Dove vive enipower

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Dove vive enipower
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indice
presentazione dell’Amministratore Delegato enipower
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presentazione dell’autore
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san donato milanese
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ferrera erbognone
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mantova
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ferrara
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ravenna
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livorno
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nettuno 106
brindisi
taranto 138
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presentazione dell’Amministratore Delegato enipower
Giovanni Milani
Osservando le immagini scattate dalle persone enipower e leggendo le parole
scritte dalla giornalista Luigia Ierace sulla base delle testimonianze degli abitanti delle città nelle quali siamo presenti, emergono frammenti di”storia”, tradizioni, tipicità in parte sconosciute, dove il particolare di una vicenda umana
o di un ricordo, si apre su scenari più ampi.
Questo volume è stato pensato e realizzato per essere un omaggio al territorio e in particolare alle Comunità che ospitano i nostri stabilimenti e alle
persone che ci lavorano. In occasione della ricorrenza dei 10 anni di enipower;
abbiamo voluto ricordarli raccogliendo storie e realtà odierne, senza una precisa logica formativa percorrendo il sottile confine fra realtà e leggenda che
da sempre fa parte del patrimonio culturale delle comunità.
enipower nasce 10 anni fa in concomitanza della liberalizzazione del mercato dell’ energia elettrica che ha rappresentato un’evoluzione importante e
positiva, un reale stravolgimento di posizioni consolidate, portando concor-
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renza e quindi la costante ricerca del miglioramento, in un settore nevralgico
la possibilità di ringraziare tutti coloro che in questi 10 anni hanno offerto il pro-
quale quello energetico.
prio impegno e la propria professionalità per consentirci oggi di essere, a distan-
Sulla scia degli esistenti impianti per la produzione di energia elettrica e di
za di così breve tempo, il terzo produttore di energia elettrica del nostro Paese.
vapore negli stabilimenti petroliferi e petrolchimici di eni, viene costituita eni-
Un particolare ringraziamento infine a tutte le Comunità in cui i nostri stabili-
power che oltre a consolidare il proprio ruolo all’interno delle realtà industriali
menti sono inseriti: in questi anni abbiamo posto molta attenzione al rispetto
in cui è inserita inizia la propria storia con l’obiettivo di accrescere la sua ca-
del territorio che ci ospita anche cercando di contribuire allo sviluppo sociale
pacità produttiva utilizzando le migliori tecnologie di produzione esistenti per
tramite la promozione di eventi culturali e iniziative a sostegno di opere pub-
diventare un importante attore dello scenario energetico italiano.
bliche; ci auguriamo che questa attenzione venga percepita come tratto ca-
La crescita è stato il vero motore in questi anni: da una potenza installata di
ratterizzante del nostro fare impresa; certamente proseguiremo nel cercare di
soli 1.000 MW, con sistemi tradizionali costituiti da caldaie a vapore, ed una
fare sempre meglio ciò che sappiamo fare per entrare a far parte delle “storie”
presenza marginale nel settore energetico Italiano, si è passati ad essere uno
che le generazioni future racconteranno.
dei primi operatori nazionali, con una potenza installata di oltre 5.300 MW,
con moderni impianti a ciclo combinato che ottimizzano al massimo l’energia in ingresso, producendo energia elettrica e vapore, con rendimenti elevati,
altissimi standard di sicurezza e bassissimo impatto ambientale.
Questo volume vuole essere la testimonianza del cammino percorso, e mi offre
Giovanni Milani
Amministratore Delegato enipower
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A Marilù, la “pagina” più bella che ho scritto
A chi ha reso possibili i miei sogni
presentazione dell’autore
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storie di energia, di uomini e di città
di Luigia Ierace
Dove vive enipower? Dove nasce l’energia e dove ci sono uomini e città capaci di
guardare avanti. L’ho raccontato con l’occhio e la sensibilità del cronista cercando
di dargli un volto attraverso le testimonianze, le parole, i racconti di chi vive negli
stabilimenti, di chi ci ha dedicato una vita intera o di chi ci ha trascorso anche solo
pochi mesi: dal responsabile all’operaio. Sono entrata «in punta di penna» nella
vostra vita, nel vostro lavoro, ho raccolto le vostre emozioni e le ho «colorate» con
un pizzico di fantasia. Perdonatemi se a volte ho esagerato un po’. Sono così diventate le storie di tutti gli uomini di enipower, di quell’unica rete fatta di tubi, fili ed
energia che da 10 anni vi unisce e vi rende unici. Abbiamo cercato di raccontarla
insieme. Perché ognuno di voi questo libro possa veramente sentirlo suo.
interviste e testi a cura della giornalista Luigia Ierace
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san donato
milanese
«qui sorgerà il Centro
direzionale eni»
Il «Gatto selvatico»? «E cos’è?». Anche in casa eni non tutti lo ricordano. Ma nei vecchi scaffali della
vetrina di Massimo, dirigente a San
Donato Milanese, c’è tutta la storia
del «cane a sei zampe» che è legata anche a quel “Gatto”. Era l’anno 1955, il mese di luglio, quando
usciva per la prima volta la rivista
voluta da Enrico Mattei «per assolvere il compito – modesto, ma essenziale – di servire da ideale punto
di incontro per tutti coloro che fanno parte della grande famiglia del
Gruppo eni».
E Mattei pensava a qualcosa di più
grande, come sempre: «qualcosa di
più» di un mezzo di comunicazione. Lo volle chiamare il «Gatto selvatico», come il «wildcat», che «nel
gergo dei seguaci di “Drake” serve a
indicare “il pozzo esplorativo”, ossia
il trabocchetto che l’uomo scavando nelle viscere della terra, tende al
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petrolio e agli altri idrocarburi».
Dopo 55 anni per rileggere la storia di San Donato Milanese partiamo proprio da quel «Gatto»,
espressione di un’azienda e di una
cultura che hanno segnato un’epoca. È il secondo numero della Rivista, dell’agosto del 1955, infatti,
a ospitare un contributo letterario
di Giovanni Comisso, giornalista
e scrittore, una delle tante prestigiose firme del «Gatto selvatico»,
(che eni ha voluto recuperare e
raccogliere in quell’«Inedita Energia», un delizioso cofanetto giallo,
edizione 2008). Il racconto porta
il titolo: «San Donato Milanese: la
città nuova».
Con l’occhio del cronista e la penna
del narratore racconta un pezzo di
storia, quella del dopoguerra, di Caviaga, del primo giacimento di gas
naturale, di Supercortemaggiore, la
potente benzina italiana e di quel
primo solco «di una città futura,
unica in Europa», perché «bisogna
assolutamente convenire che noi
italiani - esordisce così Comisso –
dobbiamo avere un orgoglio: quello
di essere fondatori di città nuove».
E dopo la visita a San Donato Milanese, accompagnato dai tecnici di
eni, può ripetere: «ora tutto l’occulto
mistero simboleggiato dal cane a
sei zampe è stato per me rivelato».
«Appunto nel camminare per uno
dei quartieri della città, che sta
sorgendo lungo la Via Emilia, assieme a uno di questi tecnici, si era
entrambi presi da una vicendevole
allegria e ci restavano in accordo
le piante fiorite dei portici esterni.
Io scherzavo sulla denominazione
ancora incerta della città nuova.
Riferendomi al nome di San Donato che è quello del piccolo gruppo
di cascine attigue (ormai sommerso dalle nuove costruzioni), dicevo:
“A cavallo donato non si guarda in
bocca”. E i giacimenti di gas naturale, per i quali è stata decisa la costruzione di questa città, sono invero “un cavallo donato”, sicché San
Donato andrebbe bene. Invece si
trovava che “Città del Metano”, che
ricordava Città del Vaticano e Metanopoli, anche tentata, ricordava
Forlimpopoli: un nome troppo lungo che in tempi di fretta non può
correre».
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«Qui sorgerà il Centro direzionale
eni», disse Mattei con la sua lungimiranza nel 1954, a una quindicina
di giornalisti. Era una grande spianata vicino a quel piccolo borgo
li; a 5 chilometri c’è la stazione di
Rogoredo e poco più lontano c’è
l’aeroporto di Linate, che da militare sarà trasformato in civile. Un
gruppo petrolifero integrato inter-
il passato glorioso della «nuova città»
«Cascina Roma», alle spalle della Pieve di San Donato, ospita la Galleria d’arte moderna e contemporanea, un importante
centro di cultura della città di oggi. Per il suo impianto architettonico, alle spalle della chiesa, doveva far parte di un complesso
monastico, dello stesso periodo del più famoso Monastero di Chiaravalle. Quanta storia è passata in quelle stanze: dal
Barbarossa (1158-60) a Ottone Visconti (1295), dal re di Francia Francesco I, vincitore, nel 1515, della cruenta battaglia di
Marignano (l’antico nome di Melignano), ai marchesi Orsini a metà Seicento, fino al maresciallo Radestzky nel 1848.
Quando scoppiarono le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848), infatti, i cittadini di San Donato Milanese distrussero
i ponti che attraversavano i suoi canali e sbarrarono con fosse le strade per impedire la fuga al nemico. Non bastò a salvare
Milano che cadde di nuovo in mano agli Austriaci. E fu proprio nella sala prospiciente il cortile della «Cascina Roma» che il 5
agosto 1848 vennero firmati i preliminari per l’armistizio tra Austriaci e Piemontesi. Era il cosiddetto «Armistizio di Salasco»,
che poneva fine alla fase iniziale della Prima Guerra d’Indipendenza. Davanti al conte Salasco, al podestà di Milano e al
maresciallo Radestzky, che aveva il suo quartier generale nella «Cascina Roma», calava il sipario sulle Cinque Giornate.
che affondava le sue radici in epoca pre-romana. «È una posizione
strategicamente favorevole - diceva Mattei - perché da qui arriverà
l’autostrada del Sole Milano-Napo-
nazionale deve essere collegato
con facilità con tutto il mondo».
Era nata una nuova città, per la
quale non si era cercata la «monumentalità», come aveva detto Mat-
tei nel 1956, durante la visita del
Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi a San Donato Milanese. «Si è qui voluto predisporre un
complesso di edifici organicamente coordinati, che rispondessero
allo spirito d’ordine e alle esigenze
di gusto del nostro Paese, senza cadere nella banalità e nello squallore
delle pure costruzioni funzionali».
Era una palude, ne ha fatto una
città, stravolgendo lo sviluppo di
Milano, il cui piano regolatore negli
anni Sessanta era proiettato a nord
in una realtà che ancora non era
la metropoli industriale. «I terreni a
nord, - spiegava Mattei agli studenti
della Scuola di studi sugli idrocarburi - costavano 30 mila lire al metro quadro». Troppo cari, «per noi
che eravamo ancora troppo poveri»
e andò a sud, dove i terreni furono
acquistati a 500 lire al metro. È qui
che è sorta «una città di lavoro, di
studi, una città residenziale».
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l’ingegnere e il «cane a sei zampe»
La vecchia radio-sveglia ancora è
lì, sul vecchio comodino in legno
di rovere leggermente sbiancato.
All’angolino il «cane a sei zampe»
e la vecchia scritta Agip. Ma è il telefonino con il suo metallico “bip”
a segnare ora il tempo. Un tempo
che a San Donato Milanese, sembra scandito da altri ritmi, da una
storia che lega il passato al futuro.
Sulla vecchia libreria spicca il casco giallo con il «cane» e la scrit-
ta eni, poi declinata in tutte le sue
divisioni, le «carote» e le «ampolle»
dalle diverse forme e misure, contenenti il greggio estratto dai Paesi
del mondo dove opera la più grande compagnia italiana. Sparse qua
e là, le immagini di Enrico Mattei
compaiono ovunque su libri e riviste, giornali e video, cd e dvd. È
un piccolo pezzo di storia che rivive nella casa del dirigente, una di
quelle destinate ai dipendenti e che
Mattei volle per i lavoratori a San
Donato Milanese.
Un raggio di luce entra dalla finestra e si posa proprio sul «cane»
giallo, la sveglia torna a suonare
tra Via Caviaga e Via Enrico Fermi
e comincia la giornata di Massimo,
mentre la nebbia avvolge ancora il
viale alberato. Tanto verde. Conifere delle «sue montagne marchigiane», ma anche pioppi cipressini,
perché viale De Gasperi, il «decumano» nasce alberato, così come
il suo cardo, quelle strade che si
intersecano nella rete ordinata che
è la nuova San Donato Milanese.
Perché al verde Mattei ci teneva davvero tanto. Il pensiero va a
quell’episodio raccontato dall’Ing.
Egidio Egidi, uno degli uomini che
hanno contribuito alla storia di eni,
in un’intervista fatta da Alberto Clò
il 28 gennaio 2003 a Milano e raccolta in un volume da lui curato
“Eni – 1953-2003”.
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«Un giorno mi chiese di accompagnarlo alla chiesa di Santa Barbara, a San Donato Milanese. Vicino
allo stabilimento Snam stavano
rimuovendo un albero; si arrabbiò
con me moltissimo, sostenendo
che avrei dovuto esserne informato e impedirlo».
i capolavori della chiesa di Santa Barbara
Anche la chiesa di Santa Barbara la volle Enrico Mattei. Per lui era una delle prime necessità «l’assistenza religiosa». Ma
voleva una chiesa che non passasse inosservata. A progettarla chiamò l’architetto Mario Bacciocchi, uno dei suoi più
stretti collaboratori. Fu inaugurata alla fine del 1955 e divenne sede di parrocchia nel 1963, per decreto dell’allora cardinale
Montini, eletto poco dopo Papa Paolo VI. Tante opere d’arte in quella chiesa per la quale Mattei volle valenti artisti: dalla
porta di bronzo in cui è incisa la storia della Patrona, opera degli scultori Arnaldo e Giò Pomodoro, al grandioso mosaico
raffigurante la Crocifissione, capolavoro del pittore Vincenzo Tomea, che occupa tutta la parete di fondo della navata unica
e del matroneo (circa 700 metri
quadrati). Sul soffitto spiccano
i pannelli di Tommaso Cascella,
con simboli biblici e fregi e
sulle pareti laterali i quattordici
bronzi della Via Crucis, scolpiti
da Pericle Fazzini. In piazza, da
un lato, il Battistero ottagonale,
in pietra viva, dall’altro lato la
Torre campanaria e una statua
di Santa Barbara in marmo di
Aldo Caron. Lateralmente si
aprono le cappelle decorate
con dipinti e statue. Un’arca in
marmo giallo conserva, dentro
una raggiera in bronzo, la
reliquia della Santa Patrona.
Sprazzi di storia, veloci flash che
tornano alla memoria, mentre percorre a piedi il viale alberato che lo
porta ai palazzi di vetro di eni, passando per la chiesa di Santa Barbara, per il centro sportivo che sta per
rinascere nel nome di Mattei, per i
laboratori scientifici e per quei locali abbandonati e ora destinati agli
ambulatori sanitari. Mattei lo aveva
pensato come «il luogo perfetto»,
non voleva diventasse un quartiere dormitorio e non lo è mai stato,
ancor più oggi che San Donato Milanese è una città (lo ha decretato
il Presidente della Repubblica il 30
dicembre 1976) con una sua vivacità, una storia, un suo orgoglio.
Quanti lavoratori sono arrivati dalle Marche sulla scia di Mattei per
abitare in quella che era diventata
una piccola «isola marchigiana».
Oggi è un bellissimo parco urbano,
che segue comunque i ritmi della
vita della capitale industriale. La
mattina presto, il solito via vai, verso la metropolitana o verso i palazzi di vetro. C’è chi va a lavorare e
c’è chi in tuta corre lungo i viali al-
berati. Poi la città cala nel silenzio
fino al rientro la sera. Nella pausa
pranzo, Massimo si ferma a mensa, in quella aziendale, dove spesso
amava fermarsi lo stesso Mattei.
Lo sguardo si posa su un vecchio
numero della rivista del Comune
di San Donato Milanese (ottobre
2009). C’è uno speciale che il Governo della città ha voluto dedicare
al fondatore di eni. Comincia a sfogliarlo e il passato ritorna in quella frase, sempre attuale, che ben
fotografa la realtà del cittadino di
San Donato Milanese. «Tutti siamo
figli di Enrico Mattei». Scorrono i
ricordi e le testimonianze raccolte
dal giornale. C’è chi ha lasciato le
Marche al suo seguito, chi non lo
ha mai conosciuto, ma lo ha visto
passeggiare nel Piazzale Supercortemaggiore. C’è chi ricorda che
il Presidente in mensa mangiava
spesso: «non furono molti i direttori che come lui, vidi fare giri nelle
mense dei dipendenti». Ci sono le
parole accorate di quanti hanno
avuto la fortuna di lavorare con lui.
C’è chi ne ricorda i gesti e i gusti.
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«Il suo piatto preferito era l’arrosto:
una ricetta semplice, come voleva
lui». «Quando lo preparavo, Mattei si
illuminava e mi faceva un sacco di
complimenti, – racconta il cuoco –.
Lui era un uomo incredibile, sempre
gentile e premuroso, non trascurava mai nessuno. Dal garzone al politico eminente trattava tutti come
fossero suoi pari».
Perché Mattei aveva la capacità «di
apparire una persona come tutte le
altre: semplice, onesto, generoso e
di grande intelligenza. Era un amico prima ancora che un capo. Un
dirigente che aveva l’umiltà di fermarsi a parlare con un cameriere».
Testimoni di un’epoca, di una storia
straordinaria che San Donato Milanese può dire di aver vissuto in
prima linea.
La lunga giornata di lavoro è finita,
Massimo torna a casa. È ormai calata la sera, alle sue spalle le luci del
palazzo di eni, ormai vuoto. Davanti il silenzio, il fruscio dei suoi passi,
lo zampillio della fontana, il busto
di Mattei, i nomi dei protagonisti e
dei luoghi legati alla storia dell’energia che danno i nomi alle vie. Le te-
lecamere del palazzo continuano a
seguirlo. Poi quel filare di case, tutte
uguali, disposte in maniera trasversale rispetto alla strada, quattro
piani che si affacciano sugli alberi.
Il prato è pulito e curato. «Buonasera, Ingegnere. Ha visto che bel lavoro abbiamo fatto. Tutto bene?» È la
domanda che ogni sera gli rivolge
il suo capo condomino. «Tutto bene», ripete con la gentilezza che lo
contraddistingue ed entra in casa.
Il cane a sei zampe ammicca dalla
radio-sveglia sul comodino. Domani sarà un altro giorno.
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bolgiano
lo stabilimento
dove nasce l’energia che illumina
e riscalda Metanopoli
Se San Donato Milanese realizza il
sogno visionario di Mattei, il piccolo
borgo di Bolgiano nasce per dargli
quell’«ossigeno» che gli consente di
vivere: l’energia elettrica e termica
che alimentano uffici e abitazioni.
«È qui che eni e Snam negli anni
Cinquanta per la prima volta svilupparono un sistema energetico autonomo, basato su concetti innovativi
come teleriscaldamento, cogenerazione, trigenerazione ed efficienza»,
sottolinea Diego, 34 anni, ingegnere
meccanico, responsabile dello Stabilimento di Bolgiano.
Già dagli anni Ottanta la Centrale di
cogenerazione garantisce il riscaldamento, il raffrescamento, l’acqua
calda e l’energia elettrica per Metanopoli e per Bolgiano.
«Entriamo quotidianamente nelle
case dei cittadini con i nostri servizi – spiega Diego – ma in pochi
sanno di cosa ci occupiamo. Per
questo abbiamo pensato – nell’ottobre dello scorso anno – di aprire a
tutti le porte della “nostra centrale”,
per mostrare cosa facciamo e cosa
significa trigenerazione. Oggi se ne
parla tanto, ma per noi è una realtà
dal 1970. Siamo la prima Centrale in
Italia per quantità di calore prodotto per trigenerazione periferica. Abbiamo ritenuto importante – continua Diego – portarlo a conoscenza
delle persone, raccontare perché è
Dal 1° gennaio 2010 enipower ha acquisito da eniservizi la proprietà e la
gestione della Centrale di Cogenerazione di Bolgiano e delle sue reti di
distribuzione. Dedicata alla produzione e distribuzione di energia elettrica
e di energia termica ai palazzi Uffici di eni oltre che a scuole, asili, case e
strutture ospedaliere di San Donato Milanese, è ai primi posti in Italia per
trigenerazione periferica, fornendo calore per il riscaldamento invernale ed il
raffrescamento estivo.
Nata nei primi anni ’80 e ampliata negli anni ’90, è composta da turbine a gas
con recupero di calore, alimentate a gas naturale. L’energia termica prodotta
è distribuita attraverso una rete di teleriscaldamento ad acqua surriscaldata
di circa 56 km, senza stazioni di pompaggio intermedie. Il riscaldamento
invernale è fornito a circa 4 milioni di mc, mentre il calore per il raffrescamento
estivo a circa 960 mc, per un totale di energia venduta pari a circa 194
mila MWht. L’energia elettrica cogenerata può essere immessa nella Rete
di trasmissione nazionale o distribuita attraverso una rete privata in media
tensione di circa 10 chilometri con 36 cabine di MT/BT; la produzione media
annua è di oltre 126 mila MWh. è previsto il «revamping» della centrale con la
sostituzione degli impianti esistenti con una turbina di derivazione aeronautica
(42 MWe), due motori endotermici cogenerativi (circa 9 MWe ciascuno)
e un sistema di stoccaggio dell’energia termica di circa 3000 metri cubi.
nata, cosa produce, condividendo
con i cittadini il valore di questo
impianto sul territorio». Ne parla
con l’orgoglio di chi contribuisce
quotidianamente a tutto questo
con passione. Cresciuto a Rimini,
appena laureato ha inviato via internet il curriculum a enipower, ed
è stato assunto nella Centrale di
Ravenna dove ha fatto la sua prima grande esperienza. «Ho subito
capito che quello che s’impara sui
libri è un’altra cosa; dai “veterani”
della Centrale ho imparato tantissimo poi mi sono trasferito a
Milano allo sviluppo tecnologico,
ho fatto per un po’ lo “studioso”,
guarda caso proprio per il progetto
della nuova Centrale di Bolgiano.
Ora sono qui in Centrale da poco
più di un anno, ho lasciato definitivamente il mio mare di Rimini per
vivere e lavorare a Milano, con la
mia compagna e un bimbo che ha
solo qualche settimana».
Da Bolgiano a San Donato Milanese, dall’ingegnere, al capo turno, al
turnista. Sono un po’ tutti «figli» di
Mattei. Palmantonio, capo turno, la
centrale l’ha vista nascere e ne ha
raccontato la storia in un volume:
“Da Anic di Pisticci… a EniServizi
di San Donato Milanese”. Venticinque anni di storia, ricordi, testi-
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i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower
100%
Potenza installata
40 MW
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 4 turbine a gas con caldaie a recupero
da 40 MW totali
unità a vapore n. / taglia
n. 1 caldaia di riserva a gas naturale
Combustibili
gas naturale
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
acqua surriscaldata
Altre produzioni/servizi
teleraffrescamento
monianze. «Come non ricordare
l’emozione vissuta quando iniziai
a girare tra le cabine elettriche di
Metanopoli e scoprii la cabina di
Via Pisticci». Che brivido nell’accarezzare quel cartello che ricordava
il suo paese d’origine e il primo lavoro all’Anic in Basilicata.
«Mi chiamavano terrone e io ricordavo con orgoglio le parole dello
statista Francesco Saverio Nitti:
“Che significa la parola terrone”? Se
significa uomo della terra, ebbene io
mi sento terrone». E il pensiero andava alla prima volta che la madre
venne a Milano da Pisticci. «Indossava con fierezza il costume tradizionale dei contadini “a pacchiana”
quello delle feste e delle grandi occasioni». Sono passati più di trenta
anni da turnista è diventato capo,
vive a Milano con la moglie e i suoi
due figli. La sua storia si intreccia
con tutti i suoi colleghi di lavoro.
Franco, 45 anni, addetto alla gestione elettrica, è subentrato a papà Luigi, oggi 79 anni. Lavorava
all’autoreparto, quello che gestiva
le macchine blu e ha conosciuto
Mattei. «Metanopoli l’abbiamo vista
nascere, c’era solo il primo palazzo
eni. Abitavamo nelle case aziendali.
Quanta attenzione per tutti noi, eravamo portati sul palmo di una mano; per i figli dei dipendenti c’erano
le colonie, il centro sportivo, le piscine, i campi da tennis. È una fortuna
e un vanto lavorare qui in Centrale.
Qui nulla è lasciato al caso, anche
oggi così come avveniva all’epoca
di Mattei. Ogni volta che mio padre
lo ricorda, ha sempre le lacrime agli
occhi. “Era una persona semplice,
comune, uno di noi insomma”».
Anche il papà di Pietro, 40 anni,
ingegnere in enipower lo ha conosciuto a una delle cene in cui
incontrava i giovani ingegneri. «Lui
e mia madre lavoravano in Snam.
Arrivavamo da Genova, avevo tre
anni e una delle cose che mi è rimasta impressa è la maglia bianco
azzurra del Bolgiano. Una partita
di calcio, una delle tante, contro la
squadra della Snam. Avevano una
divisa perfetta, gialla come il colore del cane a sei zampe che ne
era anche lo sponsor. Loro erano i
ricchi. Ma quel giorno i poveri del
Bolgiano l’hanno avuta vinta quella
partita. E il coro dei tifosi “Olio, petrolio e acqua minerale per vincere
il Bolgiano ci vuol la nazionale”».
