Dove vive enipower
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Dove vive enipower
XcjYj]jYenipower ghcf]YX]YbYf[]U X]ica]b]YX]W]hh{ XcjYj]jYenipower ghcf]YX]YbYf[]U X]ica]b]YX]W]hh{ indice presentazione dell’Amministratore Delegato enipower 5 presentazione dell’autore 9 san donato milanese 10 ferrera erbognone 26 mantova 42 ferrara 58 ravenna 74 livorno 90 nettuno 106 brindisi taranto 138 122 5 presentazione dell’Amministratore Delegato enipower Giovanni Milani Osservando le immagini scattate dalle persone enipower e leggendo le parole scritte dalla giornalista Luigia Ierace sulla base delle testimonianze degli abitanti delle città nelle quali siamo presenti, emergono frammenti di”storia”, tradizioni, tipicità in parte sconosciute, dove il particolare di una vicenda umana o di un ricordo, si apre su scenari più ampi. Questo volume è stato pensato e realizzato per essere un omaggio al territorio e in particolare alle Comunità che ospitano i nostri stabilimenti e alle persone che ci lavorano. In occasione della ricorrenza dei 10 anni di enipower; abbiamo voluto ricordarli raccogliendo storie e realtà odierne, senza una precisa logica formativa percorrendo il sottile confine fra realtà e leggenda che da sempre fa parte del patrimonio culturale delle comunità. enipower nasce 10 anni fa in concomitanza della liberalizzazione del mercato dell’ energia elettrica che ha rappresentato un’evoluzione importante e positiva, un reale stravolgimento di posizioni consolidate, portando concor- dove vive enipower 7 renza e quindi la costante ricerca del miglioramento, in un settore nevralgico la possibilità di ringraziare tutti coloro che in questi 10 anni hanno offerto il pro- quale quello energetico. prio impegno e la propria professionalità per consentirci oggi di essere, a distan- Sulla scia degli esistenti impianti per la produzione di energia elettrica e di za di così breve tempo, il terzo produttore di energia elettrica del nostro Paese. vapore negli stabilimenti petroliferi e petrolchimici di eni, viene costituita eni- Un particolare ringraziamento infine a tutte le Comunità in cui i nostri stabili- power che oltre a consolidare il proprio ruolo all’interno delle realtà industriali menti sono inseriti: in questi anni abbiamo posto molta attenzione al rispetto in cui è inserita inizia la propria storia con l’obiettivo di accrescere la sua ca- del territorio che ci ospita anche cercando di contribuire allo sviluppo sociale pacità produttiva utilizzando le migliori tecnologie di produzione esistenti per tramite la promozione di eventi culturali e iniziative a sostegno di opere pub- diventare un importante attore dello scenario energetico italiano. bliche; ci auguriamo che questa attenzione venga percepita come tratto ca- La crescita è stato il vero motore in questi anni: da una potenza installata di ratterizzante del nostro fare impresa; certamente proseguiremo nel cercare di soli 1.000 MW, con sistemi tradizionali costituiti da caldaie a vapore, ed una fare sempre meglio ciò che sappiamo fare per entrare a far parte delle “storie” presenza marginale nel settore energetico Italiano, si è passati ad essere uno che le generazioni future racconteranno. dei primi operatori nazionali, con una potenza installata di oltre 5.300 MW, con moderni impianti a ciclo combinato che ottimizzano al massimo l’energia in ingresso, producendo energia elettrica e vapore, con rendimenti elevati, altissimi standard di sicurezza e bassissimo impatto ambientale. Questo volume vuole essere la testimonianza del cammino percorso, e mi offre Giovanni Milani Amministratore Delegato enipower dove vive enipower 9 A Marilù, la “pagina” più bella che ho scritto A chi ha reso possibili i miei sogni presentazione dell’autore dove vive enipower storie di energia, di uomini e di città di Luigia Ierace Dove vive enipower? Dove nasce l’energia e dove ci sono uomini e città capaci di guardare avanti. L’ho raccontato con l’occhio e la sensibilità del cronista cercando di dargli un volto attraverso le testimonianze, le parole, i racconti di chi vive negli stabilimenti, di chi ci ha dedicato una vita intera o di chi ci ha trascorso anche solo pochi mesi: dal responsabile all’operaio. Sono entrata «in punta di penna» nella vostra vita, nel vostro lavoro, ho raccolto le vostre emozioni e le ho «colorate» con un pizzico di fantasia. Perdonatemi se a volte ho esagerato un po’. Sono così diventate le storie di tutti gli uomini di enipower, di quell’unica rete fatta di tubi, fili ed energia che da 10 anni vi unisce e vi rende unici. Abbiamo cercato di raccontarla insieme. Perché ognuno di voi questo libro possa veramente sentirlo suo. interviste e testi a cura della giornalista Luigia Ierace dove vive enipower 11 san donato milanese «qui sorgerà il Centro direzionale eni» Il «Gatto selvatico»? «E cos’è?». Anche in casa eni non tutti lo ricordano. Ma nei vecchi scaffali della vetrina di Massimo, dirigente a San Donato Milanese, c’è tutta la storia del «cane a sei zampe» che è legata anche a quel “Gatto”. Era l’anno 1955, il mese di luglio, quando usciva per la prima volta la rivista voluta da Enrico Mattei «per assolvere il compito – modesto, ma essenziale – di servire da ideale punto di incontro per tutti coloro che fanno parte della grande famiglia del Gruppo eni». E Mattei pensava a qualcosa di più grande, come sempre: «qualcosa di più» di un mezzo di comunicazione. Lo volle chiamare il «Gatto selvatico», come il «wildcat», che «nel gergo dei seguaci di “Drake” serve a indicare “il pozzo esplorativo”, ossia il trabocchetto che l’uomo scavando nelle viscere della terra, tende al san donato milanese 13 petrolio e agli altri idrocarburi». Dopo 55 anni per rileggere la storia di San Donato Milanese partiamo proprio da quel «Gatto», espressione di un’azienda e di una cultura che hanno segnato un’epoca. È il secondo numero della Rivista, dell’agosto del 1955, infatti, a ospitare un contributo letterario di Giovanni Comisso, giornalista e scrittore, una delle tante prestigiose firme del «Gatto selvatico», (che eni ha voluto recuperare e raccogliere in quell’«Inedita Energia», un delizioso cofanetto giallo, edizione 2008). Il racconto porta il titolo: «San Donato Milanese: la città nuova». Con l’occhio del cronista e la penna del narratore racconta un pezzo di storia, quella del dopoguerra, di Caviaga, del primo giacimento di gas naturale, di Supercortemaggiore, la potente benzina italiana e di quel primo solco «di una città futura, unica in Europa», perché «bisogna assolutamente convenire che noi italiani - esordisce così Comisso – dobbiamo avere un orgoglio: quello di essere fondatori di città nuove». E dopo la visita a San Donato Milanese, accompagnato dai tecnici di eni, può ripetere: «ora tutto l’occulto mistero simboleggiato dal cane a sei zampe è stato per me rivelato». «Appunto nel camminare per uno dei quartieri della città, che sta sorgendo lungo la Via Emilia, assieme a uno di questi tecnici, si era entrambi presi da una vicendevole allegria e ci restavano in accordo le piante fiorite dei portici esterni. Io scherzavo sulla denominazione ancora incerta della città nuova. Riferendomi al nome di San Donato che è quello del piccolo gruppo di cascine attigue (ormai sommerso dalle nuove costruzioni), dicevo: “A cavallo donato non si guarda in bocca”. E i giacimenti di gas naturale, per i quali è stata decisa la costruzione di questa città, sono invero “un cavallo donato”, sicché San Donato andrebbe bene. Invece si trovava che “Città del Metano”, che ricordava Città del Vaticano e Metanopoli, anche tentata, ricordava Forlimpopoli: un nome troppo lungo che in tempi di fretta non può correre». san donato milanese 15 «Qui sorgerà il Centro direzionale eni», disse Mattei con la sua lungimiranza nel 1954, a una quindicina di giornalisti. Era una grande spianata vicino a quel piccolo borgo li; a 5 chilometri c’è la stazione di Rogoredo e poco più lontano c’è l’aeroporto di Linate, che da militare sarà trasformato in civile. Un gruppo petrolifero integrato inter- il passato glorioso della «nuova città» «Cascina Roma», alle spalle della Pieve di San Donato, ospita la Galleria d’arte moderna e contemporanea, un importante centro di cultura della città di oggi. Per il suo impianto architettonico, alle spalle della chiesa, doveva far parte di un complesso monastico, dello stesso periodo del più famoso Monastero di Chiaravalle. Quanta storia è passata in quelle stanze: dal Barbarossa (1158-60) a Ottone Visconti (1295), dal re di Francia Francesco I, vincitore, nel 1515, della cruenta battaglia di Marignano (l’antico nome di Melignano), ai marchesi Orsini a metà Seicento, fino al maresciallo Radestzky nel 1848. Quando scoppiarono le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848), infatti, i cittadini di San Donato Milanese distrussero i ponti che attraversavano i suoi canali e sbarrarono con fosse le strade per impedire la fuga al nemico. Non bastò a salvare Milano che cadde di nuovo in mano agli Austriaci. E fu proprio nella sala prospiciente il cortile della «Cascina Roma» che il 5 agosto 1848 vennero firmati i preliminari per l’armistizio tra Austriaci e Piemontesi. Era il cosiddetto «Armistizio di Salasco», che poneva fine alla fase iniziale della Prima Guerra d’Indipendenza. Davanti al conte Salasco, al podestà di Milano e al maresciallo Radestzky, che aveva il suo quartier generale nella «Cascina Roma», calava il sipario sulle