Le trappole sulla Via

Transcript

Le trappole sulla Via
R.Y. RECH
Le trappole sulla Via
Seminario di formazione
GHIGO DI PRALI
21 ottobre 2010
Traduzione di Maresa Di Noto
Il Dharma insuperabile,
profondo e meraviglioso
si incontra di rado.
Anche lungo cento, mille
o un milione di kalpa.
Ora possiamo vederlo,
ascoltarlo, accettarlo e sostenerlo.
Che si possa mostrare
il senso della verità del Tathagata
KAIKOGYE
[ Sutra book - p.14 ]
SOMMARIO
INTRODUZIONE
I. LE SEI TRAPPOLE RICORRENTI SULLA VIA
1) Prima grande trappola: dimenticare il senso stesso della pratica: lo zen è una via di liberazione
Liberazione dall’attaccamento all’ego
I tre sigilli del Dharma
Shoken: la visione giusta
Discussione: sofferenze che un responsabile di dojo può dover affrontare
1) L’attaccamento al suo ruolo e alla sua posizione nel sangha: trappola dell’ambizione
Samu è un servizio * La trappola dell’orgoglio
2) L’attaccamento al maestro, all’insegnante
L’idealizzazione del maestro e l’eccessivo desiderio di imitarlo * Attaccamento al maestro * Proiezioni e transfert
di figure genitoriali * Identificazione con il maestro
3) L’attaccamento al risveglio
2) Seconda grande trappola: prendere l’insegnamento alla lettera dimenticandone lo spirito
L’attaccamento a regole, riti e cerimonie
Paura di ingannarsi e di non essere amati * Trappola della superiorità
La trappola dell’attaccamento ai meriti.
Il risveglio è mushotoku: nessun merito * L’attaccamento ai precetti e trappole
Attaccamento ai sutra e ai loro commenti - trappola dell’intellettualismo
Attaccamento a zazen e la trappola del « solo zazen »
3) Terza grande trappola: il dualismo
Dualità tra corpo e spirito
Dualità tra la pratica della meditazione e la vita quotidiana
Dualità pratica - realizzazione
Approccio immediato - approccio graduale * Trappola dell’individualismo * L’immensità dei voti di bodhisattva
4) Quarta grande trappola: confusione tra buddhismo e terapie di benessere
5) Quinta grande trappola: confusione tra i due livelli di realtà - vacuità
II. DOMANDE - ALTRE TRAPPOLE INCONTRATE SULLA VIA
Eccesso di impegno * Eccesso di identificazione * Eccesso di zelo * Eccesso di fiducia o di prudenza * Proselitismo *
Azione basata sull’eccessiva razionalità * Illusione circa la propria comprensione * Ku: non azione * Attaccamento
ad aspetti culturali, alle istituzioni e rifiuto sistematico dell’istituzione * Attaccamento all’identità di monaco * Attaccamento al buddhismo
III. CONCLUSIONE - RIEPILOGO
INTRODUZIONE
Cos’è una trappola ?
La trappola è caratterizzata dal fatto di essere nascosta, invisibile, inconscia, proprio come avviene in natura dove è dissimulata sotto il fogliame, ingannando così la vigilanza dell’animale, che cade e si lascia intrappolare.
L’ostacolo invece è visibile, si innalza sul nostro cammino come un muro. L’essere visibile non implica che lo si possa
superare, occorre fare degli sforzi per oltrepassarlo.
L’errore, infine, è generato piuttosto dalla nostra iniziativa e certi errori possono divenire trappole. Invece, la loro evidenziazione e la loro risoluzione sono altrettante occasioni di risveglio e di liberazione dalle nostre illusioni.
Ciò che distingue in modo particolare la trappola dalle altre due nozioni è il suo essere più sottile, inconscia e pericolosa.
Come riconoscere una trappola ? Esistono dei sintomi ?
Una delle difficoltà maggiori è smascherare la trappola. Dal momento che il suo meccanismo ha origine dal nostro inconscio, talvolta da schemi della nostra psiche che risalgono all’infanzia, può succedere che la si integri e si cammini
con essa sulla Via senza comprendere che blocca il nostro procedere e la nostra realizzazione. Parliamo di sintomo perché effettivamente, proprio come una malattia, la trappola si mostra nella sofferenza o duhkha che genera. Non si tratta
di un dolore acuto, ma di un malessere, di un fastidio, della sensazione di non essere veramente liberi nel proprio modo
d’essere. Talvolta la postura, il modo di camminare, di rinchiudersi nel proprio corpo, di irrigidire il viso, sono altrettanti segni esteriori di questo disagio. Il sangha può rivelarsi un aiuto prezioso dal momento che può agire come specchio,
rinviandoci le mancanze ancora presenti per la nostra liberazione.
All’ opera per snidare le trappole
Nonostante il loro numero sia infinito, vedremo quali sono le trappole principali incontrate sulla Via, che si possono
suddividere in sei grandi « famiglie ».
Successivamente sarà dato spazio alle domande degli insegnanti che permetteranno di evidenziare altre trappole, quali
l’eccesso di zelo, di fiducia, di impegno, di ragionamento razionale ed unilaterale, di proselitismo, di attaccamento ad
aspetti culturali, all’identità di monaco e al buddhismo.
Vedremo progressivamente che una trappola nasce spesso da una buona intenzione iniziale, che l’eccesso deforma e trasforma. Realizzare che la trappola in fondo è solo vacuità e che è il nostro attaccamento all’ego a intossicare le cose, ci
fornisce la chiave per liberarci continuando il nostro cammino sulla Via.
LE SEI TRAPPOLE
PIÙ FREQUENTI SULLA VIA
Benché una trappola non sia più importante di un’altra, ecco le sei trappole più frequenti sulla Via.
1.
2.
3.
4.
5.
L’incomprensione del fatto che lo zen è una via di liberazione e i tre tipi di attaccamento che ne conseguono.
L’attaccamento a una visione troppo parziale dell’insegnamento, che ci fa perdere di vista il suo spirito profondo.
La trappola del dualismo che crea molte separazioni in seno alla pratica.
La trappola del materialismo spirituale dove il buddhismo è utilizzato come una tecnica di benessere.
La trappola ella vacuità, conseguente ad una incomprensione di ku e dei due livelli di realtà, relativo e assoluto, che
conduce all’inazione e al nichilismo.
6. La trappola della mortificazione, relativa al modo di combattere gli attaccamenti e le illusioni praticando con volontarismo. Ciò richiede un certo grado di saggezza, altrimenti si rischia di essere costantemente in lotta contro se stessi e i
propri bonno, col rischio di mortificarsi, cosa che costituisce una trappola. Nota: quest’ultima trappola non è stata sviluppata per mancanza di tempo.
Prima grande trappola
Dimenticare il senso stesso della pratica: lo zen è’ una via di liberazione
Dopo una precisazione sul termine libertà, che non è egocentrico, ma che al contrario corrisponde ad una liberazione dall’attaccamento all’ego e quindi della nostra sofferenza, vedremo come dipende dall’accettazione della realtà e
dei tre sigilli del Dharma. Se si dimentica che lo zen è una via di profonda liberazione dalla sofferenza e dagli attaccamenti, emergono allora tre trappole principali legate all’attaccamento alla propria posizione nel sangha, al maestro e al risveglio.
Una liberazione dall’attaccamento all’ego
Quando si fa riferimento alla liberazione, non si intende la « libertà » come è compresa in occidente, dove viene percepita come libertà di fare ciò che si vuole e di andare dove si vuole. Ci sono persone in crisi che iniziano la pratica dello
zen per uscire da uno stato di sottomissione nei confronti dei loro genitori, dei loro congiunti, della società e che, volendo diventare liberi, considerano lo zen una ideologia basata sulla libertà. Diventano egotici e rifiutano tutto non essendo
più sottomessi al potere degli altri ma all’illusione del loro ego. Desideravano essere « centrati », ma sono divenuti in
effetti « egocentrati » usando lo zen come argomento per soddisfare i loro desideri a discapito del loro entourage. Evidentemente questa nozione di libertà non è il senso della pratica, anzi è proprio contraria allo spirito di compassione e di
benevolenza fondamentale dello zen.
La liberazione autentica è la libertà dall’attaccamento a un ego limitato e illusorio, una costruzione mentale che ci limita
e che è la trappola di tutte le trappole. Quando questo attaccamento all’ego si trasferisce nella pratica, ne conseguono altri attaccamenti che a loro volta generano altre trappole.
Liberazione e risveglio alla realtà sono la stessa cosa
La vera libertà consiste nel poter vivere in armonia con ciò che siamo in realtà, l’autentico sé, che è la nostra natura
di buddha, è questo il vero senso della liberazione. Se la pratica è giusta, ci permette sin da ora, sin dal primo zazen, di
vivere in armonia con la nostra natura di buddha. E dunque non vi è più dualità tra la nostra pratica e il risveglio.
L’essenza del buddhismo, dell’insegnamento del Buddha e dello zen è giungere alla liberazione dalla sofferenza. Soffriamo perché non siamo risvegliati alla realtà: un po’ non la comprendiamo, un po’ non vogliamo comprenderla, poiché non è facile accettare la realtà dell’impermanenza.
Di fronte a questa difficoltà abbiamo la tendenza a rifugiarci in altre illusioni, ad anestetizzarci con credenze religiose
che attutiscono la sofferenza dell’impermanenza, coltivando la credenza dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di
un paradiso dove Dio ci accoglierà dopo la morte…Secondo l’insegnamento del Buddha è possibile liberarsi solo attraverso la verità e il riconoscimento della realtà così com’è, il che equivale a riconoscere i tre sigilli del Dharma (*) e
dunque ad accettare l’impermanenza, l’assenza di sostanza di tutte le esistenze e del nostro ego, la sofferenza derivante
dalla non accettazione di queste realtà e la pace del nirvana che deriva dalla loro accettazione. Questa accettazione determina un autentico abbandono della presa rispetto all’attaccamento all’ego, cosa che provoca la fine delle cause di sofferenza che, se permangono, sono minime e sono causate dalla compassione di vedere gli altri soffrire nelle loro illusioni.
(*) Accettare la realtà implica accettare i 3 sigilli del Dharma
- 1 sigillo: accettare che finché non si è risvegliati esiste la sofferenza e che, a causa dell’impermanenza esistono la
malattia, la vecchiaia e la morte, cause inevitabili di sofferenza.
- 2 sigillo: riconoscere e accettare la sofferenza come inevitabile poiché la vita è impermanenza.
- 3 sigillo: il non sé, il non ego, la vacuità di sostanza ultima.
- E inoltre un 4 sigillo: il nirvana, il risveglio, come fine della sofferenza attraverso la comprensione e l’accettazione
dei tre sigilli.
Shoken: la visione giusta
Non è possibile risolvere la sofferenza se non attraverso una comprensione giusta, quindi attraverso la saggezza, non
esiste altro modo. Nell’Hannya Shingyo, shoken è la visione giusta che risolve la sofferenza. Per giungere a questa visione occorre una pratica della concentrazione che è la premessa necessaria per arrivare al grado di lucidità sufficiente a
comprendere la radice della sofferenza, cioè l’illusione e a liberarsene, è ciò che si chiama il risveglio.
Tuttavia occorre anche tener conto della sofferenza in quanto segnale di qualcosa in noi che chiede di essere curato, che
richiede la nostra attenzione. Ad esempio non bisogna trascurare un mal di pancia continuo, poiché questa sofferenza
può segnalare l’esistenza di una malattia da curare. Se la sofferenza è di ordine psicologico, morale ed è legata alla nostra maniera di pensare, si ricerca una via, un maestro spirituale.
Discussione
Sofferenze che un responsabile di dojo può dover affrontare
Queste sofferenze sono ostacoli che in certi casi possono trasformarsi in trappole.
Sofferenza causata dalla compassione che si prova per le difficoltà degli altri
D. - Per quanto riguarda la sofferenza causata dal vedere le difficoltà di coloro che si trovano nell’ignoranza, se si considera
la sofferenza come un segnale, qual è allora il segnale per l’insegnante, per colui che soffre a causa della compassione ?
Y.R. - Quando si è insegnanti e si vogliono aiutare gli altri a risolvere le loro sofferenze, lo si può fare solo provando
compassione, il che implica l’empatia, la capacità di mettersi al posto dell’altro per capire la sua sofferenza. Non bisogna però rimanere al suo posto, rimanendo inghiottiti dalla sua sofferenza, non bisogna assumerla su di sé, né annegarci
dentro. Bisogna essergli abbastanza vicino da comprendere la sua sofferenza senza giudicarlo, dicendosi: « E’ uno stupido, soffre a causa delle sue illusioni … » escludendolo. Al tempo stesso occorre essere abbastanza centrati per dirsi:
l’altro è l’altro ed io sono io. L’altro soffre, è vero, non sono nella sua sofferenza, ma posso comunque utilizzare una
certa lungimiranza, una certa saggezza per indirizzarlo, fornendogli le chiavi per uscirne.
Sofferenza causata da una mancanza di sostegno del sangha e trappola dell’attaccamento eccessivo alla perfezione
D. - Alcuni responsabili provano una certa sofferenza, la cui origine deriva dal fatto di essere responsabili di dojo. Quali
sono le ragioni di questa sofferenza, come possono liberarsene e come è possibile aiutarli in questo cammino verso la
liberazione?
Y.R. - Il responsabile di dojo ha un forte impegno, poiché ha lo spirito di bodaishin ed ha voglia di condividere la pratica con
gli altri, del resto è per questo che ha creato un dojo, è la base della sua motivazione. Spinto dal suo entusiasmo impegna tutte le sue energie per farlo funzionare. Tutto ciò è faticoso e spera che gli altri capiranno che impegnare le proprie
energie per aiutare il dojo e il responsabile fa parte della pratica e non è un lavoro pesante. Ci sono dojo, ad esempio in
Germania, nei quali la responsabile fa tutto e gli altri non fanno niente, comportandosi come dei consumatori. Se mi capitasse una cosa simile sospenderei tutte le attività e farei solo zazen in silenzio, forse con qualche kusen. Direi loro: «
Se volete fare altre cose, investite le vostre energie, ad esempio imparate le cerimonie che devono essere fatte nella giusta maniera e non a caso.»
Trappola dell’attaccamento eccessivo alla perfezione
Occorre saggezza, la via del mezzo, occorre essere esigenti affinché le persone facciano lo sforzo di apprendere le cerimonie, le regole del dojo, per creare armonia senza disturbare gli altri. Ma se le persone non vogliono fare lo sforzo di
imparare, allora è meglio non fare cerimonie. Il Maestro Deshimaru nel 1967 dopo zazen si voltava e cantava da solo
l’Hannya Shingyo. I praticanti gli dissero: « Anche noi vogliamo cantare. - Ah! volete cantare, allora bisogna imparare
a farlo ! » E’ questa l’origine della pratica delle cerimonie nel nostro sangha.
Sofferenza dell’insegnante di fronte alla mancata comprensione o alla mancata realizzazione dell’altro…e trappola
dell’onnipotenza
Y.R. - Quando dopo tanti anni, tanti kusen, tante spiegazioni dedicate ad esempio alla vacuità, alcune nozioni fondamentali
dell’insegnamento non sono comprese, è per me una fonte di sofferenza personale per la quale metto in discussione le
mie capacità pedagogiche, dicendo a me stesso « Allora non sono chiaro, forse sono un cattivo insegnante? » Per un responsabile di dojo, vedere che gli altri non evolvono, che continuano a commettere errori, che non si impegnano maggiormente, è una sofferenza non solo dal punto di vista empatico, ma per se stesso. E’ anche una trappola per
l’insegnante credere di essere onnipotente. Al contrario, essere insegnanti insegna l’umiltà, anche se si ha l’impressione
di insegnare con chiarezza e che quindi tutti dovrebbero comprendere e dunque praticare, ebbene, no non funziona ! O perlomeno non funziona completamente, non per tutti, perché senza dubbio esistono dei freni e degli ostacoli…
Non sottovalutare gli ostacoli dell’altro
Y.R. - Non sono onnipotente. Forse le persone incontrano degli ostacoli nella loro pratica che l’insegnante ha trascurato e che
può cercare di aiutarli a superare. Ad esempio: « Non posso venire più di una volta per settimana al dojo, dal momento
che se venissi più spesso avrei dei problemi in famiglia. » E’ importante che l’insegnante comprenda che si tratta di un
problema reale e a quel punto è bene spiegare i benefici dello zazen, della pratica e della sesshin per l’ambiente della
persona. In effetti la persona sarà più disponibile, meno stressata, più amabile, più compassionevole e in definitiva la
pratica farà bene anche alla famiglia che, di conseguenza, la incoraggerà a praticare di più…Tuttavia bisogna tener presente che la sofferenza per la mancata realizzazione dell’altro o per la sua mancata comprensione dipende dalla sua pratica e dal suo impegno, non dal responsabile.
D: - Ma il responsabile può soffrire nel sentirsi incapace di motivare sufficientemente le persone. Occorre anche che il
responsabile accetti il praticante al livello in cui si trova nel suo cammino, con la frequenza che il praticante sceglie.
