet messinscena. Lo spettacolo stesso veniva spettacolarizzato. Come nell’odierna Disneyland: la scena riproduce quel che era già finzione, dietro lo schermo, c’è ed esiste solamente e nient’altro che un altro schermo. La distinzione tra luogo e non-luogo passa attraverso l’opposizione del luogo con lo spazio, dove lo spazio, per essere luogo, deve essere praticato, ossia assumere l’identità di luogo vivendo quotidianamente un’esperienza di relazione con il mondo da parte di un essere situato in «rapporto a un ambiente», da parte di un corpo che abita lo spazio ed il tempo.43 Nel «carnevale socialista» il reale si trasformò invece in teatro. Tutto era così, perfettamente, come sarebbe dovuto essere. Sfruttando le logiche della teatrocrazia staliniana, la “passione” del dionisiaco sovietico non poteva, però, riempire la forma apollinea, che in quella realtà e in quella cultura, rimanevano tragicamente vuote, perché alimentate e nutrite dal «fotomontaggio», come fecero i cineasti degli anni Venti e Trenta. Ciò che si proponeva al popolo fu, di conseguenza, l’esperienza del vuoto e della libertà elevati alla massima potenza, una libertà senza oggetto, senza ragione e senza posta in gioco. In contraccambio, era richiesto una “credenza per procura” nei confronti di quell’esistenza che fece della falsificazione della realtà una nota di orgoglio. Dati eccezionali, smisurate conquiste e traguardi raggiunti, ma l’importante era che la popolazione si sentisse parte integrante di questa “ruota panoramica” e che, abbandonandosi a un perverso gioco di inganni e autoinganni, si fosse comportata, sempre, come se ci avesse creduto, per poi essere finita con l’averci creduto davvero. I più autentici e veri non-luoghi della cultura staliniana, che meglio si prestavano a questo tipo di operazione-spettacolarizzazione, furono i parchi, le fiere, le mostre, e la costruzione di edifici maestosi, autentici e incontestabili palcoscenici per l’esibizione del potere, raggiunto e raggiungibile, e della grandezza di una nazione costantemente oltre qualcosa di utile e necessario al fine del tentativo di realizzazione di qualcosa, che altrimenti, a priori, non sarebbe mai potuto nemmeno accadere. Non una menzogna, dunque, ma un mito approssimativamente iscritto nel suolo, fragile come il territorio di cui fondava la singolarità e sul quale si fondavano le eterne aspirazioni, soggetto, come le frontiere, a eventuali rettifiche e cambiamenti di rotta; ma un mito condannato, per questa stessa ragione, a parlare sempre dell’ultimo spostamento come della prima fondazione, in una perpetua inversione di ruoli, solo dopo aver dotato, però, la popolazione del “passaporto” del vivere collettivo, come via di accesso, senza possibili contraddizioni, ai luoghi e ai non-luoghi esemplari della cultura staliniana. Saranno, quindi, questi i luoghi e gli spazi la cui analisi e la cui progettazione ebbero senso, perché sono stati investiti di senso, perché luoghi del senso iscritto e simboleggiato, e ogni mossa, ogni percorso e decisione di sorta nei riguardi di costoro, ne convalidò e confermò, sempre e in ogni istante, la necessità determinata. Per questo, non vi era alcun dubbio, che, stando così la questione, nei termini e nei fatti edulcorati dal periodo del Realismo socialista, essi fossero percepiti come reali, e ancora più reali della realtà stessa, scomoda e tragica, invece, allo stesso momento. Credetti di capire quel che c’era di seducente nell’insieme di quello spettacolo, il segreto del fascino che esercitava su quanti vi si lasciavano prendere, l’effetto di realtà, di surrealtà che produceva quel luogo di tutte le finzioni. Noi viviamo in un’epoca che mette in scena la storia, che ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la realtà.42 A Stalinland, prodotto per eccellenza di una cultura, artificialmente definita popolare, voluta e agognata dalle masse, che, come per magia, soddisfaceva le esigenze di ognuno e tranquillizzava anche i più scettici, nel piacere del riconoscimento totale della realtà circostante, come vero e proprio made di un’idilliaca realtà, accadeva e avveniva la medesima dissimulata 31 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet i parametri di sviluppo prefissatisi. Ma a sostegno di tale esibizione non si sottrae nemmeno la componente, non certamente meno