Cinque Giornate. che affondava le sue radici in epoca pre-romana. «È una posizione strategicamente favorevole - diceva Mattei - perché da qui arriverà l’autostrada del Sole Milano-Napo- nazionale deve essere collegato con facilità con tutto il mondo». Era nata una nuova città, per la quale non si era cercata la «monumentalità», come aveva detto Mat- tei nel 1956, durante la visita del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi a San Donato Milanese. «Si è qui voluto predisporre un complesso di edifici organicamente coordinati, che rispondessero allo spirito d’ordine e alle esigenze di gusto del nostro Paese, senza cadere nella banalità e nello squallore delle pure costruzioni funzionali». Era una palude, ne ha fatto una città, stravolgendo lo sviluppo di Milano, il cui piano regolatore negli anni Sessanta era proiettato a nord in una realtà che ancora non era la metropoli industriale. «I terreni a nord, - spiegava Mattei agli studenti della Scuola di studi sugli idrocarburi - costavano 30 mila lire al metro quadro». Troppo cari, «per noi che eravamo ancora troppo poveri» e andò a sud, dove i terreni furono acquistati a 500 lire al metro. È qui che è sorta «una città di lavoro, di studi, una città residenziale». san donato milanese 17 l’ingegnere e il «cane a sei zampe» La vecchia radio-sveglia ancora è lì, sul vecchio comodino in legno di rovere leggermente sbiancato. All’angolino il «cane a sei zampe» e la vecchia scritta Agip. Ma è il telefonino con il suo metallico “bip” a segnare ora il tempo. Un tempo che a San Donato Milanese, sembra scandito da altri ritmi, da una storia che lega il passato al futuro. Sulla vecchia libreria spicca il casco giallo con il «cane» e la scrit- ta eni, poi declinata in tutte le sue divisioni, le «carote» e le «ampolle» dalle diverse forme e misure, contenenti il greggio estratto dai Paesi del mondo dove opera la più grande compagnia italiana. Sparse qua e là, le immagini di Enrico Mattei compaiono ovunque su libri e riviste, giornali e video, cd e dvd. È un piccolo pezzo di storia che rivive nella casa del dirigente, una di quelle destinate ai dipendenti e che Mattei volle per i lavoratori a San Donato Milanese. Un raggio di luce entra dalla finestra e si posa proprio sul «cane» giallo, la sveglia torna a suonare tra Via Caviaga e Via Enrico Fermi e comincia la giornata di Massimo, mentre la nebbia avvolge ancora il viale alberato. Tanto verde. Conifere delle «sue montagne marchigiane», ma anche pioppi cipressini, perché viale De Gasperi, il «decumano» nasce alberato, così come il suo cardo, quelle strade che si intersecano nella rete ordinata che è la nuova San Donato Milanese. Perché al verde Mattei ci teneva davvero tanto. Il pensiero va a quell’episodio raccontato dall’Ing. Egidio Egidi, uno degli uomini che hanno contribuito alla storia di eni, in un’intervista fatta da Alberto Clò il 28 gennaio 2003 a Milano e raccolta in un volume da lui curato “Eni – 1953-2003”. san donato milanese 19 «Un giorno mi chiese di accompagnarlo alla chiesa di Santa Barbara, a San Donato Milanese. Vicino allo stabilimento Snam stavano rimuovendo un albero; si arrabbiò con me moltissimo, sostenendo che avrei dovuto esserne informato e impedirlo». i capolavori della chiesa di Santa Barbara Anche la chiesa di Santa Barbara la volle Enrico Mattei. Per lui era una delle prime necessità «l’assistenza religiosa». Ma voleva una chiesa che non passasse inosservata. A progettarla chiamò l’architetto Mario Bacciocchi, uno dei suoi più stretti collaboratori. Fu inaugurata alla fine del 1955 e divenne sede di parrocchia nel 1963, per decreto dell’allora cardinale Montini, eletto poco dopo Papa Paolo VI. Tante opere d’arte in quella chiesa per la quale Mattei volle valenti artisti: dalla porta di bronzo in cui è incisa la storia della Patrona, opera degli scultori Arnaldo e Giò Pomodoro, al grandioso mosaico raffigurante la Crocifissione, capolavoro del pittore Vincenzo Tomea, che occupa tutta la parete di fondo della navata unica e del matroneo (circa 700 metri quadrati). Sul soffitto spiccano i pannelli di Tommaso Cascella, con simboli biblici e fregi e sulle pareti laterali i quattordici bronzi della Via Crucis, scolpiti da Pericle Fazzini. In piazza, da un lato, il Battistero ottagonale, in pietra viva, dall’altro lato la Torre campanaria e una statua di Santa Barbara in marmo di Aldo Caron. Lateralmente si aprono le cappelle decorate con dipinti e statue. Un’arca in marmo giallo conserva, dentro una raggiera in bronzo, la reliquia della Santa Patrona. Sprazzi di storia, veloci flash che tornano alla memoria, mentre percorre a piedi il viale alberato che lo porta ai palazzi di vetro di eni, passando per la chiesa di Santa Barbara, per il centro sportivo che sta per rinascere nel nome di Mattei, per i laboratori scientifici e per quei locali abbandonati e ora destinati agli ambulatori sanitari. Mattei lo aveva pensato come «il luogo perfetto», non voleva diventasse un quartiere dormitorio e non lo è mai stato, ancor più oggi che San Donato Milanese è una città (lo ha decretato il Presidente della Repubblica il 30 dicembre 1976) con una sua vivacità, una storia, un suo orgoglio. Quanti lavoratori sono arrivati dalle Marche sulla scia di Mattei per abitare in quella che era diventata una piccola «isola marchigiana». Oggi è un bellissimo parco urbano, che segue comunque i ritmi della vita della capitale industriale. La mattina presto, il solito via vai, verso la metropolitana o verso i palazzi di vetro. C’è chi va a lavorare e c’è chi in tuta corre lungo i viali al- berati. Poi la città cala nel silenzio fino al rientro la sera. Nella pausa pranzo, Massimo si ferma a mensa, in quella aziendale, dove spesso amava fermarsi lo stesso Mattei. Lo sguardo si posa su un vecchio numero della rivista del Comune di San Donato Milanese (ottobre 2009). C’è uno speciale che il Governo della città ha voluto dedicare al fondatore di eni. Comincia a sfogliarlo e il passato ritorna in quella frase, sempre attuale, che ben fotografa la realtà del cittadino di San Donato Milanese. «Tutti siamo figli di Enrico Mattei». Scorrono i ricordi e le testimonianze raccolte dal giornale. C’è chi ha lasciato le Marche al suo seguito, chi non lo ha mai conosciuto, ma lo ha visto passeggiare nel Piazzale Supercortemaggiore. C’è chi ricorda che il Presidente in mensa mangiava spesso: «non furono molti i direttori che come lui, vidi fare giri nelle mense dei dipendenti». Ci sono le parole accorate di quanti hanno avuto la fortuna di lavorare con lui. C’è chi ne ricorda i gesti e i gusti. san donato milanese 21 «Il suo piatto preferito era l’arrosto: una ricetta semplice, come voleva lui». «Quando lo preparavo, Mattei si illuminava e mi faceva un sacco di complimenti, – racconta il cuoco –. Lui era un uomo incredibile, sempre gentile e premuroso, non trascurava mai nessuno. Dal garzone al politico eminente trattava tutti come fossero suoi pari». Perché Mattei aveva la capacità «di apparire una persona come tutte le altre: semplice, onesto, generoso e di grande intelligenza. Era un amico prima ancora che un capo. Un dirigente che aveva l’umiltà di fermarsi a parlare con un cameriere». Testimoni di un’epoca, di una storia straordinaria che San Donato Milanese può dire di aver vissuto in prima linea. La lunga giornata di lavoro è finita, Massimo torna a casa. È ormai calata la sera, alle sue spalle le luci del palazzo di eni, ormai vuoto. Davanti il silenzio, il fruscio dei suoi passi, lo zampillio della fontana, il busto di Mattei, i nomi dei protagonisti e dei luoghi legati alla storia dell’energia che danno i nomi alle vie. Le te- lecamere del palazzo continuano a seguirlo. Poi quel filare di case, tutte uguali, disposte in maniera trasversale rispetto alla strada, quattro piani che si affacciano sugli alberi. Il prato è pulito e curato. «Buonasera, Ingegnere. Ha visto che bel lavoro abbiamo fatto. Tutto bene?» È la domanda che ogni sera gli rivolge il suo capo condomino. «Tutto bene», ripete con la gentilezza che lo contraddistingue ed entra in casa. Il cane a sei zampe ammicca dalla radio-sveglia sul comodino. Domani sarà un altro giorno. san donato milanese 23 bolgiano lo stabilimento dove nasce l’energia che illumina e riscalda Metanopoli Se San Donato Milanese realizza il sogno visionario di Mattei, il piccolo borgo di Bolgiano nasce per dargli quell’«ossigeno» che gli consente di vivere: l’energia elettrica e termica che alimentano uffici e abitazioni. «È qui che eni e Snam negli anni Cinquanta per la prima volta svilupparono un sistema energetico autonomo, basato su concetti innovativi come teleriscaldamento, cogenerazione, trigenerazione ed efficienza», sottolinea Diego, 34 anni, ingegnere meccanico, responsabile dello Stabilimento di Bolgiano. Già dagli anni Ottanta la Centrale di cogenerazione garantisce il riscaldamento, il raffrescamento, l’acqua calda e l’energia elettrica per Metanopoli e per Bolgiano. «Entriamo quotidianamente nelle case dei cittadini con i nostri servizi – spiega Diego – ma in pochi sanno di cosa ci occupiamo. Per questo abbiamo pensato – nell’ottobre dello scorso anno – di aprire a tutti le porte della “nostra centrale”, per mostrare cosa facciamo e cosa significa trigenerazione. Oggi se ne parla tanto, ma per noi è una realtà dal 1970. Siamo la prima Centrale in Italia per quantità di calore prodotto per trigenerazione periferica. Abbiamo ritenuto importante – continua Diego – portarlo a conoscenza delle persone, raccontare perché è Dal 1° gennaio 2010 enipower ha acquisito da eniservizi la proprietà e la gestione della Centrale di Cogenerazione di Bolgiano e delle sue reti di distribuzione. Dedicata alla produzione e distribuzione di energia elettrica e di energia termica ai palazzi Uffici di eni oltre che a scuole, asili, case e strutture ospedaliere di San Donato Milanese, è ai primi posti in Italia per trigenerazione periferica, fornendo calore per il riscaldamento invernale ed il raffrescamento estivo. Nata nei primi anni ’80 e ampliata negli anni ’90, è composta da turbine a gas con recupero di calore, alimentate a gas naturale. L’energia termica prodotta è distribuita attraverso una rete di teleriscaldamento ad acqua surriscaldata di circa 56 km, senza stazioni di pompaggio intermedie. Il riscaldamento invernale è fornito a circa 4 milioni di mc, mentre il calore per il raffrescamento estivo a circa 960 mc, per un totale di energia venduta pari a circa 194 mila MWht. L’energia elettrica cogenerata può essere immessa nella Rete di trasmissione nazionale o distribuita attraverso una rete privata in media tensione di circa 10 chilometri con 36 cabine di MT/BT; la produzione media annua è di oltre 126 mila MWh. è previsto il «revamping» della centrale con la sostituzione degli impianti esistenti con una turbina di derivazione aeronautica (42 MWe), due motori endotermici cogenerativi (circa 9 MWe ciascuno) e un sistema di stoccaggio dell’energia termica di circa 3000 metri cubi. nata, cosa produce, condividendo con i cittadini il valore di questo impianto sul territorio». Ne parla con l’orgoglio di chi contribuisce quotidianamente a tutto questo con passione. Cresciuto a Rimini, appena laureato ha inviato via internet il curriculum a enipower, ed è stato assunto nella Centrale di Ravenna dove ha fatto la sua prima grande esperienza. «Ho subito capito che quello che s’impara sui libri è un’altra cosa; dai “veterani” della Centrale ho imparato tantissimo poi mi sono trasferito a Milano allo sviluppo tecnologico, ho fatto per un po’ lo “studioso”, guarda caso proprio per il progetto della nuova Centrale di Bolgiano. Ora sono qui in Centrale da poco più di un anno, ho lasciato definitivamente il mio mare di Rimini per vivere e lavorare a Milano, con la mia compagna e un bimbo che ha solo qualche settimana». Da Bolgiano a San Donato Milanese, dall’ingegnere, al capo turno, al turnista. Sono un po’ tutti «figli» di Mattei. Palmantonio, capo turno, la centrale l’ha vista nascere e ne ha raccontato la storia in un volume: “Da Anic di Pisticci… a EniServizi di San Donato Milanese”. Venticinque anni di storia, ricordi, testi- san donato milanese 25 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 40 MW Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 4 turbine a gas con caldaie a recupero da 40 MW totali unità a vapore n. / taglia n. 1 caldaia di riserva a gas naturale Combustibili gas naturale Prodotti della cogenerazione energia elettrica acqua surriscaldata Altre produzioni/servizi teleraffrescamento monianze. «Come non ricordare l’emozione vissuta quando iniziai a girare tra le cabine elettriche di Metanopoli e scoprii la cabina di Via Pisticci». Che brivido nell’accarezzare quel cartello che ricordava il suo paese d’origine e il primo lavoro all’Anic in Basilicata. «Mi chiamavano terrone e io ricordavo con orgoglio le parole dello statista Francesco Saverio Nitti: “Che significa la parola terrone”? Se significa uomo della terra, ebbene io mi sento terrone». E il pensiero andava alla prima volta che la madre venne a Milano da Pisticci. «Indossava con fierezza il costume tradizionale dei contadini “a pacchiana” quello delle feste e delle grandi occasioni». Sono passati più di trenta anni da turnista è diventato capo, vive a Milano con la moglie e i suoi due figli. La sua storia si intreccia con tutti i suoi colleghi di lavoro. Franco, 45 anni, addetto alla gestione elettrica, è subentrato a papà Luigi, oggi 79 anni. Lavorava all’autoreparto, quello che gestiva le macchine blu e ha conosciuto Mattei. «Metanopoli l’abbiamo vista nascere, c’era solo il primo palazzo eni. Abitavamo nelle case aziendali. Quanta attenzione per tutti noi, eravamo portati sul palmo di una mano; per i figli dei dipendenti c’erano le colonie, il centro sportivo, le piscine, i campi da tennis. È una fortuna e un vanto lavorare qui in Centrale. Qui nulla è lasciato al caso, anche oggi così come avveniva all’epoca di Mattei. Ogni volta che mio padre lo ricorda, ha sempre le lacrime agli occhi. “Era una persona semplice, comune, uno di noi insomma”». Anche il papà di Pietro, 40 anni, ingegnere in enipower lo ha conosciuto a una delle cene in cui incontrava i giovani ingegneri. «Lui e mia madre lavoravano in Snam. Arrivavamo da Genova, avevo tre anni e una delle cose che mi è rimasta impressa è la maglia bianco azzurra del Bolgiano. Una partita di calcio, una delle tante, contro la squadra della Snam. Avevano una divisa perfetta, gialla come il colore del cane a sei zampe che ne era anche lo sponsor. Loro erano i ricchi. Ma quel giorno i poveri del Bolgiano l’hanno avuta vinta quella partita. E il coro dei tifosi “Olio, petrolio e acqua minerale per vincere il Bolgiano ci vuol la nazionale”». dove vive enipower 27 ferrera erbognone come un grande museo del paesaggio Ferrera Erbognone, nome altisonante per un piccolo borgo di poco più di 1.100 abitanti a sud di Pavia, nella Lomellina meridionale. «Sono tante e discordanti le versioni degli storici sull’origine del nome», spiega Umberto, 42 anni, scrittore e giornalista. È la memoria storica del paese. Ne conosce luoghi e storie, curiosità e personaggi. Passa il suo tempo nella biblioteca comunale e alla scoperta di castelli e musei contadini della Lomellina. Secondo alcuni, il toponimo “ferraria” dal latino si riferisce alle vene di ferro presenti nel sottosuolo, secondo altri alle officine di lavorazione del ferro o alle qualità straordinarie dell’acqua di temprare il metallo. Ma potrebbe riferirsi anche a Giove Feretrio, divinità venerata dai romani. Certo è che sulle origini del nome ancora si discute. ferrera erbognone 29 Casale su Roggia 1 - Roberto La Vecchia Casale su Roggia 2 - Roberto La Vecchia Erbognone, invece, è l’omonimo torrente che si chiama così solo nell’ultimo tratto, quando attraversa il territorio di Ferrera, perché più a nord è noto come Arbogna, dal nome gentilizio latino «Albonius». E proprio a questo torrente che si lega anche il soprannome dato agli abitanti: «spaciapulè», ruba polli. Per le frequenti esondazioni, infatti, i cittadini rimasti senza provviste erano costretti a scappare, e spesso rimanevano feriti (di qui ferraria), o ad anda- re nei paesi vicini a rubare per sopravvivere. Ma i giovani preferiscono l’allusione a «Don Giovanni», rubacuori, insomma, con pizzico di piaggeria in un paese prevalentemente agricolo, dove, naturalmente, la risicoltura ha un ruolo fondamentale. Fra le aziende agricole, la «Gattinera», la grande cascina, nella confluenza tra l’Erbognone e l’Agogna, che nel 1489 Oddone Sannazzaro (Ferrera fu per un periodo feudo dei Sannazzarii) aveva venduto a Marco Gattinara. Poi divenne «Gattinera», ed è una delle poche cascine oggi rimaste ancora attive. «Stiamo riscoprendo i cunicoli segreti che partivano dal fabbricato ed erano utilizzati dai monaci domenicani per la fuga in caso di pericolo», ricorda Umberto che, oltre ai libri e alla storia, guarda al paesaggio e al territorio della Lomellina come un museo da scoprire e difendere. la «pasionaria» Maria Provera Correva l’anno 1912 e un canto, «Il 24 maggio a Ferrera», ancora ricorda quell’imponente sciopero di mondine che portò all’arresto della «pasionaria» Maria Provera. La federazione dei lavoratori della terra aveva indetto manifestazioni per ottenere le otto ore di lavoro giornaliere. Ma si temeva che le «forestiere» potessero boicottare lo sciopero. Si cercava quindi di fare un’opera di persuasione anche su di loro perché non accettassero orari di lavoro più lunghi. Ma era difficile convincerle perché venendo da fuori erano le più deboli, senza una famiglia vicina o comunque un gruppo sociale a sostenerle. A Ferrera, il 24 maggio, ci sono dei veri e propri scontri, le mondine si sdraiano a terra davanti alla cavalleria. Alla fine, sprezzante, il commissario fa andare tutte a casa e si accontenta di arrestare Maria Provera, mondina, probabilmente una di quelle che capeggiava la protesta, e Eugenio Riba, segretario della Federazione collegiale di Sannazzaro. Nella canzone si cita il «sultano», soprannome del fittabile locale, che a quel tempo deteneva il potere economico e spesso anche amministrativo. Ma le mondine contro la cavalleria è un canto a lieto fine: i due arrestati tornano a casa dopo 13 giorni e si fa festa Chiusa su canale - Roberto La Vecchia ferrera erbognone 31 Monumento ai caduti - Fabio Ghio C’erano i nobili, proprietari delle cascine, e i «fittabili» che le ricevevano in fitto e le gestivano per un periodo di uno o cinque anni: da un «San Martèn» a un altro. Si prendeva infatti come giorno di riferimento la festa di San Martino, l’11 novembre. Alla scadenza, o il contratto veniva rinnovato o si doveva «fa’ San Martèn», cioè fare il trasferimento. In cascina c’erano poi i salariati, i braccianti («paisan’») che lavoravano a giornate e le forestiere, quelle mondine che arrivavano dai