Y.R. - Per di più il praticante non vive solo, ma ha le sue relazioni che non vuole distruggere dal momento che sono importanti
per lui.
D. - A questo proposito, sarebbe opportuno organizzare ogni tanto una giornata « porte aperte » per la famiglia, gli amici,
affinché scoprano che cos’è lo zen. Alcuni dojo organizzano delle uscite con la famiglia, ad esempio una giornata sul
battello, una visita…con lo scopo di creare un incontro conviviale con il sangha.
Y.R. - La stessa cosa riguarda i bambini che possono soffrire nel vedere i loro genitori andare in sesshin. L’accoglienza
riservata ai bambini alla Gendronnière durante il campo estivo permette loro di scoprire l’universo della pratica dei genitori, favorendo una migliore comprensione ed accettazione del loro impegno, anche quando, nel corso dell’anno, vanno al dojo per qualche sera alla settimana.
D. - Possono esserci problemi di compatibilità tra l’orario del dojo e la disponibilità del praticante.
Y.R. - I dojo cercano di ovviare a questo problema offrendo una varietà di orari, ma non si può fare un dojo « à la carte » o su
misura. In certi casi è possibile affidare una chiave per consentire l’accesso al dojo al di fuori degli orari di zazen (da
vedere caso per caso).
La paura di non poter risolvere la sofferenza dell’altro
Y.R. - Per aiutare i praticanti a risolvere i loro problemi e le difficoltà che incontrano, è essenziale prevedere uno spazio, sia
fisico che temporale dove possano confidarsi, sia nel corso di un mondo, che in ambito individuale, più propizio per esporre certe problematiche.
Alcuni insegnanti evitano tali incontri per paura di non sapere cosa rispondere e di non essere capaci di essere d’aiuto
evitando i mondo e i dokusan. L’insegnante deve però comprendere che non avrà sempre una soluzione e che già
l’ascolto costituisce il cinquanta per cento della soluzione.
D’altra parte, anche se zazen non risolve tutte le sofferenze, permette di avere una relazione diversa con essa, di non esserne inghiottiti, di essere meno bloccati. La sofferenza c’è sempre, ma occupa uno spazio diverso, non invade più tutto. Dal
momento che in zazen possiamo avere dei pensieri ossessivi, con la concentrazione impariamo a lasciarli passare, esiste
uno spazio in cui il nostro spirito non è totalmente inghiottito dalle nostre emozioni e preoccupazioni. Zazen crea spazio.
Ad esempio una risposta che si può dare è: « In ogni caso non posso risolvere il tuo problema e forse nemmeno zazen,
ma ti troverai in uno stato d’animo in cui la sofferenza sarà meno drammatica ». Era fondamentalmente la risposta del
maestro Deshimaru, lo zen toglie drammaticità alla sofferenza, cosa già enorme. « Anche se ora non potete comprendere, continuate zazen perché vi aiuterà a risolvere la vostra sofferenza. »
Se si dimentica che lo zen è una via di profonda liberazione, allora appare il rischio di cadere nelle tre principali trappole:
1) L’attaccamento al proprio ruolo e alla propria posizione nel sangha
2) L’attaccamento al maestro
3) L’attaccamento al risveglio
1) L’attaccamento al proprio ruolo e alla propria posizione nel sangha: trappola dell’ambizione
Il samu è un servizio
E’ importante ricordare che le responsabilità prese per quanto riguarda un samu, nel dojo, a livello dell’associazione,
sono servizi resi al sangha. Questi servizi sono normali e naturali in quanto richiesti dagli altri e perché è giusto aiutare.
Ma dopo un certo periodo, nel fatto di ricoprire un incarico c’è il rischio di vedere una sorta di certificazione del proprio
ego, di essere « riconosciuti», « di avere un ruolo». A questo rischio si aggiunge quello di identificarsi con le proprie
responsabilità, considerando lo zen una sorta di carriera nella quale si comincia da principianti per diventare un giorno
shusso ed eventualmente godo o maestro, misurando i progressi con l’avanzamento nella gerarchia delle responsabilità.
E se non si avanza abbastanza velocemente si è frustrati e scontenti. Si riscontrava questa problematica nell’attribuzione
dei posti in base all’anzianità e al livello di responsabilità alla « grande tavola ». Oltre al fatto che questo creava un attaccamento, generava delle frustrazioni per coloro che non vi erano seduti, come oggi quando si scopre di non essere
compresi sulla lista delle responsabilità quando di solito ne facciamo parte.
La via dello zen è una via di liberazione: si deve essere totalmente distaccati dalla propria posizione.
Una frustrazione in rapporto alla mancata occupazione di una posizione nasce da una incomprensione profonda delle
stesse basi dello zen!
Si deve ricominciare tutto! Se consideriamo la responsabilità di shusso, vediamo che il suo ruolo consiste nell’essere un
esempio per gli altri, cosa impossibile nel momento in cui è animato dall’ambizione e dall’attaccamento al suo ego,
proprio ciò che occorre abbandonare sulla Via.
Per valutare l’evoluzione di un discepolo, il maestro Deshimaru aveva proprio come criterio principale la condizione di
spirito mushotoku. Anche se molto capace, se non possedeva lo spirito mushotoku, non riceveva responsabilità, anche se
il sangha perdeva l’aiuto di una persona che gestiva molto bene tutte le cerimonie, l’organizzazione ecc.
Nello zen le capacità spirituali, la capacità di mostrare un esempio di spirito mushotoku, di umiltà, sono quelle che
aiutano maggiormente il sangha e le persone a liberarsi dalle loro sofferenze e dai loro attaccamenti.
La trappola dell’ambizione è non solo uno dei grandi pericoli, ma anche disgraziatamente una causa di sofferenza per
tutti nel sangha: per la persona stessa preda della sua ambizione e per i praticanti che vedendo tali comportamenti negli
anziani possono dirsi: « Se si è ancora così dopo dieci anni di pratica, allora non ho voglia di seguire questa via! »
Chi ricopre una responsabilità deve essere molto vigilante per mantenere uno spirito mushotoku. Questo messaggio deve essere sottolineato affinché diventi sempre più chiaro.
Y.R. - Una soluzione consiste nel creare sufficienti incarichi nel dojo per coinvolgere le persone e far ruotare le responsabilità,
a tutti i livelli, non solo per quanto riguarda le funzioni relative al dojo, ma anche per l’acquisto delle forniture, dei fiori… E’ importante ricordare che non esistono piccoli compiti, in un tempio pulire le toilette è tanto nobile quanto dirigere le cerimonie o studiare i sutra. La stessa cosa avviene in sesshin e non bisogna sentirsi diminuiti avendo la responsabilità delle toilette o innalzati con quella di shusso.
Tuttavia alcune persone possiedono la capacità e l’energia di aiutare e se non si propone loro nulla, hanno l’impressione
di essere inutili e questo è uno spreco. In questo caso bisogna parlare con il responsabile sia esprimendo il desiderio di
voler aiutare, sia chiedendo perché non si è mai stati scelti come responsabili. Ciò permette di comunicare e progredire
se ci sono dei punti da migliorare, perché talvolta, in qualità di responsabili possiamo dimenticare coloro che sono molto discreti e modesti, mentre dovremmo essere attenti a coloro che si fanno dimenticare.
Bisognerebbe riflettere sul metodo pedagogico migliore per far comprendere ciò, su un modo di funzionamento che eviti di cadere nella trappola dell’onore, dell’ambizione, della gerarchia ecc.
La trappola dell’orgoglio
Il sapere non deve essere una fonte di orgoglio: « Tu non sai, io sì ! »
Più si è capaci, più si deve avere lo spirito di sanpai nei confronti degli altri.
E’ il grande insegnamento trasmesso dal maestro Niwa Zenji, abate di Eihei-ji, che, anziano e molto malato, immobilizzato in seguito a un ictus, insisteva ancora per alzarsi e fare sanpai per accogliere i suoi visitatori, che erano discepoli e
praticanti come noi ! Ricordatevi questo ! E’ un esempio.
In quanto insegnanti, bisogna proteggere questo spirito, senza sviluppare un senso di superiorità e un orgoglio spirituale,
mantenendo al contrario uno spirito umile. Ricordatevi di Niwa come di un antidoto al veleno dell’orgoglio.
2) Attaccamento al maestro, all’insegnante
Nella relazione col maestro esistono molte trappole:
L’idealizzazione del maestro e l’eccessivo desiderio di imitarlo
La prima trappola consiste nel non comprendere che il ruolo del maestro è mostrare il cammino, aiutando ognuno a liberarsi dei suoi attaccamenti egotici e ad evitare di cadere nelle trappole. Spesso le persone giungono sulla via dopo aver conosciuto difficoltà, sofferenze e vogliono incontrare un maestro. Sovente il maestro è idealizzato e invece di essere visto come una funzione, è percepito come una immagine di perfezione. Si pensa che il maestro abbia realizzato
completamente la Via della liberazione e che dunque sia capace di liberare gli altri.
Spesso le persone credono che il maestro possa colmare le loro mancanze grazie a un « tesoro » ipotetico, che costituisce il suo potere, la sua capacità di essere un maestro, il satori forse. Ciò diventa un oggetto di bramosia e si assiste allo
sviluppo di una relazione di avidità nei confronti del maestro, come il bambino che smette di piangere se la madre gli
offre il seno, è nel nirvana. Come maestro ho spesso l’impressione di essere lì per colmare i vuoti, le frustrazioni, poiché le persone immaginano che io detenga tutto e che possa offrirlo loro, come si distribuiscono delle caramelle o del
latte ! Invece l’autentico senso della funzione del maestro, non consiste tanto nel donare, quanto piuttosto nel ritirare,
nel fornire l’occasione di abbandonare gli attaccamenti. Ciò che conta è che il maestro abbia fatto questo lavoro su di sé
in modo da rilevare le illusioni, accompagnando gli altri con molta empatia sul difficile cammino dell’abbandonare la
presa. Un cammino difficile perché l’ego si difende e resiste enormemente ; in effetti, se ci si è identificati col proprio
ego, si ha l’impressione che abbandonandolo, non si sarà più niente, non si avranno più punti di riferimento, si cadrà nel
nulla. Per di più, nella nostra società, le persone sono spesso « border line » cioè non hanno un ego ben strutturato e
quindi non vogliono perdere quella piccola parte che sono riusciti a costruire.
In questo caso lo zen e il maestro possono essere percepiti come un pericolo, per evitare il quale si costruisce una falsa
relazione per annullare la funzione frustrante del maestro, vedendo in lui una persona che può donare solo buone cose.
Attaccamento al maestro
Un altro esempio di falsa relazione è una relazione d’amore col maestro, trappola sfortunatamente molto frequente in un
sangha misto dove le donne si innamorano spesso dei godo; esse soffrono e rimangono prigioniere a lungo. Improvvisamente esse vivono una certa ambivalenza e non sono più capaci di ricevere l’insegnamento. Se un maestro ha una relazione d’amore con una discepola, non può più essere il suo maestro, non potrebbe più funzionare, i due aspetti non
possono coesistere. Se si entra in un ambito passionale è meglio seguire un altro maestro. E’ possibile amare il proprio
maestro ed avere per lui dell’affetto, così come il maestro può amare i suoi discepoli ed avere dell’affetto per loro, ma
tutto ciò deve rimanere nell’ambito dell’affetto spirituale, della simpatia, del desiderio di aiutare...
Certo la relazione affettiva può svolgersi su piani diversi da quello amoroso. Si può essere in attesa della riconoscenza
del maestro, della quale si spiano i segni come ad esempio un saluto, un sorriso, l’attribuzione di responsabilità e, nel
caso manchino queste piccole cose della vita quotidiana, ci si tormenta e ci si chiede dove si è sbagliato.
Per il maestro, un vero « buon » discepolo, è colui che si sforza di praticare sinceramente il suo insegnamento ed è questa la cosa migliore che possiate fare per voi…
D. - Tuttavia la trasmissione dell’insegnamento ha un aspetto molto sottile che comprende un ambito affettivo.
Y.R. - Si, l’amore, l’affettività in senso spirituale, apre lo spirito e rende più ricettivi. Quando si ama qualcuno, si è molto più
ricettivi nei confronti di ciò che ci arriva da questa persona e dunque la si comprende meglio, e questo può essere un
aiuto importante. E’ ciò che Dogen chiama « katto » che ha due significati. In origine è il glicine che si arrampica su un
supporto come l’edera che deve creare dei legami per crescere e katto rappresenta l’immagine di questo avvolgimento.
Per questa ragione katto designa anche gli ingarbugliamenti, gli attaccamenti e lo spirito complicato che li crea. Ma Dogen nello Shobogenzo, nel capitolo Katto, dice che al contrario lo zen è trasmesso attraverso katto, attraverso il legame
molto forte tra maestro e discepolo nel quale c’è attaccamento.
Esiste dunque effettivamente il rischio che questo attaccamento diventi passionale, con tutto ciò che ne deriva come
perversioni e possibili errori. In questo caso il ruolo del maestro consiste nell’utilizzare questo legame per liberarlo dagli aspetti passionali. Ma se al contrario utilizza questo legame per soddisfare i suoi desideri personali allora il discepolo
è perduto! « Aigo » significa « parole d’amore » in giapponese. Dogen ha usato molto aigo come una delle grandi virtù
del bodhisattva. Utilizzava unicamente la compassione, ma anche l’amore nel suo significato di amore benevolente, non
come amore possessivo.
In certi sangha, può verificarsi il fenomeno « fan entusiastico », avveniva col Maestro Deshimaru, la cui segretaria assumeva le sembianze di un cerbero, creando una barriera ed evitando che ci si avvicinasse a lui. Se ci si protegge creando un fossato non è positivo per il sangha.
Proiezioni e transfert di immagini genitoriali
La relazione maestro-discepolo è una vera trappola, dal momento che è invisibile, perché nasce dall’inconscio, dal momento che si proiettano molti elementi inconsci sul maestro attraversando processi di tranfert e di proiezione. Questo
fenomeno nasce perché il maestro si trova nella posizione di colui che sa rispetto a coloro che non sanno, la qual cosa
determina, secondo il termine usato in psicologia, una relazione di tranfert. Si tratta di una relazione illusoria.
Un esempio di illusione « L’altro sa perché mi conosce meglio di me stesso »: diventa uno schermo sul quale si proiettano molte immagini genitoriali e molte emozioni legate ad esse. Può variare a seconda della storia e del karma di ognuno. Abbiamo ad esempio persone che identificano il maestro con il padre, che si tratti del padre reale o del padre
fantasmatico, immaginario. E’ il caso ad esempio di chi ha avuto un padre severo, che proietta sul maestro la paura di
questa severità, cosa che gli fa temere la minima mancanza, gli errori nel servizio, nelle cerimonie, nel samu ecc. Si ha
l’impressione che il godo sia molto severo, ci si sente incapaci di svolgere bene le proprie mansioni, ponendosi in uno
stato d’inferiorità a causa del quale si regredisce ad uno stadio infantile. Il rispetto nei confronti del maestro non deve
essere basato sul timore poiché questo può distruggere il contatto.
Un altro caso patologico consiste nel proiettare sul maestro l’immagine negativa di un genitore, padre, madre, che ha
causato molte sofferenze al bambino accogliendolo poco o nulla, causandogli un senso di solitudine terribile e terrificante. Questo atteggiamento può generare un sentimento di colpa che si può trascinare per tutta la vita, basato sulla
convinzione che se non si è amati è perché non si è degni di essere amati. Se questo problema non viene risolto in tera-
pia, lo schema di questo terrore infantile viene riprodotto e proiettato sul maestro, creando ulteriore distanza e sensi di
colpa del tipo: « Se non mi saluta è perché non ne sono degno, non sono un buon discepolo… »
Sfuggire il contatto diretto con il maestro
Idealizzando il maestro e avendo l’impressione che sappia tutto, ci si può sentire ignoranti di fronte a lui. Si ha paura di
non essere più amati dal maestro se gli mostriamo le nostre illusioni, i nostri attaccamenti, la nostra ignoranza o se gli si
dice una sciocchezza: di colpo si evita il contatto. Così molti discepoli evitano il dokusan proprio per questo. E’ un ostacolo interno, ma al tempo stesso è anche una trappola, perché per progredire bisogna avere un contatto. Bisogna poter mostrare la propria ignoranza e le proprie illusioni senza aver paura, dal momento che siamo qui per risolverle e non
per nasconderle, mentre spesso finiamo per nasconderle, tanto più se si è insegnanti come voi e si vuole meritare la stima e la fiducia del maestro. C’è il timore che se si pone una domanda « stupida » il maestro pensi che non si è capaci di
insegnare. Ci sono discepoli anziani che non fanno mai dokusan a causa di ciò.
Tutti questi elementi sono ostacoli ad una relazione autentica, ma sono anche katto, il groviglio. Il compito del maestro
è di cercare di utilizzare questo tipo di illusioni per evidenziare cosa sta succedendo, il che implica avere una relazione
intima sufficiente. Ma talvolta questo avviene solo dopo dieci anni. Anche in questo caso bisogna cercare di comprendere meglio la trappola nella quale si trova il discepolo che non ne è cosciente e che è spesso nascosta perché troppo terribile da mostrare.