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ferrera
erbognone
come un grande museo
del paesaggio
Ferrera Erbognone, nome altisonante per un piccolo borgo di poco
più di 1.100 abitanti a sud di Pavia,
nella Lomellina meridionale. «Sono tante e discordanti le versioni
degli storici sull’origine del nome»,
spiega Umberto, 42 anni, scrittore
e giornalista. È la memoria storica del paese. Ne conosce luoghi e
storie, curiosità e personaggi. Passa il suo tempo nella biblioteca comunale e alla scoperta di castelli e
musei contadini della Lomellina.
Secondo alcuni, il toponimo “ferraria” dal latino si riferisce alle
vene di ferro presenti nel sottosuolo, secondo altri alle officine di lavorazione del ferro o alle
qualità straordinarie dell’acqua di
temprare il metallo. Ma potrebbe
riferirsi anche a Giove Feretrio, divinità venerata dai romani. Certo
è che sulle origini del nome ancora si discute.
ferrera erbognone
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Casale su Roggia 1 - Roberto La Vecchia
Casale su Roggia 2 - Roberto La Vecchia
Erbognone, invece, è l’omonimo
torrente che si chiama così solo
nell’ultimo tratto, quando attraversa il territorio di Ferrera, perché
più a nord è noto come Arbogna,
dal nome gentilizio latino «Albonius». E proprio a questo torrente
che si lega anche il soprannome
dato agli abitanti: «spaciapulè»,
ruba polli. Per le frequenti esondazioni, infatti, i cittadini rimasti
senza provviste erano costretti a
scappare, e spesso rimanevano
feriti (di qui ferraria), o ad anda-
re nei paesi vicini a rubare per
sopravvivere. Ma i giovani preferiscono l’allusione a «Don Giovanni», rubacuori, insomma, con
pizzico di piaggeria in un paese
prevalentemente agricolo, dove, naturalmente, la risicoltura
ha un ruolo fondamentale. Fra le
aziende agricole, la «Gattinera», la
grande cascina, nella confluenza
tra l’Erbognone e l’Agogna, che
nel 1489 Oddone Sannazzaro
(Ferrera fu per un periodo feudo
dei Sannazzarii) aveva venduto
a Marco Gattinara. Poi divenne
«Gattinera», ed è una delle poche
cascine oggi rimaste ancora attive. «Stiamo riscoprendo i cunicoli
segreti che partivano dal fabbricato ed erano utilizzati dai monaci domenicani per la fuga in caso
di pericolo», ricorda Umberto che,
oltre ai libri e alla storia, guarda al
paesaggio e al territorio della Lomellina come un museo da scoprire e difendere.
la «pasionaria» Maria Provera
Correva l’anno 1912 e un canto, «Il 24 maggio a Ferrera», ancora ricorda
quell’imponente sciopero di mondine che portò all’arresto della «pasionaria»
Maria Provera. La federazione dei lavoratori della terra aveva indetto
manifestazioni per ottenere le otto ore di lavoro giornaliere. Ma si temeva che le
«forestiere» potessero boicottare lo sciopero. Si cercava quindi di fare un’opera
di persuasione anche su di loro perché non accettassero orari di lavoro più
lunghi. Ma era difficile convincerle perché venendo da fuori erano le più
deboli, senza una famiglia vicina o comunque un gruppo sociale a sostenerle.
A Ferrera, il 24 maggio, ci sono dei veri e propri scontri, le mondine si sdraiano a terra
davanti alla cavalleria. Alla fine, sprezzante, il commissario fa andare tutte a casa
e si accontenta di arrestare Maria Provera, mondina, probabilmente una di quelle
che capeggiava la protesta, e Eugenio Riba, segretario della Federazione collegiale
di Sannazzaro. Nella canzone si cita il «sultano», soprannome del fittabile locale,
che a quel tempo deteneva il potere economico e spesso anche amministrativo.
Ma le mondine contro la cavalleria è un canto a lieto fine: i due arrestati tornano a
casa dopo 13 giorni e si fa festa
Chiusa su canale - Roberto La Vecchia
ferrera erbognone
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Monumento ai caduti - Fabio Ghio
C’erano i nobili, proprietari delle
cascine, e i «fittabili» che le ricevevano in fitto e le gestivano per
un periodo di uno o cinque anni:
da un «San Martèn» a un altro. Si
prendeva infatti come giorno di
riferimento la festa di San Martino, l’11 novembre. Alla scadenza, o
il contratto veniva rinnovato o si
doveva «fa’ San Martèn», cioè fare
il trasferimento. In cascina c’erano
poi i salariati, i braccianti («paisan’») che lavoravano a giornate
e le forestiere, quelle mondine che
arrivavano dai paesi vicini.
«Il mio bisnonno Salvatore, ai primi del Novecento – ricorda Umberto – era un piccolo proprietario
terriero, possedeva una ventina
di “pertiche” all’interno della cinta
dell’attuale Raffineria». Una posizione ideale per la coltivazione
del riso, ma anche per il nuovo
polo industriale che si andava sviluppando. E così nonno Giovanni
che aveva ereditato quel piccolo
appezzamento di terreno, negli
anni Sessanta lo cedette a una
Strada con canale e elettrodotto - Fabio Ghio
Albero - Ottorino Di Leo
Piazza con bambini in bicicletta - Fabio Ghio
società del Gruppo eni per la quale poi lavorò come meccanico.
«Ricordo quando ero bambino e
mi raccontava di Mattei, di quando era andato a vedere il giacimento di Cortemaggiore. Per
tutti era il simbolo dell’efficienza
e dell’industria, ma anche della
grande attenzione all’ambiente
e al territorio». E quando i lavori
della Raffineria furono conclusi
si attendeva l’arrivo di Mattei per
l’inaugurazione. «Non fu mai inaugurata – ricorda l’Ingegner Giovanni, che in Raffineria è entrato
30 anni fa, ma ricorda i racconti
dei padri fondatori dell’impianto –.
Li chiamavano i «peritoni» tecnici.
Erano tutti di Fermo, marchigiani;
molti venivano da Ghana e Tanzania per fare esperienza negli
impianti italiani. Ricordo uno di
questi giovani africani, altissimo,
un vero “watusso”, non diceva una
sola parola in italiano, ma parlava
benissimo in dialetto ferrerino».
ferrera erbognone
33
Ghiacciaia - Fabio Ghio
di vederlo, è un’immagine che rimane impressa nella memoria. Un
vento leggero muove l’acqua, è un
gioco di colori che si riflette in quel
caleidoscopio naturale. Un bozzetto che Rita, la moglie di Giovanni,
l’«Ingegnere», ha sempre sognato di
dipingere quando il marito, tornando a casa a Vercelli, le raccontava
di quello straordinario gioco della
natura. E lui, sempre pronto alla
battuta le rispondeva. « È una magia per pochi», quasi geloso custode
di quell’immagine.
Il paese, la gente, i luoghi gli avevano subito richiamato alla memoria
le immagini legate a Don Camillo e
Peppone. Un borgo contadino che
non ha la ricchezza di testimonianze storiche come la vicina Lomello
che lega la sua storia a quella della
regina Teodolinda, ma ne subisce la
sua influenza. «Voglio farlo conoscere a Marta», aveva detto Giovanni, sindaco del paese, dopo il loro
la magia del nostro mare
«a quadretti»
Il lavoro è finito, sono passate le 19
quando Roberto lascia la Centrale.
Guarda il cielo. È terso. Si vedono
anche le stelle. «È in serate come
queste – ripete tra sé – che comprendo il fascino di questo piccolo
paese dove gli inverni sono freddi
e la nebbia sembra non finire mai».
Perché Ferrera Erbognone ha una
sua bellezza fatta di dettagli che la
rendono per certi versi unica, come
quel «mare a quadretti» o «a scac-
chi». è così che i ferrerini chiamano
le risaie quando si aprono le chiuse e si allagano i campi squadrati, uno alla volta, come un’enorme
scacchiera, si riempiono d’acqua
per pochi centimetri.
«Sono momenti magici: ogni quadrato diventa un tassello di un unico
grande specchio nel quale si riflettono le lontane Alpi e spicca la vetta
del Monte Rosa». Uno spettacolo
raro, ma per chi ha avuto la fortuna
Granoturco - Roberto La Vecchia
incontro. Il primo cittadino allora gli
aveva parlato di Umberto. «È un’ottima guida; è l’uomo giusto, sa tutto
di Ferrera e dei ferrerini». «Marta è
un’esperta di letteratura medioevale – avevo spiegato al sindaco – È
nata anche lei a Palermo e ha visto
Ravenna dove ho lavorato per un
paio d’anni, prima di quei «profondi cambiamenti del sito di Ferrera
nell’anno 2008, come li chiama
l’Ingegnere, che riferendosi a me,
ferrera erbognone
35
Chiesa - Nicola Mason
dice scherzosamente che ho scelto
“il Battistero di Teodolinda in cambio del Mausoleo di Teodorico”. E
così, seguendo le indicazioni di
Umberto, sono diventato il Cicerone
di Marta. Le ho parlato delle Chiese
di Santa Maria della Fede e di San
Stazione - Roberto La Vecchia
Giacomo, di cui si è persa ogni
traccia, ma nei cui pressi sorgeva la
ghiacciaia di Via Giovanni da Ferrera. Una struttura sferica a mattoni,
perfettamente conservata, un frigorifero “ante litteram” utilizzato per la
conservazione del cibo».
Nel Medioevo il borgo sicuramente
fu fortificato: l’unica testimonianza
la «casaforte» di Corso della Repubblica. La Torre campanaria costruita nel XII secolo in mattoni a pietra
vista come appare oggi e utilizzata
come torre di avvistamento. Una
leggenda tramandata dagli anziani
vuole che la torre fosse già in piedi
durante il periodo della regina Teodolinda nel VI secolo d.C.. E sempre
secondo una leggenda nelle sale
dell’antico Palazzo Strada, famiglia
di nobiluomini, vagherebbe il fantasma di Ugo Strada. Alla fine dell’Ottocento era noto come Palazzo
Spinelli, oggi è sede della biblioteca
comunale e conserva alcune pre-
Campanile - Roberto La Vecchia
Ma da Ferrera Erbognone parte
l’ecomuseo del paesaggio lomellino, fatto anche di campagna, lunghe distese di verde, filari di pioppi, aironi e fagiani, pannocchie e
risaie, echi di canti delle mondine,
ruderi nel bosco, casali sul Canale
della Roggia e profumi, quello dei
il Palio dello «Spaciapulè»
gevoli volte affrescate. Altra tappa
nella romanica chiesa parrocchiale
di San Giovanni Battista che ospita
un pregevole dipinto del Moncalvo.
«Spaciapulè». Per alcuni «ladri di polli», per altri inguaribili «Don Giovanni».
Ma quell’appellativo attribuito ai ferrerini ha dato vita nel 2004 al Palio
dello Spaciapulè, una serie di gare animate dai rioni «Mulén» (antico mulino),
«Giasèra» (antica ghiacciaia), «Arbugnón» (torrente Erbognone) e «Cà mat»
(quartiere delle Case matte o, secondo un’altra interpretazione, amate)
che si tiene il terzo sabato di ottobre nell’annuale Sagra di ottobre.
Si parte con il gioco artistico: canzoni, balletti e scenette in dialetto
lomellino. Poi il gioco del «Gravisén» (tutolo della pannocchia), per cui
si dovranno sgranare le pannocchie di mais in un mastello: i concorrenti
dovranno utilizzare le mani o un pezzo di Gravisén ottenuto da quelli
già sgranati. Il gioco della Cerbottana consiste nell’abbattere 15 latte
utilizzando solo semi di granoturco. Il gioco della Balera: i concorrenti
dovranno superare la prova di quattro balli tipici (valzer, mazurka, polka
e tango) tenendo una palla premuta tra le fronti. Infine, il gioco della
«Galéna»: i concorrenti, con le mani legate, dovranno far entrare nel
pollaio, entro sette minuti dall’inizio del gioco, due galline liberate nel
recinto senza che ci sia contatto fisico.
ferrera erbognone
37
Tramonto sul fiume - Roberto La Vecchia
caminetti scoppiettanti nelle fredde serate d’inverno, delle botteghe
artigiane. «Mio padre Giuseppe,
ora in pensione, era un’orafo», gli
aveva detto Umberto. Sembra che
il tempo si sia fermato, la vecchia
ferrovia fa venire alla mente altre
epoche, quando le vecchie locomotive andavano a vapore, poco
distante dietro un boschetto, una
distesa verdissima e spiccano gli
impianti della nuova Centrale di
enipower, punta massima della
tecnologia energetica in un territorio dove però l’ambiente rurale
è rimasto integro come un tempo.
Forse per questo Roberto, 35 anni,
da 10 anni in eni, in una serata come questa, mentre torna a Milano,
riesce a sorprendersi guardando
il paesaggio. Passa per Scaldasole, un piccolo paesello, non bello
quanto il nome che porta, sicuramente evocativo, in una fredda
ma stellata serata invernale come
questa. Marta lo aspetta a Milano,
70 chilometri. Ha scelto di fare il
pendolare. Si sono sposati meno
di un anno fa. Palermo ce l’hanno
nel cuore, un po’ anche Ravenna.
Ma hanno imparato ad amare anche Ferrera Erbognone per tante
piccole cose. E qualche giorno alla settimana si fermano volentieri
anche in Lomellina.
È una bella giornata di sole, seduto
Piazza con struttura metallica - Fabio Ghio
su una pietra lungo le rive del torrente Antonio guarda l’acqua scorrere. Più avanti ci sono le chiuse e il
sentiero che porta a quel rudere nel
bosco. Un’immensa distesa verde e
sullo sfondo la Centrale. «Ingegnere, mi raccomando, che sia sempre
tutto così bello».
ferrera erbognone
39
lo stabilimento
una squadra davvero imbattibile
Ha 59 anni. È tra i più anziani a
lavorare nella Centrale enipower.
Per tutti Giovanni è solo l’«Ingegnere» Da oltre 30 anni fa parte della
grande «famiglia» eni. Nel 1979, è
entrato nella Raffineria di Sannazzaro. «Poi è iniziata l’“avventura” di
costruire la Centrale: 1000 Mwe da
montare, 1200 lavoratori da seguire, 9 km di elettrodotto e gasdotto.
Una bella patata bollente ma una
soddisfazione enorme quando sia-
mo riusciti a realizzare tutto in 18
mesi, ci sarebbero voluti 5 anni».
Ma anche una grande responsabilità per l’«Ingegnere Vis», lo chiamano così per via dell’impianto di
compressione termica Visbreaking
della raffineria, ma anche «zio», un
po’ per rispetto, un po’ per simpatia.
È nato a Vercelli e continua a vivere lì, con la moglie Rita, insegnante.
«L’abbiamo scelta solo perché era
in una posizione baricentrica: 55
Lo stabilimento di Ferrera Erbognone inaugurato nel 2004 è il primo nuovo
impianto realizzato in Italia dopo la liberalizzazione del mercato elettrico. La
Centrale è alimentata con gas naturale e con gas di sintesi. è integrata alla
vicina raffineria eni refining & marketing di Sannazzaro de’ Burgondi, da cui
riceve, oltre al gas di sintesi, parte delle «utilities» necessarie (ad es. acqua
demineralizzata) e a cui fornisce vapore. è composta da tre gruppi cogenerativi
a ciclo combinato: due gruppi gemelli alimentati a gas naturale e un altro
alimentabile sia a combustione mista, con gas di sintesi, che a gas naturale.
La potenza elettrica massima di 1030 MWe.
L’impianto si distingue per l’utilizzo di un sistema di raffreddamento mediante
condensatori ad aria: il consumo d’acqua è così limitato al reintegro dell’acqua
demineralizzata utilizzata per produrre vapore. Il gas di raffineria, utilizzato da
marzo 2006, è prodotto da un impianto di gassificazione di idrocarburi pesanti
che permette un utilizzo innovativo degli stessi idrocarburi, garantendo, con
una tecnologia all’avanguardia, la segregazione degli inquinanti presenti (zolfo,
ceneri e metalli) e la produzione di un gas di raffineria che può essere impiegato
come combustibile in turbina a gas. La maggior parte della produzione di
energia elettrica è destinata al mercato elettrico (96%); il vapore prodotto è
ceduto alla raffineria.
chilometri a sud verso il mio lavoro
a Ferrera Erbognone, 58 chilometri
a nord per Ivrea, dove mia moglie
insegnava arte. La stessa passione
che ha trasmesso a mia figlia Irene,
ora all’Università a Firenze».
se a Ferrera Erbognone e Sannazzaro ci torna finito il lavoro per
giocare a tennis, per i tornei con la
sua «imbattibile squadra», quella di
enipower, ormai messa a punto dopo i «trasferimenti e il calcio mer-
E da allora tutto è rimasto così: lei
continua a dedicarsi ai suoi acquerelli, alle sue nature morte; lui,
a quaranta minuti da casa, anche
cato» che vanta tra i nuovi acquisti
anche un noto rugbista a rinforzo
della squadra di calcetto. Mentre si
sono dati appuntamento davanti
ferrera erbognone
41
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower 100%
Potenza installata
1030 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale
da 390 MW - n. 1 ciclo combinato
a gas di sintesi da 250 MW
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2003
Combustibili
gas naturale
gas di sintesi
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Bruciatori velonox
unità n. 1 & 2
Aziende eni coinsediate e servite
eni refining & marketing
alla Centrale quelli della squadra
elettrica di ciclismo per la gara a
cronometro. «Nonostante gli anni,
i miei 40 chilometri in bici da corsa, riesco ancora a farli». Merito
del nonno che a Vercelli costruiva
biciclette. Insomma, un dopolavoro
davvero molto vivace.
Ma il pensiero torna lì, alla «sua»
Centrale. «Ricordo quando dovevamo costruirla in una zona incolta,
dove c’erano 54 daini, di cui 7 femmine gravide. Ero il responsabile
della sicurezza e dell’ambiente.
Non potevamo rischiare di perderne neppure uno. Facemmo addirittura un’inserzione sul giornale per
trovare persone o parchi disposti
ad accogliere questi animali. Mi
telefonò un ristoratore dicendomi
che li avrebbe presi volentieri tutti,
ma per portarli in tavola. Tutti, tranne un maschio, che avrebbe messo
nel giardino del suo ristorante per
farci giocare i bambini. Invece, ri-
uscimmo a farli entrare tutti in un
recinto e li portammo nel Parco di
San Donato Milanese. Per compensare l’ambiente, piantammo tanti
alberi, piano piano sono diventati
un bosco e ora sono il mio orgoglio
quando mi affaccio dalla Centrale e
vedo che è completamente in mezzo al verde».
Il piccolo borgo di Ferrera Erbognone
ha conquistato tutti. Anche Cesare,
38 anni, capoturno, viene da Brindisi. «È un anno che nevica. Mi manca
il mio mare e la sabbia. Intorno a me
risaie e zanzare ma i rapporti umani compensano tutto questo. Siamo
in pochi e tutti giovani in Centrale.
C’è un forte senso di appartenenza
e non ci si sente un numero».
Federico, 31 anni, è abituato a neve, nebbia, ghiaccio e zanzare.
Aveva 23 anni quando è entrato in
enipower, ora è responsabile di turno. Angelino, 25 anni, ferrerino doc,
ama tutto del suo paese. «Ci sono
due bar, in uno facciamo i tornei
di scopa con gli amici, non mi piace giocare a carte ma è un modo
per stare in compagnia e il sabato
si va a Lomello, c’è un locale dove
si sente musica dal vivo, e alla fine
si balla sui tavoli. I giovani di solito
vanno a Voghera e Vigevano dove
ci sono bei locali». Classe 1987, Fabio
ha 22 anni, è il più giovane lavoratore in Centrale. A Ferrera Erbognone ha frequentato le elementari, a
Sannazzaro le medie. La fidanzata
è a Voghera. Ma lui rimane ferrerino. Lo è ormai diventato Giacomo, 60 anni, di Trapani, la Centrale
enipower l’ha vista nascere. Dal
2001 è il custode, la guardia giurata.
«Sembrava una città che cresceva a
giudicare dal numero dei lavoratori
impegnati. E quel pezzo di terreno,
man mano che passavano gli anni, si
trasformava, la prima caldaia, la seconda e quel paesino ha cominciato
a vivere, il bar, gli operai, le imprese.
Oggi Ferrera Erbognone è bellissima
e attrezzata e la Centrale è l’orgoglio
non solo di chi ci lavora». Da 26 anni Giacomo vive qui e ha imparato
ad amarne anche i suoi sapori, come la polenta della Lomellina con lo
stufato d’asino o con i pezzettini di
carne di fagiano, lepre o coniglio, o
le triglie e lo sgombro con aglio, olio
e peperoncino. Ma quando sente la
nostalgia della sua Trapani, di Favignana o Pantelleria, cerca i posti dove si cucina il «couscous». Meglio se
ci pensa la moglie Anna con la classica ricetta trapanese. «Quello originale tunisino si fa con la carne ed è
piccantissimo. Noi a Trapani, invece,
il “couscous” lo facciamo con diverse
varietà di pesce: scorfano, gallinella,
anguilla, crostacei e frutti di mare,
ma poco piccante. Per finire non
possono mancare i cannoli siciliani,
li ho trovati a Milano, da un pasticcere trapanese». Un pizzico di Sicilia in
quella Ferrera Erbognone che ora è
diventata la sua seconda patria.
dove vive enipower
43
mantova
il piacere di essere parte
di una grande avventura
«Allora eravamo Montedison». Inizia
sempre così la storia di quelli che nella
centrale ci hanno passato una vita e
ne hanno seguito tutte le tappe fino
ad oggi. «Ora siamo enipower. È una
lunga e irripetibile esperienza – dice
Mario, 58 anni, di Mantova, responsabile di produzione –. Sono soddisfatto
per la possibilità che mi ha dato la
mia grande azienda. Ma spero che
per quelli che verranno dopo di me,
si possa ripetere un cammino così
entusiasmante, perché il lavoro, prima di tutto, deve essere un piacere.
E per me lo è sempre stato». Aveva
26 anni quando presentò domanda
per entrare nello stabilimento della
Montedison, dopo aver girato l’Italia al seguito di un’azienda elettrica
milanese che faceva impianti elettrici industriali e anche per centrali.
«Una dottoressa mi fece il primo test
psico-attitudinale, poi mi chiamarono
per la prova: lo scritto la mattina e il
mantova
45
pomeriggio l’orale. “Ti faremo sapere”,
mi dissero. E dopo qualche giorno mi
chiamarono per la visita medica. Fui
assunto il 4 aprile 1977. Non mi fecero
il contratto il primo aprile, chissà, forse perché sembrava tanto un pesce
d’aprile», ripete sorridendo.
Perché Mario si è sempre ritenuto fortunato per quello che ha potuto fare.
Da elettrico venne inserito nel settore
termico della centrale.
Piazza delle Erbe - Maurizio Dessi
Allora in fabbrica vigeva il modello
americano, proprio di quegli stabilimenti nati all’inizio degli anni Cinquanta che andavano nella direzione
della specializzazione. Poi il primo
passo avanti, a fine anni Ottanta, con
la nomina a capoturno nel settore elettrico, mentre non perdeva l’opportunità offerta da eni di arricchire il suo
bagaglio formativo partecipando ai
corsi di formazione mirati alla crescita
professionale. «Tanto che nel giro di sei
mesi sono arrivate due promozioni:
prima come assistente di giornata e
subito dopo come capo-reparto. Sono
subentrato a due colleghi andati in
pensione», ripete con un po’ di modestia, ma consapevole che quei passaggi sono stati possibili solo perché
la sua azienda continuava a fornirgli
gli strumenti per crescere.
Nel 2000 arriva enipower e nel 2002
comincia una nuova sfida con l’incarico di responsabile di produzione delle
centrali, sia per la parte elettrica che
Ragazza in bicicletta - Maurizio Dessi
mantova
47
Castello San Giorgio - Luca Donelli
gli impianti con l’avvio della costruzione di quello a ciclo combinato che
partirà nel 2004. «Ho visto qualcosa
di nuovo, non ho partecipato alla loro
costruzione, ma mi sono occupato di
loro – dice Mario – si può dire che li ho
visti nascere e crescere. Li ho seguiti
dal loro avvio fino ad oggi. È stata
un’altra opportunità».
Mantovano «doc» è uno di quelli che
ci tiene davvero tanto alla sua città
e alla sua «storia di terra e di acqua»,
legata a quel popolo di contadini e
«scariolanti» che con le loro carriole
bonificarono la palude. «Abito a tre
chilometri in linea d’aria da questo
stabilimento e posso affermare, con
orgoglio, che le condizioni ambien-
tali sono migliorate tanto passando
dalle vecchie alle nuove tecnologie».
Ma non è solo un fatto di impianti,
per Mario «dietro c’è l’anima di chi le
ha costruite, pezzo dopo pezzo. Ho
visto da vicino i ragazzi che si sono
impegnati per riuscire nell’impresa. Abbiamo raggiunto risultati straordinari».