paesi vicini. «Il mio bisnonno Salvatore, ai primi del Novecento – ricorda Umberto – era un piccolo proprietario terriero, possedeva una ventina di “pertiche” all’interno della cinta dell’attuale Raffineria». Una posizione ideale per la coltivazione del riso, ma anche per il nuovo polo industriale che si andava sviluppando. E così nonno Giovanni che aveva ereditato quel piccolo appezzamento di terreno, negli anni Sessanta lo cedette a una Strada con canale e elettrodotto - Fabio Ghio Albero - Ottorino Di Leo Piazza con bambini in bicicletta - Fabio Ghio società del Gruppo eni per la quale poi lavorò come meccanico. «Ricordo quando ero bambino e mi raccontava di Mattei, di quando era andato a vedere il giacimento di Cortemaggiore. Per tutti era il simbolo dell’efficienza e dell’industria, ma anche della grande attenzione all’ambiente e al territorio». E quando i lavori della Raffineria furono conclusi si attendeva l’arrivo di Mattei per l’inaugurazione. «Non fu mai inaugurata – ricorda l’Ingegner Giovanni, che in Raffineria è entrato 30 anni fa, ma ricorda i racconti dei padri fondatori dell’impianto –. Li chiamavano i «peritoni» tecnici. Erano tutti di Fermo, marchigiani; molti venivano da Ghana e Tanzania per fare esperienza negli impianti italiani. Ricordo uno di questi giovani africani, altissimo, un vero “watusso”, non diceva una sola parola in italiano, ma parlava benissimo in dialetto ferrerino». ferrera erbognone 33 Ghiacciaia - Fabio Ghio di vederlo, è un’immagine che rimane impressa nella memoria. Un vento leggero muove l’acqua, è un gioco di colori che si riflette in quel caleidoscopio naturale. Un bozzetto che Rita, la moglie di Giovanni, l’«Ingegnere», ha sempre sognato di dipingere quando il marito, tornando a casa a Vercelli, le raccontava di quello straordinario gioco della natura. E lui, sempre pronto alla battuta le rispondeva. « È una magia per pochi», quasi geloso custode di quell’immagine. Il paese, la gente, i luoghi gli avevano subito richiamato alla memoria le immagini legate a Don Camillo e Peppone. Un borgo contadino che non ha la ricchezza di testimonianze storiche come la vicina Lomello che lega la sua storia a quella della regina Teodolinda, ma ne subisce la sua influenza. «Voglio farlo conoscere a Marta», aveva detto Giovanni, sindaco del paese, dopo il loro la magia del nostro mare «a quadretti» Il lavoro è finito, sono passate le 19 quando Roberto lascia la Centrale. Guarda il cielo. È terso. Si vedono anche le stelle. «È in serate come queste – ripete tra sé – che comprendo il fascino di questo piccolo paese dove gli inverni sono freddi e la nebbia sembra non finire mai». Perché Ferrera Erbognone ha una sua bellezza fatta di dettagli che la rendono per certi versi unica, come quel «mare a quadretti» o «a scac- chi». è così che i ferrerini chiamano le risaie quando si aprono le chiuse e si allagano i campi squadrati, uno alla volta, come un’enorme scacchiera, si riempiono d’acqua per pochi centimetri. «Sono momenti magici: ogni quadrato diventa un tassello di un unico grande specchio nel quale si riflettono le lontane Alpi e spicca la vetta del Monte Rosa». Uno spettacolo raro, ma per chi ha avuto la fortuna Granoturco - Roberto La Vecchia incontro. Il primo cittadino allora gli aveva parlato di Umberto. «È un’ottima guida; è l’uomo giusto, sa tutto di Ferrera e dei ferrerini». «Marta è un’esperta di letteratura medioevale – avevo spiegato al sindaco – È nata anche lei a Palermo e ha visto Ravenna dove ho lavorato per un paio d’anni, prima di quei «profondi cambiamenti del sito di Ferrera nell’anno 2008, come li chiama l’Ingegnere, che riferendosi a me, ferrera erbognone 35 Chiesa - Nicola Mason dice scherzosamente che ho scelto “il Battistero di Teodolinda in cambio del Mausoleo di Teodorico”. E così, seguendo le indicazioni di Umberto, sono diventato il Cicerone di Marta. Le ho parlato delle Chiese di Santa Maria della Fede e di San Stazione - Roberto La Vecchia Giacomo, di cui si è persa ogni traccia, ma nei cui pressi sorgeva la ghiacciaia di Via Giovanni da Ferrera. Una struttura sferica a mattoni, perfettamente conservata, un frigorifero “ante litteram” utilizzato per la conservazione del cibo». Nel Medioevo il borgo sicuramente fu fortificato: l’unica testimonianza la «casaforte» di Corso della Repubblica. La Torre campanaria costruita nel XII secolo in mattoni a pietra vista come appare oggi e utilizzata come torre di avvistamento. Una leggenda tramandata dagli anziani vuole che la torre fosse già in piedi durante il periodo della regina Teodolinda nel VI secolo d.C.. E sempre secondo una leggenda nelle sale dell’antico Palazzo Strada, famiglia di nobiluomini, vagherebbe il fantasma di Ugo Strada. Alla fine dell’Ottocento era noto come Palazzo Spinelli, oggi è sede della biblioteca comunale e conserva alcune pre- Campanile - Roberto La Vecchia Ma da Ferrera Erbognone parte l’ecomuseo del paesaggio lomellino, fatto anche di campagna, lunghe distese di verde, filari di pioppi, aironi e fagiani, pannocchie e risaie, echi di canti delle mondine, ruderi nel bosco, casali sul Canale della Roggia e profumi, quello dei il Palio dello «Spaciapulè» gevoli volte affrescate. Altra tappa nella romanica chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista che ospita un pregevole dipinto del Moncalvo. «Spaciapulè». Per alcuni «ladri di polli», per altri inguaribili «Don Giovanni». Ma quell’appellativo attribuito ai ferrerini ha dato vita nel 2004 al Palio dello Spaciapulè, una serie di gare animate dai rioni «Mulén» (antico mulino), «Giasèra» (antica ghiacciaia), «Arbugnón» (torrente Erbognone) e «Cà mat» (quartiere delle Case matte o, secondo un’altra interpretazione, amate) che si tiene il terzo sabato di ottobre nell’annuale Sagra di ottobre. Si parte con il gioco artistico: canzoni, balletti e scenette in dialetto lomellino. Poi il gioco del «Gravisén» (tutolo della pannocchia), per cui si dovranno sgranare le pannocchie di mais in un mastello: i concorrenti dovranno utilizzare le mani o un pezzo di Gravisén ottenuto da quelli già sgranati. Il gioco della Cerbottana consiste nell’abbattere 15 latte utilizzando solo semi di granoturco. Il gioco della Balera: i concorrenti dovranno superare la prova di quattro balli tipici (valzer, mazurka, polka e tango) tenendo una palla premuta tra le fronti. Infine, il gioco della «Galéna»: i concorrenti, con le mani legate, dovranno far entrare nel pollaio, entro sette minuti dall’inizio del gioco, due galline liberate nel recinto senza che ci sia contatto fisico. ferrera erbognone 37 Tramonto sul fiume - Roberto La Vecchia caminetti scoppiettanti nelle fredde serate d’inverno, delle botteghe artigiane. «Mio padre Giuseppe, ora in pensione, era un’orafo», gli aveva detto Umberto. Sembra che il tempo si sia fermato, la vecchia ferrovia fa venire alla mente altre epoche, quando le vecchie locomotive andavano a vapore, poco distante dietro un boschetto, una distesa verdissima e spiccano gli impianti della nuova Centrale di enipower, punta massima della tecnologia energetica in un territorio dove però l’ambiente rurale è rimasto integro come un tempo. Forse per questo Roberto, 35 anni, da 10 anni in eni, in una serata come questa, mentre torna a Milano, riesce a sorprendersi guardando il paesaggio. Passa per Scaldasole, un piccolo paesello, non bello quanto il nome che porta, sicuramente evocativo, in una fredda ma stellata serata invernale come questa. Marta lo aspetta a Milano, 70 chilometri. Ha scelto di fare il pendolare. Si sono sposati meno di un anno fa. Palermo ce l’hanno nel cuore, un po’ anche Ravenna. Ma hanno imparato ad amare anche Ferrera Erbognone per tante piccole cose. E qualche giorno alla settimana si fermano volentieri anche in Lomellina. È una bella giornata di sole, seduto Piazza con struttura metallica - Fabio Ghio su una pietra lungo le rive del torrente Antonio guarda l’acqua scorrere. Più avanti ci sono le chiuse e il sentiero che porta a quel rudere nel bosco. Un’immensa distesa verde e sullo sfondo la Centrale. «Ingegnere, mi raccomando, che sia sempre tutto così bello». ferrera erbognone 39 lo stabilimento una squadra davvero imbattibile Ha 59 anni. È tra i più anziani a lavorare nella Centrale enipower. Per tutti Giovanni è solo l’«Ingegnere» Da oltre 30 anni fa parte della grande «famiglia» eni. Nel 1979, è entrato nella Raffineria di Sannazzaro. «Poi è iniziata l’“avventura” di costruire la Centrale: 1000 Mwe da montare, 1200 lavoratori da seguire, 9 km di elettrodotto e gasdotto. Una bella patata bollente ma una soddisfazione enorme quando sia- mo riusciti a realizzare tutto in 18 mesi, ci sarebbero voluti 5 anni». Ma anche una grande responsabilità per l’«Ingegnere Vis», lo chiamano così per via dell’impianto di compressione termica Visbreaking della raffineria, ma anche «zio», un po’ per rispetto, un po’ per simpatia. È nato a Vercelli e continua a vivere lì, con la moglie Rita, insegnante. «L’abbiamo scelta solo perché era in una posizione baricentrica: 55 Lo stabilimento di Ferrera Erbognone inaugurato nel 2004 è il primo nuovo impianto realizzato in Italia dopo la liberalizzazione del mercato elettrico. La Centrale è alimentata con gas naturale e con gas di sintesi. è integrata alla vicina raffineria eni refining & marketing di Sannazzaro de’ Burgondi, da cui riceve, oltre al gas di sintesi, parte delle «utilities» necessarie (ad es. acqua demineralizzata) e a cui fornisce