Tutto ciò va di pari passo con il fatto che si vuole assomigliare al maestro, identificandosi con esso. Ciò che conta è seguire un maestro, seguire il suo stesso cammino, ma non diventare come lui. C’è stata anche un’ondata di identificazioni col maestro Deshimaru, con l’atteggiamento da samurai, una voce tonante, anche da parte di certe donne ! Scadendo
neI ridicolo. Più che assomigliare al maestro, bisogna rimanere se stessi seguendo la propria pratica.
3) Attaccamento al risveglio: attaccamento all’illuminazione, al satori.
Si verifica quando si è animati dal desiderio di raggiungere un ideale, il satori. Lo zen non è una via lungo la quale ci si
possa ritenere arrivati a un certo punto. Se ci si pone l’obiettivo di arrivare a quel livello di perfezione, può succedere di
non arrivarci e di colpevolizzarsi o di credere di esserci arrivati ! E’ una trappola ancora più pericolosa, dal momento
che si crea una sorta di certezza interiore per la quale crediamo di essere buoni e perfetti proprio perché si è raggiunto il
satori. La pratica diventa veramente risveglio dall’istante in cui è mushotoku, dal momento in cui smettiamo di attaccarci a un risultato. Il risveglio non è separato dalla pratica, esiste unità tra i due aspetti: la pratica-realizzazione. Una delle
trappole consiste nel creare una dualità tra pratica e realizzazione, come vedremo più avanti nei casi di dualismo. Si tratta di lasciar fare zazen, qui ed ora nella postura seduta, ma anche in tutti i momenti della vita quotidiana.
Seconda grande trappola
Prendere l’insegnamento alla lettera dimenticandone lo spirito
Esistono molti tipi di trappole derivanti dagli errori che si possono commettere in rapporto al senso dell’insegnamento.
Il primo, che già il Buddha denunciava come ostacolo al risveglio, è l’attaccamento alle regole, col quale si cade nel ritualismo e nella ricerca dei meriti. L’attaccamento ai precetti può causare la trappola dell’orgoglio spirituale o del senso
di colpa. L’attaccamento ai sutra e ai commenti dei sutra diventa una trappola quando conduce a uno studio intellettuale
separato dalla pratica. Bisogna capire che cosa insegnano qui ed ora, in qualità di rimedi nei confronti di certi errori, di
fattori di risveglio e liberazione. L’Abhidharma è una illustrazione della trappola legata all’intellettualismo, che già il
Buddha denunciava. L’attaccamento a zazen può dare luogo alla trappola di shikantaza: solo zazen significa che in zazen non si fa altro che zazen. Ma questo zazen non si limita alla postura seduta.
L’attaccamento alle regole, ai riti e alle cerimonie
L’attaccamento alle regole e ai riti costituisce per Buddha un ostacolo al risveglio e una trappola sulla Via. Tuttavia è
importante considerare che la trappola è causata dall’attaccamento e non dalle regole, dai rituali o dalle cerimonie stesse.
A questo proposito va considerato che se esiste attaccamento tutto può diventare una trappola. La trappola non è la
cosa in sé, quanto la relazione che si stabilisce con essa. Bisogna stare attenti a non gettare il bambino con l’acqua
del bagno !
Questo è vero per ogni cosa. Il fatto che amare qualcuno possa diventare un attaccamento doloroso non significa che si
debba smettere di amare ! Questo aspetto fa sì che i buddhisti si sentano minacciati da tutto ciò che è dell’ordine delle
emozioni, dell’amore e che si vogliano reprimere per paura dell’attaccamento. Si può amare senza l’attaccamento eccessivo e passionale che è causa di sofferenza.
La paura di sbagliare e di non essere amati
L’attaccamento alle regole implica che la regola sia vista come qualcosa di assoluto, che deve essere rispettato esattamente. Poiché c’è un modo giusto, ne consegue che ci sia anche un modo sbagliato! Di colpo la minima deviazione ge-
nera la paura di non aver fatto bene, ci si sente in errore, colpevoli di avere sbagliato. A quel punto la regola scatena
paura dal momento che: « Se mi sbaglio o verrò punito o non mi si amerà più perché sono veramente una nullità ! » Ecco la trappola che si cela dietro l’attaccamento ai riti e alle cerimonie.
Trappola della superiorità
Inversamente, l’attaccamento alle regole può anche implicare che le si studi a fondo e, una volta giunti ad una certa padronanza, si creda di essere arrivati ad una perfezione. Si può provare un certo disprezzo nei confronti di chi commette
degli errori: « Hanno sbagliato ancora, sono degli stupidi ! ». Evidentemente ciò non li aiuta poiché di colpo, già maldestri, ameranno ancor meno le regole e le rifiuteranno ! Se si ha una tendenza autoritaria e sadica, si utilizzerà la regola e
il proprio ruolo di insegnante per dominare gli altri, per farli sentire incapaci. La trappola della perfezione è ancora
peggiore, dal momento che presuppone una sorta di certezza interna per la quale pensiamo di essere buoni e perfetti
proprio perché padroneggiamo completamente le regole.
Rimedio: occorre applicare la regola, eseguire le cerimonie con molta benevolenza e compassione, essere indulgenti in
rapporto agli errori, comprendere perché le persone sbagliano, senza inorgoglirsi per il fatto che le eseguiamo bene. Bisogna dunque praticare sempre con umiltà. Di fronte al rischio della trappola dell’attaccamento, la soluzione non consiste tanto nel rifiuto puro e semplice delle cerimonie, delle regole o dei rituali, quanto nel poter fare le cerimonie senza
esservi attaccati, con libertà e leggerezza.
Trappola dell’attaccamento ai meriti
Per quanto riguarda le cerimonie, si aggiunge la trappola dell’attaccamento ai meriti.
Spesso le cerimonie, l’eko o la recitazione dei sutra trasferiscono i meriti della pratica per il benessere delle persone a
cui sono dedicate. Si rischia però di volersi appropriare di una parte di questi meriti per se stessi durante la cerimonia.
Ne consegue che bisogna fare la cerimonia con uno spirito mushotoku, senza alcun merito per sé. Anche i meriti che riceve il bodhisattva possono essere fonte di attaccamento.
Il rimedio: consiste nel dirsi che nello zen tutto ciò che si realizza, tutto ciò che si riceve, va condiviso con gli altri. Il
senso della Via è la condivisione, poiché l’essenza stessa della nostra vita, ciò a cui tutti dobbiamo risvegliarci è che esistiamo solo in interdipendenza con gli altri. La nostra vita e la nostra pratica hanno senso solo se servono ad attualizzare questa interdipendenza. L’interdipendenza nel suo senso positivo è la condivisione.
D. - Talvolta ho delle resistenze a tradurre i sutra...
Y.R. - Invece bisogna tradurli !
D. - Si, ho capito perché è una resistenza per me, infatti quando si toccano aspetti molto sottili ho paura di cadere nel
misticismo.
Y.R. - Si, l’eko possiede una dimensione misteriosa perché implica il transfert dei meriti che si produce nel mondo
dell’invisibile, non nella realtà materiale. Quando si dice che si vogliono trasferire i meriti di questa cerimonia a Buddha, Dogen e Keizan, è vero che obiettivamente essi non sono lì e non ricevono nulla. Questo implica credere in questo
mondo invisibile, ma non significa essere dei mistici. Non è razionale rifiutare l’esistenza di un mondo invisibile poiché
ciò fa parte della realtà. Ci sono esperienze che dimostrano che tutto ciò esiste, la comunicazione mentale a distanza esiste, così come i poteri soprannaturali. Il fatto che nel transfert dei meriti e dunque in tutte le cerimonie esista una dimensione misteriosa dal senso apparentemente irrazionale dal momento che non può essere misurata o afferrata, non significa che debba essere respinta, sarebbe un grave errore. Anche fare un kito è apparentemente irrazionale poiché è un
transfert di meriti per aiutare qualcuno che non è presente. Tuttavia abbiamo molti esempi che dimostrano che è efficace, che funziona. Dunque non accettarlo non è razionale.
Al contrario, dal momento che attraverso queste cerimonie si possono aiutare veramente gli altri, ci si può attaccare facendo solo cerimonie e kito, uno dei difetti dello zen giapponese.
D. - Dedicare dei meriti a Dogen e Keizan, non va contro l’essenza del buddhismo, implicando l’esistenza di qualcosa che
esiste ancora, che è sopravvissuto, a differenza delle cerimonie dedicate a persone viventi ?
Y.R. - In questo caso non si tratta tanto di un transfert di meriti quanto dell’espressione della nostra gratitudine. Facciamo
dono a Buddha e Dogen offrendo loro dei fiori, dei frutti, proprio come li ringraziamo praticando il loro insegnamento…Si tratta forse più di una dimensione popolare, ingenua, ma tutto ciò fa parte dei sentimenti umani.
D. - Non si tratta in questo caso di un attaccamento ai rituali ? Perché non dire invece « si ringrazia Dogen, Keizan.. » invece
di dire « si trasferiscono dei meriti? »
Y.R. - La funzione del bodhisattva è il trasferimento dei meriti. Bisogna rileggere i capitoli 15 e 16 del Sutra del Loto, poiché
il grande segreto rivelato dal Buddha nel Sutra del Loto è che egli esiste sempre.
D. - Il Buddha sì, ma non Shakyamuni…
Y.R. - Si, si dice che ci siano i Tre Corpi:
il corpo incarnato, carnale, il nirmana kaya, che scompare alla morte,
il corpo del Dharma, il dharma kaya,
e il corpo di beatitudine, il sambhoga kaya.
La base della teoria dei tre corpi sostiene che anche se Buddha e Dogen sono morti, esistono sempre nel loro corpo del
Dharma, nel loro corpo di beatitudine.
Ma in realtà Dogen e Keizan esistono sempre tra di noi, poiché facciamo riferimento ad essi, studiando il loro insegnamento. Lo stesso avviene per il maestro Deshimaru, del quale è sempre possibile percepire la presenza alla Gendronnière, anche per coloro che non l’hanno conosciuto. Anche se tutto ciò può sembrare misterioso, c’è ugualmente una certa
realtà nella persistenza di esistenza di un buddha o di un maestro. Il Sutra del Loto ci fa comprendere tutto ciò, altrimenti sarebbe incomprensibile affermare che Shakyamuni Buddha era un grande bodhisattva e… scomparve nel nirvana abbandonando tutta la creazione!La trasmissione ci rende partecipi proprio del perpetuarsi di questo corpo eterno del
Dharma, perché ciascuno di noi, quando ci sediamo in zazen, diventa Shakyamuni Buddha, il maestro Deshimaru. Praticando facciamo esistere quanto vi è di più sottile e profondo nel loro corpo e nella loro esistenza. Possiamo quindi affermare che rendere omaggio a Buddha, Keizan, Dogen significa rendere omaggio a tutti i buddha viventi che sono nel
dojo e che hanno il merito di fare esistere il corpo del Dharma attraverso la loro pratica.
D. - Vi è anche la nozione che i tre tempi si riuniscano e non ci sia più differenza tra presente passato e futuro.
Y.R. - I tre tempi si riuniscono in uno stato di coscienza particolare, che è la condizione hishiryo di zazen.
D. - Non sono d’accordo, dal momento che qui ci situiamo nella dimensione assoluta e il trasferimento dei meriti avviene
nella dimensione relativa.
Y.R. - Si, ma è anche perché c’è la dimensione assoluta che è possibile il trasferimento dei meriti! E’ proprio nella vacuità che
non c’è più separazione…Quando ci si siede in zazen, si fa esistere Shakyamuni, non solo il corpo del Dharma, ma
Shakyamuni stesso, è immediato, così come lo è il trasferimento dei meriti. Keizan ha fatto molto per introdurre questa
dimensione mistica e religiosa nello zen, ha parlato molto di questo particolarmente nel Denkoroku, dove insiste sul fatto che quando siamo seduti nel dojo siamo sul Picco degli Avvoltoi, cioè nel luogo della trasmissione i shin den shin tra
Buddha e Mahakashyapa.
Quindi anche se non si può comprendere tutto, bisogna cercare di capire al meglio, cercando di spiegare ai praticanti nel
dojo, senza cadere nel ritualismo, che produce l’attaccamento, il lato negativo delle cerimonie e dei riti.
Il risveglio è mushotoku: nessun merito
Per quanto riguarda i meriti, perché Buddha diceva che l’attaccamento ai riti e alle cerimonie ostacola il risveglio ?
Perché ciò porterebbe a credere che il risveglio si ottiene attraverso dei meriti! A un certo punto, compiendo molte
buone azioni, si avrebbe un accumulo di meriti sufficienti per essere risvegliati. Il risveglio è mushotoku: nessun merito.
Nello zen, così come Bodhidharma insegnava, c’è l’insegnamento di « assolutamente nessun merito », che determina un
totale abbandono dell’ego e dell’attaccamento ai meriti, producendo risveglio e liberazione !
L’attaccamento ai precetti
Buddha ha detto che l’attaccamento ai precetti è un ostacolo al risveglio. Ora noi diciamo che i precetti sono
l’espressione del risveglio ! Anche qui bisogna capire bene, perché se è vero che l’attaccamento ai precetti può diventare una trappola, ciò non significa che non debbano essere seguiti, cadendo in un comportamento nichilista, anarchico e
privo di moralità. Si devono seguire i precetti senza aspettarsi dei meriti. Seguire i precetti è un fuse per gli altri, non
uccidere, non rubare, non mentire… Quindi rispettare i precetti significa evitare di creare sofferenza agli altri. Se si seguisse una via di liberazione dalla sofferenza per motivi egotici, limitata all’evitare la sofferenza per sé e che facesse
soffrire gli altri, si sarebbe caduti in una trappola.
Fonti di trappole relative ai precetti:
 L’attaccamento ai precetti e il volere trarne dei meriti, cadendo nel moralismo e sviluppando un orgoglio spirituale. Ad
esempio come quando si eseguono bene le cerimonie, i rituali e si pensa « Io rispetto i precetti, dunque sono un buon
monaco, mentre gli altri non lo sono » E’ un errore !
 Ritenere che i precetti siano troppo difficili da seguire pensando: « Sono troppo cattivo e odio me stesso. » Altra trappola ! Spesso la religione crea il senso di colpa. Odiare se stessi è contrario all’insegnamento del Buddha! La benevolenza
e la compassione non si rivolgono unicamente agli altri, ma devono anche essere dirette verso di sé.
La complessità pedagogica dello zen
Lo zen si adatta al qui ed ora e utilizza il contrario per far comprendere il giusto.
L’attitudine di Dogen è molto complessa, il suo insegnamento non può essere mai completamente afferrato, dal momento che diceva spesso una cosa o l’altra in funzione del suo interlocutore, del pubblico al quale si rivolgeva.
Nell’insegnamento dei precetti scritto da Dogen e poi riscritto da Keizan, il Kyojukaimon, è detto che la trasmissione
dei precetti è la trasmissione del risveglio del Buddha, essendoci una equivalenza tra i due. Zazen, i precetti e il risveglio vengono dunque posti allo stesso livello.
Poi, all’inizio dello Shobogenzo Zuimonki c’è un piccolo dialogo nel quale Dogen critica l’attaccamento ai precetti dicendo: si seguono i precetti poiché è il costume della nostra scuola, ci conformiamo ad essi per essere in armonia con essa.
Ecco dunque due punti di vista totalmente opposti che illustrano tutta la complessità della lettura di Dogen ! La spiegazione risiede nel fatto che egli adattava l’insegnamento al suo pubblico e forse, nel caso citato precedentemente, si rivolgeva a
persone troppo attaccate ai precetti, troppo moraliste. Invece, di fronte a coloro che disprezzavano e sottostimavano i precetti, insisteva sulla loro importanza. Il maestro Deshimaru faceva ciò costantemente, un giorno diceva una cosa, il giorno
dopo ne diceva un’altra ! L’insegnamento di un maestro è destinato a creare un effetto qui ed ora nello spirito del discepolo, non si tratta di pronunciare una verità eterna ! Si tratta di creare un impatto per liberare le persone.
In Occidente siamo vittime della logica di Aristotele e del principio di contraddizione, il peccato contro la conoscenza e
abbiamo molte difficoltà con questo genere di discorsi. Lo zen si prende completamente gioco di queste contraddizioni
poiché la vita è sufficientemente complessa per includere molti aspetti contraddittori. Dunque non bisogna perdere di
vista il senso profondo che contraddistingue il risveglio, la liberazione e proprio a partire da ciò bisogna essere capaci di
giocare con l’insegnamento in modo da essere in grado di offrire il buon rimedio al momento giusto. Nel dojo questo si
evidenzia con l’atteggiamento nel seguire correttamente in rapporto alle regole, alle cerimonie, ai precetti.