E detto da chi ama la natura come lui
è davvero una garanzia. «Sono legato
al Bosco Virgiliano, è un posto a me
tanto caro, lì c’è un maneggio e mi
dedico alla mia passione per l’equitazione». A casa, dopo lavoro e “hobby”,
lo aspetta la moglie, Vanna, che invece ama la cucina, quella mantovana
naturalmente. Il suo piatto forte, è il
risotto alla «pilota» o i tortelli di zuc-
ca, il piatto dei Gonzaga. «Ci vuole
l’amaretto dentro. È l’ingrediente che
ci distingue da quelli ferraresi». Una
vita di lavoro che idealmente continua
in Matteo, suo figlio, ingegnere elettrico. Un mondo che è riuscito a fargli
amare, forse solo portando a casa il
piacere di essere stato protagonista di
una grande avventura.
una storia di terra e di acqua
Una piccola isola tra il Po e il Mincio. Questa è Mantova, la città di Virgilio e dei
Gonzaga, del Mantegna e di Giulio Romano, di donne importanti come Maddalena
di Canossa e Isabella D’Este, ma anche di personaggi singolari e un po’ bizzarri
come Doride Bertoldi, prete e cantore della tradizione contadina, tanto legato a
quel mondo fatto di fossi e risaie, di campi assolati e nebbie profonde. È l’autore di
un classico della poesia dialettale mantovana: «La musa paisana», una raccolta di
liriche pubblicate nel 1923 da Anfibio Rana, pseudonimo del sacerdote, che seppe
cantare quell’universo fatto di braccianti e mondine, di sogni e aspirazioni deluse,
una denuncia sociale condita con una vigorosa carica di ironia. Molte sono diventate
espressioni vivaci e colorite piccoli intercalari usati ancora oggi nel linguaggio
comune come «Sant’Antoni chi solèr», suoni dal sapore povero e antico di quella
Mantova che rivive in quelle sagre e feste popolari, e degli antichi fasti della piccola
cittadella nell’«Isola del Tè» tra regate e feste sull’acqua, giardini, fontane, statue, viali
alberati e palazzi monumentali. Ma Mantova è ancora tutto questo.
per quella termica. Si avvertono i segni
del cambiamento. Si passa dal taglio
specialistico della vecchia organizzazione lavorativa a un nuovo modello
che non ha più come punto di riferimento la vecchia impostazione dei
servizi del petrolchimico. Guadagna
una sua autonomia, quella propria di
un’azienda elettrica. Cambiano anche
San Benedetto, chiostro interno - Luca Donelli
Notturno Piazza delle Erbe - Maurizio Dessi
mantova
49
quando la vita è scandita dai turni
È uno di quelli della Montedison,
anche Orazio, 53 anni, da 31 in
Centrale. «Avevo solo 21 anni, quando sono entrato come fuochista.
Allora era tutto manuale. Oggi sono quadrista ed è quasi tutto meccanicizzato. Prima eravamo solo
a servizio dello stabilimento, oggi
forniamo energia elettrica e calore
alla città con il teleriscaldamento».
La vita di Orazio è scandita dai
ritmi dei turni. «Non è faticosa, poi
ci si abitua» e con Gigliola, con cui
è sposato da 27 anni, è riuscito a
organizzarsi bene. Vivono in una
casetta nuova in un paesino vicino
Mantova. «L’abbiamo comprata da
poco più di un anno e la stiamo tirando su insieme, passo dopo passo». La sera quando è possibile, non
rinunciano mai alla passeggiata. E
quando i turni lavorativi non coincidono Orazio passa da mamma
Lucia, 80 anni, che abita in pieno
centro. «Io porto le uova fresche del
mio paesino in campagna, dove ci
sono le galline e il salame buono, e
lei mi prepara gli “agnolini” cotti nel
brodo di cappone, con l’aggiunta di
formaggio Grana e un bicchiere di
vino Lambrusco».
Potere delle mamme. Forse anche
per questo in casa con mamma
Ave, 70 anni, Luca, 47 anni, ci sta
davvero bene, soprattutto quando
lei gli prepara la sua specialità: i
tortelli alla zucca secondo la ricetta
tradizionale, con la sfoglia tirata in
casa e quel po’ di «cresta» che rende
il tortello più bello. «Mi piace farlo
così – dice la signora Ave – ma attenzione al ripieno, la zucca va cotta al vapore, poi si aggiungono gli
amaretti, un po’ di pane grattugiato, noce moscata, Grana. E la mostarda (quella nostra fatta in casa,
alla mantovana, con mele e pere)
e un po’ di limone grattugiato che
ne addolcisce il sapore aspro della
senape». Ne parla con amore, quasi
come un rito che ripete secondo la
vecchia ricetta della nonna, che lei
ha fatto sua mettendoci quel tocco
personale che rende il piatto unico.
«Ma sono brava anche a fare la torta delle rosa che piace tanto a Luca.
Preparo l’impasto la sera, perché
deve lievitare tutta la notte. E la mattina prende forma quel dolce che si
apre come i petali di una rosa».
Bella come i fiori di loto sulle ac-
que del lago della sua Mantova che
Luca, turnista in Centrale, ama fotografare: dal castello di San Gior-
Città, lago e fiori di loto - Fernando Capoccia
mantova
51
Corte Zuccona - Simone Franceschetti
gio, alle straordinarie suggestioni
della città di notte, all’animazione
di Piazza delle Erbe, al chiostro di
San Benedetto. Ama la fotografia,
ma anche il ballo. «Prima che Fabio si sposasse la sera si andava a
ballare il liscio». Ora sta ristrutturando la sua piccola casa. «Vorrei
farci un “bed & breakfast”. Sono
una persona eclettica, mi piace
fare tante esperienze: la mia fi-
«io unica donna a lavorare in Centrale»
Lo dice con un pizzico di orgoglio Stefania. È entrata solo da qualche mese con un incarico che le calza su misura. È
la persona giusta, ha esperienza, sa farsi valere quando è necessario. Ha grinta e professionalità, sa muoversi in un
ambiente tutto maschile. I requisiti necessari per quel nuovo ruolo di segreteria tecnica che serviva in centrale. Ma
Stefania che ha superato gli «anta», ripete con la semplicità e l’umanità che la caratterizza. «Sono stata fortunata, come
venti anni fa, quando alla polimeri europa cercavano una persona che conoscesse le lingue». E lei aveva studiato in
Germania e in Inghilterra e aveva lavorato in un’agenzia di viaggi. Anche allora era la persona giusta, come quando
è subentrata alla sua collega incinta nella segreteria di direzione in quel petrolchimico a lei tanto caro da quando
era bambina. «Il mio papà Luciano, 77 anni, si è trasferito a Mantova nel 1960. Ha lavorato in quel reparto durissimo
che era il “Clorosoda”. Ma lui era uno di quelli tosti, partiva con la neve, non ha mai perso un giorno di lavoro». E
Stefania ricorda i turni, le feste senza papà, i compiti da fare in silenzio perché lui riposava. Ricorda anche i suoni e
i colori di quella vendita diretta di frutta e verdura nel terreno dietro lo stabilimento, dove andava con papà a fare la
spesa. «Tutta la nostra vita girava intorno al petrolchimico». Quel vecchio reparto ora non esiste più. Papà Luciano
ci è passato davanti in una delle giornate di centrali aperte. Del clorosoda non c’è più nulla. «Con gli occhi lucidi, mi
ha detto: “È tutto cambiato così in fretta”. Ma sono passati più di 20 anni».
14 anni, Daniele, 10, e Fabiana, 8.
«Il profumo è diverso, ma è bello
sedersi sulle panchine in una bella giornata di sole, fare fotografie e
guardare le gare di canoa di Federica, andare in bicicletta sulla pista ciclabile o andare al “campino” del suo
quartiere dove i ragazzi possono
losofia di vita è “basta che si stia
bene”». Ama la sua città, «piccola,
bella e tranquilla». Ma ama anche
il suo lavoro.
Ha cominciato a 14 anni, in un
caseificio e dopo il militare come
paracadutista, ho fatto il muratore
in cantiere. «Avevo la terza media,
ma avevo preso anche la patente
di primo grado per la conduzione
di caldaie e mi stavo preparando
per quella di secondo grado. Ruggero, un amico quadrista in centrale mi disse che cercavano personale con quei titoli. “Provaci”, mi
suggerì. E io seguii il suo consiglio.
Feci domanda e mi assunsero con
l’impegno che continuassi a studiare. Avevo 24 anni quando sono
entrato in eni, ora sono operatore
esterno sul turbogas».
Fernando, 45 anni, un po’ della sua
Brindisi l’ha trovata a Mantova sulle rive del lago, dove vive ormai da
20 anni con Teresa e i figli Federica,
Città, lago e alberi - Fernando Capoccia
giocare». Oggi è addetto alla sicurezza e prevenzione della centrale. Ha
lavorato a Brindisi e Porto Marghera,
prima di entrare nel ‘90 al «Clorosoda». Quando questo reparto chiuse,
nel ‘93 entrò in Centrale. Il resto è
storia di oggi in quello che il piccolo Daniele disegna come un mondo
con in testa il cappello enipower.
Perché con gli occhi dei bambini
tutto appare diverso. Come per
Jonathan, 13 anni, e Edoardo, 6.
«Il giorno che hanno visto il posto
dove lavoro – racconta papà Massimiliano, 44 anni – sono rimasti
incantati. “Che bello, è fantastico”,
dicevano. La sala controlli, tutta
computerizzata ai loro occhi doveva apparire come un grande videogioco, la più bella “play station”
dove avrebbero voluto giocare».
Massimiliano è turnista da 22 anni. Ha visto nascere enipower ed
è tra i primi quadristi ad aver visto il «Turbo». «Ai turni ci si abitua»,
dice. Nessuna controindicazione
per lui, la sua Irenilda, brasiliana di
San Paolo, e i loro figli. Vivono in
un paesino alle porte di Mantova
e sono una bella coppia, multietnica anche a tavola: lei prepara
il «churrasco», piatto tipico brasiliano, con carne di pollo, manzo
e maiale grigliata e ben speziata
con cipolla, aglio, accompagnata
da maionese, riso e manioca. Lui
il risotto alla mantovana con la
salamella e il Grana.
Scene di vita quotidiana senza
tempo, come quelle immagini della civiltà contadina che Simone, 39
anni, responsabile di turno, fotografa non con la nostalgia del passato, ma per mettere in evidenza il
forte legame con la terra e con il
Po. «Dove passa lascia il segno, è
fonte di ricchezza. Insieme al Mincio hanno caratterizzato lo sviluppo del Mantovano». Il passato
e il futuro di quell’industria che ha
mantova
53
sempre avuto un peso nella vita di
questa piccola città.
«Avevo due possibilità: continuare a fare l’idraulico o puntare al
“posto sicuro” al petrolchimico»,
Piena del fiume Po - Simone Franceschetti
dissero che erano state aperte le
assunzioni alla polimeri europa.
Così ho fatto domanda nell’89,
sono stato assunto e due anni dopo ho sposato Cristina. Sono nati
Luca, 13 anni, ed Elisa, 5 anni. La
mia famiglia si è adattata al mio
lavoro. Nel tempo libero mi dedico alla casa e ai miei figli, vado in
bicicletta o seguo Luca che gioca
a “basket”, andiamo in piscina al
parco o al bar a far due chiacchiere con gli amici. Insomma, ho
imparato a godermi i miei spazi
in modo rilassato e non in mezzo
alla calca». E così se tutti vanno
all’ipermercato il fine settimana,
loro vanno gli altri giorni.
«Quando fai turni hai pochi amici,
ma la tua seconda famiglia rimane quella di eni e dei colleghi con
cui si dividono sogni e speranze,
dentro e fuori la Centrale». Solo tra
turnisti ci si comprende. «Penso
alla notte di Capodanno. Io usci-
ricorda Fabio, 48 anni di Mantova.
«Avevo la terza media e quella patente per le caldaie così richiesta.
Ventotto anni, dieci di esperienza
di idraulico alle spalle, quando mi
Città, lago e barche - Fernando Capoccia
vo dal lavoro e gli altri tornavano
a casa dopo aver festeggiato. Un
caffè nell’ultimo bar rimasto aperto, poi l’incontro con una turnista
che lavora in ospedale». Due sfortunati? «Tutt’altro, eravamo felici.
Cambiano i valori, ma se hai una
famiglia che ti sostiene tutto diventa meno pesante, perché certo,
i turni condizionano la vita, ma io
sono contento così».
Trasloco di famiglia contadina - Simone Franceschetti
mantova
55
lo stabilimento
una rete di fili e persone
Ogni sito dove vive enipower ha
le sue caratteristiche peculiari, ma
tutti insieme formano una rete, un
circolo virtuoso che idealmente li
collega, non solo con dei fili di corrente, ma anche attraverso le persone che ci vivono e ci lavorano.
E così ogni centrale può diventare
d’esempio per le altre, non solo per
gli aspetti tecnici e gestionali, ma
anche per il contributo dato dagli
uomini. È questo l’atteggiamento
vincente per chi è chiamato a un
ruolo di responsabilità e ha avuto
la fortuna di vedere diversi impianti. Quello che si crea, insomma, è
una sorta di osmosi tra le diverse
componenti della società e questo
non può che migliorare i processi
di conoscenza.
Ne è convinto Maurizio, 44 anni,
da dieci in enipower. Anni intensi
in cui ha potuto conoscere i vari
siti in cui la società opera. Project
manager a Ferrera Erbognone
e a Ferrara, quindi responsabile
di stabilimento sempre a Ferrera
e da un anno e mezzo a Mantova. Perché se alla fine gli impianti
sono gli stessi, quello che li rende
diversi è il contesto dove sono insediati. «Cambiano i colori politici
e la sensibilità verso quel sito, cambia l’impatto con la popolazione, si
accentuano o diminuiscono le difficoltà nel farsi accettare. Lo stesso
è inserito nel sito multisocietario di Mantova a circa 5 km dalla città.
Lo stabilimento è stato ceduto il 1° gennaio 2006 alla società enipower
Mantova spa controllata da enipower spa per l’86,5% e partecipata
dalla ex municipalizzata Tea Spa per il rimanente 13,5%. L’impianto è
composto da due gruppi gemelli a ciclo combinato e da una caldaia di tipo
tradizionale alimentate a gas naturale. Nel 2005 è cessato l’utilizzo dell’olio
combustibile e sono state fermate 5 caldaie a tecnologia tradizionale. La
Centrale produce energia elettrica che viene in parte immessa in rete e in
parte distribuita alle Società coinsediate e vapore tecnologico destinato
agli impianti del sito petrolchimico. Parte del calore residuo contenuto nel
vapore prodotto dalla cogenerazione è destinato all’alimentazione di una
rete di teleriscaldamento della città di Mantova.
Nel 2007 sono stati sostituiti i bruciatori Dry Low Nox delle turbine
a gas delle due unità a ciclo combinato con un tipo di tecnologia più
avanzata ed innovativa: i Ve Lo NoX . I nuovi bruciatori hanno consentito
di abbattere le emissioni di ossidi di azoto (NoX ) a valori inferiori a
30 mg/Nm2 , anticipando il rispetto delle prescrizioni contenute nel
Decreto autorizzativo della centrale a ciclo combinato. Le procedure di
stabilimento sono coordinate e integrate con i sistemi di gestione di salute
e sicurezza del sito petrolchimico.
mantova
57
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower 86,5%
partner
Tea Spa 13,5%
Potenza installata
836 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale
da 390 MW
unità a vapore n. / taglia
n. 1 unità a vapore di riserva da 56 MW
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2005
Combustibili
gas naturale
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Altre produzioni/servizi
fornitura di calore alla rete
di teleriscaldamento
Bruciatori velonox
unità n. 1 & 2
Aziende eni coinsediate e servite
polimeri europa
oggetto “Centrale” non è vissuto e
sentito sempre nello stesso modo.
E in alcune realtà c’è ancora chi ha
in testa il vecchio operatore».
A Mantova anche se si è partiti con
gli impianti nuovi solo nel 2005
enipower ha stretto un rapporto
particolare con la città. «Ci chiamiamo enipower Mantova – sottolinea Maurizio – perché una parte
delle azioni sono di una municipalizzata, la Tea SpA, e questo ha contribuito a rafforzare sensibilmente
il legame in una maniera armonica, grazie a un lavoro di squadra
che si avvale della professionalità
di persone di grande esperienza, la
cui età media è sui 43 anni». Ma
ognuno di loro è collegato in una
sorta di simbolico passaggio di testimone. «Una riflessione che ho
fatto a Ferrera Erbognone, quando
ero responsabile di stabilimento,
guardando insieme a un giovane
collega le foto iniziali del cantiere
ta la città si anima: palazzi, cortili,
piazze, ci sono eventi per tutte le
età e per tutti i gusti, dai gialli alla
saggistica, dai romanzi alle mostre.
Mantova è davvero bella, lambita
da quel lungo lago dove ama andare a correre la sera quando ha finito di lavorare. « È una città vivibile
e a misura d’uomo».
quando ancora non c’era nulla. Io
all’epoca ero già laureato e vedevo
i progetti per realizzarli, lui, invece,
era ancora all’Università». È una
staffetta, c’è chi è già partito e chi
parte ora e raccoglie l’eredità di chi
ha cominciato prima di lui. E insieme si cresce e ci si arricchisce, si
vivono i momenti positivi e quelli
negativi e si va avanti con un unico importante obiettivo: seguire e
curare lo Stabilimento. «In questo
mi sento tanto mantovano: persone pratiche, essenziali, che non si
perdono in chiacchiere, concrete,
efficienti».
Anche se le sue origini sono tra
Sardegna e Umbria, ma c’è anche
un po’ di Piemonte e Lombardia,
vive vicino a Pavia con la sua famiglia che ha avuto modo di portare
a Mantova in occasione del Festival della letteratura. Lorenzo, di 8
anni e mezzo, ne è rimasto molto
colpito. Non è la classica fiera, tutPiazza delle Erbe - Luca Donelli
Ma Lorenzo apprezza anche la
«sbrisolona», semplice e buona
proprio come i dolci che piacciono
ai bambini. Che strano, è proprio
diverso il mondo con i loro occhi.
Pensava che avrebbe disegnato il
papà al lavoro in mezzo alle ciminiere. «Non ci sono nel suo disegno,
i bambini vedono le cose basse».
«I camini dei turbogas possono richiamare i campanili di Mantova
e le volte della Basilica e se si va
sull’impianto si riesce a vedere tutta
la città. Siamo a un tiro di schioppo»
dice Daniele, 44 anni, tecnologo di
reparto nei servizi tecnici. Aveva 22
anni quando è entrato in centrale
come operatore esterno. La certezza di un lavoro gli ha permesso di
sposarsi con Antonella. è nata Nicole che oggi ha 18 anni, poi è arrivato
Mattia, che ne ha 11. «Con lui è arrivata anche la mia promozione. Ho
finito di fare i turni la notte». Poi altri
passi in avanti fino al 2006. «Ogni
nuova mansione – spiega Daniele – era legata a un’esperienza formativa maturata in questa società
e grazie a questa società. Il segno
evidente di un cambiamento perché proprio l’assetto organizzativo
è il nostro punto di forza ora che
siamo indipendenti dal resto dello
stabilimento. Prima eravamo una
delle tanti componenti, ora siamo
enipower, abbiamo un nostro personale e pian piano ci siamo dati
anche un’organizzazione».
dove vive enipower
59
ferrara
la città nel bosco
dove il tempo si è fermato
I ferraresi ormai ci sono abituati, ma
per Domenico, ogni giorno è una
sorpresa. «Perché a Ferrara si sente
davvero il profumo della cultura e
della storia», ripete lui che di città
storiche ne ha viste tante e ci ha
anche vissuto. «Eppure sono solo
poche quelle che riescono a dare
quella sensazione così forte di essere
in un luogo d’arte come Ferrara»,
ripete Domenico, Ingegnere, da un
anno in Centrale. È bastato poco a
capire che in quel posto gli sarebbe
davvero piaciuto vivere. E si è subito
trasferito con la sua famiglia.
Da allora ogni giorno è una scoperta. Percorrendo le strade di Ferrara,
su ogni palazzo si vede una targa
che indica quale illustre personaggio
ci ha abitato o c’è solo passato. Ma
sono tanti gli angoli che richiamano la presenza di Ludovico Ariosto.
«Anche in queste stanze c’è stato», gli
avevano detto così ma senza troppo
ferrara
61
chi la patria, a chi li strani liti. Chi
vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia
e Spagna; a me piace abitar la mia
contrada».(Satire, 1, vv. 52-57).
È passato un anno. Ora si può co-
gliere davvero appieno il senso di
quelle parole: «a me piace abitar la
mia contrada». All’alba uscendo da
casa con la nebbia di sottofondo, i
lampioncini accesi, si riesce davvero
a respirare proprio quell’atmosfera
Ariosto, Boiardo e Tasso: la poesia a Corte
Foschia - Roberto Mantovani
enfatizzare la cosa, indicandogli
una casa del centro. Un’informazione in più, quasi un trascurabile
dettaglio. «Ariosto? Proprio quello
dell’“Orlando Furioso”?». Solo un
cenno del capo. Un «si» telegrafico, senza lasciar trapelare alcuna
emozione. Eppure parlava di uno
dei personaggi di spicco della letteratura italiana. E chiunque a quel
punto con la fantasia sarebbe volato
a cavallo dell’ippogrifo, pensando a
Orlando, all’amore per Angelica, al
senno perduto.
Il pensiero tornava indietro, ai banchi di scuola, al liceo, cercando di
ricordare le sue opere, il suo pensiero. Basta un computer ora a rinfrescare la memoria. Digitando la
parola «Ariosto» un versetto: «Degli
uomini son varii li appetiti: a chi
piace la chierca, a chi la spada, a
Ludovico Ariosto (1474-1533) gli ultimi anni di vita li ha passati in una casa semplice
ma elegante in mattoni a vista, realizzata su disegno di Girolamo da Carpi, nella
via che oggi porta il suo nome. «Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non
sordida, parta meo, sed tamen aere domus», (la casa è piccola, ma adatta a me,
pulita, non gravata da canoni e acquistata solo con il mio denaro) è l’iscrizione che
si legge sulla facciata della casa, un piccolo museo dedicato al poeta che cantò
«le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese», dove c’è ancora
il calco del suo calamaio, la sua sedia e le medaglie che lo rappresentano, fra cui
quella trovata nella sua tomba nel 1801 oltre alla preziosa edizione dell’«Orlando
Furioso» illustrata da Gustave Doré nel 1881.
Strano, ma Ariosto, come Boiardo e Tasso, i tre poeti che fecero di Ferrara nell’arco
di un secolo la capitale della poesia italiana, non sono nati in questa straordinaria
città. Non c’è nato Ludovico Ariosto che era di Reggio Emilia, né Matteo Maria
Boiardo (1440-1494), di Scandiano, sempre in provincia di Reggio Emilia, e
neppure Torquato Tasso (1544-1595), di Sorrento. Eppure tutti e tre sono ferraresi
in poesia, e la loro cultura nasce a Corte come i loro tre poemi epici e cavallereschi:
l’«Orlando furioso», l’«Orlando innamorato», «La Gerusalemme liberata», opere
dedicate ai fasti e alle fortune della dinastia Estense.
ferrara
63
Frecce a Ferrara - Loris Melloni
medioevale. Tanto che se passasse
un cavaliere con la lancia in mano,
sicuramente non sembrerebbe fuori
luogo. «È bella come il tramonto sul
mare di Taranto, perché nella mia
città il sole cala proprio in acqua». Da
buon meridionale, il pensiero va alle
sue origini, ai marinai, al porto, alla
vecchia bottega del nonno, con la
vecchia insegna di elettrauto dipinta a mano dove riparava le barche
dei pescatori. E questi in cambio
gli regalavano le aragoste del Mar
Piccolo, che a quei tempi non erano
così pregiate come oggi. Ricordi del
passato, avvolti in quella nebbiolina ferrarese. I tempi dell’Università
a Bari, poi Milano, prima tappa in
«casa» eni. E di nuovo il mare, quello
di Brindisi, le suggestioni di Lecce,
un’altra città ricca d’arte.
Ma è quella «città nel bosco» con la
sua magia di altri tempi che lo ha
davvero stregato. E che pian piano
ha conquistato tutti, soprattutto le
sue bambine, Elena, che ha 3 anni, e Gloria, 2. Pochi direte? «Sono
proprio i più piccoli a riuscire a cogliere il senso del bello, osservano
tutto, molto più di quanto riusciamo
a vedere noi. “Papà, è domenica,
facciamo una passeggiata?”. Ogni
domenica mi tirano giù dal letto
per entrare in quella favola, in quel
mondo fiabesco, di principi e principesse, di palazzi e castelli, dove la
città si trasforma in bosco e parco e
quella bella pasticceria ai loro occhi
diventa come la casa di “Hansel e
Gretel” tutta fatta di dolci e leccornie
colorate. Ma lo sguardo si posa sulla
“Tenerina”, la tipica torta ferrarese, di cioccolato». E la sera prima
di andare a dormire la consueta
Strada di luce - Roberto Mantovani
telefonata ai cuginetti di Taranto
per raccontare della loro nuova
casa nella città nel bosco, fatta di
“Tenerina” e di tanto amore.
ferrara
65
Ritorno - Roberto Mantovani
Tramonto - Roberto Mantovani
suoni, ai colori evoca altri tempi. E
così il Ferrarese che va via, ritorna.