vapore. è composta da tre gruppi cogenerativi a ciclo combinato: due gruppi gemelli alimentati a gas naturale e un altro alimentabile sia a combustione mista, con gas di sintesi, che a gas naturale. La potenza elettrica massima di 1030 MWe. L’impianto si distingue per l’utilizzo di un sistema di raffreddamento mediante condensatori ad aria: il consumo d’acqua è così limitato al reintegro dell’acqua demineralizzata utilizzata per produrre vapore. Il gas di raffineria, utilizzato da marzo 2006, è prodotto da un impianto di gassificazione di idrocarburi pesanti che permette un utilizzo innovativo degli stessi idrocarburi, garantendo, con una tecnologia all’avanguardia, la segregazione degli inquinanti presenti (zolfo, ceneri e metalli) e la produzione di un gas di raffineria che può essere impiegato come combustibile in turbina a gas. La maggior parte della produzione di energia elettrica è destinata al mercato elettrico (96%); il vapore prodotto è ceduto alla raffineria. chilometri a sud verso il mio lavoro a Ferrera Erbognone, 58 chilometri a nord per Ivrea, dove mia moglie insegnava arte. La stessa passione che ha trasmesso a mia figlia Irene, ora all’Università a Firenze». se a Ferrera Erbognone e Sannazzaro ci torna finito il lavoro per giocare a tennis, per i tornei con la sua «imbattibile squadra», quella di enipower, ormai messa a punto dopo i «trasferimenti e il calcio mer- E da allora tutto è rimasto così: lei continua a dedicarsi ai suoi acquerelli, alle sue nature morte; lui, a quaranta minuti da casa, anche cato» che vanta tra i nuovi acquisti anche un noto rugbista a rinforzo della squadra di calcetto. Mentre si sono dati appuntamento davanti ferrera erbognone 41 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 1030 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale da 390 MW - n. 1 ciclo combinato a gas di sintesi da 250 MW Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2003 Combustibili gas naturale gas di sintesi Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Bruciatori velonox unità n. 1 & 2 Aziende eni coinsediate e servite eni refining & marketing alla Centrale quelli della squadra elettrica di ciclismo per la gara a cronometro. «Nonostante gli anni, i miei 40 chilometri in bici da corsa, riesco ancora a farli». Merito del nonno che a Vercelli costruiva biciclette. Insomma, un dopolavoro davvero molto vivace. Ma il pensiero torna lì, alla «sua» Centrale. «Ricordo quando dovevamo costruirla in una zona incolta, dove c’erano 54 daini, di cui 7 femmine gravide. Ero il responsabile della sicurezza e dell’ambiente. Non potevamo rischiare di perderne neppure uno. Facemmo addirittura un’inserzione sul giornale per trovare persone o parchi disposti ad accogliere questi animali. Mi telefonò un ristoratore dicendomi che li avrebbe presi volentieri tutti, ma per portarli in tavola. Tutti, tranne un maschio, che avrebbe messo nel giardino del suo ristorante per farci giocare i bambini. Invece, ri- uscimmo a farli entrare tutti in un recinto e li portammo nel Parco di San Donato Milanese. Per compensare l’ambiente, piantammo tanti alberi, piano piano sono diventati un bosco e ora sono il mio orgoglio quando mi affaccio dalla Centrale e vedo che è completamente in mezzo al verde». Il piccolo borgo di Ferrera Erbognone ha conquistato tutti. Anche Cesare, 38 anni, capoturno, viene da Brindisi. «È un anno che nevica. Mi manca il mio mare e la sabbia. Intorno a me risaie e zanzare ma i rapporti umani compensano tutto questo. Siamo in pochi e tutti giovani in Centrale. C’è un forte senso di appartenenza e non ci si sente un numero». Federico, 31 anni, è abituato a neve, nebbia, ghiaccio e zanzare. Aveva 23 anni quando è entrato in enipower, ora è responsabile di turno. Angelino, 25 anni, ferrerino doc, ama tutto del suo paese. «Ci sono due bar, in uno facciamo i tornei di scopa con gli amici, non mi piace giocare a carte ma è un modo per stare in compagnia e il sabato si va a Lomello, c’è un locale dove si sente musica dal vivo, e alla fine si balla sui tavoli. I giovani di solito vanno a Voghera e Vigevano dove ci sono bei locali». Classe 1987, Fabio ha 22 anni, è il più giovane lavoratore in Centrale. A Ferrera Erbognone ha frequentato le elementari, a Sannazzaro le medie. La fidanzata è a Voghera. Ma lui rimane ferrerino. Lo è ormai diventato Giacomo, 60 anni, di Trapani, la Centrale enipower l’ha vista nascere. Dal 2001 è il custode, la guardia giurata. «Sembrava una città che cresceva a giudicare dal numero dei lavoratori impegnati. E quel pezzo di terreno, man mano che passavano gli anni, si trasformava, la prima caldaia, la seconda e quel paesino ha cominciato a vivere, il bar, gli operai, le imprese. Oggi Ferrera Erbognone è bellissima e attrezzata e la Centrale è l’orgoglio non solo di chi ci lavora». Da 26 anni Giacomo vive qui e ha imparato ad amarne anche i suoi sapori, come la polenta della Lomellina con lo stufato d’asino o con i pezzettini di carne di fagiano, lepre o coniglio, o le triglie e lo sgombro con aglio, olio e peperoncino. Ma quando sente la nostalgia della sua Trapani, di Favignana o Pantelleria, cerca i posti dove si cucina il «couscous». Meglio se ci pensa la moglie Anna con la classica ricetta trapanese. «Quello originale tunisino si fa con la carne ed è piccantissimo. Noi a Trapani, invece, il “couscous” lo facciamo con diverse varietà di pesce: scorfano, gallinella, anguilla, crostacei e frutti di mare, ma poco piccante. Per finire non possono mancare i cannoli siciliani, li ho trovati a Milano, da un pasticcere trapanese». Un pizzico di Sicilia in quella Ferrera Erbognone che ora è diventata la sua seconda patria. dove vive enipower 43 mantova il piacere di essere parte di una grande avventura «Allora eravamo Montedison». Inizia sempre così la storia di quelli che nella centrale ci hanno passato una vita e ne hanno seguito tutte le tappe fino ad oggi. «Ora siamo enipower. È una lunga e irripetibile esperienza – dice Mario, 58 anni, di Mantova, responsabile di produzione –. Sono soddisfatto per la possibilità che mi ha dato la mia grande azienda. Ma spero che per quelli che verranno dopo di me, si possa ripetere un cammino così entusiasmante, perché il lavoro, prima di tutto, deve essere un piacere. E per me lo è sempre stato». Aveva 26 anni quando presentò domanda per entrare nello stabilimento della Montedison, dopo aver girato l’Italia al seguito di un’azienda elettrica milanese che faceva impianti elettrici industriali e anche per centrali. «Una dottoressa mi fece il primo test psico-attitudinale, poi mi chiamarono per la prova: lo scritto la mattina e il mantova 45 pomeriggio l’orale. “Ti faremo sapere”, mi dissero. E dopo qualche giorno mi chiamarono per la visita medica. Fui assunto il 4 aprile 1977. Non mi fecero il contratto il primo aprile, chissà, forse perché sembrava tanto un pesce d’aprile», ripete sorridendo. Perché Mario si è sempre ritenuto fortunato per quello che ha potuto fare. Da elettrico venne inserito nel settore termico della centrale. Piazza delle Erbe - Maurizio Dessi Allora in fabbrica vigeva il modello americano, proprio di quegli stabilimenti nati all’inizio degli anni Cinquanta che andavano nella direzione della specializzazione. Poi il primo passo avanti, a fine anni Ottanta, con la nomina a capoturno nel settore elettrico, mentre non perdeva l’opportunità offerta da eni di arricchire il suo bagaglio formativo partecipando ai corsi di formazione mirati alla crescita professionale. «Tanto che nel giro di sei mesi sono arrivate due promozioni: prima come assistente di giornata e subito dopo come capo-reparto. Sono subentrato a due colleghi andati in pensione», ripete con un po’ di modestia, ma consapevole che quei passaggi sono stati possibili solo perché la sua azienda continuava a fornirgli gli strumenti per crescere. Nel 2000 arriva enipower e nel 2002 comincia una nuova sfida con l’incarico di responsabile di produzione delle centrali, sia per la parte elettrica che Ragazza in bicicletta - Maurizio Dessi mantova 47 Castello San Giorgio - Luca Donelli gli impianti con l’avvio della costruzione di quello a ciclo combinato che partirà nel 2004. «Ho visto qualcosa di nuovo, non ho partecipato alla loro costruzione, ma mi sono occupato di loro – dice Mario – si può dire che li ho visti nascere e crescere. Li ho seguiti dal loro avvio fino ad oggi. È stata un’altra opportunità». Mantovano «doc» è uno di quelli che ci tiene davvero tanto alla sua città e alla sua «storia di terra e di acqua», legata a quel popolo di contadini e «scariolanti» che con le loro carriole bonificarono la palude. «Abito a tre chilometri in linea d’aria da questo stabilimento e posso affermare, con orgoglio, che le condizioni ambien- tali sono migliorate tanto passando dalle vecchie alle nuove tecnologie». Ma non è solo un fatto di impianti, per Mario «dietro c’è l’anima di chi le ha costruite, pezzo dopo pezzo. Ho visto da vicino i ragazzi che si sono impegnati per riuscire nell’impresa. Abbiamo raggiunto risultati straordinari». E detto da chi ama la natura come lui è davvero una garanzia. «Sono legato al Bosco Virgiliano, è un posto a me tanto caro, lì c’è un maneggio e mi dedico alla mia passione per l’equitazione». A casa, dopo lavoro e “hobby”, lo aspetta la moglie, Vanna, che invece ama la cucina, quella mantovana naturalmente. Il suo piatto forte, è il risotto alla «pilota» o i tortelli di zuc- ca, il piatto dei