Infine viene insegnato ciò che è giusto e quando si insegna il contrario è proprio per eliminare l’attaccamento che impedisce a questo insegnamento di diventare una vera fonte di liberazione. Non si tratta di rifiutare l’insegnamento stesso.
Ogni volta che nello zen un maestro insegna qualcosa che pare sbagliato, questo avviene con molta compassione, proprio per eliminare un attaccamento.
Quando Joshu taglia un gatto in due, produce un karma negativo, ma questo non significa che tutti debbano tagliare gli
animali ! In quel determinato momento si trattava di recidere l’attaccamento dei discepoli in un preciso contesto storico.
In effetti c’è stata un’epoca un po’ decadente nella quale i monaci vivevano nei templi come a casa propria, possedevano degli animali, avevano lasciato crescere i capelli, avevano le unghie lunge e litigavano per il possesso di un gatto. La
situazione era talmente degenerata che a quel punto tanto peggio per il cattivo karma di Joshu che aveva osato tagliare
un gatto in due ed era pronto ad assumersi questo rischio.
Il maestro deve avere il coraggio di rientrare in certi bonno o di andare contro i propri principi se è necessario per raggiungere un risultato. Questo non vuol dire evidentemente che bisogna tagliare in due ogni gatto! E’ il risultato che conta.
Il buddhismo è molto pragmatico. L’insegnamento del Buddha a Rahula a proposito dei precetti: « Rifletti sulle conseguenze dei tuoi atti, non compierli se sono negativi. » Pragmatica, « pragma » è la pratica e una cosa è buona o cattiva
in funzione degli effetti.
Il punto sul quale insisto molto dal momento che siete degli insegnanti, è che anche le cose positive dell’insegnamento della pratica possono diventare negative se sono deviate dall’attaccamento. In questo caso il rimedio consiste,
al momento opportuno e in rapporto a una determinata persona, nel fare il contrario della cosa giusta. Occorre trovare un punto di incontro, senza cadere nel rifiuto, nell’eccesso, come respingere tutte le cerimonie, rifiutare di portare il kesa…
Attaccamento ai sutra e ai commenti ai sutra, trappola dell’intellettualismo
L’attaccamento ai sutra e ai loro commenti è una trappola quando porta allo studio intellettualistico e separato
dalla pratica. Come nel caso di una ricetta medica, anche il sutra, se non si prende la medicina prescritta, non serve a
nulla, potrebbe essere utilizzato come carta igienica!
Nello zen si dice: «Non bisogna confondere il dito che indica la luna con la luna. »
Dogen ha affrontato questo problema in un capitolo dello Shobogenzo dedicato ai sutra. Egli era del tutto contrario al
kyoge bedsuden, cioè alla trasmissione speciale al di fuori delle scritture. Era lo slogan dello zen Rinzai, secondo il quale l’insegnamento di Bodhidharma, l’essenza dello zen, era un insegnamento speciale al di fuori delle scritture. In rapporto a ciò Dogen diceva « Le scritture, i sutra, sono le parole del Buddha e sono dunque l’espressione del suo spirito ;
se si respingono i sutra, si respinge lo spirito del Buddha, si respinge il risveglio. » E dunque non si è capito nulla! Bisogna studiare i sutra, ma senza attaccarsi alla lettera, cercando di comprendere ciò che cercano di insegnare qui
ed ora. Alcuni sutra possono risultare sorpassati perché si riferiscono a contesti storici superati, in questo caso possono
essere tralasciati nel ventunesimo secolo.
Bisogna accostarsi ad un sutra in funzione della sua capacità di essere un rimedio in rapporto a determinati errori e quindi per la sua capacità di essere un fattore di risveglio e di liberazione per noi. I sutra non sono un oggetto di sapere che va immagazzinato e studiato a memoria, come facevano certi monaci molto eruditi che diventavano delle enciclopedie di sutra ! Del resto, originariamente i sutra erano studiati a memoria per assicurarne la trasmissione, dal
momento che la scrittura era ancora sconosciuta. Era dunque il modo di ricordarli nella pratica quotidiana.
Occorre incoraggiare lo studio dei sutra, organizzando atelier nei quali si studiano i principali, ma senza cadere
in un eccesso di intellettualismo e di orgoglio !
E’ un po’ ciò che è successo a coloro che hanno scritto l’Abhidharma, hanno cercato di razionalizzare e rendere sistematico l’insegnamento del Buddha, creando una sorta di monumento utile, poiché un sutra per essere compreso deve
essere commentato. Ma hanno commesso un certo numero di errori, ad esempio quello di considerare gli elementi costi-
tutivi della realtà come dei mattoni elementari sostanziali, i dharma, tra 75 e 80, come degli atomi costituenti la realtà,
prima di sapere che gli atomi possono essere suddivisi in particelle elementari.
I commentatori hanno ricreato delle nozioni sostanziali cadendo nella trappola legata all’intellettualismo, per la quale
si attribuisce una realtà ai concetti che si creano, a differenza dell’insegnamento del Buddha che ci invita a diffidare dei
concetti che non sono la realtà! Egli insisteva sul rischio dell’attaccamento alle nozioni, anche nel primo sutra del Majjhima Nikaïa, nel quale enumera tutti gli aspetti della realtà dicendo: « Dal momento che li si nomina, si crede che abbiano una sostanza, che esistano realmente e ci si attacca ad essi: è la base e l’origine di tutti gli errori ! » Il Buddha, alla
fine della sua enumerazione, dice che anche il nirvana è un ostacolo e una fonte di illusioni se diventa un attaccamento.
La stessa cosa vale per il satori, per la Via, ecc…
Attaccamento a zazen e trappola di shikantaza
Ci si può anche chiedere se l’attaccamento alla Via e a zazen non siano delle trappole! E’ la grande domanda! Il maestro
Deshimaru nel suo commento allo Shobogenzo Zazenshin, a un certo punto affronta il tema di zasso, l’attaccamento
all’aspetto della postura di zazen, sviluppando l’idea che in ultima analisi non può esserci il pericolo di essere attaccati a
zazen, dal momento che zazen è proprio ciò che ci libera, dunque non può essere pericoloso !
Nondimeno, può esistere un rischio di attaccamento ad una concezione erronea di zazen, che non può essere limitato
alla postura seduta, altrimenti si commettono errori nella vita quotidiana che diventano cause di sofferenza. Quando si
fa zazen è soltanto zazen.
Bisogna fare attenzione alla trappola molto comune di shikantaza:
« Fare solo zazen » E si comprende che bisogna fare solo zazen, il più possibile, tutti i giorni, eventualmente di notte…
facendo un super consumo di zazen! Il versante opposto si ha con gli attuali monaci giapponesi che sostituiscono zazen
con le cerimonie perché a loro avviso le cerimonie equivalgono a zazen . Si può così cadere in modo caricaturale in dibattiti Asia-occidente del tipo: « Siete troppo attaccati alle cerimonie » contro « Siete troppo attaccati a zazen.»
In realtà le cerimonie sono il prolungamento di zazen, sono in unità con esso. Allo stesso modo la vita quotidiana è la
continuazione di zazen. Se si comincia a fare come i giapponesi che hanno creato un dharma hall o un buddha hall al di
fuori del contesto del dojo dove facciamo zazen, c’è il pericolo di creare una separazione per la quale si dimentica che
la cerimonia assume significato perché esprime completamente lo spirito di zazen. Shikantaza, solo zazen, significa non
ruminare koan, ripetere mantra, recitare preghiere…Nello zen cristiano ad esempio, si pensa che dal momento che si è
ben seduti e calmi si possa pregare con un migliore stato d’animo, ma è completamente falso ! Dogen ha criticato lo zen
Rinzaï che utilizzava zazen come una tecnica destinata a risolvere i koan, rimanendo nella dualità e svuotando zazen
della sua qualità di valore liberatorio, di essere qui ed ora il risveglio, poiché si utilizza zazen per ottenere un risveglio
successivo risolvendo dei koan.
Del resto a questo proposito Nyojo e Dogen insistono su shikantaza, ma i discepoli rischiano di pensare che il resto non
abbia più importanza! Tanto più che a un certo punto Nyojo dice: « Lo zen è solo zazen » Dunque shikantaza è shin jin
datsu raku, corpo e mente abbandonati. Di conseguenza non è più necessario fare cerimonie, recitare sutra, bruciare incenso ecc. Dogen cita a più riprese questa frase di Nyojo nel Bendowa, nel Hokkyoki …
Se Nyojo l’ha insegnato a Dogen è stato per chiarire bene il posto di zazen in rapporto alle cerimonie ai rituali ecc. Questo non significa che non si debba fare nient’altro, ma solo che queste altre pratiche non siano utilizzate come tecniche
che compenserebbero una mancanza di zazen.
A zazen non manca nulla e a partire da zazen è possibile fare tutto, zazen non è limitato alla postura seduta, tutto diventa l’espressione del risveglio, le paramita, la vita quotidiana, le cerimonie ecc. Zazen non è limitato alla postura seduta. E’ importante capire ciò. Per molto tempo shikantaza è stato una trappola per tutto il sangha del maestro Deshimaru, infatti certi monaci dicevano: « Io non sono buddhista, non studio i sutra, zazen è sufficiente… » Ma zazen è
l’essenza del buddhismo, quindi non dite di non essere buddhisti ! Per fortuna dopo una quindicina d’anni questa situazione è cambiata, era una grave trappola. Per di più si rischiava di diventare monaci ignoranti e pieni di orgoglio spirituale: « Abbiamo bisogno solo di zazen, siamo al di sopra degli insegnamenti che sono solo vacuità ecc.. » In breve si
trattava di un atteggiamento che accumulava tutte le trappole !
Durante la sua prima conferenza nel luglio del 1967 il maestro Deshimaru, davanti ad un pubblico che non praticava,
ma che aveva letto molto sul buddhismo, lo zen, gli scritti di Daisetz Suzuki, cominciò prendendo lo zafu, sistemandolo
sulla tavola, sedendosi in zazen e dicendo: « Lo zen è zazen ! ». Lo fece con lo scopo di scioccare e scuotere quegli spiriti che non comprendevano l’importanza di zazen. Dopo, evidentemente, ha insegnato per quindici anni che lo zen non
è solo zazen, insegnando il kesa, i sutra, l’ordinazione, i precetti…
Terza grande trappola
Il dualismo
Eredi del nostro pensiero monoteista rischiamo di ignorare la dimensione più vasta, più assoluta dello zen che non è
né monista né dualista. Affrontiamo ora le diverse forme di trappole che sono la conseguenza del nostro approccio
dualistico. Dualità tra il corpo e lo spirito, dal momento che bisogna stabilire un’armonia tra i due aspetti, proprio
come zazen che è sia la postura del corpo che la respirazione e la condizione dello spirito. Separare la pratica di za-
zen e lo spirito di una sesshin significa cadere nella trappola del dualismo tra zen e vita quotidiana, tra lo zen e il
samu. La vita quotidiana è un campo di sperimentazione straordinario per praticare la Via. Non separare la pratica
e la realizzazione è il cuore stesso del nostro insegnamento, ma c’è il rischio di cadere in una trappola fondamentale,
quella di utilizzare la pratica e di compiere degli sforzi come se si trattasse di una tecnica per ottenere una realizzazione spirituale. In questo caso si cade nel dualismo che oppone l’approccio immediato a quello graduale. La pratica
è realizzazione se è shin jin datsu raku, se c’è un totale abbandono del corpo e della mente, dell’ego, di tutti i nostri
attaccamenti e ciò è possibile a partire dall’istante in cui diventa mushotoku. Come fare affinché l’esperienza che si
è avuta in zazen continui nella vita quotidiana ? Incarnando le paramita che ci mostrano il modo di essere ad ogni
istante. Il dualismo può condurci sia ad alimentare delle opposizioni tra maestri, che ad isolarci cadendo nella trappola dell’individualismo per evitare ogni confronto con la diversità. L’immensità dei voti del bodhisattva, se mal
compresa, può farci cadere nella trappola del perfezionismo o farci fuggire.
Il monismo non è l’essenza dello zen, poiché opponendo il monismo al dualismo si ricade in un’altra forma di attaccamento e di illusione. Lo zen non è né monista né dualista, è al di là di questi due aspetti ed integra il dualismo, bisogna riconoscere ed accettare la comprensione di una dualità.
Dogen riconosce che esiste una dualità e che c’è un modo di porsi nei suoi confronti per il quale si integrano i poli, inglobandoli. Noi Occidentali invece, siamo esclusivi, siamo attaccati al non-dualismo e d’un tratto respingiamo tutto ciò
che deriva dal dualismo. E’ una trappola! Quando si studia il Sutra del Loto si vede che Buddha è considerato come
una persona altra, quasi divinizzata, cosa che porta a pensare che ci sia l’individuo che sono e il Buddha e che ci siano
quindi due persone o entità differenti. Conseguentemente si potrebbe anche respingere il Sutra del Loto accusandolo di
ricadere nel difetto dualista del monoteismo. Invece Buddha è in noi, siamo tutti la natura di buddha, non si tratta di avere quanto di essere buddha, dal momento che tutti gli esseri sono fondamentalmente buddha. Bisogna rendersi conto
fino a che punto i buddha che hanno incarnato il risveglio, come Buddha Shakyamuni, siano infinitamente più realizzati
di noi e come si debba essere ispirati dal loro esempio. La propensione dualista riappare nel dirsi che tutti gli esseri sono
buddha, che lo zen è realizzare buddha in sé e che dunque è sbagliato pensare che Buddha è all’esterno ! Un simile atteggiamento porta a respingere i buddha, i patriarchi, l’altare, con il pretesto che si tratti di un atteggiamento dualista e
per questo motivo si evita di prosternarsi davanti al Buddha. Questo eccesso è tipico dell’atteggiamento occidentale basato su « o una cosa, o l’altra »: o si va in una direzione, o nell’altra. Alcuni discepoli erano talmente contrari al dualismo da diventare essi stessi dualisti!
Esiste una forma di dualità nella realtà e poi c’è una dimensione ultima dove non c’è più dualità.
L’insegnamento di Nagarjuna (*) è molto prezioso e ingloba il dualismo in una visione più ampia.
(*) Nagarjuna e l’insegnamento fondamentale della vacuità. Il maestro Nagarjuna, vissuto 7-800 anni dopo Bouddha
(II-III secolo), si era reso conto di un certo numero di trappole nelle quali erano caduti i buddhisti. Tutta la sua opera è
volta ad aiutare le persone impegnate nella Via del Buddha a ritrovare il suo potere iniziale e liberatorio, che si era perso a causa di taluni errori divenuti trappole, quali il dogmatismo, un nuovo dualismo, la comparsa di nuovi attaccamenti…Per questo motivo é ritornato all’insegnamento fondamentale della vacuità. Per chiarire bene il senso della vacuità,
nella stanza 24, insiste sull’importanza di distinguere tra il livello relativo e il livello assoluto.
Questo sarà il tema del prossimo atelier del campo di primavera a Grube Louise, nel 2011.
Dualità tra corpo e mente
Più concretamente, uno dei primi dualismi che noi Occidentali creiamo nella via spirituale è quello tra corpo e mente,
prendendo partito ora per l’uno, ora per l’altro, oppure, come abbiamo già visto, attaccandoci unicamente alla postura,
rifiutando le regole, le cerimonie e i rituali, con la conseguenza di cadere nell’attaccamento « solo a zazen » che non
tiene conto del fatto che zazen si prolunga al di là della postura seduta.
Anche all’interno del nostro sangha, vi sono alcuni che portano avanti solo il corpo, la postura, dicendo quando spiegano che: « Zazen è la postura ». C’è equivalenza tra: « Lo zen è zazen » e « Zazen è il risveglio. »
Il maestro Deshimaru non ha mai detto questo, ha piuttosto criticato questo atteggiamento dicendo: « Zazen è la postura del corpo, la respirazione e lo stato d’animo. Non dovete mai separare questi tre elementi. »
Allo stesso modo quando spiegate zazen ai principianti non dite: « Concentratevi sulla postura e il resto verrà automaticamente ! » O anche, non c’è nemmeno un « resto », perché tutto deriva dalla postura.
Inversamente, e questo è ancora più frequente, molte persone sono attaccate allo spirito dello zen, ma dimenticano di
incarnarlo nei gesti, nella postura, nella pratica, in cose molto concrete. Ad esempio fare gassho è un modo di attualizzare il non-dualismo che vale tutti i discorsi sulla non-dualità. Quando ci si inclina in gassho davanti a qualcuno, davanti a Buddha, si diventa veramente unità e si realizza interiormente l’unità del corpo e della mente concentrandosi su
questo gesto. Lo stesso vale quando si fa sanpai ecc. Nel nostro sangha sono presenti personalità e caratteri diversi che
privilegiano ora l’uno, ora l’altro aspetto, ci sono gli specialisti della postura, dei gesti e coloro per i quali è lo spirito
che conta. Entrambi gli atteggiamenti sono falsi o esagerati.
Uno dei punti importanti dello zen è realizzare l’armonia del corpo e della mente senza reintrodurre nuove dualità
tra corpo e comprensione spirituale.
C’è una trappola in entrambi i casi e non è una situazione tanto rara !