reale, del terrore e della gioia di stato, l’insieme dei cantieri, le città stesse dell’utopia socialista e tutti quegli oggetti privilegiati e adattati a essere trasformati in scena, parti di un atto, arene di rappresentazione e celebrazione a senso unico. Tutto ciò che, in maniera diretta e inequivocabile, si offriva come modello della cultura circostante, nutriva lo scopo di spingere la gente più al riconoscere che all’inedito, esperienza, questa, nuova e non sempre prevedibile. e generava, al contrario, un bisogno di immagine, per credere nel reale e accumulare testimonianze per essere sicuri di aver vissuto. Lo spazio del non-luogo non crea, così, né identità, né relazione con qualcuno o qualche cosa, ma solitudine e similitudine, secondo le regole, non formulate, del saper vivere e del vivere felici e spensierati, volte a creare il mito di un’identità condivisa e collettiva. Il nonluogo prende a prestito le proprie parole e le proprie strutture di codificazione e illusorietà dal territorio, vive esclusivamente nel presente, ma di fatto nulla emerge, nulla si vede, è e rimane solo un’idea, una parola, come in un opuscolo turistico che all’ideale non oppone il reale, bensì, ancora una volta, l’idea stessa di luogo, rimodellata dalla intelligenza e dalla immaginazione, di chi, in prima istanza, produce la finzione e di chi, in seconda battuta, la assimila o si trova, in qualche modo, costretto a farlo, per non essere indotto a negare che ciò che appare sia riconoscibile immediatamente anche nel reale e non viceversa. L’immagine associata al concetto di non-luogo è quella di un universo ove mai nessuno è solo, ove tutti quanti sono oggetto di un controllo diretto e continuamente, nel tempo, verificabile, dove il passato, in quanto tale, viene rigettato in toto. Nel mondo sovietico degli anni Trenta, il non-luogo per eccellenza fu rappresentato e incarnato dal Palazzo dei Soviet, che racchiuse in sé l’intero ed esaustivo mondo sottomesso alle leggi dell’effimero, del passaggio e del provvisorio, spazio dedito e concentrato a svolgere il proprio ruolo di significante e di funzione popolare, riposti nella realtà di un’immagine percepita come reale, fruibile e già esistente, grazie alla contemporaneità della sua presenza su carta. Come nell’idealizzazione disneyana, anche la città di Mosca doveva investirsi del sommo compito di proiettare al proprio popolo, secondo una versione integrale di artificio e laccatura dell’esistenza quotidiana, ideologicamente intesa, quegli spazi e quegli edifici che, essi soli, dovevano essere ricordati, perché mantenevano e offrivano agli occhi dello spettatore caratteristiche estranee e familiari, passate e future, eliminando, invece, realtà socio-urbanistiche scomode e refrattarie all’integrazione protocollare del nuovo byt staliniano. Il Palazzo dei Soviet avrebbe dovuto, significativamente, creare quello spazio culturale, non dominio della quotidianità, ma la cui presenza avrebbe, indelebilmente, fatto da rituale collante nei confronti della società, dove il concetto di esibizione ed esposizione perpetua, rimasto solo nelle intenzioni, avrebbe favorito il riconoscimento, mediante la sapiente tecnica di creare l’inesistente, di spacciare il modello per il vero assoluto e farlo uscire da quel bozzolo sufficientemente mitizzato ed epicizzato, nel reiterato e incompiuto cammino dei progetti e dei concorsi attuati per la futuribile costruzione e concretamente propagandati, per essere trasformato in reale nella storia. Tutto si cristallizzò nell’idea. Ogni cosa accadeva come in una favola, dove mito e finzione riuscivano, tranquillamente, a coesistere, dove passato e futuro fuoriuscivano dalla categoria del tempo, per sprofondare in un presente che sarebbe, nell’oggi, divenuto, hic et nunc, altrettanto epico e ideale. La forza e la potenza del messaggio e della creazione del mito del Palazzo dei Soviet fu possibile grazie alla mediazione che stabilì un legame degli individui con il loro ambiente nello spazio del non-luogo, scelto accuratamente per la realizzazione fisica del progetto, percorrendo quel nuovo mondo composto di rassicuranti parole e rigeneranti testi. Parole e 32 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet testi, infatti, che aiutarono la collettività a crearsi e a forgiare delle «immagini», la cui