Gonzaga. «Ci vuole l’amaretto dentro. È l’ingrediente che ci distingue da quelli ferraresi». Una vita di lavoro che idealmente continua in Matteo, suo figlio, ingegnere elettrico. Un mondo che è riuscito a fargli amare, forse solo portando a casa il piacere di essere stato protagonista di una grande avventura. una storia di terra e di acqua Una piccola isola tra il Po e il Mincio. Questa è Mantova, la città di Virgilio e dei Gonzaga, del Mantegna e di Giulio Romano, di donne importanti come Maddalena di Canossa e Isabella D’Este, ma anche di personaggi singolari e un po’ bizzarri come Doride Bertoldi, prete e cantore della tradizione contadina, tanto legato a quel mondo fatto di fossi e risaie, di campi assolati e nebbie profonde. È l’autore di un classico della poesia dialettale mantovana: «La musa paisana», una raccolta di liriche pubblicate nel 1923 da Anfibio Rana, pseudonimo del sacerdote, che seppe cantare quell’universo fatto di braccianti e mondine, di sogni e aspirazioni deluse, una denuncia sociale condita con una vigorosa carica di ironia. Molte sono diventate espressioni vivaci e colorite piccoli intercalari usati ancora oggi nel linguaggio comune come «Sant’Antoni chi solèr», suoni dal sapore povero e antico di quella Mantova che rivive in quelle sagre e feste popolari, e degli antichi fasti della piccola cittadella nell’«Isola del Tè» tra regate e feste sull’acqua, giardini, fontane, statue, viali alberati e palazzi monumentali. Ma Mantova è ancora tutto questo. per quella termica. Si avvertono i segni del cambiamento. Si passa dal taglio specialistico della vecchia organizzazione lavorativa a un nuovo modello che non ha più come punto di riferimento la vecchia impostazione dei servizi del petrolchimico. Guadagna una sua autonomia, quella propria di un’azienda elettrica. Cambiano anche San Benedetto, chiostro interno - Luca Donelli Notturno Piazza delle Erbe - Maurizio Dessi mantova 49 quando la vita è scandita dai turni È uno di quelli della Montedison, anche Orazio, 53 anni, da 31 in Centrale. «Avevo solo 21 anni, quando sono entrato come fuochista. Allora era tutto manuale. Oggi sono quadrista ed è quasi tutto meccanicizzato. Prima eravamo solo a servizio dello stabilimento, oggi forniamo energia elettrica e calore alla città con il teleriscaldamento». La vita di Orazio è scandita dai ritmi dei turni. «Non è faticosa, poi ci si abitua» e con Gigliola, con cui è sposato da 27 anni, è riuscito a organizzarsi bene. Vivono in una casetta nuova in un paesino vicino Mantova. «L’abbiamo comprata da poco più di un anno e la stiamo tirando su insieme, passo dopo passo». La sera quando è possibile, non rinunciano mai alla passeggiata. E quando i turni lavorativi non coincidono Orazio passa da mamma Lucia, 80 anni, che abita in pieno centro. «Io porto le uova fresche del mio paesino in campagna, dove ci sono le galline e il salame buono, e lei mi prepara gli “agnolini” cotti nel brodo di cappone, con l’aggiunta di formaggio Grana e un bicchiere di vino Lambrusco». Potere delle mamme. Forse anche per questo in casa con mamma Ave, 70 anni, Luca, 47 anni, ci sta davvero bene, soprattutto quando lei gli prepara la sua specialità: i tortelli alla zucca secondo la ricetta tradizionale, con la sfoglia tirata in casa e quel po’ di «cresta» che rende il tortello più bello. «Mi piace farlo così – dice la signora Ave – ma attenzione al ripieno, la zucca va cotta al vapore, poi si aggiungono gli amaretti, un po’ di pane grattugiato, noce moscata, Grana. E la mostarda (quella nostra fatta in casa, alla mantovana, con mele e pere) e un po’ di limone grattugiato che ne addolcisce il sapore aspro della senape». Ne parla con amore, quasi come un rito che ripete secondo la vecchia ricetta della nonna, che lei ha fatto sua mettendoci quel tocco personale che rende il piatto unico. «Ma sono brava anche a fare la torta delle rosa che piace tanto a Luca. Preparo l’impasto la sera, perché deve lievitare tutta la notte. E la mattina prende forma quel dolce che si apre come i petali di una rosa». Bella come i fiori di loto sulle ac- que del lago della sua Mantova che Luca, turnista in Centrale, ama fotografare: dal castello di San Gior- Città, lago e fiori di loto - Fernando Capoccia mantova 51 Corte Zuccona - Simone Franceschetti gio, alle straordinarie suggestioni della città di notte, all’animazione di Piazza delle Erbe, al chiostro di San Benedetto. Ama la fotografia, ma anche il ballo. «Prima che Fabio si sposasse la sera si andava a ballare il liscio». Ora sta ristrutturando la sua piccola casa. «Vorrei farci un “bed & breakfast”. Sono una persona eclettica, mi piace fare tante esperienze: la mia fi- «io unica donna a lavorare in Centrale» Lo dice con un pizzico di orgoglio Stefania. È entrata solo da qualche mese con un incarico che le calza su misura. È la persona giusta, ha esperienza, sa farsi valere quando è necessario. Ha grinta e professionalità, sa muoversi in un ambiente tutto maschile. I requisiti necessari per quel nuovo ruolo di segreteria tecnica che serviva in centrale. Ma Stefania che ha superato gli «anta», ripete con la semplicità e l’umanità che la caratterizza. «Sono stata fortunata, come venti anni fa, quando alla polimeri europa cercavano una persona che conoscesse le lingue». E lei aveva studiato in Germania e in Inghilterra e aveva lavorato in un’agenzia di viaggi. Anche allora era la persona giusta, come quando è subentrata alla sua collega incinta nella segreteria di direzione in quel petrolchimico a lei tanto caro da quando era bambina. «Il mio papà Luciano, 77 anni, si è trasferito a Mantova nel 1960. Ha lavorato in quel reparto durissimo che era il “Clorosoda”. Ma lui era uno di quelli tosti, partiva con la neve, non ha mai perso un giorno di lavoro». E Stefania ricorda i turni, le feste senza papà, i compiti da fare in silenzio perché lui riposava. Ricorda anche i suoni e i colori di quella vendita diretta di frutta e verdura nel terreno dietro lo stabilimento, dove andava con papà a fare la spesa. «Tutta la nostra vita girava intorno al petrolchimico». Quel vecchio reparto ora non esiste più. Papà Luciano ci è passato davanti in una delle giornate di centrali aperte. Del clorosoda non c’è più nulla. «Con gli occhi lucidi, mi ha detto: “È tutto cambiato così in fretta”. Ma sono passati più di 20 anni». 14 anni, Daniele, 10, e Fabiana, 8. «Il profumo è diverso, ma è bello sedersi sulle panchine in una bella giornata di sole, fare fotografie e guardare le gare di canoa di Federica, andare in bicicletta sulla pista ciclabile o andare al “campino” del suo quartiere dove i ragazzi possono losofia di vita è “basta che si stia bene”». Ama la sua città, «piccola, bella e tranquilla». Ma ama anche il suo lavoro. Ha cominciato a 14 anni, in un caseificio e dopo il militare come paracadutista, ho fatto il muratore in cantiere. «Avevo la terza media, ma avevo preso anche la patente di primo grado per la conduzione di caldaie e mi stavo preparando per quella di secondo grado. Ruggero, un amico quadrista in centrale mi disse che cercavano personale con quei titoli. “Provaci”, mi suggerì. E io seguii il suo consiglio. Feci domanda e mi assunsero con l’impegno che continuassi a studiare. Avevo 24 anni quando sono entrato in eni, ora sono operatore esterno sul turbogas». Fernando, 45 anni, un po’ della sua Brindisi l’ha trovata a Mantova sulle rive del lago, dove vive ormai da 20 anni con Teresa e i figli Federica, Città, lago e alberi - Fernando Capoccia giocare». Oggi è addetto alla sicurezza e prevenzione della centrale. Ha lavorato a Brindisi e Porto Marghera, prima di entrare nel ‘90 al «Clorosoda». Quando questo reparto chiuse, nel ‘93 entrò in Centrale. Il resto è storia di oggi in quello che il piccolo Daniele disegna come un mondo con in testa il cappello enipower. Perché con gli occhi dei bambini tutto appare diverso. Come per Jonathan, 13 anni, e Edoardo, 6. «Il giorno che hanno visto il posto dove lavoro – racconta papà Massimiliano, 44 anni – sono rimasti incantati. “Che bello, è fantastico”, dicevano. La sala controlli, tutta computerizzata ai loro occhi doveva apparire come un grande videogioco, la più bella “play station” dove avrebbero voluto giocare». Massimiliano è turnista da 22 anni. Ha visto nascere enipower ed è tra i primi quadristi ad aver visto il «Turbo». «Ai turni ci si abitua», dice. Nessuna controindicazione per lui, la sua Irenilda, brasiliana di San Paolo, e i loro figli. Vivono in un paesino alle porte di Mantova e sono una bella coppia, multietnica anche a tavola: lei prepara il «churrasco», piatto tipico brasiliano, con carne di pollo, manzo e maiale grigliata e ben speziata con cipolla, aglio, accompagnata da maionese, riso e manioca. Lui il risotto alla mantovana con la salamella e il Grana. Scene di vita quotidiana senza tempo, come quelle immagini della civiltà contadina che Simone, 39 anni, responsabile di turno, fotografa non con la nostalgia del passato, ma per mettere in evidenza il forte legame con la terra e con il Po. «Dove passa lascia il segno, è fonte di ricchezza. Insieme al Mincio hanno caratterizzato lo sviluppo del Mantovano». Il passato e il futuro di quell’industria che ha mantova 53 sempre avuto un peso nella vita di questa piccola città. «Avevo due possibilità: continuare a fare l’idraulico o puntare al “posto sicuro” al petrolchimico», Piena del fiume Po - Simone Franceschetti dissero che erano state aperte le assunzioni alla