Dualità tra pratica della meditazione e vita quotidiana
E’ la trappola che consiste nel separare, nel creare una dualità tra pratica di zazen e azione quotidiana, tra la pratica in
sesshin e la vita di tutti i giorni, tra monastero e vita sociale.
L’opposizione tra pratica e vita quotidiana si vive anche alla fine della sesshin, quando si devono reintegrare la vita
quotidiana, le preoccupazioni, il lavoro, la famiglia ecc. Si vorrebbe che la vita fosse solo una sesshin. In effetti il senso
della sesshin è proprio quello di essere un modello per tutta una vita, rendendoci capaci di estrapolare ciò che si è sperimentato durante la sesshin.
Allo stesso modo in una sesshin non bisogna opporre zazen al samu, alle cerimonie, all’insegnamento, allo studio dei
sutra. L’ego crea sempre queste categorie e oppone le cose. Ogni volta che facciamo questo, cadiamo in una forma di
trappola, perché riduciamo la grandezza e l’aspetto vasto della Via alle nostre categorie, che ci fanno scegliere un aspetto piuttosto che un altro. Si tratta di una trappola, poiché la realtà della Via non è così e se ci cadiamo non possiamo
ricevere realmente i suoi meriti che ci liberano e ci trasformano autenticamente. Si prende solo la parte che il nostro ego
vuole prendere, senza cambiare nulla ! Il maestro Deshimaru criticava i discepoli che accettavano solo una piccola parte
dell’insegnamento, questo lo faceva andare in collera perché pensava che bisognasse vederne tutti gli aspetti.
D. - L’opposizione tra sesshin e vita quotidiana deriva forse dal nostro insegnamento che pone maggiormente l’accento sulla
pratica della sesshin piuttosto che sulla vita quotidiana ?
Y.R. - Forse, ma questo implicherebbe il dover dettagliare molto concretamente ciò che si potrebbe fare nella vita quotidiana e
immagino, forse a torto, che ognuno possa farlo da sé.
D. - La nostra tradizione non si basa sulla vita all’interno di un monastero, dove si vive 24 ore su 24, 7 giorni su 7 ed è
quindi più facile integrare tutti gli aspetti quotidiani. Sarebbe però interessante sviluppare questo insegnamento nella
vita quotidiana…Anche se ognuno è libero, sarebbe forse opportuno mostrare concretamente dei tracciati…
Y.R. - Forse, ma c’è il rischio di cadere nel dogmatismo e nel moralismo! In un insegnamento sul modo di praticare nella vita
quotidiana bisogna dare dei tracciati, degli esempi, ma non si può imporre un modo di essere, altrimenti, come diceva
Kodo Sawaki: « Lo zen è la via dell’ uccello, non è la ferrovia !»
Già durante la sesshin ognuno può chiedersi come pratica, quando si sveglia al mattino, quali gesti fare ecc.
D. - La sesshin lascia una forte impronta nelle nostre vite…
Y.R. - C’è da augurarselo ! Talvolta al contrario, appena finita la sesshin, si ha voglia di andare a spasso, perché ci si è sforzati
e costretti durante la sesshin.
D. - Nella vita quotidiana è più difficile, ci si può perdere, ricadendo nel nostro ritmo abituale e dimenticando di osservarci
come accade in sesshin…
Y.R. - Nel mondo attuale siamo sempre più assorbiti dall’azione, dal fare e dalla fretta, in un attivismo frenetico che aumenta
sempre più. Lo spirito della sesshin può insegnarci a prendere tempo, a resistere alla pressione degli altri… la stessa
pressione che noi esercitiamo sugli altri. Tutti hanno fretta, tutti corrono. « Dove corrono? Corrono verso la loro perdita.» (Sketch di Raymond Devos).
Alla fine di una sesshin, rientrando nella vita quotidiana, possiamo osare di non armonizzarci con un mondo folle, mantenendo un ritmo più tranquillo, resistendo e non lasciandoci trascinare nell’attivismo, nella confusione, mostrando agli
altri che non si tratta di fatalismo! In questo senso, la vita quotidiana è un campo di sperimentazione straordinario.
Invece di considerare la vita quotidiana difficile, noiosa, quasi come un impedimento alla pratica della Via, bisogna vederla al contrario come occasione di pratica: portare la macchina in officina e altre cose sgradevoli… Bisogna cercare di
affrontare ogni occasione come un koan e vedere come ci comporteremo.
D. - Le sesshin hanno degli orari ben concatenati e talvolta si ha l’impressione di essere un po’ stressati anche lì. Perché
un’organizzazione così stretta?
Y.R. - Non sono d’accordo, ritengo che ci siano sufficienti momenti di pausa, ma voi non ne approfittate, perché siete sempre
occupati a parlare con tutti senza rimanere in silenzio… questo dipende anche dal tipo di samu che si ha, lo shusso ad
esempio è sempre occupato con qualcosa. Forse sarebbe opportuno alleggerire un po’ i compiti durante una sesshin. Ho
adottato il ritmo attuale dal maestro Deshimaru, in quanto mi sembrava equilibrato. Altri godo fanno molto di più, ritenendo che la vita in una sesshin sia come la vita nel tempio, dove non c’è un momento per pensare a sé: si è costretti ad
abbandonare l’ego. Quando si entra nel tempio non si appartiene più a se stessi, c’è il programma da seguire. Penso che
questo sia eccessivo. D’altro canto non va nemmeno bene passare troppo tempo a parlare con gli altri e a rimuginare i
propri pensieri. Ho piuttosto l’intenzione di usare meglio l’organizzazione attuale, più che di cambiarla, rivedendo ad
esempio certe responsabilità troppo gravose. L’introduzione di assistenti è un tentativo di risolvere il problema:
l’assistente shusso, l’assistente segretario…
Non solo l’assistente deve farsi carico di una parte del lavoro, ma essere assistenti è anche molto formativo, bisogna
prendersi il tempo necessario di formare persone nuove alla funzione.
D. - A volte ci sono difficoltà a lavorare insieme, anche questo è l’interdipendenza. Tutto può funzionare bene se esiste una
vera collaborazione, ma a volte, dal momento che tutto è collegato, un errore può innescare una catena di conseguenze.
E’ importante riflettere anche sui piccoli compiti affinché siano fatti bene.
Y.R. - E’ l’occasione di vedere che l’interdipendenza è importante e che bisogna cercare di attualizzarla in una maniera
positiva, partendo da uno spirito di solidarietà e collaborazione, altrimenti può trasformarsi nella lotta, nel conflitto o
nel fastidio. In questi casi l’interdipendenza diventa penosa! Invece l’interdipendenza è neutra, se la facciamo funzionare positivamente diventa solidarietà e armonia, ma se rimaniamo chiusi nello spirito di ottenimento personale, fuggendo proprio l’interdipendenza, può diventare l’inferno ! Sono disponibile ai suggerimenti di miglioramento, ma ritengo che prima di cambiare l’organizzazione bisognerebbe cambiare il nostro modo di funzionare al suo interno e il nostro
modo di utilizzarla!
D. - E’ importante approfondire la funzione dell’assistente, altrimenti dividere i compiti non serve a nulla, si guadagna del
tempo solo facendo meglio.
Dualismo pratica - realizzazione
Un’altra fonte di dualità consiste nel separare la pratica dalla realizzazione, mentre il cuore stesso della nostra pratica
consiste proprio nel non separare pratica e realizzazione. Lo zen di Dogen si basa essenzialmente su quello che è quasi diventato il leitmotiv del nostro insegnamento. Al tempo stesso, possono esserci trappole anche in questo insegnamento, se mal compreso.
Si elogia lo spirito del principiante dicendo « Se vi concentrate sulla pratica di zazen come vi viene insegnata, questa è
già la realizzazione. » Dogen dice a più riprese: « Lo zazen dell’inizio è già la totalità del risveglio ».
Salvo che la realtà vissuta dal principiante che pratica zazen è avere dolori ovunque, essere pieno di preoccupazioni… e
gli si dice che questo è il risveglio!!! C’è bisogno perlomeno di una certa trasformazione. Bisogna fare attenzione, soprattutto quando si insegna, alle frasi fatte che diventano realtà precostituite, senza domandarsi veramente se corrispondono ad una realtà.
Approccio immediato - approccio graduale
E’ certo però che un'altra maniera di praticare porta con sé una trappola fondamentale, quella di fare degli sforzi ed utilizzare la pratica come una tecnica per ottenere una realizzazione spirituale. Con questo atteggiamento permane sempre lo spirito dualistico: ora faccio degli sforzi perché questo mi migliorerà in seguito, se faccio molti sforzi e se mi
concentro molto, otterrò il risveglio ! Apparentemente si tratta di buon senso, è logico, tutto ciò che rappresenta la via
graduale nel buddhismo, come per i Tibetani, insegna: « Concentratevi, a poco a poco realizzerete il risveglio. »Ciò che
nella nostra tradizione viene chiamato il risveglio immediato consiste nell’avere una pratica per la quale
l’abbandono della presa sia possibile in zazen. Come far sì che l’esperienza avuta ad un certo punto in zazen continui
nella vita quotidiana? In quel caso occorre ricordare tutti gli insegnamenti del Buddha destinati ad aiutare gli altri a
condurre una vita risvegliata o a continuare ad essere risvegliati nella vita quotidiana. Altrimenti, in caso contrario, significherebbe passare la propria vita a fare zazen o a rinchiudersi in un monastero, dove non c’è bisogno di paramita.
Se vogliamo che la nostra vita sia unificata a partire da zazen senza rimanere sempre seduti in zazen, dobbiamo incarnare a poco a poco realmente le paramita.
Quella che è stata vista come una « guerra » tra il risveglio immediato di Eno e il risveglio graduale di Jinshu e la sua
pratica progressiva, dipendeva soprattutto dai discepoli, non dai maestri, poiché ognuno pretendeva che il suo maestro
fosse il migliore. Anche questa è una trappola !
C’è stato un periodo in cui anche nell’ambito del nostro sangha, non erano tanto i godo ad opporsi quanto i discepoli a
criticare ( attivando questa tendenza), proprio come nei sangha di Jinshu ed Eno. Ciò avviene perché i discepoli vogliono rassicurarsi e convincersi di aver scelto il maestro migliore, di non essersi sbagliati e spesso si rassicurano criticando
gli altri maestri!Chi è giunto ad essere maestro o godo possiede una grande esperienza e una lucidità che implica una
maggiore accettazione delle differenze. Questa sensibilità accresciuta al livello dei godo influenza anche il sangha, creando meno separazioni rispetto al passato… I sangha particolarmente bellicosi non fanno più parte del grande Sangha.
Questo ci mostra anche come si può cadere in un eccesso che si trasforma nella trappola dell’attaccamento a una
visione unilaterale.
Trappola dell’individualismo
Separarsi dagli altri o diventare troppo individualisti è una trappola anche per i maestri, quando creano il loro sangha
evitando ogni confronto con altri maestri. E’ anche il caso di un praticante che si ripiega sulla propria pratica, sul proprio dojo: tutto ciò che ha a che fare con il ripiegamento su di sé e con l’assenza di apertura verso l’altro può diventare
una trappola ! E’ necessario sia concentrarsi là dove ci si trova, che avere l’apertura di spirito di andare in sesshin, di
incontrare eventualmente altri sangha e altri maestri. Che ci sia circolazione…
D. - E’ vero che quando non si ha la possibilità di andare in sesshin si corre il rischio di « raffreddarsi », di spegnere lo
slancio…
Y.R. - Questo è un insegnamento sul quale sia Kodo Sawaki che Dogen all’inizio del Bendowa ritornavano spesso ed è
l’insistenza sullo zen, sulla Via che pratichiamo insieme. D’altra parte siamo degli individui e può verificarsi anche la
trappola di perdersi nel gruppo avendo lo spirito gregario !
E’ importante capire che una cosa può essere positiva, ma che il suo eccesso può trasformarla in una trappola…
Questo ci fa comprendere che la prima qualità per seguire la Via è la saggezza. Senza saggezza non è possibile nessuna via spirituale, dal momento che tutto risulta deformato, diventando materia di attaccamento. Il rimedio contro
l’attaccamento è la lucidità, la saggezza, la capacità di vedere ciò che si sta facendo, se si sta tradendo lo spirito del
risveglio. Si parla anche dello spirito di buddha come di uno spirito vasto, che abbraccia tutte le polarità, infatti non
si evitano le trappole del dualismo volendo escludere uno degli aspetti della dualità affinché solo l’altro sia vero, ma
è necessario inglobare.
Paura di fronte all’immensità dei voti di bodhisattva, trappola del perfezionismo
I voti di bodhisattva che pronunciamo sono talmente immensi che ci si può scoraggiare totalmente e d’un tratto, si può
esitare a farsi ordinare di fronte a questo compito infinito, dal momento che ci si sente verosimilmente incapaci di realizzarli completamente. E’ la trappola del perfezionismo, per la quale si preferisce non fare nulla piuttosto che essere
incapaci di realizzarli.
E’ importante capire che anche se pronunciamo questi voti, non siamo noi, con il nostro ego, che possiamo realizzarli.
Quando si parla dello sforzo nella pratica, anche se è vero che bisogna fare degli sforzi, è necessario capire che il nostro
sforzo personale è limitato. A partire da ciò bisogna tenere in considerazione il fatto che è la pratica di zazen a realizzare i voti, in particolare quello di aiutare gli altri. Il nostro ruolo consiste nell’essere di aiuto agli altri, senza diventare il «
salvatore », aiutandoli a essere salvati attraverso la loro natura di buddha, acquisendo fiducia in essa, trasmettendo la
fede nella loro natura di buddha e nella pratica che permette di realizzarla. Il nostro ruolo in quanto bodhisattva è di fare
tutti gli sforzi, creando condizioni favorevoli affinché le persone possano praticare ed abbiano così l’occasione di risvegliarsi. Ma non siamo noi a salvarle personalmente.
L’altra trappola denunciata nel Sutra del Diamante consiste nel credere che ci siano degli esseri da salvare, mentre in
ultima analisi non c’è nessuno da salvare ! E’ il punto di vista assoluto, radicale della vacuità che non deve essere dimenticato. Nessuno salva e nessuno è salvato. Ma attaccarsi a ciò e non fare più nulla è una nuova trappola.
Siamo gli eredi di una tradizione detta immediata, dove non c’è dualità tra pratica e realizzazione, ma questo è vero solo se la pratica è giusta, shin jin datsu raku, con un totale abbandono della presa rispetto al corpo e alla mente,
all’ego e a tutti i nostri attaccamenti. Allora, a quel punto, la nostra pratica è veramente pratica-realizzazione.
Quando la nostra pratica è realmente shi jin datsu raku ? Dogen ha praticato zazen quindici anni prima di realizzare shin
jin datsu raku col maestro Nyojo. Questo significa che per quindici anni i suoi zazen non sono stati sempre la pratica
del risveglio. Ha cominciato ad affermare che zazen era la pratica del risveglio quando ha realizzato l’autentico zazen,
shin jin datsu raku.
E’ quanto ci sforziamo di insegnare ma, al tempo stesso, a forza di ripetere che fare zazen è il risveglio, se non diamo
alle persone i mezzi per farne l’esperienza, questo rimane una sorta di illusione. Improvvisamente possiamo dirci: «
Non realizzo il risveglio anche se faccio degli sforzi, quindi pratico male, abbandono questa pratica. » Si può obiettare:
« Il punto è che non bisogna voler arrivare a qualche cosa.»
Dunque la vostra pratica diventa autenticamente risveglio nel momento in cui è mushotoku, nell’istante in cui smettete di attaccarvi a un risultato. Ma questo richiede un approfondimento, una comprensione, un’esperienza! Se, fin dal
primo giorno, insegnate ai principianti mushotoku e dite che zazen stesso è satori, questo potrebbe sembrare lontano dalla loro vita!
Questa difficoltà può trasformarsi in trappola se si ripete a pappagallo questo insegnamento senza permettere a chi lo
ascolta di capire a quali condizioni può diventare una realtà realizzabile. Può sembrare facile, ma non è così semplice.
Chi pratica costantemente lo zazen shin jin datsu raku ? E’ difficile a dirsi! In ogni caso non io!
Questo significa forse che sarebbe necessario reintrodurre una pratica progressiva, per permettere che le persone arrivino progressivamente a shin jin datsu raku ? In questo caso Jinshu avrebbe avuto ragione rispetto ad Eno ? Bisogna considerare che questi due approcci sono stati opposti in modo caricaturale, mentre in realtà Jinshu ed Eno erano molto amici. Molti maestri hanno respinto l’opposizione tra l’approccio immediato e quello graduale, dal momento che sono
presenti entrambi gli aspetti nella Via dello zen.
L’approccio immediato si situa nel qui ed ora, ma per arrivare ad avere una pratica che sia realmente qui ed ora, una
pratica di risveglio, è spesso necessaria una certa preparazione e dunque siamo nell’ambito della gradualità.