evocazione bastava ad appagare gli spettatori che né furono e mai sarebbero stati i beneficiari. Il peso delle parole e delle immagini, le fasi del concorso, gli innumerevoli progetti, disegni, compitati a voce altisonante e contrassegnati, ogni volta, da bordate di euforia e lunghi sognanti respiri, possedevano, così, la stessa forza evocativa, che inscenava, attraverso l’allegoria e il simbolo, una realtà già confezionata, pronta e realizzata, dove a contare era solamente il risultato e non il procedimento attuato o attuabile. Forse il non-luogo del Palazzo più grande al mondo, almeno per l’epoca in cui si svolse l’intera vicenda, non sarebbe esistito, se non attraverso le parole e le immagini che ebbero la forza di evocare. Naturalmente, veniva approntato e perseguito qualcosa che si situava, anche spazialmente, molto lontano dal reale, ma che implicava una precisa “volontà di mondo”, sorretta, coadiuvata e giustificata da un unico modello interpretativo, nel quale, solo, potesse essere percepita l’esperienza narrativa delle idee e non dei fatti, fondando l’illusione di vivere in uno spazio autosufficiente, autonomo, in cui la realtà della fantasia veniva ingegnosamente dissimulata: esattamente come a Disneyland. Stalin “ebbe a cuore” il progetto di trasformare il Paese, dunque, in un enorme parco a tema, dove l’eleganza delle forme risuonasse vulnerabile alle eterne sinfonie della felicità e dell’abbondanza. Il processo di scambio e di rovesciamento tra l’universo così raffigurato e quello effettivo fluiva, anche a Stalinland, quasi spontaneo. Nel mondo staliniano del non-luogo l’esistenza era una categoria che poteva non essere verificata, mancava, appunto, l’interpretazione. Ma il momento e lo spazio della realtà fittizia e non riscontrabile stava comunque per l’esistenza e per il senso. Un mondo e un non-luogo nato per essere spettacolo, per incarnare sé stesso e convincere ognuno del proprio esistere e apparire e della conseguente liceità, luogo di esposizione e modello per la terra intera. Arte e ideologia: il sodalizio degli anni Trenta Fin dall’inizio degli anni Trenta la società sovietica fu, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, percorsa, indubbiamente, da processi complessi e profondamente ambigui e particolari, che trovarono ambito di discussione e teorizzazione all’interno delle discipline dell’arte e dell’architettura. Il ruolo principale, giocato dalle nuove idee in corso, partenogenesi del realismo socialista, consistette, formalmente e in generale, nel rispondere alle esigenze materiali e spirituali dell’uomo e della società. Ma, nelle peculiari condizioni dello stato totalitario, che, all’epoca stava rapidamente rafforzandosi, sotto la guida di Stalin, l’uomo stava divenendo una parte sempre più piccola dell’ingranaggio di un enorme apparato burocratico. Le istanze ideologiche penetrarono, sempre più a fondo, in ogni settore della vita quotidiana, compresa la sfera architettonica e artistica. Nuove esigenze, dunque, imposero la ricerca di rinnovati indirizzi e mezzi espressivi nei diversi campi del sapere, affinché questi potessero essere «nazionali nella forma e di matrice socialista nel contenuto». Questo significò la nascita della cosiddetta «arte proletaria» e indagine di un nuovo orientamento che inaugurasse, de facto, un processo di marcata e definitiva «socializzazione dell’arte». Parlare della nuova arte russa equivaleva, ora e necessariamente, parlare della vita sovietica. La rivoluzione, infatti, diede l’occasione di portare l’arte direttamente nella vita di tutti i giorni. Mutando le funzioni vitali, sociali e pubbliche dell’arte rispetto al passato, essa stessa garantì indipendenza materiale e commerciale e, prima di ogni cosa, un vivo e fervido contatto con il proletariato. Nuove idee e nuovi impulsi furono propugnati, in primo luogo, mediante l’abbandono, a tappe forzate, dell’individualismo, a favore del roboante e fragoroso concetto di collettività. Nel corso degli anni Venti, il governo sovietico si applicò per edificare e rendere plausibile, con materiali 33 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet La teoria generale del Realismo socialista postula un’arte che dia rappresentazioni veritiere e storicamente concrete della realtà, [...] che veda la realtà sociale nel suo processo di sviluppo, la