E chi entra e si lascia avvolgere da
quella città, che sembra essersi sopita nella nebbia, è difficile che vada
via. «Ogni volta che torno a Ferrara, –
dice Giancarlo – mi accorgo che sto
arrivando dall’odore della melassa
che ancora si avverte dei campi di
una «coppia» sulla tavola del Duca
«Quando prima vidi Ferrara mi parve
che tutta la città fosse una meravigliosa e non più veduta scena dipinta
e luminosa, e piena di mille forme
e di apparenze. (…) E non bastandomi d’esserne venuto spettatore,
volli divenire uno di quelli che erano
parte della commedia e mescolarmi
come gli altri».
Le parole di Torquato Tasso si rivelano ancora oggi di grande attualità
in una città dove tutto, dai sapori, ai
Festa del grano - Loris Melloni
Bilancioni - Roberto Mantovani
barbabietole da zucchero. Ora non
si coltiva più, ma erano per me il
segno che stavo arrivando a Ferrara».
La città è sempre la stessa, il colore
rosato dei mattoni delle mura e il
verde intenso dei terrapieni alberati
avvolgono il centro storico e lo circondano per circa nove chilometri.
E anche quel profumo intenso.
Fragrante e saporita, unica nella sua
forma, deliziosa nel gusto: la «coppia
ferrarese» è qualcosa di più di un
semplice pane. È parte integrante
della cultura e delle tradizioni di Ferrara. Già negli Statuti del 1287, venivano stabilite le regole del panificare.
I fornai erano tenuti a confezionare
forme di pane con gli «orletti» che,
evolvendosi poi nel pane «intorto»,
sono tradizionalmente ritenute le
antenate della classica «coppia ferrarese». Fu alla Corte Estense, nel 1536,
nei fastosi banchetti di una cena
ducale che furono offerte le prime
originali forme di pane intorto.
ferrara
67
Sbandieratori - Loris Melloni
Palio a Ferrara - Loris Melloni
Dorata con venature bionde, la coppia che ha il marchio Igp, è formata
da due pezzi di pasta uniti a forma di nastro nella parte centrale,
le estremità sono ritorte in modo
Castello e balloons - Loris Melloni
da formare un ventaglio di quattro
corna dette crostini. Quattro sono
le fasi di produzione: impastamento
degli ingredienti (farina di grano
tenero tipo “0”, strutto di suino, olio
extravergine di oliva, lievito naturale,
sale, acqua e malto) con il lievitomadre; formazione delle coppie;
lievitazione per circa un’ora e mezza; cottura in forni (con calore dal
basso verso l’alto).
Ma la tradizione ferrarese prevede tra gli ingredienti la fantasia dei
maestri fornai, l’unica che riesce a
preservarne nel tempo la sua unicità.
Una ricetta che zio Walter, panettiere, conosceva bene. Aveva 80 anni
era sempre stato a Ferrara e di pan
ferrarese ne aveva fatto tanto. Non
gli mancava certo la fantasia né
l’arte per sfornare quel pane che si
intreccia con la città degli Estensi.
Perché Ferrara e il suo pane non
possono vivere l’uno senza l’altra.
Nel 1860, fu costretto a lasciare la
sua città e seguire la famiglia che si
era trasferita a Genova. Gli mancava
il suo pane. Andò da un fornaio e
gli chiese se poteva fare la «coppia
ferrarese». Ci provò, ma per la prima
volta la «coppia» non riuscì. Si fece
portare da Ferrara il grano, la farina,
il lievito, il sale, tutti gli ingredienti, e
anche una cisterna di acqua. Tutto
questo non bastò per trasferire a
Genova la «coppia ferrarese», che
rimane inimitabile perché la «ciupeta», come la chiamano i ferraresi è
frutto di una tradizione antica che
lega indissolubilmente Ferrara al suo
pane e alle tavole del Duca.
Perché in questa città tutto ha il sapore
del Rinascimento, anche la tradizione
culinaria. E Giancarlo, 50 anni, che
lavora negli uffici in Centrale, la sua
Ferrara preferisce raccontarla sempre
a tavola, magari davanti a un buon
piatto di «salama da sugo» quella che
il palio più antico del mondo
Dame e cavalieri, paggi e armigeri, musici e sbandieratori in costume ferrarese
del XV secolo sfilano per le vie di Ferrara fino al Castello Estense. Oltre mille
figuranti nello storico corteo del Palio di Ferrara, il più antico del mondo. Il primo
si corse nell’anno 1259 per festeggiare Azzo VII «Novello d’Este», Marchese
della città, vittorioso su Ezzelino da Romano a Cassano d’Adda. Poi nel 1279,
il Comune di Ferrara istituzionalizzò il Palio che secondo gli statuti si doveva
correre due volte l’anno: il 23 aprile in onore di San Giorgio, patrono di Ferrara,
e il 15 agosto in onore della Vergine Assunta. Al vincitore spettava un «palio», un
pezzo di stoffa. Tracce del passato si trovano negli affreschi del Salone dei Mesi,
a Palazzo Schifanoia, nelle testimonianze dei cronisti dell’epoca e nell’«Orlando
Furioso» dell’Ariosto. Oggi il Palio si tiene l’ultima domenica di maggio in onore
di San Giorgio, ma la data ricorda la famosa edizione del 1471 corsa in onore di
Borso diventato Duca di Ferrara. I palii sono quattro: quello verde dedicato a San
Paolo per la corsa delle putte, quello rosso di San Romano per la corsa dei putti,
quello bianco dedicato a San Maurelio per la corsa delle asine ed infine quello giallo
(o dorato) di San Giorgio per la corsa dei cavalli. A contenderselo i quattro rioni con
territorio entro le mura: San Benedetto, Santa Maria in Vado, San Paolo e Santo
Spirito e i quattro borghi: San Giacomo, San Giorgio, San Giovanni e San Luca.
ferrara
69
mamma Carla ancora prepara seguendo l’antica ricetta della nonna e
della bisnonna, con la carne «nobile
e non» del maiale, tritata macinata
con vino rosso, sale, pepe nero, noce
moscata, cannella, chiodi di garofano, rhum e alcuni piccoli ingredienti
rigorosamente segreti racchiusi nella
vescica del suino. «Mia madre dice che
per fare una buona salama, questa
deve prendere il bollore e cuocere dalle
sei alle otto ore immersa, meglio se
avvolta in una pezzuola di telo fine,
in una pentola d’acqua, ma senza
farle toccare il fondo; uno stecco di
legno appoggiato ai bordi sosterrà
la salama col suo stesso spago. La
vescica non si deve spaccare. Anche
mangiarla è un rito. Meglio caldissima
accompagnata con purea di patate o
frittelle di crema fritta. E che dire dei
cappellacci di zucca. Li condividia-
mo con il Mantovano, ma noi non ci
mettiamo l’amaretto».
Ludovico Ariosto, invece, preferiva
cibi semplici, cotti in casa alle ricche
portate dei banchetti rinascimentali.
«In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me
inforco e mondo, e spargo poi di
aceto e sapa, che a l’altrui mensa
tordo, starna o porco selvaggio; e
così sotto una vil coltre, come di
seta o d’oro, ben mi corco». È forse
la magia di Ferrara dove anche le
cose più semplici diventano grandi
e testimoni di un passato che continua vivere all’ombra del Castello
Estense che risale al 1385 quando
il Marchese Niccolò II d’Este ne
ordinò il progetto a Bartolino da
Novara. Il fossato, i ponti levatoi,
le torri, tutto come allora. E con
Ercole I d’Este il Castello divenne
la residenza della Corte, una delle
più raffinate e colte d’Europa. E un
pizzico di Rinascimento ogni anno
torna a vivere quando la città ne
rievoca i fasti e si veste dei colori
delle contrade per dar vita al Palio
in Piazza Ariostea.
«È davvero un posto piacevole e
anche un po’ romantico. C’è tanto
verde, è possibile sdraiarsi, prendere
un gelato e vedere la gente passeggiare», dice Cinzia, che pur vivendo
in un paesino a 13 chilometri da
Ferrara, in provincia di Rovigo, si
sente ferrarese. A Ferrara lavora e le
sue figlie sono nate nella città estense. Ludovica, 9 anni, e Martina, 13.
Anche loro respirano un po’ il clima
dello stabilimento partecipando ai
concorsi per i figli dei dipendenti.
Hanno disegnato la mascotte di
enipower e la mamma sul posto di
lavoro. Poi tutti in piazza con mamma e papà, ferrarese «doc», per un
gelato e per la «Vulandra», il festival
che richiama centinaia di aquilonisti
da tutta Europa. Tre giorni di festa
e di colori nel cielo di Ferrara che,
sullo sfondo del magnifico parco urbano, tra le mura rinascimentali e il
Po, ospita anche un’altra suggestiva
kermesse: il «Balloons Festival», con
le sue mongolfiere variopinte.
Ferrara è anche questo. Una città che non finisce mai di stupire
ovunque si posi lo sguardo. Colore
e tradizioni, palazzi monumentali
e angoli nascosti, suoni e sapori
raccontano come le nebbie il carattere dei ferraresi. Un po’ uggiosi,
come quella coltre che avvolge la
città, un po’ chiusi, ma ospitali in
quella loro calma caratteriale che
li accompagna sempre. «Sono di
Ferrara. Non c’è altro aggettivo per
descriverli», ripete Matteo, che un
po’ ferrarese è diventato anche lui.
Come Tasso, nella «commedia» c’è
voluto entrare.
ferrara
71
lo stabilimento
via libera alle biciclette in Centrale
Cinzia, nello stabilimento rappresenta l’«altra metà del cielo». In un
ambiente di lavoro tutto declinato
al maschile, lei è l’unica donna. «Mi
coccolano tutti, sono gentili, accoglienti, professionali, mi trovo veramente bene». È lei che si occupa della
parte amministrativa. Come ogni
mattina, ha lasciato la macchina nel
parcheggio dello stabilimento per
prendere la bicicletta aziendale che
la accompagnerà in tutti i suoi spo-
stamenti della giornata. «Buongiorno,
Ingegnere. Ben arrivato a Ferrara».
Le presentazioni di rito, poi la consegna delle carte e le prime pratiche da firmare. «Autorizzazione alla
circolazione in bicicletta nell’area
dello stabilimento». Quel momento
lo ricordano entrambi. Domenico
sorride ancora quando ci pensa:
«Ero arrivato a Ferrara a dirigere
una centrale, uno degli impianti più
moderni, dalle tecnologie più avan-
La Centrale di Ferrara è gestita dalla Società enipower Ferrara srl (s.e.f.)
che è controllata da enipower spa (51%) e ha come socio di minoranza
la Società elettrica svizzera Elektrizitäts Gesellschaft Laufenburg AG
(EGL). Oggi lo stabilimento produce energia elettrica e vapore. s.e.f.
sta realizzando una nuova centrale costituita da due gruppi turbogas
funzionanti a gas naturale (circa 800 MW totali), che utilizzano la
tecnologia a ciclo combinato e comportano un minore impatto ambientale
grazie all’utilizzo di bruciatori Ve Low Nox che minimizzano la formazione
di ossidi di azoto. Con i nuovi impianti potrà cessare quindi l’utilizzo delle
vecchie centrali, che bruciano anche olio combustibile.
è stato costruito un nuovo elettrodotto di collegamento con la rete
nazionale a 380 kV, completamente interrato ad impatto visivo nullo. La
nuova centrale occupa un’area precedentemente occupata da impianti
dismessi e smantellati. s.e.f. ha proceduto alla bonifica del suolo e della
falda superficiale su progetto approvato dagli enti preposti; è in corso una
ulteriore attività di bonifica della falda confinata profonda, nell’ambito di
un progetto unitario di tutte le Società coinsediate.
zate e il primo atto da firmare era un
permesso per circolare in bicicletta».
Lui stupito, con quel foglio in mano,
che gli sembrava tanto uno scherzo.
Lei, invece, serissima. «Qui si fa tutto
in bicicletta, Ingegnere, presto se ne
accorgerà anche lei».
Gli è bastato davvero poco a capirlo.
«Qui si nasce con la bicicletta», gli
aveva detto Giancarlo, che è nato a
Ferrara e quindi, come tutti, dall’età
di tre anni ha cominciato a prendere confidenza con le due ruote.
«Noi ferraresi abbiamo acquisito un
occhio particolare nei confronti dei
ciclisti, al punto che quando siamo
in macchina, siamo in grado di capire e prevedere cosa faranno, che
direzione prenderanno».
E così anche nel perimetro dello
stabilimento ora tutti si spostano
in bici proprio come a Ferrara. E
non è l’unica analogia. «Lo stesso
petrolchimico – dice Alberto, 52 anni, assistente di produzione – ha la
forma delle mura di cinta di Ferrara.
Insomma gli Estensi hanno messo
mano anche sul petrolchimico», ripete con ironia. «Mio nonno che ci
lavorava mi raccontava che era una
gran comodità avere il lavoro vicino
a casa. Lavorava in uno dei magazzini di stoccaggio ed era contento.
ferrara
73
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower partner
51%
EGL 49%
Potenza installata
841 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale
da 390 MW
unità a vapore n. / taglia
n. 1 unità a vapore di riserva da 61 MW
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2010
Combustibili
gas naturale
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Altre produzioni /servizi
acqua chiarificata e demineralizza
Bruciatori velonox
unità n. 1 & 2
Aziende eni coinsediate e servite
polimeri europa
Non si lamentava dell’industria, di
cui ne apprezzava i benefici, quanto
piuttosto della grande urbanizzazione troppo vicina al centro storico».
Perché se Ferrara non si tocca, lo
stesso vale per la Centrale. Prendiamo Robertino, 53 anni, pur di non
lasciare la sua città, dopo 32 anni
ha cambiato lavoro, si è rimesso in
discussione, ricominciando daccapo
pur di rimanere nella nuova Centrale
che ha visto nascere.
«Non è questa che fa male alla città,
ma lo fa la cattiva informazione. Io
credo nell’ambiente e nella sicurezza, settori in cui opero, ma credo
anche nell’industria, quella fatta in
un certo modo e che va promossa
per dare un futuro ai nostri figli».
Parola di chi ama Ferrara e non l’ha
mai voluta lasciare, anche quando
lavorava a Bologna e stava fuori
16 ore, per lavorarne 8, ma la sera
tornava. «Solo a Ferrara mi sento a
casa – dice Robertino. è una città
vivibile, a misura d’uomo, un paesone, anche se a 15 km, dove abito, non
c’è Adsl, non c’è farmacia e il medico
viene una volta alla settimana». Da
apprendista idraulico, in una terra
restia a favorire l’industria, di strada
ne ha fatta. Tanta gavetta, passando
dai livelli più bassi fino a diventare
quadro nel settore commerciale. Da
tecnico specializzato nelle macchine
da cucire ha cominciato a montare
tubi e grondaie, poi il salto di qualità
l’Ufficio acquisti in una grande ditta. “Avresti difficoltà a parlare con
un ingegnere francese a Milano?”,
mi dissero, «Ci provai, andò bene».
Poi tutto da rifare, a 50 anni, un
nuovo mestiere, ancora a studiare,
per la sicurezza, pur di rimanere
nella Centrale di Ferrara. Nella stessa
terra dove nonno Roberto e nonna
Carola erano contadini, allevavano i
maiali e facevano la salama da sugo
ferrarese, una tradizione che risale
agli Estensi e la cui cottura rima-
ne ancora oggi un rito. «Volevano
darmi il nome del nonno, ma quando sono nato pesavo solo 1 chilo e
700 grammi, ero talmente piccolo,
e mio padre, muratore, temeva non
ce la facessimo io e la mamma. Mi
ha chiamato Robertino. E pensare
che ora peso 90 chili e mamma
Romea ha 90 anni e fa la sartina
come allora, quando con la sua bicicletta girava nelle case di Ferrara
per consegnare i vestiti che aveva
cucito su misura». Ha due grandi
passioni: la fotografia e la pesca. «Ho
cominciato con una macchinetta
fotografica di plastica trovata in un
fustino di detersivo. Mentre andavo a
pescare alle due di notte, alle foci del
Po». In Centrale lo conoscono tutti.
«Perché operando in realtà dove si
lavora 24 ore, dopo 15 anni di turni,
si diventa una grande famiglia. Si
vive più con i colleghi che non con
la moglie», ripete scherzando il suo
collega Alberto. «Insieme si dividono
criticità e momenti belli. Il lavoro
crea legami molto forti. E ora che
abbiamo cominciato ad aprire le
porte della Centrale anche la città si
rende conto che non siamo il “mostro” perché tutti noi siamo i primi
ad amare Ferrara».
dove vive enipower
75
ravenna
da capitale dell’Impero
a polo dell’energia
Passeggia con la sua nipotina e il
pensiero va a quando era bambino e il Porto Canale era navigabile.
Ai due lati filari di pini accompagnavano quella stradina dove si poteva
passeggiare e andare in bicicletta,
mentre lungo la darsena in barca si
arrivava dalla città al mare. «Buongiorno Direttore». Una voce interrompe i ricordi di Claudio, 68 anni.
Per tutti è rimasto il Direttore, anche
se la Banca l’ha lasciata da qualche
anno. Conosce tutto della sua città:
storia, arte, monumenti. «Ricordo
la Ravenna degli anni Cinquanta,
all’epoca dell’Anic, e anche con un
po’ di nostalgia, forse perché il pensiero va a quando si era giovani e
si diventa un po’ romantici». Era la
“Città del silenzio” come la definiva
D’Annunzio, con un’economia agricola. Poi arrivo l’Anic e Mattei.
«Personalmente non l’ho conosciuto,
ma ricordo bene quegli anni Ses-
ravenna
77
santa, quando trovarono il metano
a Marina di Ravenna. Era così in
superficie. Ricordo quella fontana
pubblica che cacciava acqua e gas
tanto che ci si divertiva a incendiare
l’acqua. Bastava farla scorrere sulle
mani, avvicinare l’accendino e vedere la fiammella gassata di metano».
Vennero perforati tantissimi pozzi e
Mattei capì che c’era una ricchezza,
stava per nascere il polo chimico.
«Ricordo che quando fu costruito lo stabilimento Anic a Ravenna,
Mattei si lamentò delle dimensioni
del piazzale. Troppo piccolo per
le macchine degli operai, in tempi
in cui pochissimi avevano l’auto.
Ma lui era questo. Guardava avanti
e già pensava a quando i lavoratori sarebbero andati a lavoro con
l’automobile».
Tre grandi uomini hanno segnato la
Ravenna degli anni Cinquanta: uno
è stato Enrico Mattei, l’altro Luciano
Cavalcoli e il terzo Benigno Zaccagnini. Tre amici che con grande
lungimiranza riuscirono a segnare le
tappe della Ravenna moderna, senza
nulla togliere ai fasti della capitale
dell’Impero Romano d’Occidente. «A
cavallo tra gli anni Cinquanta e Ses-
santa – ricorda il Direttore – c’erano i
nostalgici che non vedevano bene il
progresso, ma c’era anche chi aveva
compreso che la svolta per la città era
legata al rinnovo e al potenziamento
dello scalo portuale, quale motore di
sviluppo per l’industria del ravennate.
Il polo chimico dava la possibilità ad
altre aziende di nascere, ma il porto
doveva avere un ruolo decisivo».
ravenna
79
Lo aveva ben compreso Luciano
Cavalcoli, allora presidente della
Camera di Commercio. Ma occorreva il braccio politico e il resto lo
fece Benigno Zaccagnini. Con la
cosiddetta «legge Zaccagnini» di
scrigno di arte, storia e cultura
Capitale dell’Impero Romano d’Occidente, di Teodorico re dei Goti,
dell’impero di Bisanzio in Europa: Ravenna è una di quelle città che non
si possono raccontare. È uno scrigno da scoprire, come quella piccola
costruzione in cotto che racchiude un patrimonio inestimabile di mosaici:
il Mausoleo di Galla Placidia, solo uno degli otto siti tutelati dall’Unesco
di questa città che conserva l’orgoglio della sua storia. Sul mare, ma
fuori dai grandi traffici, è rimasta chiusa in sé stessa, non ha subito
l’«industrializzazione», ma ne ha fatto uno dei punti di forza, mantenendo
la sua vocazione di città d’arte e di turismo.
Il rispetto dell’ambiente è diventato la prima regola per tutti. Città vivibile, si
può scoprire passeggiando o andando in bicicletta. Nelle serate d’inverno
un buon bicchiere di Sangiovese nelle «ca’ de ven», le case del vino o in
trattoria davanti a un piatto di cappelletti, quelli romagnoli fatti solo con
formaggio e ricotta, o di passatelli. E d’estate la vita si sposta a Marina
di Ravenna, Punta Marina, Porto Corsini, Marina Romea, il massimo
dell’organizzazione per chi ama il mare. E per gli appassionati della natura
basta inoltrarsi nella Pineta litoranea che porta fin sulla riva della Pialassa,
l’ampia laguna amata dai pescatori.
cui era proponente, infatti, si potè
ampliare il porto, che pur avendo
lo svantaggio di essere artificiale in
una zona sabbiosa, ha il grosso vantaggio di avere 12 chilometri di banchine a servizio delle industrie che
si affacciano direttamente sul mare.
«Il potenziamento – ricorda il Direttore – fu affidato alla Sapir, che
aveva un capitale sociale di un milione di lire sottoscritto per il 51%
dall’Anic, per il 39% dal gruppo
Ferruzzi e per il 10% dalla Camera
di Commercio, cui subentrarono
poi con un successivo aumento di
capitale il Comune, la Provincia,
gli industriali e le banche». Ma il
capitale non era sufficiente al finanziamento delle opere di sua
competenza. «La Sapir, grazie alla
“legge Zaccagnini”, potè espropriare
le aree circostanti il nuovo porto a
prezzi molto contenuti, essendo
costituite da terreni agricoli scarsamente produttivi, rivendendole poi
agli operatori interessati ai nuovi
insediamenti in ambito portuale
a prezzi adeguati al nuovo valore
economico delle aree stesse, traendo le risorse per l’esecuzione delle
opere dalla differenza fra il prezzo
di acquisto e quello di vendita».
Cavalcoli aveva ragione a guardare
oltre la chimica. E dopo l’Anic sono
arrivate le piattaforme petrolifere, la
grande industria estrattiva che ha
fatto di Ravenna la capitale dell’energia, aprendola al Mediterraneo con
quell’OMC, Offshore Mediterranean
Conference, il più importante forum
internazionale del settore.
ravenna
81
ai dipendenti. Quei 460 alloggi del
villaggio Anic devono andare a loro”.
E così costituimmo una cooperativa di lavoratori, poi mi adoperai per
quelli del «Villaggio Anic»
Sul padellone guizzano ancora cefali
e branzini. «La pesca è andata bene
Dottor Antonio?». «Non sono Dottore, la mia laurea è la strada», ripete
l’ex segretario regionale dei chimici.
Guarda la rete; alle sue spalle il petrolchimico. È sul mare in un capanno
sulla Pialassa della Baiona, insieme
a un gruppo di ex-dipendenti. «Siamo
sempre stati attenti all’ambiente e
si vede. Meglio di questo c’è solo il
Paradiso». Ha 70 anni, ora si gode la
pensione e il suo mare, ma non ha
dimenticato il suo lavoro di capoturno sugli impianti di produzione
del cloruro di vinile. Anni durissimi.
Poi sono arrivate le battaglie sindacali per l’ambiente e quell’incarico
delicatissimo che gli aveva affidato
Benigno Zaccagnini.
«Mi chiamò e mi disse: “Tu hai una
grande esperienza, vieni dal lavoro in
fabbrica, devi gestire l’assegnazione
del patrimonio immobiliare di eni
una grande operazione sociale. “Devi
chiedere alla Snam Immobiliare i
finanziamenti”. Riuscii a ottenerli grazie proprio all’intervento del Direttore
della Banca popolare di Ravenna, si
trattò di un’operazione da decine di
miliardi di vecchie lire e ogni lavoratore riuscì a comprare la casa a
ravenna
83
prezzi sociali. E il merito fu solo di
Zaccagnini. Ho un solo rammarico,
non sono riuscito a fargli dedicare
una piazza di quel villaggio».
Oggi si chiama quartiere «San Giuseppe», ma per i ravennati rimane, il
«Villaggio Anic», quello dove Luca, 48
anni, è vissuto crescendo all’ombra
della centrale nella quale oggi riveste
un ruolo di responsabilità. Costruito,
tra la fine degli anni Cinquanta e i
primi anni Sessanta, dagli architetti
milanesi Marco Bacigalupo e Ugo
Ratti, a ridosso del petrolchimico e
della città, era stato pensato proprio
per i suoi dipendenti, come quello
di San Donato Milanese, secondo la
filosofia di Mattei con tanto verde,
strutture sportive e anche la scuola
elementare gestita dalle suore.