Lo zazen shin jin datsu raku è immediato, ma perché diventi quotidiano richiede una pratica graduale ed è la ragione
per la quale esiste l’insegnamento delle paramita, che sono l’espressione di zazen, come i precetti, ma che al tempo
stesso sono degli indicatori che ci mostrano il modo di essere giusti nella vita quotidiana. Se vogliamo che il risveglio
di zazen continui ad essere un risveglio nella vita quotidiana, bisogna essere capaci di avere un comportamento etico,
seguire i precetti, praticare il dono, avere pazienza… Le paramita sono una forma di pratica progressiva che possiamo
vedere sia come una tappa precedente la realizzazione di una pratica di risveglio, che come una pratica successiva.
Quarta grande trappola
Confusione tra buddhismo e tecniche di benessere
Un’altra trappola consiste nel confondere buddhismo e terapia, entrando così nell’ambito di una tecnica di benessere
che mira a soddisfare i bisogni dell’ego umano. Si tratta della trappola del materialismo spirituale.
Anche se può essere una porta di ingresso alla pratica, non bisogna lasciare i principianti nell’illusione che si tratti
del senso della pratica e che tutto si riduca a quello, altrimenti si tratterebbe di una pratica basata sull’avidità e sul
rafforzamento dell’attaccamento all’ego. Non può esistere benessere finché non si è in armonia con la nostra autentica essenza, finché non si diventa un essere autentico, in questo senso il vero benessere è condizionato dal risveglio.
Il fatto che le persone ricerchino il benessere e abbiano voglia di seguire una via che apporti dei benefici, pare talmente
legittimo che sarebbe stupido trascurare questa dimensione della pratica. Il maestro Deshimaru ha insistito molto, soprattutto nelle conferenze destinate ai principianti, sui benefici di zazen, ricordando tutte le sue ripercussioni benefiche
sulla salute. Aveva fatto stampare un elenco nel suo sutra book: « I dieci meriti di zazen ». Ma quando ne parlava, dopo
un po’, si fermava e diceva: « Ma i meriti di zazen si realizzano solo se siete mushotoku. »
La trappola del materialismo spirituale
Se entrate nella Via con lo scopo di ottenere dei meriti, con uno spirito di profitto, siete nell’avidità che annulla i benefici della pratica, dal momento che non siete più nello spirito della Via. Ci si sbaglia sin dall’inizio riproducendo nella
pratica quello spirito di avidità che è il veleno fondamentale e che impedisce ogni liberazione. Ritroviamo questa avidità in tutti gli ambiti. Ai tempi di Dogen molti monaci ottenevano onori grazie alla carriera monastica e Dogen ha combattuto a più riprese questo atteggiamento. Ai nostri giorni questo aspetto è meno evidente, perché essere monaco non è
più un titolo onorifico e non implica più molti benefici sociali.
Per ciò che riguarda il benessere, esiste effettivamente il rischio di ridurre la dimensione liberatrice di zazen a qualcosa
che ci fa sentire meglio facendoci risolvere i nostri piccoli mali quotidiani, ma questo atteggiamento non fa altro che
rafforzare l’ego, l’origine degli attaccamenti. Non si deve manipolare la Via per il proprio profitto. Nelle riviste in cui si
parla di spiritualità e benessere tutto è mischiato. Anche nell’AZI siamo vigilanti affinché le persone non facciano confusione.
E’ un punto delicato, perché occorre compassione nei confronti di coloro che ricercano una migliore qualità di vita, che
sono tesi; possiamo mostrare loro che la pratica di zazen può aiutarli ad essere meno stressati. Ma soprattutto è importante non lasciarli nell’illusione che sia questo il senso autentico della pratica e che non ci sia altro. Bisogna essere capaci di aprire il ventaglio della Via per mostrarne tutti gli aspetti, offrendo ciò di cui le persone hanno bisogno al momento: calmare le loro angosce, il loro stress: « Sì, è possibile lavorare su questo punto, senza credere che lo zen si riduca a questo… »
D. - Mi piace molto l’immagine di aprire la montagna perché comprende molti aspetti, molte porte attraverso le quali le
persone possono entrare nella montagna. Non bisogna aspettare di avere un infarto per cominciare a pensare di cambiare vita…
Y.R. - Non può esserci autentico benessere finché non si è in armonia con la nostra essenza, finché non si diventa un essere
autentico.
In definitiva, il vero benessere è condizionato dal risveglio.
- D: Forse è ancora più facile da capire se tutto va bene, perché malgrado si abbia una buona salute e ci si senta a proprio
agio, si avverte che c’è comunque qualcosa che non funziona, che manca.
Y.R. - Forse per questo motivo la società americana, che è la più evoluta economicamente, ha mostrato i primi segnali di
interesse per un rinnovamento spirituale con i movimenti di liberazione degli anni sessanta, sollecitati da una generazione di giovani che avevano tutto, ma non erano soddisfatti. Chi sopravvive con difficoltà pensa che starà meglio il
giorno in cui raggiungerà il livello vitale minimo. Questo è vero, ma si rivelerà presto insufficiente.
Il benessere è una porta di ingresso nella Via, ma è importante far capire che cos’è il vero benessere.
Quinta grande trappola
Confusione tra i due livelli della realtà, la vacuità e la trappola del nichilismo
La vacuità è il rimedio a tutte le forme di attaccamento: significa realizzare la vacuità delle nostre illusioni e dei nostri attaccamenti, del nostro ego sostanziale e del nostro essere in totale interdipendenza con tutti gli esseri e con tutto il cosmo. La trappola consiste in una errata comprensione del termine vacuità associato al vuoto, che porta ad
una visione nichilista dell’esistenza.
Nota: questo tema sarà sviluppato a Grube Louise nel campo di primavera 2011 con lo studio dell’insegnamento fondamentale della vacuità.
Anche dopo 30 anni di pratica ci sono persone che non comprendono la vacuità, come se ci fosse un velo, un blocco ! Il
termine stesso evocherebbe qualcosa di pericoloso nel quale l’ego ha l’impressione di dissolversi, di perdere i suoi punti
di riferimento. La conseguenza è che ci si blocca e non si accoglie serenamente l’insegnamento sulla vacuità. C’è una
resistenza molto forte .
Bisogna cercare di vedere questa resistenza e al tempo stesso capire che la vacuità è il rimedio a tutte le forme di attaccamento, è l’espressione della realtà così com’è e non è il nulla ! La vacuità ha due aspetti fondamentali: è l’assenza di
sostanza per la quale, se analizziamo un essere, scopriamo solo le sue componenti ( Hannya Shihgyo, i 5 aggregati, i
quattro elementi ). Com’è confermato dalla scienza moderna, non c’è essere dal momento che c’è solo una combinazione di elementi, non c’è sostanza e l’assenza di sostanza immutabile è la vacuità. Ma il fatto che il nostro essere non possieda sostanza fissa non significa che noi non esistiamo e che cadremo nel nulla, diventando nichilisti o inesistenti, significa semplicemente che la realtà della nostra esistenza è altro rispetto a ciò che immaginiamo. Non si tratta di essere
un essere sostanziale, ma di essere un essere fatto di relazioni, di interdipendenze. Esistiamo solo attraverso queste relazioni d’interdipendenza. E’ un fatto estremamente positivo, perché implica una totale apertura e vuol dire che il mio
essere non è limitato solo al mio sacco di pelle, ma è in unità con tutto il cosmo. Anche la nascita e la morte non sono
limiti per l’esistenza. La nostra natura profonda di buddha è infinita, al di là della nascita, della morte, dei limiti del nostro ego, del nostro sacco di pelle. E’ la vita in unità con tutto l’universo. E’ la realizzazione di tutti i mistici, ciò che le
religioni cercano di farci ritrovare collegandoci con l’essenza dell’esistenza. Sono le nostre illusioni ad essere vuote.
Quando si parla di vacuità si intende la vacuità delle nostre costruzioni mentali che non corrispondono alla nostra realtà.
Il vuoto è quello delle nostre illusioni, non quello della realtà in quanto totale interdipendenza e relazioni. Accettare tutto ciò implica un modo di vivere diverso, che mette in evidenza un aspetto della nostra esistenza molto più positivo e
che non ha nulla a che vedere col nichilismo. Al contrario, ci apriamo a una maniera di vivere molto più ricca di valori
fondamentali come la benevolenza, il rispetto degli altri, della vita ecc. E’ questa l’origine di tutti i precetti.
D. - Perché è così importante parlare di « vacuità » e di vuoto anziché usare il termine « le esistenze in relazione » ? Perché
non utilizzare gli aspetti più positivi del linguaggio, quelli che aprono alla comprensione, a maggior ragione dal momento che, come dici, il termine vacuità genera resistenze e blocchi ?
Y.R. - Bisogna mostrare bene i due aspetti. Parlo altrettanto, se non di più « di interdipendenza », « di unità con tutto
l’universo », questi concetti ritornano in quasi tutti i miei kusen. E quando parlo di vacuità preciso sempre: vacuità intesa come assenza di sostanza delle nostre costruzioni mentali e non assenza di realtà della vita !
Questo punto è fondamentale, poiché la vacuità è la chiave per uscire dall’illusione, ma vi ricordo che può diventare
una trappola se diventa attaccamento e causa di sofferenza.
Nagarjuna dice: « I buddha hanno insegnato la vacuità per aiutare gli esseri a liberarsi dai loro attaccamenti, ma gli esseri che si attaccano alla vacuità sono irrecuperabili.»
La vacuità può liberare gli esseri, ma se non è ben compresa diventa una trappola che ci spaventa e ci allontana dalla
Via, facendoci preferire la via cristiana che parla dell’essere.
Oppure ci si attacca alla vacuità ritenendo di averla compresa, ma si sviluppa una visione nichilista della vita, che può
darci un certo distacco e una certa serenità. Ma stando così le cose si perde l’altro versante della vacuità che è
l’esistenza in interdipendenza, per la quale esistiamo solo in relazione con tutti gli esseri. E se non vediamo gli esseri
che soffrono, con i quali siamo in relazione e che dobbiamo aiutare, allora la nostra vita perde tutto il suo significato.
La giusta comprensione della vacuità è la cura che ci fa uscire dalle trappole. Altrimenti essa stessa diventa una
trappola, che ci impedisce di risolvere l’attaccamento, per cui ricadiamo in tutte le altre trappole.
DOMANDE - ALTRE TRAPPOLE
INCONTRATE SULLA VIA
Eccesso di impegno* Eccesso di identificazione* Eccesso di zelo* Eccesso di fiducia o di prudenza * Proselitismo *
Azione troppo centrata sulla razionalità * Illusione circa la propria comprensione* Ku: non azione* Attaccamento
ad aspetti culturali, all’istituzione* Rifiuto sistematico dell’istituzione* Attaccamento all’identità di monaco* Attaccamento al buddhismo
L’eccesso di impegno, di identificazione
Trappola di una pratica troppo volontaristica per il principiante.
Bisogna aspettare che il frutto maturi…e lasciar fare a zazen
D. - Nel dojo i debuttanti sono un po’ impressionati di fronte a chi è molto impegnato, che pratica con intensità e pensano
che non raggiungeranno mai quel livello.
Y.R. - E hanno anche paura di doversi impegnare e frequentare il dojo con la stessa intensità degli anziani e del responsabile.
Temono di rimanere incastrati e di dover rinunciare alla loro vita sociale. « Saremo obbligati ad andare al dojo tutte le
sere mentre avremmo voglia di andare al cinema…», saremo obbligati ad abbandonare la civetteria, mentre ci piace
truccarci…A volte si sente dire: « E’ molto interessante, ma non vengo più perché non ho voglia di rinunciare ai miei
piaceri. » Anche se si risponde: « Guarda che puoi continuare ! »
L’abbandono della presa non può essere deciso né volontariamente, né imposto da altri, avviene naturalmente, è come il
frutto che cade quando è maturo e quando cade questo distacco non provoca sofferenza, ci si separa da una cosa che
ormai è priva di valore. Ero un appassionato di cinema, andavo a vedere molti film in una stessa giornata! Ora ci vado
al massimo una volta ogni cinque anni, perché non ne ho più voglia e questo non mi crea problemi! Di fronte alla vita di
un monaco che ha pochi attaccamenti le persone possono provare paura perché si dicono: « Questo monaco ha abbandonato molti attaccamenti. » Ma lo zen non dice: « Devi abbandonare i tuoi attaccamenti. »
Lo zen dice: « Impegnati a praticare zazen, impara a conoscere te stesso. » Questo, per cominciare, costituisce già una
liberazione, perché così non proiettiamo più le nostre caratteristiche sugli altri. Si può migliorare. Più si procede nella
comprensione di sé, più si comprende che « se stesso », l’ego, non è nulla, è una costruzione mentale che è solo vacuità,
quella è la comprensione finale. Se si è arrivati ad un livello di maturità nella pratica, al termine di una lunga trasformazione, si comprende che tutto ciò non ha più valore e da quel momento non è più vissuto come una perdita o un sacrificio. Qui l’insegnamento del Buddha si rivela prezioso, perché se all’inizio è difficile immaginare che non sia una perdita, è facile invece vedere tutte le sofferenze che sono legate all’attaccamento. L’arte di insegnare il distacco non ha
niente a che vedere con l’affermazione: « Non bisogna essere attaccati », ma consiste nel mostrare che gli attaccamenti possono diventare cause di sofferenza
D. - E’ un ostacolo per coloro che iniziano la Via, ma non una trappola.
Y.R. - Potrebbe diventare una trappola se qualcuno si sforzasse di farlo, obbligandosi con la sforzo e la volontà e questa è la
trappola della pratica troppo volontaristica, con la quale si cerca di aderire al modello del godo o del responsabile di
dojo. Invece di lasciar fare a zazen e di lasciare agire questa alchimia progressiva che trasforma seguendo un ritmo naturale, si cerca di cambiare con la volontà e questa è una grande trappola! Oppure si sarà ascoltato e compreso intellettualmente l’insegnamento della vacuità che è contro questa trappola e anche questo è una grande trappola.
Ci sono due modi per liberarsi dagli attaccamenti: la concentrazione, da una parte e l’osservazione e la comprensione
della vacuità dall’altra.
Quando non c’è più nulla a cui potersi attaccare, allora non c’è più nessun sacrificio da fare per distaccarsi ; ma finché
non si è realmente compreso si cade in una falsa vacuità, che non è realizzata ma è nichilista e conduce alla negazione
di se stessi, mentre la vacuità autentica ci libera, permettendoci di diventare realmente noi stessi. Come è detto nel
Genjokoan: « Imparare a conoscere se stessi è dimenticare se stessi ed essere riconosciuti da tutte le esistenze », cioè
realizzare il risveglio con tutti gli esseri. Questo non ha niente a che vedere con un sacrificio, si tratta piuttosto di una
realizzazione.
Rimedio: Un principiante non comprende tutto ciò subito, bisogna lasciarglielo intravedere, ci vuole tempo. Soprattutto
bisogna ripetere: « Date fiducia a zazen, fate zazen, poi capirete !»
Eccesso di zelo: trappola alimentata dall’attaccamento all’ego o al maestro
D. - Spesso, quando ci si impegna molto e si è troppo coinvolti nella pratica si rischia di rafforzare l’ego. E’ una trappola? E
se sì, cosa si può fare ?
Y.R. - Lo zelo in sé non è negativo, ma diventa una trappola nel momento in cui è animato dall’ego e da un attaccamento al
proprio maestro che implica un desiderio di riconoscimento da parte sua.
Rimedio: Per evitare queste trappole o per non crearle, bisogna essere attenti a ciò che succede: « Che cosa sto creando
ora? » Con questa domanda ritorniamo alle fondamenta della pratica dello zen: imparare a conoscere se stessi. E’ comunque meglio un eccesso di zelo piuttosto che un eccesso di pigrizia, ma lo zelo non è solo negativo, perché può anche essere animato da una grande benevolenza nei confronti di tutti gli esseri e da un desiderio di condividere la pratica.
In questo caso diventa naturale e l’ego non se ne appropria più.
Ancora una volta è l’attaccamento all’ego che trasforma ogni cosa, anche buona, in veleno e in trappola.
E’ una ragione in più per continuare la pratica e approfondirla, anche se si è insegnanti, perché più si procede, più si
scoprono le illusioni, anche se sono più sottili.
Proselitismo: solo se si cerca di convincere una persona non interessata
D. - Fin dove ci si può spingere quando si è talmente impegnati nella Via da sublimarla e da volerla condividere convincendo le persone ? Quando si può parlare di proselitismo?
Y.R. - Si parla di proselitismo quando si cerca di convincere qualcuno che non è interessato. Il principio di base è non parlare
di Dharma quando vediamo che le persone non sono interessate. Se lo si vuole imporre con la forza ci si espone a un
rifiuto che non serve a nulla. Ciò che è ridicolo nel proselitismo, come nel caso di tutte le sette che vogliono entrare in
casa vostra per forza per convincervi, lo è anche per il Dharma: non si può farlo entrare a forza. Al contrario è positivo desiderare di far conoscere la Via, bisogna solo essere vigilanti e farlo quando la persona è pronta ad ascoltare.