cui principale forza motrice è la lotta delle contraddizioni di classe, e che veda la vita dinamicamente e mostri i reciproci rapporti e le connessioni tra le parti e il tutto. Tratto caratteristico del realismo socialista deve essere la visione dialettica della realtà: occorre vedere non soltanto la cosa, ma anche tutto il suo processo, il quale avviene attraverso la lotta di contraddizioni.45 accessibili, analizzati, controllabili e rigorosamente verificati, una «nuova formazione sociale e di civiltà», nella quale l’arte e l’architettura urbana, insieme, ebbero un posto e una collocazione ben diversa da quella che avevano avuto, fino ad ora, nella cultura sociale del periodo passato, di cui ornavano la facciata con agili e variopinti giochi decorativi.44 L’arte russa desiderava esprimersi e concretizzarsi, quindi, sull’anima e sulla volontà collettiva di un popolo che andava così formandosi, disegnando e tracciando la propria esistenza su di una superficie immacolata e intatta: la frontiera del nuovo mondo socialista. Sdoganati, quindi, gli anni Venti e i fervori rivoluzionari, valicata simbolicamente questa frontiera e questo nuovo confine, la prima vittima illustre del nuovo corso adottato dell’estetica staliniana fu l’avanguardia che, sbocciata nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, mantenne i propri connotati ed ebbe potere di proliferare e, in un certo qual modo, di resistere fino alla fine del decennio rivoluzionario, senza riuscire, però, a oltrepassare linee di cesura e di demarcazione tracciate nel campo artistico e architettonico dal fronte del “nuovo mondo” e dall’irrevocabile affermazione, egemonicamente ispirata da Stalin, del Realismo socialista. Con l’avvento del Realismo, la cultura dell’avanguardia nel suo complesso fu, in pratica e senza mezzi termini, posta fuori legge e progressivamente liquidata. Alcuni dei maggiori esponenti di questo movimento culturale e artistico furono costretti a emigrare, altri scomparvero semplicemente dalla circolazione, altri ancora, furono indotti a proseguire la propria esistenza in un clima di totale isolamento, con la magra e precaria soddisfazione di poter, eventualmente, mostrare le proprie opere solo agli amici più vicini e fidati. La cultura ufficiale del periodo stalinista deve essere considerata, prima di tutto, in relazione alla sua logica immanente, al suo mondo interno, in ordine a esigenze di rappresentazione di una “cultura vera e reale”. Lo sguardo del Realismo socialista aveva la funzione e lo scopo, dunque, di penetrare, come radiograficamente, nella profondità della realtà e mostrare, di conseguenza, il rapporto della singola cosa con i fenomeni sociali in tutta la loro complessità dialettica, abbandonando e lasciando da parte categorie estetiche che, delle epoche passate, avevano reso, quasi cinematograficamente, la vita in maniera disordinata e caotica, per cedere, invece, il passo a una vita armoniosa, organizzata secondo un unico e univoco progetto artistico, che fosse, e ciò contava più di ogni altra cosa e di ogni ragione possibile, soprattutto, esteticamente «bello» e, in questo, conforme al volere del Partito. La mimesi del Realismo era, fuori di ogni metafora, mimesi della volontà staliniana, identificazione intima dell’artista con Stalin, chiamato a consegnare, nemmeno troppo idealmente, la soggettività del proprio io artistico e l’oggettività di una sentita partecipazione all’ideale in gioco, in cambio dell’efficacia collettiva del progetto comune. Il «tipico» del Realismo era, dunque, il mondo del sogno staliniano reso visibile e percettibile, anche se non sempre palpabile e reale, il riflesso della sua immaginazione e di quella di una nazione intera, così come era stata, volutamente, progettata. L’esistenza quotidiana spicciola acquisì un forte accento emozionale, dove la realtà divenne, al pari di un’immagine allo specchio, allo stesso tempo, fonte diretta di poesia, dove l’atmosfera della vita si caricò, come per magia, di lirismo, ossigenata dalle continue e incessanti conquiste dell’utopia staliniana. Veniva costruita, giorno per giorno, una realtà immaginaria, dove l’alternanza e la 34 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet coesistenza nella commedia, quotidianamente inscenata, di tempi verbali passati, presenti e futuri, uniti alla sovrapposizione