Anche Maurizio, 51 anni, oggi assistente del responsabile di reparto in
Centrale, affianca i ricordi di bambino
a quelli dei racconti del padre Bruno,
che ha cominciato a lavorare in centrale nel 1957 e ha visto nascere le
prime caldaie. Da Bellaria a Ravenna
e dopo il lavoro si fermava a dormire
in quelle prime baracche costruite alle
spalle dello stabilimento e che ancora
si possono vedere nelle vecchie foto
del petrolchimico. Un primo punto di
appoggio per gli operai che venivano
a lavorare da fuori. Poi sono state
demolite e nel 1960 con tutta la famiglia si è trasferito nel nuovo «Villaggio
Anic», dove tuttora vive con la moglie
Eurosia, in quella che dopo anni di
sacrifici è diventata la sua casa.
un gruppo di amici partigiani
Sulle amicizie di Enrico Mattei si è tanto parlato. Alcune sono note, come quella con Boldrini, Zanmatti, Vanoni e Colitti,
altre meno note, come quelle con i ravennati Zaccagnini e Cavalcoli. «Ma sono in pochi a sapere che il partigiano Bill,
Urbano Lazzaro, colui che salì sul famoso camion di soldati tedeschi a Dongo quel 27 aprile del 1945 e che identificò
e arrestò il duce, per un certo periodo ha lavorato anche lui nella Centrale di Ravenna».
L’episodio lo ricorda bene Maurizio, 51 anni. Suo padre Bruno, 81 anni, la Centrale l’ha vista nascere e ancora rammenta
quelle visite di Enrico Mattei al petrolchimico. «Veniva spesso a Ravenna, arrivava in centrale, prendeva il compagno
Bill e uscivano insieme. Erano stati partigiani della stessa Brigata, vecchi compagni d’armi, chissà forse ricordavano le
loro avventure. Fu proprio Mattei a offrirgli il posto di lavoro in centrale». E Bruno queste cose le sapeva bene, perché
pur non avendo mai parlato con Mattei, era amico di Lazzaro e conserva ancora con orgoglio quel suo primo libro
sui fatti di Dongo, con la dedica che Bill gli aveva voluto fare.
Il suo primo ricordo risale a quando
aveva forse 3-4 anni. «Per noi bambini – dice Maurizio – era un posto
fantastico. Abitavamo in un piccolo
condominio, i nostri genitori erano
turnisti nel reparto elettrico della
centrale. Facevano le notti e noi non
potevamo fare chiasso perché loro
dovevano riposare, allora ci mandavano fuori a giocare. Era tutta
campagna, tanto verde, ricordo le
corse, i giochi, il cortile enorme. Non
c’erano macchine, né strada, eccetto
quella di collegamento».
Ma i ricordi più belli sono legati
all’estate, alla colonia, alle vacanze
al villaggio eni a Borca di Cadore,
in Abruzzo; c’erano le villette che
venivano assegnate alle famiglie, alle
quali veniva pagata anche la metà
delle spese di viaggio, due alberghi
e i campeggi. I ragazzi erano divisi
in quattro gruppi: gli azzurri erano
i più grandi, i gialli erano i piccolini,
poi c’erano in mezzo i rossi e ver-
ravenna
85
stati e quello che siamo, perché tra
noi c’è ancora quella stessa coesione di quando eravamo ragazzi,
dei nostri giochi, dei grandi spazi,
delle speranze. È tutto bellissimo
e ripensando a quei momenti c’è
anche chi si mette a piangere». Ma
una cosa è rimasta sempre uguale
di. Arrivavano da tutt’Italia, i figli di
dipendenti, da Gela, da Ravenna,
da San Donato Milanese.
Che bei ricordi, la cui memoria
viene mantenuta viva ancora oggi
attraverso uno dei più diffusi “social
network” dove continuano ad incontrarsi. «Siamo “quelli del Villaggio
Anic”, in rete c’è tutta la nostra storia,
le vecchie foto, quello che siamo
nel tempo: quello spirito goliardico
e quel forte senso di appartenenza
che ha sempre legato tutti, anche
se di generazioni diverse.
Maurizio ricorda ancora quando
dalla Raffineria è passato in Centrale, dove c’era il padre. Porta impressa nella memoria l’accoglienza
dei più anziani, la loro pazienza nel
trasmettere il loro bagaglio di esperienza e conoscenza e soprattutto
quella grande attenzione all’ambiente. Ma le storie all’ombra dello
stabilimento si intrecciano. Anche
suo suocero lavorava in Anic. Il Dottor Osvaldo, il papà di Raffaella,
era dirigente nello stabilimento del
petrolchimico, lavorava in amministrazione ed era stato nominato
proprio da Mattei che sceglieva
personalmente i suoi dirigenti. E
lui continua ancora oggi a farsene
un vanto. Ora è un poeta e scrive
libri e poesie sulla città.
Passato e presente si intrecciano.
Anche Gianluca, 48 anni, è uno dei
ragazzi del villaggio. A 24 anni è
entrato in centrale, come operaio di
una ditta elettrica. Per un po’ aveva
lavorato nella pasticceria del nonno.
Ricordava i «maritozzi» di quando
era bambino. Era il dolce povero, un
piccolo panino fatto con la pasta
di pane, zucchero e un po’ di uva
passa. Era il premio che nonna Iride
gli dava il pomeriggio quando la
aiutava a pulire le padelle. In centrale
è subentrato a papà Giuseppe, molisano, arrivato a Ravenna a 18 anni,
come carabiniere. Qui ha conosciuto
mamma Rosa, ha lasciato l’Arma e
per più di 25 anni faceva servizio di
guardia allo stabilimento.
Storie diverse con un unico comune
denominatore: quel «Villaggio Anic»
che li ha visti crescere e quella centrale dove lavorano fianco a fianco
ogni giorno. E dopo il lavoro tutti
insieme a casa di Giancarlo, davanti
a quell’immenso camino a Pineta
di Classe, dove Antonella ha steso
la sfoglia, 40 uova, e tagliatelle a
volontà. Carne alla brace, del buon
Sangiovese e quella torta dolce che
conserva ancora il sapore dei maritozzi dopo le sfide di pallone tra
la Spem, la squadra di calcio del
villaggio, e il Ravenna.
ravenna
87
lo stabilimento
come una grande nave
Era il 1999, l’anno della liberalizzazione, l’anno dei cambiamenti e
dei primi investimenti. Quel primo
«piccolo» impianto con turbina a gas
a ciclo combinato a Ravenna l’Ingegner Carlo, 49 anni, lo ha proprio
visto nascere. «Solo» 120 MW di potenza e lui ne ha seguito tutte le fasi
di sviluppo fin dall’inizio. Giornate
intere trascorse a monitorare perché
tutto funzionasse e perché i tempi
di realizzazione venissero rispettati.
«Il TG 501 è il mio primo figlio – ripete
con la stessa fierezza di un padre
che parla del suo primogenito –. Lo
coccolavo come fosse un bambino»,
ricorda Carlo che a quel progetto ha
dedicato anima e corpo. Approdato a Ravenna dopo la laurea, aveva
lasciato la sua Porto San Giorgio e
come tanti marchigiani era entrato
in «casa» eni, undici anni prima.
«Ricordo ancora il mio primo giorno
nello stabilimento, ero fresco di laurea
e il capo centrale mi accompagnò a
visitare l’impianto. Ero completamente disorientato di fronte alla maestosità di quegli impianti. Ero vicino ai
condensatori delle turbine, cilindroni di 4-5 metri di diametro e 7-8 di
lunghezza. Ero convinto fossero le
caldaie, ma rimasi in silenzio, non
osando chiedere. E feci bene. Infatti,
subito dopo mi portò dinanzi a quei
“palazzi” di 35 metri e mi disse: “Ecco
le caldaie”. Cominciai così a imparare
è situato all’interno del sito petrolchimico multisocietario a 4,5 km dal
centro di Ravenna. Il territorio circostante, soprattutto quello costiero e
dell’immediato entroterra, è caratterizzato dalla presenza di numerose zone
umide e pinete ricche di particolarità naturalistiche. La Centrale è composta
da 4 unità produttive alimentate a gas naturale, di cui 3 cicli combinati e
una caldaia tradizionale per un potenza elettrica istallata pari a 1.109 MW.
Gli impianti inoltre producono vapore tecnologico per il sito industriale. Il
90% dell’energia prodotta è immesso nella Rete nazionale. Enipower inoltre
assicura la gestione di parte della rete elettrica del sito multisocietario.
La realizzazione e la messa in servizio di due nuovi cicli combinati
ha determinato un netto miglioramento degli indici delle emissioni
(-100% per polveri e SO2, -67% per NOX , -90% per CO e -37% per CO2),
dei consumi idrici (-47%) e del consumo specifico di combustibile (-23%).
Inoltre è stato realizzato un nuovo elettrodotto a 380 kV per l’esportazione
di energia elettrica sulla Rete nazionale con valori dei campi elettromagnetici
inferiori al limite fissato dalla Regione Emilia Romagna e dalla normativa
nazionale. Tutte le aree di proprietà sono state certificate non contaminate
dopo la bonifica dei suoli nel 2002, mentre per la falda è stato sottoscritto un
protocollo per un intervento comune con tutte le società del sito.
a conoscere quel mondo che era ben
diverso da quello che si studia sui
libri e a far tesoro di quanto i vecchi
“maestri” della Centrale avevano da
insegnarmi, rubando loro i segreti del
mestiere».
Solo una breve pausa di lavoro a
Brindisi, poi il ritorno da protagonista in quello stabilimento di Ravenna
del quale aveva vissuto la storia e
la movimentata vita societaria, tra
nascite e scomparse, progetti mai
decollati, speranze e delusioni. «Noi
della Centrale eravamo al servizio
del petrolchimico, eravamo un pezzo
di questo e la nostra vita lavorativa
dipendeva dalle scelte fatte da co-
loro che producevano e vendevano
gomme, plastiche, fertilizzanti, resine
e quant’altro ivi prodotto. Non avevamo insomma una nostra identità.
Poi è arrivata enipower, le prime autorizzazioni per gli impianti a ciclo
combinato ed è iniziata la corsa a
realizzarli per poter partire. Dieci anni
di identità ritrovata».
Si inizia con la grande festa e la
torta per quel TG 501, la certezza di
un mercato in continua evoluzione.
Arrivano poi i nuovi impianti, i cicli
combinati, la nuova sala controllo.
Bella, luminosa con ampie finestre.
Sono gli anni della «luce» in tutti i
sensi. Con gli investimenti, si lascia
ravenna
89
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower 100%
Potenza installata
972 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale
da 390 mw - n. 1 ciclo combinato
con turbina a gas da 123 MW
unità a vapore n. / taglia
n. 1 unità a vapore di riserva da 69 MW
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2004
Combustibili
gas naturale
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Bruciatori velonox
1 unità
Aziende eni coinsediate e servite
polimeri europa
alle spalle quel periodo buio quando
si vedevano gli altri impianti chiudere e si temeva il declino. e anche
Carlo ha finito di fare il pendolare e
di dividersi tra lavoro e famiglia nelle
Marche. Ha cominciato a conoscere
anche la Ravenna che c’era oltre i
cancelli dello stabilimento. «Quanti
scorci della città mi erano sfuggiti. Pian piano, grazie a mia moglie
Sabina, che pur essendo anche lei
marchigiana, da insegnante però
aveva accompagnato tanti ragazzi a
scoprire tutte le bellezze di Ravenna,
non solo i monumenti noti in tutto il
mondo ma anche gli splendidi scorci che si aprono improvvisamente
dietro l’angolo.
È diventata la mia guida in quella che è diventata la nostra città.
E così mia figlia Anna, 9 anni, ha
conosciuto anche il suo fratellino
maggiore, il TG 501». Ripete sorridendo con orgoglio parlando della
sua grande «famiglia».
«Tutti insieme come su una grande
nave, con lo stesso spirito di corpo
e la stessa ferrea disciplina. La Centrale – dice Maurizio – è come una
grande nave nella quale ognuno fa
quelle cose che servono all’altro. C’è
una grande coesione che si avverte
soprattutto quando sei in difficoltà
grave. È in quei momenti che viene
fuori il carattere di chi lavora il centrale. Basta guardarsi in faccia e tutti
sanno cosa fare. “Se affondiamo si
spegne tutto” e questo non deve accadere. La nave non può affondare».
E questa forte coesione si rafforza
anche intorno a una tavola e condividendo momenti di goliardia nei
turni di lavoro.
Lo conferma Carlo, 43 anni, ironizzando sulle sue origini. «Alto, bello,
biondo un vero vichingo». Dal 1989 è
in Centrale. Aveva 23 anni quando è
entrato da fuochista. Ha fatto la gavetta e oggi è assistente al responsabile
di produzione. «enipower mi ha dato
la possibilità di crescere. Ho passato
gli anni più belli, dalle vecchie macchine all’automazione. Sono cambiate
tante cose, ma non questo sentirsi
famiglia, che si vive anche fuori dallo
stabilimento». Vive a circa 4 chilometri
dalla centrale, con Antonella, i due
figli Michela, 13 anni, e Federico, 12, e
il cane Harry, un piccolo bastardino,
alto poco più di una spanna. «Da casa
vedo i camini della Centrale. Benedetta
Centrale, è un piacere andarci non ci
si sente mai soli, e anche il duro lavoro dei turni diventa più leggero in un
ambiente in cui non si è soli».
«Sono finiti gli anni della “Marina”, i
più anziani che avevano portato in
centrale quella vecchia mentalità da
caserma, hanno lasciato spazio ai
giovani», dice Giancarlo Marini, 49
anni, quadrista, di Fabriano. «Sono
ravennate d’adozione, ma le origini
non si toccano». Anche lui di gavetta
ne ha fatta. «Prima ero in Saipem. Sono entrato in Centrale a 29 anni sono
ripartito da zero, ma sono fiducioso
che arriveranno le soddisfazioni».
Ama la natura e lo sport. Segue il
figlio Federico sui campi di calcio.
«Ha 16 anni, dicono che è bravo. Ma
lo è anche Valentina, 12 anni, che
gioca a pallavolo, e anche mia moglie
Monica è sportiva. Senza sport non
ci sappiamo proprio stare».
Suo padre, Vittorio , lavorava all’Anic,
Mauro, 48 anni, aveva 20 anni quando è stato assunto alla Sarom, poi
è passato al «glorioso impianto»
dell’acetilene. Ha girato diversi reparti prima di arrivare in centrale
dove è operatore esterno. «Ora con
enipower si lavora bene, anche io
ho lavorato in quello che chiamavano il “bunker”, la vecchia centrale
e quel clima di Marina. Poi c’è stato
il ricambio generazionale e siamo
arrivati noi giovani». Ha costruito
una piccola casetta e ha potuto appagare il suo sogno di ragazzo: la
moto. Finito il turno non vede l’ora
di andare a dormire, ma poi salta
sulla moto con la moglie Mirca o la
figlia Flora, 15 anni, e va in giro per le
colline. «Poi sosta a un chioschetto,
una piadina con lo squacquerone e
un bicchiere d’acqua… diciamo così,
di altro non si può parlare».
dove vive enipower
91
livorno
sul filo della storia
dalla raffineria alla Centrale
La raffineria di Livorno, Giovanni,
51 anni, si può dire che la senta
anche un po’ sua. Il nonno Gino, di
Fauglia, nel Pisano, ha contribuito
a costruirla. La nonna ricordava
sempre quella fuga, mentre lavoravano, quando ci fu il bombardamento. «Nonno – ci raccontava
– riuscì a saltare il muro della raffineria colpita dalle bombe e fuggire. Erano in tanti a lavorare lì quel
giorno. Noi eravamo scappati dalle
case verso la campagna, vedevamo le bombe cadere e non sapevamo se il nonno ce l’aveva fatta,
se era riuscito a scappare e salvarsi». Così Giovanni nei suoi ricordi
di bambino, ogni volta che sentiva
questo racconto guardava la raffineria e quasi lo vedeva il nonno
saltar giù dal muro. «Anche mio
suocero lavorava alla “Stanic”. Molti continuano ancora a chiamarla
così». Il porto di Livorno o la Stanic:
livorno
93
questi erano i due posti più ambiti
dai livornesi. «E Mattei a Stagno ne
ha portati di Marchigiani».
Ma a Giovanni l’idea di navigare
non l’aveva mai entusiasmato, anche se come tutti i giovani livornesi aveva fatto l’Accademia navale.
Quello che continuava a colpire la
sua fantasia, fin da bambino, era
quella Centrale elettrica sempre
illuminata, giorno e notte, e il sapere che lì c’era sempre qualcuno.
Qualcuno che teneva accesa la
città. Ora Giovanni vive a Stagno a
1 chilometro di strada dalla raffineria e dalla Centrale, dove ci lavora
ormai da 30 anni e come sempre
ci va ogni giorno in bicicletta. Ma
per le sue vacanze sceglie il camper. Ha girato l’Europa in roulotte
con papà Carlo, 82 anni, e mamma Anna, 78. «Continuano a viaggiare, l’inverno lo passano sempre
in Messico, è diventata la loro seconda casa. Purtroppo mia moglie
ha il terrore dell’aereo».
Pensa ai viaggi, guarda al mondo
ma continua ad amare la vita di
turnista in Centrale, quel «5 e 5» che
comprava passando davanti al forno a legna. «Si chiama ancora così,
come quando si andava a compra-
re 5 lire di torta di ceci e 5 lire di
pane». Uno sguardo al passato, ma
il futuro lo vede nel figlio Francesco, 21 anni, che studia all’Università Ingegneria energetica. «Segue la
tendenza del momento», ma nelle
livorno
95
la piccola «Venezia» toscana
Livorno, un piccolo “paesone” aperto a tutti. Per popolarla, nel 1593, Ferdinando I
promulgò la legge «Livornina», una vera e propria Costituzione che favorisce
l’immigrazione di mercanti d’ogni nazione. Potevano venire pirati e prostitute, gente
di tutte le razze e di ogni colore. Una città da sempre multietnica e accogliente, perché
Livorno è ancora così. “Set” ideale per registi come Paolo Virzì con le sue commedie
agrodolci da «Ovosodo» ambientato proprio in quel quartiere di Livorno, che prende il
nome da quelle maglie bianco gialle indossate durante il Palio marinaro, a «La prima
cosa bella», romanzo popolare che parte dai Bagni Pancaldi, in una sera d’estate degli
anni Settanta, da una “Miss” sullo sfondo della sua città e dalla generazione vissuta
in quegli anni.
Livorno dei registi e di quell’«Effetto Venezia», nel quartiere percorso da tortuosi
canali navigabili scavalcati da ponti seicenteschi che tanto la avvicinano
alla più famosa città sull’acqua. E così ogni anno, in agosto, quegli angoli
suggestivi si animano: dalla musica al teatro, dalle iniziative espositive a quelle
enogastronomiche, dai mercatini dell’artigianato alle escursioni in battello nei
Fossi Medicei. Serate speciali in quella piccola «Venezia» toscana.
sue parole si avverte l’orgoglio di un
padre che è riuscito a trasmettere la
sua passione al figlio.
Perché quel legame forte tra raffineria, centrale e territorio si può dire
che i livornesi ce l’hanno nel sangue. «I livornesi, perché i livornesi
non sono toscani». Ci giocano sulle
loro origini. Del resto l’ironia fa parte del loro carattere. «I miei antenati
– dice Marco, 59 anni, responsabile
di turno in Centrale – risalgono al
1600. Nel primo Registro delle ditte
di Livorno, ho trovato la prima ditta
di corallari, hanno svolto questo lavoro fino al secolo scorso». Ormai il
corallo rosato tipico di queste zone,
non si trova più e pian piano sono
scomparse anche le botteghe artigiane per la lavorazione del corallo,
mancando la materia prima.
«Mio nonno Arturo – continua Marco – lavorava al porto, nelle attività
di carico e scarico. Mio padre invece
era impiegato alle poste. Io ho preso dal nonno la passione del mare.
Sono stato ufficiale in Marina, dopo
aver frequentato l’Accademia di Livorno. Fino all’età di 23 anni sono
stato in mare, giravo tanto. Poi mi
sono sposato e ho rimesso i piedi
a terra. Non è stato difficile trovare
lavoro sono stato caporeparto alla
Piaggio. Cercavano ex ufficiali, volevano cambiare il modo di gestire
il personale, convinti della maggiore
autorevolezza che potesse avere un
militare. Ci sono stato fino a 28 anni. Poi mi hanno chiamato in Centrale, non alla Stanic. Per i livornesi
è la stessa cosa».
«Questo avviene all’interno di realtà industriali preesistenti. Lo stesso
accade a Brindisi – dice Antonio,
58 anni, di Palermo, per 30 anni
nell’area del petrolchimico pugliese, da pochi mesi a Livorno come
responsabile dei servizi tecnici –.
La città conosce la raffineria, una
presenza forte, significativa. Ma
la Centrale apre le sue porte per
farsi conoscere. E noi ora con
enipower abbiamo una nostra
forte identità e questo significa
certezza e fiducia».
livorno
97
Il gigante di ferro - Samuele Giglioli
d’estate si va al mare, siamo più abbronzati. C’è il calcio, la Livornese.
E le serate variano: dalla passeggiata alla discoteca, dalla birreria alla
pizzeria e la domenica allo stadio.
L’odio con il Pisa l’ho preso in eredità, forse risale addirittura ai tempi
delle Repubbliche Marinare. Si dice: “Meglio un morto in casa che
un pisano all’uscio”. Terribile. Ma lo
il livornese? Ironia e sarcasmo
«La Hunzicher l’avrei sposata, la
Bruni l’ha presa il Presidente e così
sono rimasto fuori». Un modo per
dire che non è sposato. Alessandro,
38 anni, è la fotografia del livornese:
un po’ spaccone ma dal cuore grande, pronto a ridere di sé e degli altri.
I suoi genitori sono veneti, ma lui è
nato a Livorno. Papà Roberto è arrivato negli anni Sessanta. Lavorava
in raffineria. Poi è entrato il figlio,
all’età di 22 anni, un mese prima
che lui andasse in pensione. «Ci incontravamo a mensa, lui lavorava
in raffineria e io ero operaio all’impianto di mineralizzazione, ora sono quadrista termoelettrico. Quando mi alzo alle 5 e un quarto per
andare al lavoro, a Livorno ci siamo
solo noi turnisti, qualche panificio
aperto e il giornalaio. La cosa più
bella è il passaggio sul lungomare
che ci rincuora».
Perché la vita da turnista non è certo facile, ma Alessandro riesce a vederci il bello. «C’è più tempo libero,
La fortezza vecchia - Samuele Giglioli
è ancor più la risposta dei pisani:
“Che dio ti accontenti” ».
Il livornese è così. «Ironico, sarcastico, dissacratorio, riesce a dire le
cose più dure e difficili da digerire,
in maniera diretta. Verità che difficilmente emergerebbero. Il primo
impatto con lui non è quindi facile, poi si apprezza questo modo di
comunicare e si formano grandi
livorno
99
amicizie», spiega Stefano, 54 anni, di Colle Salvetti, a 14 chilometri da Livorno, entrato in raffineria
nell’86, dopo altre esperienze lavorative e dal ‘92 è responsabile
di turno in Centrale. «Da 24 anni in
eni e ora in enipower. È stato un
arricchimento continuo di esperienze lavorative, ma anche dal
punto di vista umano e tecnologico. Dopo un po’ di anni che uno
fa lo stesso lavoro quasi si adagia,
invece io ho fatto tanta gavetta e
svolto tante mansioni diverse».
Il padre Franco ha vissuto gli anni
del dopoguerra, nel ‘54, era elettricista di turno. «A quei tempi c’erano
gli autobus di linea privata che li
portavano a lavoro, erano bei tempi. A Natale arrivava a casa un furgone con tanti regali. Lui ci teneva
tanto al lavoro in eni, ha fatto tanto
perché io lavorassi qui, sono subentrato a lui come figlio di dipendente.
Continuo a fare i turni. Mia figlia si è
sposata e mi vedo con mia moglie
Grazia in funzione dei suoi turni al
supermercato. Mi è sempre piaciuto
questo lavoro, ho tanti giorni liberi».
« È il vantaggio di fare questo lavoro
– dice Fabio, 38, anni, di Ardensa a
sud di Livorno, – spero di continuare
a fare il turnista: ogni due giorni di
lavoro, uno di risposo. Ottimo per
chi ha “hobby” e io li ho davvero
tutti. Sono entrato a 23 anni alla
Scuola militare in Marina, diplomato istituto nautico come macchinista navale, ho fatto domanda per
la beffa di Modigliani e lo spumante
Era l’estate del 2004, ma quello scherzo è passato alla storia. Nel Fosso
Mediceo, dove nel 1909, si dice, Modigliani aveva gettato, sconfortato dal
giudizio dei suoi concittadini, alcune delle sue sculture, vengono trovate
tre teste in granito. Poi si scoprirà che gli autori erano tre studenti. «Si tratta
di un gioco, di uno scherzo ben riuscito ottenuto non con un poetico e
filologicamente corretto scalpello, bensì con un semplice e prosaico
trapano elettrico “Black & Decker”». È la goliardia del livornese che viene
fuori in ogni situazione. Un esempio in Centrale. «Tutti gli anni – racconta
Marco – quando si avvicina il Natale e arrivano i pacchi dono, chi è di
turno nasconde panettoni e spumanti nella centrale. Fino alla Befana è
caccia al tesoro e si va avanti così fino a quando non si trova tutto e si
può mangiare insieme. Ma c’è anche chi trova la bottiglia di spumante, la
beve e la riempie di acqua minerale». Scherzo riuscito. Si brinda comunque
al nuovo anno, con acqua e grandi risate.
entrare in raffineria e in Centrale,
non ero tipo adatto all’Accademia
militare, mi sono congedato come
sergente. Noi livornesi non vogliamo essere sottomessi, non amiamo
le discriminazioni. E così dal ‘95
sono entrato in Centrale, prima come operatore, ora sono quadrista».