Bisogna sviluppare l’empatia necessaria a scegliere il momento giusto nel quale la persona ha la sensibilità di cuore e di
spirito per percepire la realtà in modo diverso, creando le condizioni per parlare dello zen.
D. - Ogni volta che si presenta l’occasione di parlare del dojo bisogna approfittarne ?
Y.R. - Sì, se è opportuno. Esistono modi diversi per farsi conoscere: i media, le giornate porte aperte, ecc. E’ opportuno far
sapere che la pratica dello zen esiste anche tra di noi, non è legata solo all’oriente. Bisogna dire di cosa si tratta, perché
il termine « zen » è diventato un aggettivo corrente nella lingua francese, come l’espressione « essere zen »: la maggior
parte delle persone non sanno da cosa derivi, né cosa sia realmente. E’ quindi importante chiarire il termine e far sapere
che lo si può praticare qui ed ora. Tutto ciò non rientra nel proselitismo, è piuttosto della buona pubblicità, nel senso di
« rendere pubblico », facendo sapere che lo zen esiste, come se si esponesse un cartello con la scritta: « Il cammino è in
quella direzione. » Ognuno è libero di seguirla o no …
Eccesso di fiducia o di prudenza
Non addolcire troppo, avere il coraggio di mostrare i due versanti: quello che disturba l’ego e quello che libera
D. - Spesso si commettono errori nei confronti dei principianti, non si presta attenzione alla realtà delle persone che
praticano. Si è talmente convinti della pratica e della maniera in cui si insegna, che si rischia di non accorgersi che gli
altri non capiscono. Tutto ciò può creare una falsa comprensione: da un lato si crede di aver capito e si agisce in un certo modo, ma dall’altro non è giusto rispetto alla realtà del praticante.
E, per reazione, si rischia di usare una prudenza eccessiva, cadendo nell’altro eccesso e non osando dire nulla per paura
che la persona se ne vada.
Y.R. - Spesso la verità ferisce e può far fuggire: bisogna trovare il modo giusto per dirla. Tutto ciò non riguarda unicamente il
rapporto personale, è l’insegnamento del Dharma stesso che può ferire e disturbare l’ego. A questo proposito uno degli
aspetti della paramita della pazienza è proprio l’essere pazienti nel confronti del Dharma, perché bisogna essere pazienti per integrarlo, accoglierlo, supportando questa verità che disturba l’ego. E’ giusto essere prudenti in relazione agli altri per non andare troppo veloci, per non imporre una visione, una pratica che si ha e che non corrisponde necessariamente alla capacità dell’altro di accettarla. Ma un eccesso di prudenza porta ad essere troppo diplomatici, ad addolcire
troppo l’insegnamento: le parole « vacuità », « non-ego », non verranno pronunciate per paura di turbare le persone e di
farle fuggire, come il ruggito del leone che fa fuggire il pollaio! Il maestro Deshimaru era molto abile nel giocare costantemente su vari livelli: in un certo momento insegnava che tutto è vacuità, come l’Hannya Shingyo, che non c’è satori, poi nel mezzo del discorso si fermava dicendo « E’ proprio se realizzate ciò, mushotoku, che non c’è nulla da ottenere, che potrete realizzare veramente i meriti della pratica, tra cui il migliore è la liberazione. »
In rapporto a ciò che temiamo di insegnare, bisogna sempre mostrare i due aspetti: quello difficile che disturba l’ego,
ma anche quello positivo che libera il sé. Quindi ciò che può apparire come una perdita, un danno, è in realtà la più
grande ricompensa che si possa avere nella vita.
Per quanto riguarda l’eccesso di fiducia in sé, se si pratica da molto tempo e si insegnano cose apparentemente evidenti, nyo ze no ho « così è il Dharma », si ritiene che pronunciandole tutti le capiranno, accorgendosi però che non è
così! Bisogna essere sufficientemente empatici per percepire ciò che l’altro può comprendere, qual è la parola migliore
e questo richiede molta sensibilità.
D. - Con i debuttanti sono molto attento al linguaggio, più che « regole », utilizzo « modi » per entrare in zazen.
Y.R. - Ogni parola ha una connotazione, oltre al suo senso letterale evoca dei significati collaterali. Ad esempio « cerimonia
del pentimento », ha una connotazione immediata che rimanda al senso di colpa, al peccato e a tutto il passato giudaicocristiano che ne deriva… ma non è così !
D. - A volte evitiamo di utilizzare una parola corretta, penso che sia importante ad esempio usare il termine « pentimento »
anche se capisco il pericolo della connotazione. Non sono pronto ad abbandonare tutte le parole mal interpretate dai
Cristiani. Credo le si debba riempire del significato che conferiamo loro.
Y.R. - Certo, a patto di spiegare, altrimenti si corre il rischio del rifiuto di fronte all’incomprensione. Per quanto riguarda la
fiducia non vedo trappole nell’avere troppa fiducia nel Dharma.
Azione troppo centrata sulla razionalità
Ci sono casi in cui l’ego traina il Dharma, a quel punto il Dharma è debole e l’ego è forte, in altri casi il Dharma traina
l’ego, a quel punto il Dharma è forte e l’ego è debole.
D. - A volte siamo troppo guidati dal mentale, vogliamo fare un’azione giusta. Siamo guidati dalla volontà e dalla coscienza
personale, ma ci allontaniamo dalla nostra intuizione che percepisce ciò che bisogna dire e fare. Bisogna essere in accordo con ciò che sentiamo, in funzione della situazione. Non si è più spontanei. Più che usare le parole bisogna essere
d’esempio, rimanendo ben centrati.
Y.R. - I maestri zen mettono spesso in guardia circa il rischio di rimanere prigionieri del mentale, della coscienza personale.
L’opposto è la spontaneità e questo è un punto delicato, perché se non si è sufficientemente radicati nella pratica saranno le cose che facciamo o diciamo abitualmente, i riflessi dei nostri bonno o dei nostri errori a sorgere spontaneamente.
A volte è meglio riflettere prima di agire, piuttosto che fare spontaneamente una stupidaggine!
Legami con effetti collaterali
D. - Attualmente vivo una fase in cui privilegio l’analisi, perché tendo a dire delle stupidaggini citando frasi zen, nel senso
che quello che dico può sembrare a chi mi ascolta e che non pratica del tutto al di fuori del contesto.
Y.R. - Qui si può cadere nella trappola dell’unilateralità, secondo il modello « o / o ». Da un lato c’è la spontaneità a tutti i
costi, pronta a fare spontaneamente degli errori, dall’altro c’è il contrario, che ci fa dire « non va bene.» Bisogna per
prima cosa riflettere bene, ma riflettendo troppo su tutto ciò che si dice e si fa rischiamo di bloccarci nell’altra direzione. La trappola è che lo spirito cerca un modo di funzionamento unico, mentre sono necessari i due aspetti. Dogen ha
impartito un insegnamento molto interessante che viene spesso dimenticato. Ancora recentemente ho partecipato a un
seminario organizzato dalla Sotoshu, nel quale un maestro ha fornito una spiegazione molto interessante, dimenticando
però che Dogen aveva già dato 800 anni fa la risposta al problema posto!
Si tratta della risposta data da Dogen nel Gakudo Yojinshu, un testo di base raccomandato a coloro che desiderano approfondire la loro pratica dello zen. Nel settimo capitolo è detto: «Ci sono casi in cui l’ego tira il Dharma, in quel caso il
Dharma è debole e l’ego è forte, e ci sono altri casi in cui il Dharma tira l’ego, in questi il Dharma è forte e l’ego è debole».
Quando l’ego traina si pratica il Dharma con la propria riflessione, con la coscienza personale e quindi l’ego discrimina
e riflette. In questo caso, se si pratica con questo aspetto dello spirito, il mentale si sviluppa, ma il Dharma diventa debole, dal momento che il mentale ci imprigiona nelle categorie impedendoci di andare al di là e di capire le cose più
profondamente. Dunque si può pensare che la Via giusta sia il contrario! Ed è il caso in cui il Dharma tira l’ego: il
Dharma è forte e l’ego debole. Qui contempliamo l’idea di abbandonarci al Dharma, senza riflettere troppo, senza analizzare, lasciando cadere il mentale per essere solamente nella coscienza hishiryo, nella quale ci lasciamo trasportare e
trascinare dal Dharma.
Ma Dogen non dice che questo secondo caso sia migliore ! In realtà dice: « Nel Dharma del Buddha sono esistiti sempre
questi due aspetti e coloro che non sono gli autentici eredi del Buddha e dei patriarchi ignorano ciò. » Sono dunque prigionieri dell’alternativa tra la spontaneità, l’intuizione e la razionalità e il mentale. C’è un tempo per l’analisi e uno per
l’abbandono della presa. Esistono i due aspetti e bisogna essere capaci di funzionare nei due modi.
E’ come un’auto che non si può guidare rimanendo sempre alla stessa velocità: mettere in folle, scalare le marce secondo le circostanze, secondo la strada… questo permette di muoversi in armonia con la realtà del momento. In Cina
l’incarnazione della stupidità è un ragazzo chiamato Tanpankan, che passeggia con un grande trave sulle spalle che lo
blocca impedendogli di voltare facilmente sui sentieri di montagna. Ha un atteggiamento che gli impedisce di adattarsi
alla realtà del momento.
Illusione circa la propria comprensione
Il sangha può mostrarci che siamo nell’illusione
Y.R. - E’ importante renderci conto di quando cadiamo nell’illusione circa la nostra comprensione. Il ruolo del sangha consiste
nel mostrarci l’illusione: se vivessimo in solitudine, rischieremmo di pensare di aver capito tutto, illudendoci.
D. - Come possiamo utilizzare le osservazioni del sangha sulle nostre illusioni, senza per questo sentirci feriti ? Come
permettere che il sangha rivesta il ruolo di specchio, pur preservando l’armonia nelle relazioni ?
Y.R. - Bisogna comprendere quanto dice Yoka nello Shodoka, quando parla di trasformare la critica nel proprio miele,
accogliendola come un regalo. In genere le persone sopportano male le critiche. Per di più nei precetti è detto che non
bisogna criticare! In effetti è piuttosto: non bisogna parlare degli errori degli altri. Non bisogna criticare con
l’intenzione di sminuire gli altri, come se fossimo superiori. Se si ha un ego fragile, la minima critica ci destabilizzerà,
se invece abbiamo sufficientemente fiducia in noi, se siamo ben radicati nel nostro ego, la accettiamo più facilmente. Il
rimedio nel sangha è che la critica deve essere fatta costruttivamente e non deve essere percepita come un modo di distruggere o sminuire. Quando si riceve una critica la si deve percepire a priori come benevola, come un aiuto. Anche se
è priva di benevolenza, bisogna capire che ci mostra qualcosa: o ci mostra che ci siamo sbagliati, o, nel caso in cui sia
solo malevola, possiamo dire: « Non accetto questa critica ! » Non siamo obbligati ad accoglierla.
Il Buddha era spesso criticato da coloro che non condividevano il suo insegnamento e un giorno, dopo aver ascoltato un
bramino che lo aveva sommerso di critiche, gli disse: « Hai finito ? E’ come se mi avessi portato un piatto che non
mangio! Portalo indietro ! »
Invece di dire « criticare » è meglio dire: « Non parlare degli errori degli altri », è più profondo. Il Maestro Deshimaru
parlava spesso degli errori e degli sbagli degli altri per farci capire esattamente ciò che non bisogna fare. Lo faccio
anch’io ma non del tutto…A volte critico in assenza dell’interessato, per dare il buon esempio, che viene utilizzato come insegnamento, per dire che non bisogna agire così. Forse non lo faccio abbastanza e, quando lo faccio, mi scontro a
volte con l’incomprensione.
La cosa migliore prima di criticare è riflettere bene e indagare cosa avviene in noi in quel momento: « Con che spirito
critico? E’ una vendetta perché mi ha criticato prima? La mia critica è giusta, basata sulla realtà?»
Il giusto comportamento perché sia accettata è l’attitudine gassho: « Molte grazie per aver segnalato il mio errore ».
Nel sangha le critiche dovrebbero essere sempre ricevute come un regalo.
Ku: non-azione
Lo zen non è unicamente una via contemplativa o una via dell’azione, è necessario un interscambio tra la meditazione e l’azione nel mondo.
D. - Se si esagera, si rischia di fuggire i pericoli decidendo di non agire. Alla fine non si sbaglia mai… non facendo nulla.
Y.R. - E poi si cade in uno stato di indifferenza in cui ci si beffa di tutto, ritenendo di aver raggiunto una certa serenità, che
nulla ci tocchi… Si è spesso ritenuto che il buddhismo e lo zen fossero contemplativi e che insegnassero il distacco, che
si fosse seduti nella vacuità, nel non-attaccamento ai pensieri, quindi nel ritiro dal mondo.
Spesso si paragona il dojo a una foresta nella montagna dove ci si può ritirare dal mondo delle costruzioni umane, dal
mondo dell’attivismo, prendendo distanza, smettendo di agitarsi troppo, di parlare troppo ed esiste un aspetto del buddhismo simile. In realtà l’insegnamento del Buddha non è così, non è l’insegnamento della passività contemplativa.
Ci sono anche certi monaci zen per i quali la Via del Buddha è al contrario la via dell’azione giusta. Se ci si ritira
dall’agitazione è proprio per vedere più chiaro e per non essere troppo coinvolti dai fenomeni, ma non per essere nella
condizione di felicità ed equanimità di colui che è distaccato da tutto. E’ per potersi impegnare nel mondo. La filosofia
del Buddha è quella del bodhisattva, è l’insegnamento del Mahayana per il quale esiste sia il ritiro dal mondo che il «
rientrare » nel mondo.
Per questo motivo la pratica nei dojo in città è così preziosa e consente di praticare questo andare-venire tra il mondo
ordinario, la città e il ritiro nella montagna. Bisogna trovare il modo giusto di pensare per agire bene.
E’ la critica di Dogen a Wanshi che apparteneva piuttosto al versante contemplativo, mentre Dogen era più per l’azione
e l’impegno. Lo zen che pratichiamo si ispira principalmente a Dogen e Keizan e non è uno zen della contemplazione
passiva. E’ lo zen dell’interscambio tra meditazione ed azione, dove i due aspetti devono essere armonizzati.
Rimedio: Se si attraversa un periodo nel quale si ha voglia di ritirarsi, forse è opportuno farlo per un po’, è importante
accettarlo, dal momento che la vita è una successione di tempi, di istanti: ci sono momenti per ritirarsi e momenti per
impegnarsi nuovamente. Presso i Tibetani è abituale che i Lama con molte attività, discepoli, un bel giorno si ritirino
per un anno o due. E’ positivo darsi un momento di pausa. Personalmente lo pratico nel quotidiano andando a camminare un po’ almeno un giorno alla settimana. Ognuno deve trovare il proprio equilibrio e la maniera giusta di ritemprarsi,
di astrarsi dai fenomeni e dall’azione. Molto spesso il modo migliore di ritirarsi è andare al dojo e fare zazen, il dojo
rappresenta la montagna, ma a volte si ha bisogno d’altro, non solo di zazen. Del resto i dojo zen sono quasi sempre costruiti in montagna e i nomi dei maestri zen provengono spesso dal nome della montagna dove praticavano. Bisogna
trovare il modo giusto di ritirarsi per poi ritornare. E’ soggettivo, bisogna conoscersi e imparare a gestire la propria energia, la propria situazione, si tratta di saggezza pratica.
Attaccarsi ad aspetti culturali, alle istituzioni
Bisogna sperimentare e valutare
D. - Quando la pratica proviene da un’altra cultura, mette in evidenza determinati aspetti che vengono considerati essenziali,
mentre gli stessi aspetti sono forse meno percepiti come tali qui da noi.
Y.R. - Al tempo del Buddha, in India, c’erano pochi rituali, mentre nella Cina dei Tang i rituali erano molto più diffusi e in
Giappone ancora di più.
D. - Dal momento che la nozione di « patriarchi » non esisteva in India, è da considerarsi veramente essenziale ?
Y.R. - Questo punto merita una riflessione. Anche i giapponesi della Sotoshu che organizzano ango ci dicono spesso: « Vi
mostriamo la tradizione come la pratichiamo qui da noi, ma questo non vuol dire che voi europei dobbiate fare altrettanto.» Tuttavia, bisogna sapere come praticano loro, poi sta a noi attingere in quella tradizione ciò che è giusto per la nostra cultura e adattarlo.
Il fenomeno dell’acculturazione può essere delicato, poiché implica trapiantare degli elementi da una cultura verso
un’altra. Alcuni vogliono diventare delle perfette imitazioni di Eihei-ji, altri vogliono eliminare ogni forma di rituale,
sul modello di Antaj-ji, altri ancora, come me, cercano un equilibrio tra i due aspetti. In ogni caso non si tratta di una
cosa che può essere fatta volontariamente e consciamente, ma c’è bisogno di tempo, nonché di esperienza e osservazione, non bisogna essere precipitosi. Se si accelera troppo questo processo, si rischia di usare troppo il mentale e di commettere degli errori.