di elementi visibili e invisibili, dal cuore fantasioso e realistico, conferivano al testo artistico, letterario e architettonico, insieme e colti pure distintamente, una dimensione tra l’onirico e il prosastico, preparando il terreno al particolare sviluppo dell’intreccio teatrale. I testi artistici dell’epoca tendevano a costruire, secondo la forza ispiratrice dei canoni estetici staliniani, un mondo possibile a cui il destinatario poteva non immediatamente credere, ma con il quale si doveva, comunque, identificare, di cui doveva a tal punto subire la fascinazione da lasciarsi coinvolgere fino ai limiti della persuasione, non concedendo benché minimo spazio al dubbio e alla, decisamente remota, possibilità di spiare dietro il «sipario». Sopra ogni cosa presiedeva e disciplinava, naturalmente, quell’inconfutabile principio pedagogico, ampiamente interiorizzato dalla popolazione che, basato e fondato sull’importanza del progetto di collettività e di collettivizzazione, in perfetta sintonia con le linee governative del periodo, si faceva promotore dell’organizzazione della gioia, come stimolo per la felicità del domani. Coltivando il desiderio di voler richiamare anche in campo architettonico, oltre che in quello più strettamente artistico-pittorico, la perseguita e auspicata realizzazione del «bello» come genere estetico dominante e qualificante del rinnovato modus vivendi sovietico, l’idea di rivolgersi all’eredità artistica classica diede una notevole spinta per arricchire l’archivio espressivo dell’architettura socialista degli anni Trenta. Proprio verso la metà di quegli anni, gli architetti sovietici si dedicarono, anima e corpo, allo studio dei procedimenti compositivi e delle forme dell’antichità, del rinascimento e del classicismo russo, applicandoli nelle proprie realizzazioni, solitamente commissionate o su richiesta diretta da parte del Partito, se non da Stalin in persona. Le nuove forme, pronte a essere concepite e situate in ogni parte dell’Unione Sovietica, ma con particolare attenzione alla città di Mosca, che si stava preparando a vivere una trasformazione radicale secondo i dettami del Piano generale di ricostruzione del 1935, iniziarono a caratterizzarsi per la purezza classica, quasi a personificare e materializzare il sogno sociale di un futuro felice, a partire dalla introduzione di elementi architettonici tratti, principalmente, dalle tradizioni nazionali e regionali, creando, così, un ambiente artistico sufficientemente organico, che si distinse, senza dubbio, per le proprie particolarità stilistiche. Si definì, in questo modo, il particolare gusto artistico-architettonico “dell'epoca staliniana”, in altre parole, scuola e tangibile tendenza degli anni Trenta-Quaranta, che presentava tratti di forte originalità, ma che aveva anche molti requisiti in comune con la coeva architettura tedesca, italiana e francese. Difatti. precisamente il classicismo, più di qualunque altro stile, affermava la priorità dello stato, del dovere civile e dell’educazione, contribuendo a rendere gloriosa la vita di tutti i giorni. Anatolij Vasil'evic Lunacarskij, amico personale di Lenin e ministro sovietico della cultura per un arco di tempo della durata di dodici anni, a cavallo degli anni Venti, fece esplicita dichiarazione, in uno dei suoi interventi al Partito, di come fosse e di come sarebbe stato importante, al fine di costituire un modello di arte e di architettura conforme alle idee del nuovo mondo nascente, ispirarsi all’architettura dell’antica Grecia, espressione suprema delle libertà e delle realizzazioni di quel popolo, punto culminante, nell’arte, dell’umanità intera. Dal profondo dell’anima umana cresce di giorno in giorno più forte un desiderio di chiarezza, armonia e semplicità; anche il classico moderno mira a una forma rigidamente condizionata, esattamente equilibrata nelle sue parti componenti. Di nuovo noi respiriamo l’aria della tradizione classica [...] Così facendo scimmiottiamo l’antichità? Sì e no! Tocchiamo le stesse corde, ma cantiamo altri canti [...] Sulla soglia della nostra epoca sta di nuovo un’arte classica che chiama nella sua sfera armoniosa tutti gli uomini di buona volontà.46 35 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet I teorici sovietici assegnarono ai modelli classici dell’antichità, del Rinascimento, in