«Il mio babbo lavora dove ci sono le
torri alte, dove fanno la corrente», dice Filippo, il suo bambino di 7 anni.
Ama il lavoro ma anche gli spazi
liberi che il lavoro gli permette. «Mi
piace la natura, mi piace pescare in
apnea, andare a caccia, raccogliere
funghi in montagna. Fare passeggiate con mia moglie Eva e il bambino al “parterre”». Viene chiamato
così dai livornesi il vecchio parco,
dove una volta c’era il giardino zoologico. È una città semplice, ci accontentiamo del minimo indispensabile. La cosa più bella della mia
città è il mare, con Emiliano, turnista anche lui, usciamo con la barca
a pescare al largo di notte. D’inverno, andiamo a «totanare» (pescare
i totani) e poi si fanno le grigliate
insieme. Noi si pesca e noi si cucina», ci tiene a precisare Emiliano,
collega turnista amico di passione.
Si va fuori sulle secche della Meloia
a tre miglia a largo davanti al porto
di Livorno o verso Pisa dove c’è il
faro che segna la secca che affiora
dall’acqua».
Dire di dove sia Giovanni, 42 anni,
turnista non è certo cosa facile. Abita a Fauglia, in provincia di Pisa, ma
è nato in Sardegna in provincia di
Nuoro. Per 13 anni è stato a Venezia
dove ha lavorato con ditte esterne
nella raffineria a Porto Marghera.
Ha avuto l’occasione di lavorare a
Livorno nel 2005. « È più facile imbarcarmi e tornare a casa. Mi sento
sardo, anche se mi trovo bene dovunque, a Livorno più facilmente,
è una città davvero accogliente».
Vive da solo. «Ci sono momenti che
livorno
101
ti manca una compagna, ma altri
in cui puoi prendere la macchina
e andare dove vuoi». E così la sera
si va insieme con gli amici a cena, a ballare, o a fare lunghe passeggiate al mare o in città, oppure
si frequentano corsi di ballo o in
palestra. «Facendo il turnista bisogna anche dormire un po’», ripete
sorridendo e aggiunge: «ho un bel
carattere, sono di buona compagnia
e quando sento la nostalgia del mio
paesino mi preparo un buon piatto
di gnocchetti sardi, i “maloreddos”
al sugo di ragù di salsiccia. Qualche
volta faccio anche i ravioli, quando
tornando dalla Sardegna porto la
carne di maialino fresco. Gradisco
i piatti della tradizione. Tutto quello che mi piace non quello che mi
mettono davanti».
In quel porto franco che è Livorno,
tutti si trovano bene. E lo stesso
accade anche in Centrale. «Anche
quando prendiamo in giro i nuovi arrivati. Qui sembra lo sport preferito»,
sottolinea Marco, 50 anni, livornese,
dall’età di 22 anni nello stabilimento.
Entrò come operatore dell’impianto
di demineralizzazione acqua ed è
diventato capoturno. «Ricordo ancora il primo turbo gas da 25 Mw
alla fine degli anni ‘80». Ha frequentato l’istituto nautico, ma ha seguito
poi un’altra strada. «Il mare lo vedo
ogni mattina dal Lungomare dove
abito, proprio di fronte alla terrazza
Mascagni, il punto di ritrovo dei livornesi. Sono sempre al corrente di
quello che succede nella mia città».
Battuta pronta, chiacchierone, grande loquacità. Ecco il livornese.
livorno
103
lo stabilimento
ora è tutto un lavoro di squadra
Non ha nulla del modello un po’
«svizzero» della Centrale di Ravenna: tanti servizi e tutto perfettamente in ordine. Eppure Livorno,
così chiassosa, caotica e trafficata,
ha un grosso vantaggio: essere più
simile al Meridione, alla sua Bari.
Perché Fabio, 41 anni, nel capoluogo pugliese ci ha passato gli anni di
studio. «Ci hanno messo 18 anni i
miei genitori per decidere se vivere a Catania, terra d’origine di mia
madre o a Bari, terra di origine di
mio padre. E così abbiamo vissuto
per 18 anni a Matera, poi in funzione della mia scelta universitaria, ci
siamo trasferiti tutti a Bari».
Laurea in Ingegneria, una borsa di
studio in Inghilterra, poi il servizio
militare e all’età di 28 anni l’ingresso in eni, dopo aver mandato curriculum e fatto colloqui. Da Mantova
a Ravenna, per 13 anni, rivestendo
diversi incarichi sempre legati al
mondo delle Centrali e di enipower
fino ad approdare a Livorno, come
responsabile dello Stabilimento.
«Sono arrivato in un momento in
cui si intravvedevano nuovi investimenti e si puntava al rilancio del
sito. Poi c’è stata la fase in cui sono
cambiati scenari e prospettive. Ad
un tratto gli investimenti sono stati cancellati, si è paventata anche
la vendita, si è temuto per il personale. Ci sono stati momenti di for-
è inserito all’interno della raffineria eni refining & marketing di Livorno
nell’area industriale vicino al porto. La Centrale è composta da due gruppi
turbogas da 25 e 149 MW e da tre caldaie. Produce calore per la raffineria
e elettricità per la Rete di trasmissione nazionale e gli impianti contigui. Lo
stabilimento gestisce, inoltre, un impianto di produzione di acque industriali,
che attraverso processi di sedimentazione, filtrazione e demineralizzazione
consente l’utilizzo dell’acqua per la produzione di vapore. Consente, quindi,
il riutilizzo delle condense di ritorno dallo stabilimento e dalla raffineria,
garantendo un notevole risparmio d’acqua (circa 500 mila metri cubi all’anno).
Enipower gestisce anche il circuito dell’acqua di raffreddamento del sito
multisocietario costituito da undici torri di raffreddamento a circuito chiuso
senza utilizzo di acqua di mare. A causa delle perdite per evaporazione,
per mantenere costante il volume dell’acqua, è attivo un reintegro continuo
realizzato per il 95% con quella proveniente dall’impianto di trattamento
delle acque reflue della raffineria, a sua volta recuperata all’interno del sito
produttivo stesso, diminuendo così il prelievo dall’esterno, con un risparmio di
circa 1,9 milioni di metri cubi all’anno.
te tensione, con ripercussioni sulla
centrale e rischi anche di blocco.
I lavoratori, i cittadini si sentivano
abbandonati».
Sono stati giorni davvero difficili per Livorno. Si temeva fosse la
fine. «E invece – spiega Fabio –
bisognava riuscire a motivare le
persone, spingerle a fare squadra,
spiegare loro che bisognava continuare a lavorare. Ora la paura è
passata, è ormai alle spalle; il lavoro è di ricompattare il gruppo
senza mai abbassare la guardia.
La vera sfida è confermare la nostra identità di enipower e operare con un unico grande obiettivo:
fare in modo che tutti credano nel
nostro “business”».
Così man mano che i progetti assumevano consistenza anche Fabio ha cominciato a crederci e ha
portato la sua famiglia in Toscana. Hanno scelto di vivere a metà
strada tra Pisa e Livorno con i figli,
livorno
105
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower
100%
Potenza installata
199 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 1 ciclo combinato a gas naturale
da 149 MW
unità a vapore n. / taglian. 1 turbina a gas e n. 2 unità a vapore
da 50 MW totali
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2004
Combustibili
gas naturale
fuel gas (gas da recuperi di raffineria)
olio combustibile a basso tenore di zolfo
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Altre produzioni /servizi
acqua chiarificata e demineralizzata
Aziende eni coinsediate e servite
eni refining & marketing
Carlotta, 5 anni, che già parla toscano, e il piccolo Alessio di 3 anni.
«Da barese ho apprezzato il mare,
l’animazione del suo porto e quegli
scorci con i pescherecci che sono
uguali dovunque. A Livorno, come a
Bari, ci sono aree del porto che sembrano quasi realtà al di fuori del tempo, immutabili da sempre, come quei
“casottini” sotto il molo del porto antico dove si tengono gli attrezzi, con
porte sprangate, assegnati non si sa
da chi, ma che appartengono solo al
porto e ai pescatori». Tutta gente di
mare, sia a Livorno che a Bari. Due
lungomari incantevoli. Cozze e frutti
di mare crudi a Bari, cacciucco a Livorno. «Attenzione alle “c”. Che siano
5 quanti devono essere i tipi di pesce da metter in questa straordinaria zuppa – avverte Samuele – con
una “c” in meno abbiamo il caciucco,
quello emiliano. Il nostro deve averne cinque di “c”. Il livornese si offende
se si sbaglia la pronuncia».
Gli è nata poco dopo essere entrato in centrale. «Prima durante
l’adolescenza, non mi piaceva fare foto né essere fotografato, non
ho foto di quel periodo della mia
vita. Poi c’è stato il concorso voluto da enipower. Non riuscivo a
trovare un angolo che potesse rappresentare a pieno Livorno. Poi ho
trovato quello giusto ed è venuta:
“Il vecchio e il mare”. In questi scatti c’è tutto ciò che rappresenta la
mia città: come è nata perché c’è
il monumento ai 4 Mori, voluto da
Ferdinando I che aveva liberato la
città dai Mori, il vecchio, i pescatori, i pescherecci, il mare, la raffineria, il porto».
è fidanzato con Elisa e stanno cominciando a pensare al matrimonio. C’è un posto a loro molto caro:
lo scoglio della ballerina. «L’ultimo
giorno prima di salire sulla petroliera abbiamo passato lì l’intera
giornata. Sono partito ma era in-
Ora ha 29 anni, a soli 20 anni è entrato in Centrale in enipower. «Era
nata da solo due anni, si può dire
che sono cresciuto con lei».
Samuele è operatore esterno addetto agli impianti. «Sono entrato
all’impianto trattamento acqua. Da
lì passano tutti e poi sono cresciuto.
In realtà avevo scelto il mare, volevo intraprendere la carriera militare,
non ho passato l’esame, sono stato
militare di leva in Marina.
Ho provato a navigare su una petroliera, ma ho visto che quella vita
non faceva non era per me, Così
sono entrato in Centrale. Mi piace
davvero tanto e quando arriverò
in sala quadri sarà come essere su
una plancia di comando di una nave. Sono vicino alla meta, aspetto
solo la prova, l’esame e il colloquio
in cui mi diranno: “ok ci puoi stare”
oppure “devi imparare ancora”».
Ma Samuele ha anche un’altra passione, quella per la fotografia.
Il vecchio e il mare - Samuele Giglioli
sopportabile quella vita. è finita
con una sorpresa, da buon livornese. «A casa di un’amica dove Elisa
era stata invitata a una festa. Ci
ha trovato anche me, ero tornato
per sempre». E lei così estrosa le
ha preparato una delle sue pizze
strepitose e lui il suo piatto forte:
linguine alle vongole».
dove vive enipower
107
nettuno
«siamo noi i pionieri
del fotovoltaico in Italia»
Forse è per quel «filo di pazzia» che
dicono ci sia nei nettunesi e per
quella capacità di guardare avanti
di eni, che già dalla fine degli anni Settanta si comincia a parlare
di fotovoltaico in Italia e proprio a
Nettuno. «Siamo stati noi i pionieri
nel campo dell’energia solare», ricorda Gianfranco, 58 anni, di Roma, una vera «colonna» dello Stabilimento di Nettuno, che oggi si
occupa di analisi e pianificazione.
Erano gli anni in cui l’Agip, attraverso la direzione Fonti Rinnovabili
(FORE), aveva il compito di studiare tutte le rinnovabili, tra cui il fotovoltaico. Ma si deve arrivare agli
anni Ottanta per passare alla fase
dell’industrializzazione. Nel 1982
nasce infatti la «Pragma» (100%
Agip Nucleare) con la «mission» di
occuparsi di ricerca & sviluppo e
di produzione e commercializzazione di moduli e sistemi.
nettuno
109
Il pescato - Renato Bulfone
La sua nascita è stata preceduta da
una serie di azioni messe in campo dall’Agip a partire dalla trattativa
per l’acquisizione della società «Solaris» del Gruppo «Galileo» di Firenze, piccolo centro di preindustrializzazione del fotovoltaico.
Contemporaneamente all’acquisizione della Solaris si provvedeva
all’acquisto dell’area dello Stabilimento di Nettuno dando, quindi,
seguito al trasferimento delle attività da Firenze a Nettuno. Negli
anni successivi si sono acquisite
nuove licenze e macchinari negli
Stati Uniti, iniziarono le assunzioni del personale in mobilità GEPI –
ex Industrie Elettroniche dell’area
di Latina e la capacità produttiva
venne incrementata. La produzione
iniziò a crescere supportata anche
da programmi di ricerca con Enea
ed Enel. L’obiettivo era di sviluppare
l’industria fotovoltaica italiana.
E con la «Pragma» arriva anche
Roberto, 55 anni, pisano. Laurea in
Fisica a Roma, alla Sapienza, con
una tesi in materia di fotovoltaico
e una grande voglia di continuare
a dedicarsi alla ricerca in un settore
che cominciava a muovere i primi passi. Si sentono i veri pionieri
quel gruppo di giovani ricercatori,
neo-laureati, che nel 1980 lavorano
insieme in Università. «Non avevo
ancora terminato il militare quando
la “Pragma” mi ha contattato. Era
nata a ottobre dell’82, ma già nel
mese di marzo – ricorda Roberto –
facevo parte di quel gruppo di “folli”
di Nettuno che credevano nel sole.
Ho vissuto l’euforia e l’entusiasmo
di quegli anni, prima che diventasse
un “business”, quando si faceva solo
tanta ricerca, c’era tanta manualità e tanto impegno. Eravamo oltre
100 dipendenti, un posto simpatico
dove c’erano tante donne che lavoravano e noi, un gruppo di venti
giovani che arrivavamo tutti i giorni
da Roma in pullman: un’ora di viagIl porto - Renato Bulfone
gio, con un clima davvero goliardico e grandi dormite».
Roberto continua a viaggiare, lo fa
ormai da 27 anni. Ha scelto di vivere
a Roma, all’Eur, per contemperare le
esigenze della famiglia. «Ho avuto la
fortuna di vivere una grande avventura, non siamo riusciti a diventare
nettuno
111
I pescherecci - Renato Bulfone
dalle fette di silicio alle celle
Lo Stabilimento di Nettuno conserva e sviluppa il «know-how» tecnologico
attraverso l’attività «core» del settore: la trasformazione di «wafer» o fette di
silicio in celle fotovoltaiche. Queste, sottoposte a una serie di trattamenti
chimico-fisici superficiali, diventano, quando sono esposte a irraggiamento
solare, generatori di elettricità, ovvero celle ad effetto fotovoltaico.
Le celle sono poi collegate in serie/parallelo e assemblate in moduli, utilizzabili come generatori, che forniscono diversi valori di tensione e potenza
elettrica. Più moduli, interconnessi fra loro, costituiscono un impianto o sistema fotovoltaico.
La produzione enipower a Nettuno oggi si basa sulla trasformazione in celle
di fette di silicio multicristallino acquistate sul mercato. Grazie a ingenti investimenti su tutta la linea di produzione le vecchie apparecchiature sono state
sostituite e si è introdotto un nuovo ciclo produttivo. L’obiettivo è di ridurre i
costi di produzione delle celle, incrementando la potenzialità e l’affidabilità
dell’impianto, nonché la qualità del prodotto finale.
La linea di produzione può processare fino a circa 8.000.000 di celle fotovoltaiche l’anno, corrispondenti a una potenza elettrica di picco pari a circa 30 MW, triplicando la capacità produttiva del vecchio impianto. Le celle multicristalline che la nuova linea è in grado di produrre generano, una
volta assemblate, moduli con una potenza media di 220 w ed efficienze di
generazione in linea con i parametri ottimali disponibili sul mercato. Molto
importanti anche le attività di sviluppo tecnologico all’interno dello stabilimento, focalizzate sulla valutazione e ottimizzazione delle metodologie di
produzione al fine di migliorare continuamente i suddetti parametri di qualità, capacità produttiva ed efficienza delle celle.
i “leader” nel settore, ma la sfida del
“made in Italy” non è ancora finita». A
Nettuno si guarda al futuro, ma con
un pizzico di rimpianto verso il passato. «I programmi andavano avanti,
ma poi non trovavano sbocco. Allo-
Il castello Torre Astura - Renato Bulfone
ra ne partivano di nuovi. Poi finivano
anche questi. Cambiava la tecnologia, ma eni continuava a investire a
fronte di una possibilità di sviluppo
vero dell’attività. Tanta speranza ma
troppi bilanci in passivo».
Nel frattempo la «Pragma» era
diventata «Italsolar» (100% Agip)
e si accingeva a diventare «Eurosolare». «Arrivai a Nettuno nel
Il faro - Renato Bulfone
1992, – dice Gianfranco – quale responsabile amministrativo
e del personale, per seguire tale
passaggio. Non era facile, per me
che avevo lavorato nel mondo del
petrolio per 15 anni, capire ed entrare nei meccanismi del settore
fotovoltaico. Doveva essere per
un breve periodo ma le attività mi
hanno coinvolto a tal punto che
oggi sono ancora quì. Ci ho passato una vita con impegni pesanti
ma anche con tante soddisfazioni. Nel 1999 mi hanno mandato
in Cina come “general manager”
di una “ joint venture” Eurosolare
(100% eni) e un Istituto di ricerca
cinese per la crescita del silicio e
la produzione delle fette, a seguito
della decisione di esternalizzare
tale attività, non essendo la stessa
economicamente sostenibile per
lo stabilimento di Nettuno. Dal
2004 siamo diventati Eni Tecnologie e dal 2006 enipower».
La spiaggia - Renato Bulfone
nettuno
113
il silicio in mano alle donne
L’avventura del fotovoltaico nasce
intorno a un gruppo donne. Lavoravano a Latina in una fabbrica di
semiconduttori e dopo il suo fallimento furono assorbite dalla neonata «Pragma». Da allora molte sono andate via, qualcuna è rimasta,
ne sono arrivate di nuove, perché a
Nettuno la presenza femminile ha
sempre avuto un peso significativo.
Pina, «Paina» come la chiamavano sul lavoro, 56 anni, ha scelto di
andare via, di andare in pensione
dopo 28 anni di fotovoltaico. Ha
scelto Mattia, il nipotino di un anno, al quale ora potrà raccontare la
sua straordinaria avventura. «Non è
stato facile – confessa a pochi giorni dall’addio al lavoro – ho anche
pianto sfogliando le vecchie foto:
quel primo lingotto, la prima fetta di
silicio pressurizzato, quelle piccole
piramidine».
Il pensiero torna indietro perché lei,
diplomata in chimica, lavorava in
prima linea nel laboratorio di ricerca
e fino al 2005 è stato tecnico ricercatore. Con un pizzico di orgoglio,
condiviso con i colleghi di quegli
anni, dice: «Sono la storia di questa
società, siamo partiti dal nulla, i processi erano proprio all’inizio e completamente diversi da oggi. Adesso
si usano macchine serigrafiche per
formare la griglia, una volta si faceva il bagno di nichel per elettolisi e
i contatti erano fatti con piombo e
stagno». All’inizio erano necessarie
le abili e delicate mani delle donne
per lavori come questi. «Il nostro
“know how” era il fiore all’occhiello,
facevamo il silicio in casa. Le nostre
tecnologie sono arrivate in Cina, in
Australia, partecipavamo a progetti
internazionali».
Ora a Nettuno non si fa più ricerca
e «Paina» ha deciso di fare la nonna,
di portare a casa i suoi ricordi legati
al lavoro e al gruppo con cui lavo-
rava. «Ricordo la terrazza sul mare
dove andavo a prendere il gelato
nella pausa pranzo, la passeggiata
con i colleghi e le colleghe. Quella
grande torta per il primo modulo
fotovoltaico da 50 Watt. È stato come un figlio per noi. E la macchina
solare “Futura” al World Solar Challenge. I pannelli fotovoltaici li avevamo realizzati noi». Ripercorre la
sua vita all’ombra del fotovoltaico.
nettuno
115
Una storia di tanti piccoli successi,
che non hanno mai fatto rumore.
Anche Luisa, 48 anni, ha vissuto tutte le fasi dello stabilimento.
«L’abbiamo tirata su bene questa
fabbrica. Più si andava avanti e più
arrivavano le novità». È entrata come operaia nell’83, appena finita
la scuola. «Cercavano personale e
feci domanda. È stato il mio primo
lavoro. Tutto per me era nuovo e
bello. Poi sono diventata impiegata, ora mi occupo di magazzino».
Dello stesso gruppo di partenza,
dell’82 faceva parte anche Meri,
49 anni, di Nettuno. «Ho sentito
che aprivano questo stabilimento,
appena diplomata in ragioneria,
sono entrata nell’ufficio del personale. Per 11 anni ne ho seguito le
vicende: da quel primo nucleo di
donne ai ricercatori che arrivavano
da ogni parte del mondo. C’era un
gran movimento. Abbiamo superato anche le 150 unità lavorative.
nel mondo per portare la luce
Alessandro, 47 anni, abita ad Anzio, ma è nato a Nettuno.
Perito elettronico ed elelettrotecnica. Il padre faceva il ferroviere, e lui sognava di girare il mondo su una nave. Per
questo era entrato nella Marina Militare, c’era rimasto solo
un anno e mezzo a bordo della nave Libeccio «a gustare la
vita da zingaro». Poi è tornato a terra per fare il capo cantiere impiantista in una società di Nettuno e nell’88, con
altri ragazzi appena usciti da scuola, è stato caposquadra
nell’istallazione di un impianto fotovoltaico sperimentale
della potenza di 100kW di picco. Finito quel lavoro parlò al
direttore della sua voglia di viaggiare. «Mi chiamarono dopo
qualche mese. “Ci serve un giovane che ha voglia di girare”.
Ho accettato e come supervisore all’installazione di impianti
fotovoltaici, ho girato mezzo mondo». Nel 1994, ha sposato
Nadia, di Anzio e si è spostato a 3 chilometri da casa sua.
Per anni impegnato nella manutenzione di impianti elettrici
e tecnologici, per lo stop alle attività estere di installazione di
impianti fotovoltaici. A ottobre ‘97 sono nati i gemelli Lorenzo
e Eleonora. Ora hanno 12 anni, ma pochi giorni dopo la nascita
è ripresa l’attività esterna: una missione in Congo di circa un
anno e mezzo. «Avevano 20 giorni quando sono partito per
Una bella esperienza che continua.
Sono soddisfatta del mio lavoro e
lo devo a mio padre, lavorava in
polizia e aveva saputo dell’arrivo
di questa nuova società».
Santuario Maria Goretti - Renato Bulfone
un’avventura bella, onerosa, faticosa, sono stato fortunato
che mia moglie mi ha aspettato». Alle soglie del ‘98 con
«Eurosolare», si riprende a viaggiare ma per fortuna le tappe
sono state più brevi: Senegal, Algeria, Egitto, Tibet per creare
energia dove non c’è, per portarla in ospedali, scuole, centri
sanitari, posti isolati dove non c’è nulla se non povertà. «E noi
portiamo un barlume di speranze per queste popolazioni: la
luce in una sala parto o il frigorifero per tenere le medicine
in un dispensario. Dove vado non c’è la civiltà, siamo noi a
portarla. Dalle zone malariche della Nigeria dove il fango mi
arrivava alla cintola per elettrificare un ospedale in mezzo
alla palude, al Cairo, quell’11 settembre, quando scorrevano
le immagini dell’attentato in un autogrill e noi pensavamo
fosse un film. Credo di essere uno degli uomini più fortunati
del mondo, mi piace il mio lavoro. Noi di eni abbiamo messo
sempre al primo posto l’aiuto alle popolazioni».
Poi si torna a casa e con tutta la famiglia si va al mare,
al poligono militare di Torre Astura. Alle spalle dello stabilimento c’è un castello sull’acqua e la natura è ancora
bella e selvaggia come quella dei Paesi dove lui continua
a portare la luce.
Ci lavora, invece da 10 anni, Raffaella, 38 anni, operatrice nel reparto celle. È entrata per uno stage di 10 mesi nello stabilimento,
insieme a un gruppo di ragazze
e ragazzi. «Cercavano ragazzi disoccupati e con il titolo di perito
elettronico industriale. E pensare che mi piaceva l’informatica e
avevo scelto l’indirizzo di perito
nettuno
117
elettronico industriale, solo perché
non mi piaceva la ragioneria. Dopo un anno e mezzo dallo stage
ci hanno richiamato. L’elettronica mi ha conquistata – confessa
Raffaella – anche se i macchinari
cambiano ed è tutto sempre più
computerizzato, anche i processi
che vengono fatti a una fetta di
silicio affinché diventi una cella
fotovoltaica. Quante cose ho visto
cambiare. Per un periodo ho fatto
anche i turni notturni».