D. - Abbiamo introdotto nella nostra pratica molti elementi della cultura giapponese laica come, ad esempio, il modo di
mangiare.
Y.R. - Sì, anche in India ci si saluta in gassho. Per quanto riguarda il modo tradizionale di mangiare in Giappone, in realtà è lo
zen ad aver influenzato la maniera giapponese di mangiare.
D. -- I Giapponesi hanno tratto dalle istruzioni di Dogen solo ciò che era loro più congeniale. Ad esempio per quanto
riguarda la toilette, un giapponese non farebbe mai come consiglia Dogen, con le otto manciate di sabbia… Quindi, anche i giapponesi fanno delle distinzioni, sopprimendo ciò che proviene da un’epoca ormai passata.
Y.R. - Non bisogna voler riflettere troppo, prima di rifiutare qualcosa bisogna averlo sperimentato e compreso perché si fa
così. Altrimenti, ci si pone già in una posizione di giudizio, di superiorità, di colui che sa. Dopo aver sperimentato e praticato bisogna vedere ciò che si mantiene e ciò che si sopprime.
Parlavamo prima di come fosse utile usare l’esempio di qualcuno per illustrare un errore: a questo proposito conosco
una persona che voleva creare uno zen occidentale, ma non ha funzionato. E’ un vero peccato, si è isolato.
Nell’eccessivo rifiuto della tradizione c’è qualcosa che non funziona.
Rapporti con l’istituzione
Per quanto riguarda l’istituzione, che si tratti di un dojo, di un gruppo, di una associazione, l’AZI, la Sotoshu, l’ABZE…
Ci sono persone allergiche alla parola « istituzione » per le quali la vera spiritualità si sviluppa al di là delle istituzioni
che soffocherebbero e deformerebbero l’autentico risveglio spirituale, l’autentica purezza. Secondo me queste persone
si sbagliano, ad esempio colui che ha creato il suo « zen occidentale » faceva delle sesshin senza kesa, senza mettere il
kolomo, nelle quali non ci sedeva più in postura, si faceva zazen abolendo tutte le regole possibili. Ora ha messo in dubbio il fatto stesso di avere un dojo e lo ha sciolto! E’ talmente scivolato nella non-forma che non resta più nulla!
Invece io dico: « Viva le istituzioni ! » Tutti i grandi mistici, o la maggior parte, sono rimasti all’interno di una chiesa,
ciò che perdura lo fa grazie alle istituzioni. Alcuni hanno avuto dei problemi, ci sono stati degli eccessi da parte delle
chiese, delle istituzioni…conosciamo bene tutto questo. Ma l’eccesso contrario, il rifiuto sistematico dell’istituzione da
parte di coloro che non hanno più bisogno del dojo, del gruppo, di andare alle sesshin, di costituire delle associazioni, fa
sì che diventino degli anarchici solitari, un po’ egoisti e ciò che fanno non avrà durata e finirà per scomparire.
Tutti questi eccessi, queste illusioni, sono delle grandi trappole, ma questa non è una ragione sufficiente per rifiutare le
istituzioni, anche se è vero che le nostre istituzioni possono essere disturbanti, portatrici talvolta di illusioni, che diventando cause di attaccamento alle posizioni di potere, per cui il Dharma è utilizzato per rinforzare il potere e non il contrario. Bisogna essere lucidi per vedere ciò che avviene, per correggere gli errori dell’istituzione, senza sopprimerla con
la scusa che ci fa commettere degli errori !
Il fatto che alcuni indossino il kesa come una decorazione non significa che lo si debba abbandonare !
A volte è presente anche un certo opportunismo, finché si ha bisogno di un’ istituzione tutto va bene e poi la si rifiuta.
Lo abbiamo visto con alcuni godo nei confronti dell’AZI…
La tradizione è importante, perché permette di mantenere lo spirito originario ; certo, un eccesso può bloccare, ma se si
distrugge quello spirito, l’ego prende il sopravvento e lo sostituisce con altre cose.
Attaccamento all’identità di monaco
Affidarsi a zazen e lasciare che ci trasformi.
Si ha bisogno di un modello per evolvere, ma credersi il modello è una trappola che ci trasforma in una imitazione
D. - Il monaco ha anche un rapporto con il suo ambiente, porta il suo abito di monaco non solo nel dojo, ma anche nella vita.
Possono avvenire delle proiezioni dell’ambito sociale sul monaco: dal momento che rappresenta lo spirituale « incarnato », possiede una certa autorità e un ascendente sulle persone che può rafforzare il suo ego. E questa può essere una
trappola.
Y.R. - In effetti il maestro Deshimaru era cosciente di ciò e se affermava con una certa autorità che esige il rispetto: « Io sono
il maestro », al tempo stesso cercava di non corrispondere all’immagine del maestro zen. Demoliva quasi volontariamente questa immagine, evidenziando i suoi bonno, come se avesse voluto disilludere coloro che lo ritenevano perfetto:
fumava, beveva whisky, era molto gentile con le donne, senza essere tuttavia un don Giovanni. Questo atteggiamento
gli ha creato molti problemi, perché molti lo hanno criticato.
Non ho mai visto un maestro così, che se ne frega completamente della sua immagine di maestro. Ma era lui a decidere.
Invece, se un discepolo sfidava la sua autorità di maestro, allora esigeva: « SANPAI !! »
Per quanto riguarda la mia funzione di maestro non ho l’impressione di esservi troppo attaccato, ma forse c’è uno scarto
tra la percezione di me stesso e quella degli altri… Sono cosciente del pericolo dell’orgoglio, dell’essere riconosciuto
come un maestro, dell’avere molti discepoli e cerco di fare attenzione a non correre questo rischio. A volte mi rimprovero di non incarnare sufficientemente il ruolo di maestro, faccio fatica ad indossarne l’abito, mi comporto naturalmente
così come sento. Mi comporto naturalmente come un maestro quando dirigo una sesshin, quando rispondo ad un mondo, ma ho piuttosto l’impressione contraria di non corrispondere sufficientemente alla funzione… Sono stato eletto abate della Gendronnière, ma non voglio un posto, una sedia speciale.
D. - Il maestro Deshimaru faceva parte di un’altra cultura, di un’altra generazione e si è comportato seguendo la sua
natura…
Y.R. - Il mio modo d’essere si ispira molto al maestro Deshimaru, nel senso che non cerco di somigliare a ciò che le persone
immaginano dovrebbe essere un maestro zen, anche il mio modo di vestire e vivere la quotidianità è molto normale. E’
interessante l’oscillazione tra il prendersi troppo sul serio e il non abbastanza. Kodo Sawaki diceva che è importante
giocare completamente il proprio ruolo, incarnando la funzione nella quale si è. Può essere anche una facilitazione mettere una distanza in rapporto al ruolo, per essere « naturali ». E dunque mi trovo nella necessità di scegliere tra il prendermi troppo sul serio, essendo troppo attaccato al mio ruolo, e quell’aspetto di me che ama preservare la propria libertà. Non voglio rimanere intrappolato in un ruolo e voglio assumere la mia responsabilità senza essere identificato troppo
con la funzione. Bisogna trovare la misura giusta tra questi due eccessi.
D. - La mia domanda era la stessa, ma riferita alla condizione di monaco. E’ importante ricordare che essere monaco non è
uno status, ma un sentimento e un servizio per gli altri.
Y.R. - Spesso dimentico di essere un monaco e a volte me lo devo ricordare ! Se vivessi in un monastero, sarei in tutto e per
tutto un monaco. Per le mie attività, vivo molto come un monaco, ma non penso, né dico mai a me stesso « Sei un monaco, quindi devi agire così, devi identificarti con quell’ideale ». Non parto mai dal presupposto di essere un monaco,
parto piuttosto dal mio modo di sentire le cose che proviene da una lunga pratica, per cui, agisco naturalmente in un
modo che corrisponde a quello di essere monaco. Direi quindi che divento sempre di più monaco, perché partendo dalla
pratica e lasciandola agire, essa mi trasforma. Questo era l’insegnamento del maestro Deshimaru per il quale era importante rimettersi a zazen, lasciando che ci trasformi, più che adeguarsi all’immagine di monaco, dell’essere risvegliato
al quale si vuole assomigliare. E’ molto pericoloso, ci sono delle trappole!
Da un lato ci si può dire che volersi comportare come un maestro, un monaco, è una trappola che può condurci a un «
falso sé », come si dice in psicopatologia, ed è una cosa grave che implica qualcosa di artificiale e non veramente vissuto, assunto, perché si cerca di identificarsi con una costruzione mentale invece di essere naturalmente e profondamente
monaco, risvegliato, incarnando un ideale spirituale. E’ una trappola, un’illusione. Se si cerca di assomigliare ad un
modello si diventa un’imitazione. Non è la libertà, il risveglio, è il « falso sé ». Ci sono religiosi con l’aria da santi e
non lo sono affatto perché le loro pulsioni, le loro ombre sono represse e si traducono diversamente in cose gravi…
Ne deriva la trappola di credersi un monaco, un maestro, un risvegliato.
L’altro aspetto più positivo, insegnato dal maestro Kodo Sawaki, sostiene che a forza di imitare Buddha, si diventa
come Buddha! Imitare un monaco ci plasma, è educativo, all’inizio è un’imitazione, ma poi la trasformazione agisce e
si diventa un vero monaco.
Entrambi gli aspetti presentano delle trappole !!!Si può rimanere costantemente nell’imitazione e quindi nella superficialità, con forti sensi di colpa, perché interiormente ci si rende conto di non riuscire ad assomigliare al modello che si
imita. Di conseguenza si può diventare intolleranti nei confronti degli altri, perché vediamo in loro gli stessi difetti che
troviamo in noi. Quindi dal momento in cui vediamo nell’altro qualcosa che non va, lo critichiamo. Da questa imitazione derivano tutti i fenomeni di proiezione dell’ombra interiore, per cui rimuoviamo tutto ciò che non assomiglia al modello, con la conseguenza che tutto ciò che è « nascosto sotto il tappeto » può riemergere pericolosamente!
Al tempo stesso abbiamo bisogno di modelli e a forza di imitare Buddha si diventa Buddha, a forza di seguire la pratica
del monaco, si diventa un monaco. A questo punto la trappola principale è l’attaccamento. Imitare il maestro, il Buddha, senza attaccamento è positivo, ci aiuta a progredire, ma evidentemente tutto ciò implica una grande lucidità e umiltà.
Finché questo avviene dentro di noi non è grave, il problema si presenta quando avviene in relazione agli altri. Sartre
diceva: «Gli altri sono l’inferno », perché gli altri ci paralizzano. Spesso se si è avidi di riconoscimenti, se si vuole essere apprezzati, riconosciuti e amati, ci si sforza di mostrare un’immagine che concordi con quel modello, ma il giorno in
cui si mostra una debolezza, un bonno, ciò che si è realmente, dal momento che non siamo perfetti, allora si perde la fiducia degli altri.
Anche se è difficile, bisogna essere coscienti che in tutti i casi c’è una trappola: abbiamo bisogno di un modello per
evolvere, ma credersi il modello è una trappola. Dogen nel Genjokoan dice: « Le persone ordinarie si illudono a proposito del risveglio, i risvegliati sono coloro che illuminano le loro illusioni.»
Attaccamento a taluni aspetti del buddhismo
D. - Se ci si attacca a una immagine di monaco, ci si può attaccare all’insegnamento, al dover seguire i precetti, quindi si
imita…poi ad un certo punto non si tratta più di buddhismo, ma diventa la realtà. La trappola è rimanere attaccati ad un
solo aspetto.
Y.R. - Quando si segue un insegnamento spirituale si tende a prendere solo quello che ci conviene, che ci corrisponde,
lasciando da parte altri aspetti. Uno dei ruoli del maestro, dell’insegnante, è proprio quello di evitare che le persone abbiano una visione unilaterale, dei paraocchi. Il buddhismo è vasto. Recentemente, durante un seminario della Sotoshu, si
parlava del fatto che Dogen, ad un certo punto si è completamente focalizzato su Nyojo, il grande maestro che aveva
incontrato e che, a suo parere, era Il buddha, l’incarnazione di Buddha. E’ vero che esiste un aspetto nell’insegnamento
di Dogen completamente centrato su Nyojo che può sembrare un po’ settario, un po’ limitato. Se studiamo
l’insegnamento di Nyojo a Dogen nell’Hokyoki, possiamo vedere che Nyojo gli aveva detto: « Un autentico discepolo
del Buddha non deve trascurare nessuno dei suoi insegnamenti. » Bisogna mantenere lo spirito aperto a tutti gli insegnamenti, senza rifiutare l’Hinayana in rapporto al Mahayana! Bisogna accogliere questa diversità proprio come il
Buddha che ha insegnato per 45 anni a molte persone diverse e di livelli diversi.
CONCLUSIONE - SINTESI
Ciò che distingue una trappola dall’ostacolo e dall’errore è il suo essere nascosta, sottile, inconscia, pericolosa. Si mostra attraverso la sofferenza o duhkha che genera. Non si tratta di un dolore acuto quanto piuttosto di un malessere, di un
disagio, della sensazione di non essere veramente liberi nel proprio modo d’essere.
La trappola più grande è l’attaccamento che, come l’idra dalle molteplici teste può assumere svariate forme e rinascere
quando lo si è reciso. La trappola non è l’oggetto in sé, ma la relazione che si stabilisce con esso. Più precisamente, nel
caso si tratti di una cosa buona, la trappola è l’eccesso e l’attaccamento a una visione unilaterale, oppure un attaccamento contorto, katto, che la distorce e la trasforma in una trappola che ostacola il nostro percorso sulla Via.
Il senso profondo della Via è la liberazione, che consiste nell’essere liberi dall’attaccamento ad un ego limitato, illusorio, che è solo una costruzione mentale e che ci blocca. Se trasferiamo questo attaccamento all’ego nella pratica, ne deriveranno tutta una serie di altri attaccamenti che, a loro volta, genereranno altre trappole. La vera libertà implica
l’accettazione della realtà e dei tre sigilli del Dharma, che permettono di poter vivere in armonia con ciò che siamo in
realtà: l’autentico sé che costituisce la nostra natura di buddha.
Se dimentichiamo che lo zen è una via di liberazione, rischiamo di cadere in ogni sorta di trappole, tra cui le principali
sono l’attaccamento alla propria posizione, creare legami o relazioni falsate col maestro, complicate da un eccesso di
attaccamento, dalla bramosia, da proiezioni di figure genitoriali o dal desiderio di diventare come lui e infine
l’attaccamento al risveglio, alla ricerca del satori percepito più come meta che come pratica.
Per quanto riguarda la pratica, perdiamo lo spirito autentico dell’insegnamento se creiamo attaccamento alle regole, ai
rituali, ai meriti, ai sutra, ad una visione ridotta di zazen limitata solo ad esso.
Si parla di spirito del buddha intendendo uno spirito che abbraccia tutte le polarità, ma si può cadere nella trappola del
dualismo volendo escludere e separare uno degli aspetti della dualità, affinché solo esso sia preso in considerazione. Invece una visione vasta abbraccia tutte le dualità, permette di ristabilire un’armonia tra corpo e spirito, tra pratica e vita
quotidiana, tra la pratica shin jin datsu raku e il risveglio nello spirito mushotoku, tra il risveglio immediato in zazen e
quello graduale nella vita di tutti i giorni, con le paramita ad indicarci la direzione.
Il rischio di materialismo spirituale e di utilizzo di zazen come una tecnica di benessere si dissolve quando si realizza
che non esiste benessere autentico finché non si è in armonia con la nostra vera essenza, finché non si diventa un essere
autentico, comprendendo che il vero benessere è condizionato dal risveglio.
Le domande e l’esperienza degli insegnanti illustrano bene l’effetto « intossicante » di un atteggiamento che all’inizio
può essere positivo. Devono confrontarsi con l’eccesso di impegno, di identificazione, di volontarismo, di zelo, di proselitismo, di fiducia o di prudenza, di razionalità, di unilateralità, di contemplazione o di azione, di acculturazione…
Il rimedio comune a tutte queste trappole, la principale qualità da sviluppare per seguire la Via, è shoken, la saggezza e
la visione giusta. E’ quella che anima e rischiara le nostre azioni, che ispira la nostra benevolenza, permettendoci di adattarci adeguatamente e senza eccessi alle circostanze, ai nostri interlocutori, al loro livello di comprensione della pratica, dandoci la possibilità di valutare se stiamo tradendo lo spirito del risveglio.
A un livello ultimo realizziamo che se una trappola non ha sostanza, allora non è più una trappola ! Il rimedio assoluto
che permette di uscire dalle trappole è la comprensione giusta della vacuità, altrimenti anch’essa si può trasformare in
una trappola, impedendoci di risolvere l’attaccamento per il quale cadiamo in tutte le altre trappole e nel nichilismo.
Realizzare la vacuità delle nostre illusioni e dei nostri attaccamenti, del nostro ego in quanto sostanza.
Vedere che siamo in totale interdipendenza con tutti gli esseri, con tutto il cosmo.