particolare di quello italiano, e dell’impero la massima importanza, perché, fra tutti gli stili, il classicismo si era affermato maggiormente su scala internazionale avendo, tra l’altro, attraversato sempre quasi “incolume” i diversi mutamenti e rovesciamenti della Storia; perché l’antichità aveva creato, nel proprio modo d’essere e di pensare, forme architettoniche di massa, monumentali, maestose e fortemente simboliche, come dimostra l’esistenza, ancora oggi imperitura, di strutture architettoniche quali il colosseo, l’anfiteatro e lo stadio. Apprendere e attingere dal mondo antico, non equivalse, comunque, a copiare: il Realismo socialista, in arte come in architettura, non doveva decisamente significare, ad esempio, una semplice e facile riproduzione per partenogenesi delle colonne del Partenone o la ripetizione, illimitata e di carattere seriale, di imitazioni dei monumenti rinascimentali italiani e dello stile impero russo. Scopo del Partito era invece, da una parte, non rinunciare ai preziosi strumenti, consegnati alla Storia, dell’arte classica, tradizionalmente intesa, ma, dall’altra, fare in modo che potessero essere applicati per la costruzione del nuovo mondo, attribuendo loro una funzione diversa e, così, sfruttarli utilitaristicamente, al servizio dell’ideologia staliniana. In tal modo, l’arte del Realismo socialista acquistava il diritto di utilizzare come modello qualsiasi arte del passato, con cui, in base a quanto descritto, si sentiva di condividere «l’ottimismo storico», «l’amore per il popolo», «la gioia di vivere», «l’autentico umanesimo» e altre qualità positive, caratteristiche universali di qualsiasi arte che intendesse esprimere, gli interessi delle classi oppresse. In queste categorizzazioni, per lo più somiglianti e comparabili a slogan propagandistici, era racchiusa la forza vitale dell’arte autenticamente grande: questo era il motivo per cui essa continuava a vivere anche quando le epoche che l’avevano generata erano scomparse da tempo. L’arte realistica classica conservava pure il proprio significato ideologico ed estetico anche grazie al suo legame con il popolo. Conseguentemente, il Realismo socialista formulava apertamente il principio e la strategia della propria mimesi, difendendo, da un lato, una resa severamente obiettiva e fedele della realtà esterna, ma, dall’altro lato, inscenando e, allo stesso tempo, preparando e scrivendo la regia di questa stessa realtà, mediante il trasferimento di un atto creativo e quasi demiurgico, nella realtà immediata e approntata a recepire quanto veniva contestualmente prodotto. Il carattere mimetico della pittura e dell’architettura socialista divenne, allora, illusione, o meglio ulteriore e meta - messaggio, motivato ideologicamente, accanto ad altre giustificazioni consimili, di cui, in sostanza, “il quadro generale” proposto e offerto al mondo sovietico, era costituito da un testo geroglifico e da un insieme di parole, da leggere più come un’icona, che non come effettivo “rispecchiamento” di una qualsiasi e veritiera realtà. L’illusione visiva tridimensionale del quadro del Realismo socialista si scompose, così, in segni discreti dal contenuto “soprasensibile” e “astratto”. Un’analisi dell’opera e dell’operazione dell’arte socialista nel suo complesso avrebbe richiesto, dunque, uno spettatore che avesse potuto conoscerne i codici e i linguaggi corrispondenti e che fosse stato in grado di valutare la realtà circostante, quindi, in base al risultato di questa lettura e non per la sua qualità visiva immediata. Ma, essendo venuto a mancare uno schema interpretativo di fondo, come abbiamo precedentemente ricordato, che garantisse la facoltà di scorgere questa libertà, da parte della gente comune, di guardare dietro le quinte e che non fosse unico ma al contrario polivalente, il Realismo socialista rese possibile l’espressione del proprio dominio ideologico, artistico e architettonico, attraverso scenografie urbane idilliache, fuori del tempo, città da fiaba, su cui giardini e nuovi edifici regnavano monumenti architettonici ispirati alle epoche passate. 36 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet Estrinsecazione e segno manifesto di questi anni Trenta, parto dell’utopia e dell’arte staliniana furono, sopra ogni cosa, come abbiamo visto, i progetti e i caratteri icono- grafici, di natura quasi mistica e agiografica, che sublimarono e sostennero l’intera vicenda della «mitica» edificazione del Palazzo dei Soviet a Mosca. 