Lavoro, casa, amici in una cittadina bella e tranquilla come Nettuno,
dove gli americani hanno portato il
“baseball”, ma dove è nato anche il
mitico Bruno Conti, campione mondiale. «A volte ci spostiamo a Latina,
altre volte preferiamo il nostro bellissimo borgo antico e i suoi localini.
Per il resto continuo a godermi gli
spaghetti alle vongole di mamma
Simonetta e l’arrosto farcito, preparato con la carne buona che porta in
casa papà Vittorio, macellaio».
Pamela, anche se ha solo 30 anni,
di Nettuno, aveva 20 anni quando
è entrata come perito informatico.
L’unica donna con questo titolo. Ora
è operatrice di linea. È contenta di
questi 10 anni trascorsi nello stabilimento e del nuovo corso con enipower. Un lavoro trovato quasi per ca-
so. «Dalla scuola avevano chiamato
mio fratello per sapere se era interessato a questo lavoro. Ma la cosa a
lui non interessava, allora fece il mio
nome. Mi hanno assunto».
Il resto è storia di oggi e non solo di
fotovoltaico. «Mi devo sposare a giugno, anche il mio futuro marito lavora nel settore ambientale. È di Anzio
– si ferma, sorride – una volta c’era
rivalità tra i due paesi». Andrà a vivere lì, ma le fotografie le farà nel borgo di Nettuno. «Lì c’è racchiusa tutta
la storia della mia terra». Atmosfere
medioevali, scorci bellissimi, tra slarghi, piazzette e vedute straordinarie
sul mare e sul Forte Sangallo, percorrendo il versante esterno delle mura.
Sicuramente l’addio al nubilato sarà
con le amiche e anche con qualche
collega. «Amo la sfoglia fatta in casa.
Quella sera non mancheranno le fettuccine con il sugo di pesce, astice o
frutti di mare, ma ci saranno anche
le ciambelline e le crostate. Proprio
ieri ne ho portata una in stabilimento. Ci vorrebbero anche le coscette
di rana, Pina è brava a cucinarle, ma
ormai è così difficile trovarle».
Il lavoro è finito, le «signore del fotovoltaico» di ieri e di oggi escono dallo
stabilimento. Le raggiunge Piero, 40
anni, il responsabile di produzione, è
entrato che ne aveva 22. «Vi manda
i saluti Pier Franco, sempre in prima
linea sui campi di “baseball”. Ricorda
sempre quella partita Cuba-Panama, quando era arbitro internazionale nella Coppa intercontinentale, e
quella stretta di mani di Fidel Castro
negli spogliatoi. E poi mentre ero in
vacanza in camper con Catiuscia
nella zona di Bomarzo, nell’alto La-
zio, ho trovato un campo fotovoltaico dimostrativo di prima generazione in una zona recintata vicino a un
boschetto. Era abbandonato, non so
se funzionasse. Però sono riuscito a
leggere il marchio: “Italsolar”. Sarà lì,
quindi, da più di 20 anni. Quello sicuramente è opera nostra».
nettuno
119
lo stabilimento
insieme per una nuova sfida
Ci hanno creduto prima di tutti,
hanno vissuto momenti esaltanti,
non si sono mai voluti arrendere
perché in quell’energia che arriva
dal sole ci hanno sempre tutti creduto. Ora per loro si presenta una
nuova sfida. Forse la più difficile.
Con enipower per rilanciare il settore del fotovoltaico e lo Stabilimento
di Nettuno. Lo sa bene Alfredo, 44
anni, ingegnere, marchigiano di San
Benedetto del Tronto. Da pochissi-
Lo stabilimento di Nettuno, conferito in enipower dal 1° giugno 2006, è
ubicato nell’Agro Pontino Romano, a circa 5 km da Nettuno e 60 km da
Roma. Oltre alle aree produttive, di servizio tecnico e didattiche ospita
un impianto fotovoltaico di 124 kWp che produce energia elettrica per
le necessità dello stabilimento. Opera nella produzione di celle solari ad
alta efficienza a base di silicio cristallino e moduli fotovoltaici cristallini a
marchio Eurosolare con potenza compresa tra 110 Wp e 240 Wp e nella
progettazione e installazione di sistemi fotovoltaici “chiavi in mano” con
potenza non inferiore a 10 kW, utilizzabili per applicazioni a isola o connesse
alla rete elettrica di distribuzione. Tutte le attività sono a basso impatto
ambientale in una prospettiva orientata allo sviluppo sostenibile.
Nello stabilimento è svolta una rilevante azione didattica e formativa sia
sul territorio nazionale che internazionale, direttamente o attraverso enti
pubblici o privati, mettendo a disposizione le conoscenze e le esperienze
sul fotovoltaico.
Il mercato di riferimento per le attività fotovoltaiche è quello nazionale
anche in considerazione dello sviluppo avuto negli ultimi anni con
l’introduzione del «Conto Energia», ma non mancano cooperazioni a
progetti eni a livello internazionale.
è in fase di completamento la nuova linea di produzione che consentirà di
raggiungere una capacità produttiva di 30 MW.
mi mesi ha ricevuto l’incarico di
traghettare l’impianto che «cattura
il sole» verso una nuova esaltante
ma difficilissima avventura.
È una realtà diversa da quelle dove
finora ha lavorato. Si avvicina molto di più alla realtà manifatturiera.
Una novità per lui che da 15 anni si è
sempre occupato di attività di produzione elettrica. Da Milano, dopo
alcune di esperienze all’estero, in
Grecia, legate alla distribuzione del
gas, è rientrato in Italia, a Milano
per poi approdare a Nettuno. «Divido la mia vita tra le due città. Devo
dire che la cosa che mi ha subito
colpito di questo stabilimento è il
fatto che si trova immerso nel verde, fatto un po’ atipico rispetto alla
mia esperienza. Mi ricorda quei
centri di ricerche spinti sullo stile
dei modelli americani. Non ci sono
nettuno
i numeri dello Stabilimento
Ciclo lavorativo
• trattamento superficiale delle fette
• deposizione acido ortofosforico sulle fette
• diffusione acido ortofosforico nelle fette
• rimozione ossido dalla superficie delle celle
• trattamento antiriflesso
• serigrafia e metallizzazione contatti
• classificazione celle
Realizzazione dei moduli
l’assemblaggio delle celle è affidato a terzi, che operano su indicazioni, specifiche
tecniche e procedure enipower, per cui i pannelli prodotti hanno il “brand”
«Eurosolare». Lo stabilimento di Nettuno mantiene la competenza del controllo
della qualità attraverso test funzionali
Dal prodotto all’impianto
enipower mette a disposizione dei propri clienti lo studio di fattibilità e la
progettazione del sistema fotovoltaico, l’assistenza nell’espletamento delle
pratiche autorizzative e nella stipula della convenzione con il Gestore dei
Servizi Elettrici (GSE) per il riconoscimento del «conto energia»; l’assistenza
nell’ottenimento di forme di finanziamento dell’impianto fotovoltaico
121
ciminiere o strutture di grande impatto architettonico».
Diverso l’ambiente e diverse le
persone. «Qui tutti si conoscono,
sono colleghi di vecchia data, ma
sebbene ci viva solo tre giorni alla
settimana mi sono integrato bene
e sono pronto per la mia “mission”.
È il momento del fotovoltaico. Ora
lo sanno tutti. Questi sono gli anni
di enipower, dell’orgoglio ritrovato. Le strategie sono cambiate. Lo
ha capito la gente, lo hanno capito quelli che lavorano allo Stabilimento di Nettuno. Si è modificato
anche il personale, ora un terzo
guarda al mercato, è diminuito invece il personale operativo sulla
linea di produzione. Il nostro “business” ci vede concentrati sulla trasformazione della fetta di silicio in
cella, il dispositivo in grado di trasformare la luce e trasformarla in
energia elettrica. Oltre a produrre
celle e moduli e progettare sistemi
per il mercato, realizzeremo anche
una serie di centrali fotovoltaiche
per produrre energia da fonte rinnovabile per la vendita».
Anche Stefano, 36 anni, ingegnere
elettrico, palermitano, a Nettuno ci
è arrivato da due anni, dopo aver
girato diverse centrali elettriche, da
Genova a Ferrera Erbognone. Per
lui si apre questa nuova sfida che
si chiama competitività. La sua famiglia è rimasta a Pavia, dove c’è il
piccolo Matteo, 4 anni, ed è in arrivo un secondo figlio. «Li aspetto
in estate per le vacanze a Nettuno,
dove c’è questa bella spiaggia, un
bel mare e un borgo antico dove
Matteo può giocare con la sua spada di gomma e sentirsi un piccolo
cavaliere». Mentre il papà lavora per
quell’energia pulita del futuro dei
suoi figli che a Nettuno è già una
piccola ma importante realtà.
«Oggi la coscienza locale si è accresciuta – dice Roberto, anche lui
tra i pionieri – i nettunesi sanno cosa può dare il fotovoltaico, in una
zona periferica, artigianale, dove ci
sono solo piccole attività. Fino ad
ora non c’è stata grossa risonanza,
ora sono incuriositi e accorrono
alle nostre iniziative di “fabbriche
aperte”. Vogliono conoscere questa
finestra sul mondo che si è aperta
tanti anni fa a Nettuno».
Mare con pannello solare - Stefano Bertazzi
dove vive enipower
123
brindisi
storia e leggende
all’ombra del porto
Mastro Teodoro la sua piccola storia da raccontare l’aveva anche lui.
Proprio lui che aveva passato una
vita a risuolare scarpe e sistemare
valigie di cuoio nella sua bottega
di «scarparo» (calzolaio) accanto al
porto, ascoltando storie di culture e
civiltà lontane, guardando il mare,
sognando le Indie e viaggi fantastici. Il bisnonno, Teodoro come lui,
era uno dei «figli della dominazione
spagnola». Di quei soldati del Forte a
mare che avevano messo su famiglia, ma avevano dovuto rinunciare al
servizio militare per lavorare e mantenerla. Li chiamavano i «giannizzeri
di Brindisi», i discendenti dei soldati
spagnoli, poveri ma non dimenticati.
A occuparsi di loro il più famoso castellano del Forte a Mare, il «maestro
di campo» Aloysio Ferreyra di Lisbona, che il 25 febbraio 1711 istituì, con
un proprio capitale di 9.000 ducati,
una rendita di 600 ducati annui a
brindisi
125
favore dei soldati del castello e dei
loro eredi. E così fu stilata una lista
di beneficiari del «Pio Monte Ferreira», un’istituzione benefica operante
fino al 1940.
Mastro Teodoro, però, di storia ne
raccontava un’altra. Spirito levantino,
parlava, invece, di un eroico ufficiale, Capitan Alonso e del suo grande
amore per Donna Teresa, di una morte sul campo di battaglia, onorato e
decorato. Vantava amicizie con il
Capitano Pedro Aloysio de Torres,
che portò l’acqua alla città, facendo
costruire, con il contributo dei più benestanti, le tre fontane all’interno del
centro abitato, in quella Piazza della
Vittoria, un tempo divisa tra Piazza
dei nobili e Piazza della plebe.
Tra storia e leggenda, tra scarpe rotte e navi pronte a salpare, quando i
soldi non arrivarono più, si ripiegò
sul lavoro e la sua bottega cresceva
tra i sogni di viandanti e viaggiatori,
quelli che sulla storica «Valigia delle
Indie», c’erano stati. Dopo l’apertura
del Canale di Suez, infatti, il Governo
italiano aveva stipulato una convenzione con la «Peninsular and Oriental
Steam Navigation Company».
Ogni settimana la «Valigia delle Indie»
partiva da Londra con treno speciale
via Calais per arrivare a Brindisi. Da
qui salpava il piroscafo postale inglese (P&O) che attraverso il Canale di
Suez giungeva nell’Oceano Indiano
e quindi a Bombay. E così Brindisi
diventò, tra il 1870 e il 1914, il porto
d’imbarco della principale comuni-
cazione tra Londra e le Indie.
Storia e leggende all’ombra di un
porto. Viaggiatori immaginari come
Phileas Fogg nato dalla fantasia di
Jules Verne nel suo libro «Il giro del
mondo in 80 giorni», protagonisti
della storia come il mahatma Gan-
dhi, nel 1931, di ritorno da Roma e
in partenza per l’India, ricevuto dal
canonico Pasquale Camassa, che
gli diede da bere in una coppa del V
secolo a.C. il latte della capra che lo
accompagnava nei suoi viaggi.
C’è la terra e il mare, il treno e il tran-
satlantico, in quella che è sempre stata
la porta di Roma verso l’Oriente. Lì
finiva la Via Appia, proprio dove si
ergevano maestose le due colonne
romane. È da Brindisi che partivano
gli eserciti di Roma. Qui sbarcavano
vittoriose le legioni di Flaminio, Sci-
brindisi
127
sognando la «Valigia delle Indie»
La fantasia di Jules Verne quel “Giro del mondo in 80 giorni” lo faceva partire proprio
da quel treno internazionale «India mail», noto in Europa come «Valigia delle Indie».
Una sera di ottobre del 1872, Phileas Fogg, gentiluomo inglese, con il suo domestico
Passpartout, iniziava il suo viaggio fantastico da Victoria Station a Londra. Ma
la «Valigia delle Indie» esisteva davvero e i suoi passeggeri erano alti ufficiali,
diplomatici, inviati speciali del «Times» o persone che avevano rapporti con l’India,
possedimento dell’Impero britannico. Quando fu aperto il Canale di Suez, nel 1869,
l’Inghilterra, guardò alla via italiana come la più breve, e non ebbe più dubbi quando
fu aperta la galleria del Moncenisio, che collegava, in pochi minuti, la Francia con
l’Italia. La «Valigia delle Indie» partiva da Londra, ogni settimana il venerdì alle 20,45
e raggiungeva Brindisi in 42 ore e 30 minuti, con il suo carico di merci preziose,
posta diplomatica e valuta. Il servizio si effettuava con il «treno di lusso - Peninsular
Express, composto esclusivamente di carrozze a letti, e di una carrozza ristorante»
in coincidenza con i piroscafi della P&O Company, in partenza ogni domenica da
Brindisi per Port Said, e quindi per Bombay e Calcutta. Così fino al 1914.
pione, Silla. È qui che Cesare e Pompeo si sono contesi il dominio della
Repubblica. È qui che moriva Virgilio
di ritorno da un viaggio in Grecia e
chiedeva il manoscritto dell’Eneide per
bruciarla. Ma è da qui che i Crociati
partivano per la terra Santa e fiorivano gli scambi e i commerci. È qui
che si alternavano le dominazioni tra
declini e rinascite: Bizantini, Normanni,
Svevi, Angioini, Aragonesi, Veneziani,
Spagnoli, Austriaci, Borboni.
Il resto è storia di oggi, di un mondo
che è ancora in transito, di sbarchi
clandestini e di turisti in rotta verso
la Grecia e le sue isole. Non c’è più
Mastro Teodoro a raccontare la sua
storia. La sua bottega di calzolaio è
cresciuta tanto, a forza di risuolare
scarpe e riparare valigie di viandanti.
Il porto è diventata la sua ricchezza,
il suo spirito è rimasto fiero, levantino,
come tutti i brindisini, colonizzati
nella terra ma non nel cuore.
Gara di vela - Vincenzo Molinaro
brindisi
129
ricchi commercianti, anche quando
Brindisi era la capitale d’Italia. Si
colgono tutt’intorno le tracce del
passato nell’architettura barocca
degli edifici vicini: il cinquecentesco
palazzo Montenegro, oggi sede del
Prefetto. Nelle sue sale passarono re
Ferdinando IV e Gioacchino Murat.
Fu poi acquistato dalla Peninsula and Oriental Steam Navigation
Company, società titolare della
«Valigia delle Indie».
E il pensiero va sempre lì. Quando
Dante parla del nonno e dei suoi
antenati «giannizzeri», gli occhi gli
si illuminano. Il mare ce l’ha nel
cuore anche lui. Quella passione
che gli ha trasmesso lo «scarparo»
quando da bambino lo portava nel
quartiere delle «sciabiche», le reti dei
pescatori, e gli raccontava itinerari
avventurosi. Una passione che aveva continuato a inculcargli il padre.
«Proprio qui, davanti all’“Internazionale” – ricorda Dante – mio nonno
terra di sbarchi e viaggiatori
Guarda il mare, sente il vento, vede
le onde incresparsi, quel porto naturale che si apre in due seni, quello
di Ponente e quello di Levante, e
che avvolge la città su tre lati. In
lontananza lo sguardo si posa sullo
«schifarieddu», la piccola imbarcazione di legno che ancora collega i
due versanti di Brindisi. E il pensiero
va a nonno Teodoro, lo «scarparo».
Quando con la mano lo accompagnava sul molo e gli raccontava le
avventure di quei ricchi viaggiatori
inglesi della «Valigia delle Indie». Un
mondo che alla fine era riuscito a
vedere anche lui. Aveva fatto fortuna
ed era tornato nella sua Brindisi e
nel suo porto. Aveva acquistato un
negozio di scarpe ed era riuscito a
dare un futuro ai suoi figli.
Erano gli anni d’oro del «Brindisi
Hotel» (oggi Hotel Internazionale)
in perfetto stile liberty, che aveva
visto passare re e regine, nobili e
Lu Schifarieddu - Mario Capriotti
brindisi
131
Monumento al Marinaio d’Italia - Mario Capriotti
Tramonto - Vincenzo Molinaro
calava giù con una corda mio padre
perché imparasse a nuotare e ad
amare il mare».
Quante volte l’aveva sentita ripetere
questa storia mentre percorrevano
Viale Regina Margherita lungo la
banchina del porto. Le voci dei pescatori dai loro pescherecci carichi
di pesce fresco, gli sbarchi di viaggiatori, turisti, clandestini, quanti albanesi sono passati di lì accolti nelle
case dei brindisini. Una mescolanza
armoniosa di voci, suoni e dialetti
del mondo. Ma anche di sapori: gli
involtini di verza che ricordano quelli di foglie di vite della cucina greca.
Albero ospedale di Summa
Vincenzo Molinaro
Poi i marinai. Per loro un pensiero
speciale. Un monumento dedicato
simbolicamente al «Marinaio d’Italia». Una sorta di gigantesco timone
di circa 54 metri, che attraversando
il canale Pigonati domina il porto
interno. Visto dall’alto richiama un
uccello stilizzato e dal suo terrazzo
la città appare in tutti i suoi volti.
Sulla sommità la statua di marmo
della Madonna e alla sua base, una
cappella sacrario che ricorda i caduti delle guerre mondiali. Qui è
custodita la Campana della corazzata «Benedetto Brin», affondata nel
porto di Brindisi nel 1915.
Oggi come allora Dante guarda con
orgoglio la sua città: i due castelli,
quello Svevo, detto anche «castello grande» o «di terra» voluto nel
1227 da Federico II come residenza fortificata propria e per le sue
guarnigioni a terra, che delimita il
centro antico verso levante e quello
Aragonese o Alfonsino, quello «di
il cavallo bianco che porta il Santissimo
La Processione del «Cavallo parato» rievoca il difficile approdo a Brindisi nel
1250 di Luigi IX, re di Francia, di ritorno dall’Egitto dalla settima crociata. La sua
nave che portava l’Eucarestia, per il forte vento o una mareggiata, si schiantò
rovinosamente sullo scoglio di un promontorio della costa, tre miglia a sud di
Brindisi. I marinai temevano il peggio, pensavano che la nave naufragasse, ma
il re pregava tranquillamente davanti al Santissimo.
Sul punto dove si era arenata la nave lo accolse l’arcivescovo Pietro III, che
essendo molto vecchio, era in sella a un cavallo bianco. Il re gli consegnò
l’Eucarestia e la portò in processione in città, seguito dai reali e dal popolo. La
leggenda vuole che nel punto di spiaggia dove il cavallo pose le zampe durante
il trasbordo dell’Eucaristia, abbia lasciato l’impronta dello zoccolo e da qui sia
sgorgata acqua dolce. Di qui il nome del promontorio, Punta Cavallo. E vicino
allo scoglio fu edificata una torre a devozione.
mare» sull’Isola di Sant’Andrea, in
una posizione strategica di difesa.
Le arcate gotiche del portico dei
Cavalieri Templari da cui si accede
al Museo Archeologico «Francesco Ribezzo», studioso di cultura
messapica. Ne percorre le sale e si
ferma incantato davanti ai Bronzi
di Punta del Serrone.
Dal porto la scalinata Virgiliana
lo conduce alle colonne romane
(ne è rimasta una. È straordinario il capitello con Giove, Nettuno,
Pallade e Marte inframmezzati dai
Tritoni) e al duomo romanico distrutto dal terremoto del 1743, dove
Federico II nel 1225 aveva sposato
Isabella di Brienne, e ricostruito nel
1750; al seminario, alla loggia del
Palazzo Balsamo, del XIV secolo,
che ospitava la Zecca angioina, a
Palazzo Granefei-Nervegna. È un
susseguirsi di emozioni. Percorre
le strade del centro antico: le chiese
(testimonianze delle Crociate come
quella di San Giovanni al Sepolcro,
dell’XI secolo, la chiesa di Santa
Lucia con la sua cripta basiliana
e il complesso di San Benedetto e
ancora la chiesa di Santa Maria del
Casale e i suoi affreschi del XIV-XV
secolo, la barocca chiesa di Santa
Teresa nel quartiere degli spagnoli
brindisi
133
Lungomare - Vincenzo Molinaro
che ricorda Don Aloysio Ferreira),
le dimore storiche. Si ferma con gli
amici in Piazza della Vittoria, vicino
alla Fontana De Torres, costeggia le
mura antiche, attraversa le storiche
porte: Porta Mesagne, Porta Lecce,
i bastioni e i torrioni.
È un brulicare di gente assiepata
ai lati delle strade, la banda, uno
scampanellio, la gente intona i canti
sacri ed ecco un cavallo bianco, il
«cavallo parato». In groppa l’arcivescovo di Brindisi porta in processione il Sacramento nella festività del
Corpus Domini, accompagnato dai
rappresentanti dell’Ordine dei Cavalieri di Malta e dell’Ordine Equestre
del Santo Sepolcro di Gerusalemme
che reggono le sei aste del baldacchino. I fuochi d’artificio illuminano
il cielo di Brindisi da Punta Penne
a Punta Cavallo, per un’altra festa,
la processione a mare, la prima
settimana di settembre. Le statue
e le reliquie dei santi patroni della
città San Teodoro d’Amasea e San
Lorenzo da Brindisi, dal castello
aragonese entrano nel porto su una
barca seguite da altre imbarcazioni.
È una festa di luci e colori, di fede
e tradizione. Ma un’altra fiaccola
brilla nel cielo di Punta Cavallo,
quella del petrolchimico, ma questa
è un’altra storia.
brindisi
135
lo stabilimento
Inserito nel polo petrolchimico di Brindisi, alla periferia della città, si affaccia
sul mare Adriatico. Con l’entrata in esercizio nel 2006 della nuova centrale,
degli impianti originali sono in esercizio i soli generatori alimentati con
vapore di recupero dall’adiacente impianto di «cracking» di polimeri europa
e una caldaia come riserva fredda. La nuova centrale è composta da 3
cicli combinati per una potenza di 1170 MW. I turbogas sono alimentati da
una miscela di gas naturale e gas petrolchimico: quest’ultimo permette
il risparmio di gas naturale e favorisce anche una riduzione annua delle
emissioni di CO 2 (circa 142.000 t/anno).
L’energia elettrica è destinata in parte ai fabbisogni delle società coinsediate,
in parte è immessa sulla rete nazionale tramite un nuovo elettrodotto a
380 kV, entrato in esercizio nel 2005, che garantisce bassissimi valori di
campo magnetico. Il vapore tecnologico prodotto è ceduto agli impianti
delle Società coinsediate. Rilevante per il recupero delle risorse idriche
è l’impianto a osmosi inversa che nell’ambito della bonifica della falda
acquifera soggiacente lo stabilimento, contribuisce al riutilizzo delle
acque riducendone il prelievo da acquedotti e pozzi artesiani. Vicino allo
stabilimento è in esercizio l’impianto di «phytoremediation» che utilizza
alcune specie di piante per rimuovere l’agente inquinante del terreno
proveniente dalle bonifiche del sito.
una luce sul promontorio
Dante a Punta Cavallo ci va ogni
giorno. è l’altra faccia di Brindisi.
Quella dell’industria, quella del
sogno del petrolchimico, negli
anni Cinquanta, all’epoca della
MonteShell (una combinazione
tra Montecatini e Shell) su una superficie 4 volte maggiore di quella
della città con un proprio molo
proteso per 500 metri sul mare
per l’attracco delle petroliere. Erano gli anni in cui si puntava sulla
chimica in Italia. Doveva portare
sviluppo e occupazione. Le cose
andarono diversamente. A raccogliere la sua eredità la più grande
azienda italiana: eni.