37 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet Perret. Gli architetti sovietici di maggior rilevanza e considerazione furono Jofan, Zholtovskij e Ginzburg. 31 Internamente il Palazzo dei Soviet, secondo le indicazioni del Consiglio incaricato per la costruzione, doveva contenere una grande sala capace di quindicimila posti a sedere, sistemati attorno a un vasto spazio libero, palcoscenico o arena, dove si potessero mostrare i nuovi metodi del lavoro collettivo e le più recenti invenzioni e scoperte sovietiche. Uno speciale settore della sala avrebbe avuto il compito di ospitare circa trecento personalità, commissari governativi, membri del consiglio, rappresentanti della stampa estera e del corpo diplomatico, situati in modo da essere in diretto contatto con l'oratore. L’edificio doveva poi accogliere un'altra sala, più piccola, da seimilacinquecento posti a sedere, destinata ai congressi, assemblee, discussioni amministrative e tecniche. Tale spazio doveva comprendere, nel progetto, anche una galleria con duemila posti, con propria indipendente entrata e uscita. Previsti furono, inoltre, alcuni restaurant e guardaroba per uso dei delegati e del pubblico, oltre a due piccole salette indipendenti da cinquecento posti ciascuna. Una sala per le esposizioni, una biblioteca e altri ambienti secondari facevano da corollario a quest’immenso e maestoso fabbricato. Cfr. A. Samonà, Il Palazzo dei Soviet 1931-1933. Officina, Roma 1976, pp. 84-85. 32 Il momento più rilevante nel progetto di B.M. Jofan consisteva, in questa sua prima variante del Palazzo dei Soviet (altre infatti seguiranno nei successivi concorsi e saranno scelte come versioni definitive per la costruzione finale), premiata al concorso indetto nel 1931, nella torre, alla cui sommità si ergeva la scultura dell’operaio con un faro teso a illuminare la notte della storia e celebrante, seppure semplicisticamente, il socialismo come punto di arrivo dell'umanità. Questo progetto mostrò il suo lato più interessante nel tentativo di mediare un certo spirito classico d'impianto con una espressione archi- Note 28 A. De Magistris, URSS anni '30-'50. Paesaggi dell’utopia staliniana, Mazzotta, Milano 1997, p. 79. 29 Il tempio di Cristo Salvatore fu eretto tra il 1839 e il 1883 dall'architetto K. Ton nel centro della città, sulle rive della Moscova, in memoria della vittoria del popolo russo contro la Francia di Napoleone nella guerra del 1812-1814. Voluta dallo zar Alessandro I come tributo di riconoscenza della protezione ricevuta dalla divina provvidenza, che aveva aiutato la Russia a liberarsi del pericoloso nemico, la cattedrale, insieme agli edifici che stanziavano sullo spazio adiacente, furono fatti saltare con il tritolo il 5 dicembre 1931, per far posto alla maestosa edificazione del Palazzo dei Soviet. Il luogo fu scelto, in maniera simbolicamente irrevocabile, da Stalin in persona, che vide in quell’area la giusta rispondenza alle esigenze della grandiosità del proprio potere, in diretta confluenza ideologica con la visione del Cremlino, poco distante. I marmi recuperati dallo smantellamento della Cattedrale sarebbero stati utilizzati per la costruzione della stazione della metropolitana, che avrebbe portato l’utopistico nome di Dvorec Sovetov (Palazzo dei Soviet) - Kropotkinskaja. Terminata l'epopea del fantomatico palazzo, solamente a metà degli anni Novanta, il Tempio di Cristo Salvatore venne ricostruito e i lavori, conclusisi nel Duemila, hanno riportato all’antico splendore la cattedrale, oggi copia conforme del primigenio edificio, anche se slittato di una cinquantina di metri rispetto alla posizione originale. 30 Gli architetti stranieri invitati a partecipare a questa fase del concorso per l’edificazione del Palazzo dei Soviet furono nove, così ripartiti: Mendelsohn, Pölzig e Gropius, provenienti dalla Germania; gli statunitensi Lamb Urban, Storonov e Hamilton; l’italiano Brasini e i francesi Le Corbusier e 38 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet tettonica, ancora per certe parti, all’interno dei canoni dell’architettura moderna e dell’esperienza sovietica degli anni Venti. Cfr. A. Samonà, op. cit., p. 44. 