Sempre lì a Punta Cavallo, quel
promontorio sul mare che ricorda
a Dante le sue origini e rafforza il
suo legame con la storia, all’ombra del Forte dalle mura rosse. Lui
ha potuto studiare e si è fatto una
posizione nella Centrale, è un inFarfalla - Rosario Cigna
gegnere, si occupa della cura degli impianti, ma continua ad amare il mare e il vento che spinge la
sua vela dal porto al largo. Con le
«armi» della tecnologia difende il
suo «castello», come gli antenati
spagnoli difendevano la loro fortezza e il loro porto.
«Lo Stabilimento e la Centrale
enipower – dice Rosario, che oggi occupa un posto di rilievo del-
la società – sono come un porto
sicuro, assicurano l’energia di cui
ha bisogno la comunità, sostengono l’occupazione e molte attività economiche indotte. Sono
l’occasione per far crescere le
diverse abilità tecniche e umane
che danno qualità alla comunità.
Sono rete perché, attirano capitali e lavoratori con le loro culture e risorse. Danno occasione a
brindisi
137
scambi di materie prime e di prodotti energetici, senza limitazione
di distanza».
Chi trasforma i rischi in opportunità, la paura dello straniero
in occasione di crescita, come
quello «scarparo» che si faceva
raccontare di Paesi lontani mentre riparava le borse ai passeggeri de “La valigia delle Indie” e che
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower
100%
Potenza installata
1.321 MW
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 3 cicli combinati a gas naturale da 390 MW,
di cui 2 adatti all’utilizzo anche di off gas
unità a vapore n. / taglian. 1 unità a vapore di riserva e recupero vapore
da impianto cracking da 151 MW
Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati
2005
Combustibili
gas naturale
off gas (gas da processo petrolchimico)
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Altre produzioni/servizi
acqua dissalata e demineralizzata
Aziende eni coinsediate e servite
polimeri europa
Porto Interno - Mario Capriotti
Villaggio di Pescatori - Mario Capriotti
è cresciuto. «Oggi i suoi antenati
sono protagonisti di questo mondo interconnesso. Non si limitano a sognarlo, lo vivono. Parlano
le lingue, usano la tecnologia,
viaggiano». Non sono più servitori nel castello degli stranieri ma li
accolgono o vanno in altri Paesi
per portare lì la tecnologia che
hanno imparato.
«Gli uomini e le donne di enipower
– dice Rosario – non hanno più bisogno di sognare. Essi vivono da
protagonisti nelle loro comunità.
Sanno che le opportunità contengono rischi che il loro lavoro è,
soprattutto, tenerli sotto controllo
e impedire che possano nuocere». Perché Rosario possa ancora
fotografare una farfalla variopinta posata su un fiore in mezzo al
verde e Mario possa immortale lo
«schifarieddu» con il suo carico di
pesce fresco da portare al mercato
e Vincenzo una gara di vela. Mentre il piccolo Alberto continua a sognare la sua «Turbochiocciola» che
intanto è diventata la mascotte di
enipower e una schiera di graffitari
a colorare le pareti dello stabilimento brindisino.
dove vive enipower
139
taranto
l’altro volto della città
dei due mari
Lo chiamavano «Marche Poll» come
Marco Polo, il grande viaggiatore
veneziano che raccontò l’Oriente
nel suo «Milione», e come il piroscafo
«Marco Polo» sul quale raccontava
che il padre si fosse imbarcato. E con
il suo mitico berretto da «panarijdde»
(il ragazzino di strada, ma anche il
giornale tarantino di cui aveva fatto
lo strillone), Amedeo Orlolla (questo
era il suo vero nome), girando per
Taranto vecchia ne raccontava le
avventure a bordo di quella nave.
Varata nel 1912, fu requisita il 17 luglio
del 1940 e utilizzata in numerose
missioni in Libia. Era nel porto militare di Taranto, nel Mar Piccolo, lì
dove si concentrarono tutte le navi
della flotta italiana, rimanendo però
esposte alle ricognizioni degli aerei
nemici. E quella tragica notte dell’11
novembre 1940 pochi aerei inglesi bombardarono la flotta italiana.
Ci furono 60 morti e 600 feriti. Ma la
taranto
141
«Marco Polo» sopravvisse alla guerra
dei convogli davanti alla portaerei
«Littorio» che veniva colpita da tre
siluri. Poi, però, ne ricordava il suo
triste declino: la cattura da parte dei
tedeschi l’8 settembre 1943, l’affondamento il 12 maggio 1944 a La Spezia,
per costruire la rada e nel dopoguerra
la definitiva demolizione del relitto.
È la Taranto della storia della Marina
Militare Italiana, tra il Mar Piccolo
e il Mar Grande, all’ombra di quel
ponte girevole emblema della città.
Ma è anche la storia della Taranto
fatta dalla gente, dai protagonisti della strada come «Marche Poll». Viso
burbero, la giacca di un paio di misure più larga, pendente su un fianco
e in mano l’immancabile sigaretta.
Nato a Taranto il 27 agosto 1895,
dove è morto l’11 gennaio del 1982,
anche lui ha segnato la storia. Sulla
sua tomba al cimitero «San Brunone»,
in una cappella comunale, i fiori non
mancano mai e neppure le sigarette
che continuano a portargli i passanti.
Il suo sorriso bonario, caricatura di
un’epoca andata, oggi sopravvive
grazie al più diffuso “social network”,
dove gli amici di «Marche Poll» continuano a raccontare la sua umanità
fatta di gesti semplici.
«Aveva svolto i lavori più umili - ricorda zio Cataldo, che lo incontrava sempre nelle strade di Taranto
vecchia - dal garzone di fornaio al
carbonaio, al venditore di girandole
colorate. Ma l’immagine che ho di lui
è con quell’“ammuzzo” (mucchio) di
buste gialle contenenti le schedine
della Sisal, già compilate, che vendeva ai passanti. “A vuè mo? ‘A buste?”
(la vuoi adesso la busta?), diceva con
il suo dolce e impertinente sorriso
senza denti». Perché «Marche Poll»
Due bambini - Leonardo Cuccaro
Pescatori - Leonardo Cuccaro
lo amavano tutti. Credevano portasse
fortuna. Ha venduto schedine fino
all’età di ottant’anni. I tarantini che lo
incontravano per strada, lo prendevano sottobraccio e lo portavano al
bar per offrirgli da bere o per dargli
qualche sigaretta.
«Era il sorriso della città», l’altra faccia
di una Taranto dai due volti e dai due
mari. Della Città vecchia sull’isola e
taranto
143
Montemesola città - Angelo Lisi
il ponte girevole
Quanta storia è passata sotto quel ponte girevole tra il Mar Piccolo e il Mar
Grande, su quel canale scavato nel 1480 a difesa del castello aragonese.
Lungo 400 metri e largo 73, fu inaugurato il 22 maggio 1887. Funzionava
grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio sul Torrione
di San Lorenzo: 600 metri cubi di acqua che in caduta azionavano le due
braccia del ponte.
Il nuovo, costruito dall’Impresa Industriale Italiana, dedicato a S. Francesco
di Paola, patrono della gente di mare, fu inaugurato il 10 marzo 1958,
dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. È costituito da due
semiponti. L’apertura, con un sistema elettrico, inizia con la rotazione di
circa 45° del semiponte lato Città Vecchia, poi con la rotazione di 90° del
semiponte del Borgo, seguita dal completamento della rotazione di quello
lato Città Vecchia.
Si è aperto nel 1965 per far passare l’«Amerigo Vespucci», dopo circa 20
anni ha visto partire la fregata «Grecale» verso il Golfo Persico. Marinai
sull’attenti, il tricolore, l’inno d’Italia, mentre le navi più belle della flotta
italiana tagliano la città. Partenze e ritorni, intorno a quel ponte che oggi,
sempre più di rado, apre e chiude le sue braccia.
della Città nuova del polo siderurgico
e del petrolchimico. Prendeva la vita
con ironia. «Appuendete ‘nnande!»
(abbottonati avanti) diceva al passante sfuggente, lo sguardo inevitabilmente andava alla «braghetta» del
pantalone. Naturalmente era chiusa.
Una piccola beffa, un pretesto per
riderci insieme e poi la classica domanda: «A vuè mo? ‘A buste?». Al
funerale di Amedeo partecipò tutta
Taranto che accompagnò la sua ultima passeggiata per la città tra le note
delle marce funebri della Settimana
Santa. Vestito di bianco come aveva
Barca su sfondo - Antonio De Roma
sempre voluto, accompagnato dal
Sindaco e da tutte le autorità. Ecco,
Taranto è anche questa.
taranto
145
«Taranto era molto più bella e pulita»,
ricorda con nostalgia. E il pensiero
va al mare, alle cozze freschissime
mangiate naturalmente crude («si
dice che noi tarantini ormai siamo
immuni da ogni malattia»), le vere
cozze, quelle di Taranto, «non quelle
greche scaricate nel porto. Ora gra-
leggende, miracoli e tradizioni antiche
Antonio oggi ha 46 anni e anche se
nella Taranto vecchia non ha mai
vissuto, la conosce da quando era
bambino. Tra i vicoletti e gli «stretti»,
(le strette stradine del borgo antico),
lo portava sempre zio Cataldo (lo zio
di uno zio). Cataldo, come il patrono
della città. Il Santo irlandese, le cui
spoglia sono conservate nel Duomo
dell’XI secolo, dalla facciata barocca
e dalla cupola in stile bizantino.
«Placò la tempesta e ci regalò le cozze
più buone del mondo», ripeteva sempre
lo zio pescatore, o meglio «contadino
del mare», veri e propri coltivatori che
tra pali e corde si prendono cura di
quel delizioso frutto custodito tra le
due valve. E in quel Mar Piccolo Antonio ci faceva anche il bagno, una
bella nuotata con gli amici e poi tutti
a raccogliere le cozze. Può dire di essere stato uno di quell’ultima schiera
di ragazzini a essersi tuffati in quelle
acque ancora limpide, come quelle
dello storico stabilimento «Santa Lucia» sul Mar Grande, proprio a ridosso
della città. Ora è in completo abbandono, prima era il lido dei tarantini. Ma
di acque fresche e limpide, Antonio
ricorda anche quelle del fiume Galeso. Un piccolissimo corso d’acqua
di origine carsica. «Uno di quei fiumi
sotterranei della nostra terra – dice
Antonio – l’acqua sorgiva era fredda, e
quando faceva tanto caldo andavamo
lì a fare il bagno».
Tramonto 1 - Michele Sannino
taranto
147
pepata di cozze da “record”
Cozze da «guinness»! è proprio il caso di dirlo. Perché Taranto nella storia dei primati è riuscita ad entrarci realizzando
la «pepata di cozze» più grande del mondo. Quasi quattro tonnellate di cozze per preparare uno dei piatti più tipici
della tradizione tarantina. E così ha strappato il primato ai francesi in una straordinaria «kermesse» che ha visto
all’opera oltre 500 volontari, i quali hanno condito il pregiato frutto del mare di Taranto con 300 chilogrammi di
pomodori, 150 litri di olio rigorosamente pugliese, 750 teste d’aglio, 3 chili di sale, 20 chili di pepe, 150 litri di vino
e 300 chilogrammi di croccanti crostini di pane. E poi tutti in piazza a gustare la «pepata» fatta con la cozza più
buona del mondo. Sempre, anche nella sua semplicità, quando viene aperta dalle mani del pescatore che con il suo
coltello, con gesto veloce, ne stacca il frutto, ci spreme su una goccia di limone e la porta alla bocca: cruda, gustosa,
afrodisiaca, davvero unica.
zie ai continui controlli, nel golfo di
Taranto ci sono solo le nostre: grandi,
succose, davvero uniche».
«Un vero miracolo». E il pensiero va
a San Cataldo, ordinato vescovo da
San Patrizio nel V secolo. Mentre
pregava sul Santo Sepolcro sentì la
voce del Signore: «Vai a convertire
Taranto». La leggenda vuole che San
Cataldo fosse sorpreso in mare da
un’improvvisa e violenta tempesta;
le onde crescevano e l’equipaggio
preso dal timore gli chiese di pregare per la salvezza. Il Santo si tolse
l’anello pastorale e lo gettò in mare.
La bufera si placò e nel punto dove lanciò l’anello l’acqua del mare
diventò dolce e fresca come quella
di un fiume di montagna. Nasce
così il famoso «citro» di San Cataldo,
più noto come l’«Anjedde de S. Catàvede», ben visibile fino a qualche
anno fa.
Perché il vero segreto delle cozze
tarantine sono proprio i «citri», che
in realtà una spiegazione scientifica
ce l’hanno. Sono le tipiche sorgenti
sotterranee carsiche di acqua dolce,
sirene delle barche. Momenti di devozione con la benedizione alla città
raccolta in festa ai lati del canale e
sul lungomare, che accompagna il
Santo nel rientro nella Città vecchia
e nel Duomo. Momenti di folklore
con il Palio, nato del 1986. Una regata di barche a remi tra i rioni della
città, con i marinai che indossano
gli abiti d’epoca e la sfilata storica
in costume che ricorda le nozze
tra Maria d’Enghien e il re di Napoli
Ladislao d’Angiò, avvenute a Taranto
nel 1407.
Altri ritmi, altri gesti, altri segni in
quell’incedere lento e cadenzato
dei «Perdune», i confratelli penitenti,
scalzi e incappucciati, che «nazzicando» (la tipica andatura), sfilano
in processione ai ritmi esasperati
delle «traccole» (strumento musicale in legno con maniglie battenti
in ferro che, agitate ritmicamente,
scandiscono il passo e le soste delle
processioni). Ricordano i pellegrini
che si trovano in Puglia. Quelle che
hanno originato le caratteristiche
gravine delle Murge. Il più grande e
famoso «citro» è quello di San Cataldo che riesce a ricreare nel Mar
Piccolo, un mare chiuso, le condizioni idrobiologiche ideali perché
le cozze possano crescere e avere
quel sapore che le distingue, e che
è dovuto proprio a quelle correnti
di acqua dolce e alla bassa salinità
delle acque in quel tratto di mare.
Ma per tutti rimane il miracolo del
monaco irlandese che a maggio
viene festeggiato nella storica processione a mare. La statua d’argento
esce dal Duomo e sfila in processione su un carro addobbato di fiori
per la Taranto vecchia, poi prende il
largo su una nave messa a disposizione dalla Marina Militare. Tante
imbarcazioni, grandi e piccole, la
attendono e accompagnano il suo
passaggio dal Mar Grande al Mar
Piccolo tra i fuochi d’artificio e le
Gabbiano - Michele Sannino
taranto
149
che si recavano a Roma per chiedere
il perdono dei peccati. E dalla chiesa
di San Domenico, a mezzanotte del
Giovedì Santo parte la Processione
dell’Addolorata, che si protrae fino
al giorno successivo. Poi il Venerdì
Santo dalla chiesa della Madonna
del Carmine un’altra processione,
quella dei Misteri, con le sue statue
ottocentesche in cartapesta, dalla
Vergine Addolorata al Cristo morto e gli altri segni che rievocano la
passione di Cristo.
Tradizioni che si tramandano da
secoli e che riescono ancora oggi
a coinvolgere tutta la città, che di
notte assume un fascino del tutto
particolare.
«Che bella serata», dice Paolo Villaggio nel film di Lina Wertmuller
«Io speriamo che me la cavo», affacciandosi da un balcone della Taranto vecchia di fronte allo splendido
golfo. Uno straordinario e suggestivo panorama dalla «palazzata»
(come la chiamano i tarantini), che
si affaccia sulla ringhiera e guarda
al mare, raccontando la sua storia
secolare racchiusa in quell’ipogeo
«De Beaumont Bonelli Bellacicco».
Fin dall’era geologica, circa 65 milioni
di anni fa, il luogo porta i segni della
Magna Grecia, arrivando ai Bizantini,
al Medioevo e al Seicento. Su tre livelli
in 700 metri quadri e per 12 metri,
la Taranto sotterranea, tra la roccia
calcarea con i fossili dei mitili e lo
sbocco sul mare, con l’accesso diretto
alla battigia sul lungomare.
Quello stesso golfo dove non si affaccia solo la storia, l’arte, l’architettura, la musica di Giovanni Paisiello
e del suo «Barbiere di Siviglia», dove
non ci sono solo i preziosissimi «ori»
del Museo nazionale archeologico,
testimonianza eccellente dell’arte
orafa ellenistica. Su quel pontile si
affaccia anche la grande industria,
quella dell’energia, dove ogni giorno Antonio contribuisce a scrivere
un’altra pagina di storia.
taranto
151
lo stabilimento
giochi e goliardia
nella grande famiglia eni
Contadini «a mare» o «a terra», operai nelle piccole fabbriche manifatturiere o marinai. «La Marina Militare ha occupato la parte migliore
del golfo e dell’attracco tarantino
e con essa - dice Antonio - ha tolto un po’ di spina dorsale, non è
riuscita a sollecitare l’ingegno dei
tarantini». Per loro poi è arrivato il
boom dell’acciaio, migliaia di posti di lavoro, Ilva, Italsider, i grandi
colossi della siderurgia. Altiforni e
ciminiere sono spuntate sul cielo
della nuova Taranto industriale.
Ed è qui che nel 1964 è stata costruita la Raffineria di Taranto,
nello stesso anno in cui si avviò la
realizzazione del Parco Serbatoi
(grezzo) e dei primi impianti di lavorazione su iniziativa della «Shell
Italiana», per coprire il fabbisogno
del sud-Italia. La Shell rimarrà fino
al 1975, quando la Raffineria passerà sotto il controllo nazionale del
Gruppo eni, con il marchio societario di «Industria Italiana Petroli»
(IP), controllata da AgipPetroli e
per piccola parte da Snam.
«Erano gli anni dell’“Austerity” ricorda Antonio - per far fronte
alla crisi petrolifera. Erano gli anni dell’Italia a piedi e delle targhe
alterne, delle compagnie straniere
che cominciarono ad abbandonare il Paese, di una forte scesa in
campo da parte del Gruppo eni per
è è situato all’interno della raffineria eni refining & marketing a nord del
Golfo di Taranto, a pochi chilometri dalla città. La Centrale è composta
da quattro caldaie, un impianto turbogas e quattro turbine a vapore ed è
fortemente integrata con la realtà industriale locale, alla quale fornisce
vapore tecno logico ed energia elettrica, utilizzata dalla raffineria e in
piccola parte ceduta alla Rete di trasmissione nazionale. Sebbene lo
stabilimento gestisca impianti a tecnologia tradizionale, la capacità
cogenerativa e l’utilizzo dei gas di raffineria permettono di ottenere
«performance» confrontabili con gli altri impianti di nuova tecnologia
costruiti da enipower.
Si sta lavorando per realizzare una nuova Centrale a Ciclo Combinato da
240 MWe alimentata a gas naturale in sostituzione dei gruppi alimentati
a olio combustibile, con una consistente riduzione delle emissioni in
atmosfera. Fornirà in modo efficiente e affidabile vapore tecnologico, oltre
che energia elettrica, alla raffineria eni. L’energia elettrica non consumata
in sito sarà esportata verso la Rete di trasmissione nazionale. L’impatto
ambientale sarà minimo grazie all’utilizzo delle migliori tecnologie
disponibili con elevata efficienza del nuovo ciclo combinato (rendimento
ca 54%); utilizzo di bruciatori a bassissima emissione di NoX ; abbattimento
delle polveri e SO2; riduzione di CO2 per unità di energia prodotta.
tutelare i posti di lavoro». Il resto a
Taranto è storia di oggi, di questo
decennio. Nel 2001, gli impianti
legati alla Centrale Termoelettrica
operante all’interno del sito (CTE),
sono stati conferiti a un’altra società del Gruppo eni, la enipower.
«Centrale e Raffineria di fatto sono diventate due cose diverse, ma
per chi ci lavora rimangono sempre la stessa famiglia. Il personale
enipower ha fatto fatica a sentirsi
parte di una società diversa dalla
raffineria. È quell’orgoglio di appartenenza che continua a legarci. E ora il progetto di una nuova
centrale rilancia nuove speranze
tra i lavoratori la cui età media è
tra i 30 e i 40 anni».
Si sentono protagonisti, insieme
sono una bella squadra. Leonardo,
43 anni, voleva entrare in marina,
poi dopo alcune esperienze come
guardia costiera, è entrato in raffineria come operaio specializzato,
aveva 25 anni. Ha coperto tutte le
posizioni. È passato in sala con-
Quattro bambini - Leonardo Cuccaro
taranto
153
Un bambino con ciminiere su sfondo - Leonardo Cuccaro
i numeri della Centrale
Quote
partecipazione enipower
100%
Potenza installata
87 mw
Tipologia impianti
cicli combinati n. / taglian. 1 turbina a gas da 42 MW con caldaia
a recupero
unità a vapore n. / taglian. 2 unità a vapore da 45 MW totali
Combustibili
fuel gas (gas da recuperi di raffineria)
olio comb. a basso tenore di zolfo
Prodotti della cogenerazione
energia elettrica
vapore tecnologico
Altre produzioni/servizi
acqua dissalata e demineralizzata
Aziende eni coinsediate e servite
eni refining & marketing
trollo, poi è diventato capoturno.
«Da turnista, lavorando la notte e
avendo tre giorni liberi, studiavo.
Mi mancano sei esami per diventare ingegnere industriale. Appena posso riprendo». Da «buyer» è
passato al servizio di prevenzione
e sicurezza ambientale. «è difficile
trasmettere alla popolazione che
la nuova centrale da realizzare sarà un bene, mettiamo via i vecchi
generatori a vapore che usano il
vecchio combustibile». E lui a Taranto ci tiene anche se non è più
quella che ha ritratto nelle sue foto: il vecchio borgo, i vicoletti, quel
bambino in calzoncini che si porta
la mano al viso per non farsi fotografare e sullo sfondo le ciminiere
fumanti. Vecchi giochi di bimbi.
Giochi di squadra in centrale, tornei di calcio e cene conviviali per
il piacere di stare insieme, accompagnati da piccoli scherzi e tanta
goliardia a caccia dei «fantasmi
della centrale» e di invisibili cani
al guinzaglio. Antonio, 42 anni, di
Palagiano, la terra degli agrumi a
20 km da Taranto, è un maestro
in queste cose. È lui l’artefice della pergamena con la «Preghiera degli operatori della Centrale
enipower», affissa in bacheca, che
con ironia presenta pregi e difetti
del personale. «Ha preso il posto
di papà Vito e da 13 anni è in eni.
Per due anni è stato in raffineria a
Sannazzaro, poi a Taranto ed ora
lavora in centrale».
Michele, 46 anni, è turnista, lavora
la notte e smonta all’alba. «Il rosso
del cielo si confonde con il rosso
del mare. Che spettacolo l’alba sul
golfo di Taranto. È così bella che
ho voluto fotografarla». Con lui è
la terza generazione che lavora in
eni, dopo il nonno e il padre. Aveva
3 anni quando il padre fu trasferito da Napoli a Taranto nel 1967,
per lavorare prima in raffineria e
poi al pontile. Nel ’90, quando andò in pensione, Michele ne prese
il posto. Taranto è ormai diventata
la sua città. «Ha il lungomare più
bello d’Italia. Ne è fiero come tutta
la squadra di enipower. Noi all’ambiente ci teniamo davvero. Lo dico,
non perché lavoro in centrale, ma
perché qui c’è sempre stata un’attenzione particolare al territorio e
alla città».
Tramonto 2 - Michele Sannino
dove vive enipower
155
Biografia dell’autore
Luigia Ierace, giornalista professionista, è nata a Potenza nel 1960. Laureata in
Giurisprudenza all’Università degli Studi di Salerno, con tesi in Diritto Amministrativo
sul «Garante dell’editoria» (1988). Procuratore legale. E’ iscritta all’Ordine dei
giornalisti dal 1989. E’ redattore alla «Gazzetta del Mezzogiorno» a Potenza.
Collabora dal 2005 con «Il Sole 24 Ore». Si occupa di cronaca, società, ambiente,
cultura, economia con particolare interesse per i temi energetici. Ha seguito
seminari di alta formazione sulla professione giornalistica nel settore energetico ed
ambientale. Dal 2008 è Segretario dell’Associazione della Stampa di Basilicata.
Interviste e testi a cura della giornalista Luigia Ierace
Immagini di Stefano Gattucci
Contributi fotografici tratti dal concorso fotografico rivolto ai dipendenti enipower:
Mario Capriotti, Rosario Cigna, Vincenzo Molinaro, Loris Melloni,
Roberto Mantovani, Fabio Ghio, Roberto La Vecchia, Nicola Mason,
Ottorino Di Leo, Samulele Giglioli, Fernando Capoccia, Simone Franceschetti,
Luca Donelli, Maurizio Dessì, Stefano Bertazzi, Renato Bulfone,
Antonio De Roma, Leonardo Cuccaro, Angelo Lisi, Michele Sannino
Si ringrazia Massimo Caprara per i suoi utili consigli
Un ringraziamento a Daniele Mammolini per l’impegno profuso
nella realizzazione del volume
Progetto grafico e impaginazione Korus srl
Creatività di copertina a cura di Beatrice Remilleux
Stampa Marchesi Grafiche Editoriali spa
Finito di stampare nell’aprile 2010
è vietata la riproduzione non espressamente autorizzata anche parziale effettuata con qualsiasi mezzo
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