33 Nel proprio progetto L.V. Zholtovskij cercò di conciliare elementi inerenti al classicismo con i motivi del castello feudale. Questo tentativo si concretizzò in una sorta di recinto porticato delimitante l'intera area, al centro della quale, compresa in una specie di colosseo, era disposta la sala maggiore. Verso il Cremlino un’altissima torre, che richiamava, appunto, per associazione, le forme del Cremlino stesso, includeva e individuava il complesso architettonico. Cfr. A. Samonà, op. cit., p. 40. 34 G. Hamilton, nella ricerca di un equilibrio sia sul piano dell'organizzazione d'impianto, sia su quello dell'espressione, si preoccupò, principalmente, di raggiungere un effetto monumentale orizzontale, elaborando canoni principalmente accademici, che, però, poco tennero conto del rapporto del progetto con la città e con la designata ubicazione del Palazzo dei Soviet. Cfr. A. Samonà, op. cit., p. 66. 35 A. Samonà, op. cit., p. 59. 36 Boris Michailovic Jofan nacque nel 1891 in Ucraina. Compì i suoi studi presso la scuola d'arte di Odessa e, recatosi in Italia, si laureò, nel 1916, in architettura al Regio Istituto di Belle Arti a Roma. Innamoratosi del monumentalismo accademico italiano, rimase in Italia fino al 1924, anno in cui fece ritorno in Unione Sovietica, mettendo a frutto tutte le conoscenze acquisite e divenendo ben presto uno dei massimi esponenti della architettura del periodo stalinista e di quella moscovita in particolare. Morì a Mosca nel 1976. 37 All’interno del Palazzo, la sala grande da ventimila posti a sedere, si ergeva come un grandioso anfiteatro sul pianterreno, accompagnata, lateralmente, da una sala di dimensioni più ridotte, capace di seimila posti a sedere. A salire, dovevano prendere posto tutta una serie di ambienti, destinati alle più disparate funzioni pubbliche e locali adibiti a musei, già presenti nella formulazione della prima versione del progetto presentato da Jofan. Sulla piazza antistante, la «più grande d’Europa», dalle mastodontiche dimensioni di centodiecimila metri quadrati, si pensava di collocare monumenti dedicati ai padri del socialismo e del comunismo e, davanti alle parti in aggetto dell’ingresso principale, i monumenti a Marx ed Engels. Sui sei piloni, rivestiti di porfido rosso dell’accesso principale al Palazzo, dovevano essere incisi alcuni passi del discorso di Stalin al II Congresso pansovietico, in cui aveva esposto gli insegnamenti di Lenin. Al Palazzo si accedeva da un viale largo circa duecentocinquanta metri che attraversava il cuore di Mosca e ne sventrava, senza pietà, le piazze centrali. Cfr. G. Gorzka, Kultur im Stalinismus. Sowjetische Kultur und Kunst der 1930er bis 1950er Jahre, Temmen, Bremen 1994, pp. 153ss. 38 Cfr. A. Ikonnikov, Gli “edifici alti” di Mosca, in A. De Magistris, URSS anni '30-'50. Paesaggi dell’utopia staliniana, Mazzotta, Milano 1997, pp. 257ss. 39 M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 18. 40 G.P. Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Einaudi, Torino 2001, p. 94. 41 «Il non-luogo è il contrario del luogo, uno spazio in cui colui che lo attraversa non può leggere nulla né della sua identità (del suo rapporto con se stesso ), né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori della loro storia comune.» (M. Augé, op. cit., pag. 75. 42 M. Augé, op. cit., p. 24. 43 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 194. 44 L’arte di facciata, a cui si allude, veniva incarnata dal cosiddetto «decorativismo borghese». L’arte borghese, infatti, era 39 www.larici.it Daniele L. Viganò - L’invisibile visione del Palazzo dei Soviet stimata decorativa anche là dove cessava di ornare i prodotti per lasciar loro la forma pura e standardizzata della funzione. Veniva considerata, in fin dei conti, ornamento, decorazione della realtà, surrogato di qualità esistenziali e delle gioie della vita, ma non parte costruttiva e costitutiva di essa, del suo movimento e attività. Cfr. K. Teige, Arte e ideologia: 1922-1933, a cura di S. Corduas, trad. it. S. Corduas, A D'Amelia e B. Zane, Einaudi, Torino 1982, p. 61. 45 K. Teige, Surrealismo, Realismo socialista, Irrealismo: 1934-1951, a cura di S. Corduas, A. D'Amelia e B. Zane, Einaudi, Torino 1982, p. 9. 46 Citato in V. De Feo, URSS architettura 19171936, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 72. 40