polimeri europa. Così ho fatto domanda nell’89, sono stato assunto e due anni dopo ho sposato Cristina. Sono nati Luca, 13 anni, ed Elisa, 5 anni. La mia famiglia si è adattata al mio lavoro. Nel tempo libero mi dedico alla casa e ai miei figli, vado in bicicletta o seguo Luca che gioca a “basket”, andiamo in piscina al parco o al bar a far due chiacchiere con gli amici. Insomma, ho imparato a godermi i miei spazi in modo rilassato e non in mezzo alla calca». E così se tutti vanno all’ipermercato il fine settimana, loro vanno gli altri giorni. «Quando fai turni hai pochi amici, ma la tua seconda famiglia rimane quella di eni e dei colleghi con cui si dividono sogni e speranze, dentro e fuori la Centrale». Solo tra turnisti ci si comprende. «Penso alla notte di Capodanno. Io usci- ricorda Fabio, 48 anni di Mantova. «Avevo la terza media e quella patente per le caldaie così richiesta. Ventotto anni, dieci di esperienza di idraulico alle spalle, quando mi Città, lago e barche - Fernando Capoccia vo dal lavoro e gli altri tornavano a casa dopo aver festeggiato. Un caffè nell’ultimo bar rimasto aperto, poi l’incontro con una turnista che lavora in ospedale». Due sfortunati? «Tutt’altro, eravamo felici. Cambiano i valori, ma se hai una famiglia che ti sostiene tutto diventa meno pesante, perché certo, i turni condizionano la vita, ma io sono contento così». Trasloco di famiglia contadina - Simone Franceschetti mantova 55 lo stabilimento una rete di fili e persone Ogni sito dove vive enipower ha le sue caratteristiche peculiari, ma tutti insieme formano una rete, un circolo virtuoso che idealmente li collega, non solo con dei fili di corrente, ma anche attraverso le persone che ci vivono e ci lavorano. E così ogni centrale può diventare d’esempio per le altre, non solo per gli aspetti tecnici e gestionali, ma anche per il contributo dato dagli uomini. È questo l’atteggiamento vincente per chi è chiamato a un ruolo di responsabilità e ha avuto la fortuna di vedere diversi impianti. Quello che si crea, insomma, è una sorta di osmosi tra le diverse componenti della società e questo non può che migliorare i processi di conoscenza. Ne è convinto Maurizio, 44 anni, da dieci in enipower. Anni intensi in cui ha potuto conoscere i vari siti in cui la società opera. Project manager a Ferrera Erbognone e a Ferrara, quindi responsabile di stabilimento sempre a Ferrera e da un anno e mezzo a Mantova. Perché se alla fine gli impianti sono gli stessi, quello che li rende diversi è il contesto dove sono insediati. «Cambiano i colori politici e la sensibilità verso quel sito, cambia l’impatto con la popolazione, si accentuano o diminuiscono le difficoltà nel farsi accettare. Lo stesso è inserito nel sito multisocietario di Mantova a circa 5 km dalla città. Lo stabilimento è stato ceduto il 1° gennaio 2006 alla società enipower Mantova spa controllata da enipower spa per l’86,5% e partecipata dalla ex municipalizzata Tea Spa per il rimanente 13,5%. L’impianto è composto da due gruppi gemelli a ciclo combinato e da una caldaia di tipo tradizionale alimentate a gas naturale. Nel 2005 è cessato l’utilizzo dell’olio combustibile e sono state fermate 5 caldaie a tecnologia tradizionale. La Centrale produce energia elettrica che viene in parte immessa in rete e in parte distribuita alle Società coinsediate e vapore tecnologico destinato agli impianti del sito petrolchimico. Parte del calore residuo contenuto nel vapore prodotto dalla cogenerazione è destinato all’alimentazione di una rete di teleriscaldamento della città di Mantova. Nel 2007 sono stati sostituiti i bruciatori Dry Low Nox delle turbine a gas delle due unità a ciclo combinato con un tipo di tecnologia più avanzata ed innovativa: i Ve Lo NoX . I nuovi bruciatori hanno consentito di abbattere le emissioni di ossidi di azoto (NoX ) a valori inferiori a 30 mg/Nm2 , anticipando il rispetto delle prescrizioni contenute nel Decreto autorizzativo della centrale a ciclo combinato. Le procedure di stabilimento sono coordinate e integrate con i sistemi di gestione di salute e sicurezza del sito petrolchimico. mantova 57 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 86,5% partner Tea Spa 13,5% Potenza installata 836 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale da 390 MW unità a vapore n. / taglia n. 1 unità a vapore di riserva da 56 MW Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2005 Combustibili gas naturale Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Altre produzioni/servizi fornitura di calore alla rete di teleriscaldamento Bruciatori velonox unità n. 1 & 2 Aziende eni coinsediate e servite polimeri europa oggetto “Centrale” non è vissuto e sentito sempre nello stesso modo. E in alcune realtà c’è ancora chi ha in testa il vecchio operatore». A Mantova anche se si è partiti con gli impianti nuovi solo nel 2005 enipower ha stretto un rapporto particolare con la città. «Ci chiamiamo enipower Mantova – sottolinea Maurizio – perché una parte delle azioni sono di una municipalizzata, la Tea SpA, e questo ha contribuito a rafforzare sensibilmente il legame in una maniera armonica, grazie a un lavoro di squadra che si avvale della professionalità di persone di grande esperienza, la cui età media è sui 43 anni». Ma ognuno di loro è collegato in una sorta di simbolico passaggio di testimone. «Una riflessione che ho fatto a Ferrera Erbognone, quando ero responsabile di stabilimento, guardando insieme a un giovane collega le foto iniziali del cantiere ta la città si anima: palazzi, cortili, piazze, ci sono eventi per tutte le età e per tutti i gusti, dai gialli alla saggistica, dai romanzi alle mostre. Mantova è davvero bella, lambita da quel lungo lago dove ama andare a correre la sera quando ha finito di lavorare. « È una città vivibile e a misura d’uomo». quando ancora non c’era nulla. Io all’epoca ero già laureato e vedevo i progetti per realizzarli, lui, invece, era ancora all’Università». È una staffetta, c’è chi è già partito e chi parte ora e raccoglie l’eredità di chi ha cominciato prima di lui. E insieme si cresce e ci si arricchisce, si vivono i momenti positivi e quelli negativi e si va avanti con un unico importante obiettivo: seguire e curare lo Stabilimento. «In questo mi sento tanto mantovano: persone pratiche, essenziali, che non si perdono in chiacchiere, concrete, efficienti». Anche se le sue origini sono tra Sardegna e Umbria, ma c’è anche un po’ di Piemonte e Lombardia, vive vicino a Pavia con la sua famiglia che ha avuto modo di portare a Mantova in occasione del Festival della letteratura. Lorenzo, di 8 anni e mezzo, ne è rimasto molto colpito. Non è la classica fiera, tutPiazza delle Erbe - Luca Donelli Ma Lorenzo apprezza anche la «sbrisolona», semplice e buona proprio come i dolci che piacciono ai bambini. Che strano, è proprio diverso il mondo con i loro occhi. Pensava che avrebbe disegnato il papà al lavoro in mezzo alle ciminiere. «Non ci sono nel suo disegno, i bambini vedono le cose basse». «I camini dei turbogas possono richiamare i campanili di Mantova e le volte della Basilica e se si va sull’impianto si riesce a vedere tutta la città. Siamo a un tiro di schioppo» dice Daniele, 44 anni, tecnologo di reparto nei servizi tecnici. Aveva 22 anni quando è entrato in centrale come operatore esterno. La certezza di un lavoro gli ha permesso di sposarsi con Antonella. è nata Nicole che oggi ha 18 anni, poi è arrivato Mattia, che ne ha 11. «Con lui è arrivata anche la mia promozione. Ho finito di fare i turni la notte». Poi altri passi in avanti fino al 2006. «Ogni nuova mansione – spiega Daniele – era legata a un’esperienza formativa maturata in questa società e grazie a questa società. Il segno evidente di un cambiamento perché proprio l’assetto organizzativo è il nostro punto di forza ora che siamo indipendenti dal resto dello stabilimento. Prima eravamo una delle tanti componenti, ora siamo enipower, abbiamo un nostro personale e pian piano ci siamo dati anche un’organizzazione». dove vive enipower 59 ferrara la città nel bosco dove il tempo si è fermato I ferraresi ormai ci sono abituati, ma per Domenico, ogni giorno è una sorpresa. «Perché a Ferrara si sente davvero il profumo della cultura e della storia», ripete lui che di città storiche ne ha viste tante e ci ha anche vissuto. «Eppure sono solo poche quelle che riescono a dare quella sensazione così forte di essere in un luogo d’arte come Ferrara», ripete Domenico, Ingegnere, da un anno in Centrale. È bastato poco a capire che in quel posto gli sarebbe davvero piaciuto vivere. E si è subito trasferito con la sua famiglia. Da allora ogni giorno è una scoperta. Percorrendo le strade di Ferrara, su ogni palazzo si vede una targa che indica quale illustre personaggio ci ha abitato o c’è solo passato. Ma sono tanti gli angoli che richiamano la presenza di Ludovico Ariosto. «Anche in queste stanze c’è stato», gli avevano detto così ma senza troppo ferrara 61 chi la patria, a chi li strani liti. Chi vuole andare a torno, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada».(Satire, 1, vv. 52-57). È passato un anno. Ora si può co- gliere davvero appieno il senso di quelle parole: «a me piace abitar la mia contrada». All’alba uscendo da casa con la nebbia di sottofondo, i lampioncini accesi, si riesce davvero a respirare proprio quell’atmosfera Ariosto, Boiardo e Tasso: la poesia a Corte Foschia - Roberto Mantovani enfatizzare la cosa, indicandogli una casa del centro. Un’informazione in più, quasi un trascurabile dettaglio. «Ariosto? Proprio quello dell’“Orlando Furioso”?». Solo un cenno del capo. Un «si» telegrafico, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Eppure parlava di uno dei personaggi di spicco della letteratura italiana. E chiunque a quel punto con la fantasia sarebbe volato a cavallo dell’ippogrifo, pensando a Orlando, all’amore per Angelica, al senno perduto. Il pensiero tornava indietro, ai banchi di scuola, al liceo, cercando di ricordare le sue opere, il suo pensiero. Basta un computer ora a rinfrescare la memoria. Digitando la parola «Ariosto» un versetto: «Degli uomini son varii li appetiti: a chi piace la chierca, a chi la spada, a Ludovico Ariosto (1474-1533) gli ultimi anni di vita li ha passati in una casa semplice ma elegante in mattoni a vista, realizzata su disegno di Girolamo da Carpi, nella via che oggi porta il suo nome. «Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non sordida, parta meo, sed tamen aere domus», (la casa è piccola, ma adatta a me, pulita, non gravata da canoni e acquistata solo con il mio denaro) è l’iscrizione che si legge sulla facciata della casa, un piccolo museo dedicato al poeta che cantò «le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese», dove c’è ancora il calco del suo calamaio, la sua sedia e le medaglie che lo rappresentano, fra cui quella trovata nella sua tomba nel 1801 oltre alla preziosa edizione dell’«Orlando Furioso» illustrata da Gustave Doré nel 1881. Strano, ma Ariosto, come Boiardo e Tasso, i tre poeti che fecero di Ferrara nell’arco di un secolo la capitale della poesia italiana, non sono nati in questa straordinaria città. Non c’è nato Ludovico Ariosto che era di Reggio Emilia, né Matteo Maria Boiardo (1440-1494), di Scandiano, sempre in provincia di Reggio Emilia, e neppure Torquato Tasso (1544-1595), di Sorrento. Eppure tutti e tre sono ferraresi in poesia, e la loro cultura nasce a Corte come i loro tre poemi epici e cavallereschi: l’«Orlando furioso», l’«Orlando innamorato», «La Gerusalemme liberata», opere dedicate ai fasti e alle fortune della dinastia Estense. ferrara 63 Frecce a Ferrara - Loris Melloni medioevale. Tanto che se passasse un cavaliere con la lancia in mano, sicuramente non sembrerebbe fuori luogo. «È bella come il tramonto sul mare di Taranto, perché nella mia città il sole cala proprio in acqua». Da buon meridionale, il pensiero va alle sue origini, ai marinai, al porto, alla vecchia bottega del nonno, con la vecchia insegna di elettrauto dipinta a mano dove riparava le barche dei pescatori. E questi in cambio gli regalavano le aragoste del Mar Piccolo, che a quei tempi non erano così pregiate come oggi. Ricordi del passato, avvolti in quella nebbiolina ferrarese. I tempi dell’Università a Bari, poi Milano, prima tappa in «casa» eni. E di nuovo il mare, quello di Brindisi, le suggestioni di Lecce, un’altra città ricca d’arte. Ma è quella «città nel bosco» con la sua magia di altri tempi che lo ha davvero stregato. E che pian piano ha conquistato tutti, soprattutto le sue bambine, Elena, che ha 3 anni, e Gloria, 2. Pochi direte? «Sono proprio i più piccoli a riuscire a cogliere il senso del bello, osservano tutto, molto più di quanto riusciamo a vedere noi. “Papà, è domenica, facciamo una passeggiata?”. Ogni domenica mi tirano giù dal letto per entrare in quella favola, in quel mondo fiabesco, di principi e principesse, di palazzi e castelli, dove la città si trasforma in bosco e parco e quella bella pasticceria ai loro occhi diventa come la casa di “Hansel e Gretel” tutta fatta di dolci e leccornie colorate. Ma lo sguardo si posa sulla “Tenerina”, la tipica torta ferrarese, di cioccolato». E la sera prima di andare a dormire la consueta Strada di luce - Roberto Mantovani telefonata ai cuginetti di Taranto per raccontare della loro nuova casa nella città nel bosco, fatta di “Tenerina” e di tanto amore. ferrara 65 Ritorno - Roberto Mantovani Tramonto - Roberto Mantovani suoni, ai colori evoca altri tempi. E così il Ferrarese che va via, ritorna. E chi entra e si lascia avvolgere da quella città, che sembra essersi sopita nella nebbia, è difficile che vada via. «Ogni volta che torno a Ferrara, – dice Giancarlo – mi accorgo che sto arrivando dall’odore della melassa che ancora si avverte dei campi di una «coppia» sulla tavola del Duca «Quando prima vidi Ferrara mi parve che tutta la città fosse una meravigliosa e non più veduta scena dipinta e luminosa, e piena di mille forme e di apparenze. (…) E non bastandomi d’esserne venuto spettatore, volli divenire uno di quelli che erano parte della commedia e mescolarmi come gli altri». Le parole di Torquato Tasso si rivelano ancora oggi di grande attualità in una città dove tutto, dai sapori, ai Festa del grano - Loris Melloni Bilancioni - Roberto Mantovani barbabietole da zucchero. Ora non si coltiva più, ma erano per me il segno che stavo arrivando a Ferrara». La città è sempre la stessa, il colore rosato dei mattoni delle mura e il verde intenso dei terrapieni alberati avvolgono il centro storico e lo circondano per circa nove chilometri. E anche quel profumo intenso. Fragrante e saporita, unica nella sua forma, deliziosa nel gusto: la «coppia ferrarese» è qualcosa di più di un semplice pane. È parte integrante della cultura e delle tradizioni di Ferrara. Già negli Statuti del 1287, venivano stabilite le regole del panificare. I fornai erano tenuti a confezionare forme di pane con gli «orletti» che, evolvendosi poi nel pane «intorto», sono tradizionalmente ritenute le antenate della classica «coppia ferrarese». Fu alla Corte Estense, nel 1536, nei fastosi banchetti di una cena ducale che furono offerte le prime originali forme di pane intorto. ferrara 67 Sbandieratori - Loris Melloni Palio a Ferrara - Loris Melloni Dorata con venature bionde, la coppia che ha il marchio Igp, è formata da due pezzi di pasta uniti a forma di nastro nella parte centrale, le estremità sono ritorte in modo Castello e balloons - Loris Melloni da formare un ventaglio di quattro corna dette crostini. Quattro sono le fasi di produzione: impastamento degli ingredienti (farina di grano tenero tipo “0”, strutto di suino, olio extravergine di oliva, lievito naturale, sale, acqua e malto) con il lievitomadre; formazione delle coppie; lievitazione per circa un’ora e mezza; cottura in forni (con calore dal basso verso l’alto). Ma la tradizione ferrarese prevede tra gli ingredienti la fantasia dei maestri fornai, l’unica che riesce a preservarne nel tempo la sua unicità. Una ricetta che zio Walter, panettiere, conosceva bene. Aveva 80 anni era sempre stato a Ferrara e di pan ferrarese ne aveva fatto tanto. Non gli mancava certo la fantasia né l’arte per sfornare quel pane che si intreccia con la città degli Estensi. Perché Ferrara e il suo pane non possono vivere l’uno senza l’altra. Nel 1860, fu costretto a lasciare la sua città e seguire la famiglia che si era trasferita a Genova. Gli mancava il suo pane. Andò da un fornaio e gli chiese se poteva fare la «coppia ferrarese». Ci provò, ma per la prima volta la «coppia» non riuscì. Si fece portare da Ferrara il grano, la farina, il lievito, il sale, tutti gli ingredienti, e anche una cisterna di acqua. Tutto questo non bastò per trasferire a Genova la «coppia ferrarese», che rimane inimitabile perché la «ciupeta», come la chiamano i ferraresi è frutto di una tradizione antica che lega indissolubilmente Ferrara al suo pane e alle tavole del Duca. Perché in questa città tutto ha il sapore del Rinascimento, anche la tradizione culinaria. E Giancarlo, 50 anni, che lavora negli uffici in Centrale, la sua Ferrara preferisce raccontarla sempre a tavola, magari davanti a un buon piatto di «salama da sugo» quella che il palio più antico del mondo Dame e cavalieri, paggi e armigeri, musici e sbandieratori in costume ferrarese del XV secolo sfilano per le vie di Ferrara fino al Castello Estense. Oltre mille figuranti nello storico corteo del Palio di Ferrara, il più antico del mondo. Il primo si corse nell’anno 1259 per festeggiare Azzo VII «Novello d’Este», Marchese della città, vittorioso su Ezzelino da Romano a Cassano d’Adda. Poi nel 1279, il Comune di Ferrara istituzionalizzò il Palio che secondo gli statuti si doveva correre due volte l’anno: il 23 aprile in onore di San Giorgio, patrono di Ferrara, e il 15 agosto in onore della Vergine Assunta. Al vincitore spettava un «palio», un pezzo di stoffa. Tracce del passato si trovano negli affreschi del Salone dei Mesi, a Palazzo Schifanoia, nelle testimonianze dei cronisti dell’epoca e nell’«Orlando Furioso» dell’Ariosto. Oggi il Palio si tiene l’ultima domenica di maggio in onore di San Giorgio, ma la data ricorda la famosa edizione del 1471 corsa in onore di Borso diventato Duca di Ferrara. I palii sono quattro: quello verde dedicato a San Paolo per la corsa delle putte, quello rosso di San Romano per la corsa dei putti, quello bianco dedicato a San Maurelio per la corsa delle asine ed infine quello giallo (o dorato) di San Giorgio per la corsa dei cavalli. A contenderselo i quattro rioni con territorio entro le mura: San Benedetto, Santa Maria in Vado, San Paolo e Santo Spirito e i quattro borghi: San Giacomo, San Giorgio, San Giovanni e San Luca. ferrara 69 mamma Carla ancora prepara seguendo l’antica ricetta della nonna e della bisnonna, con la carne «nobile e non» del maiale, tritata macinata con vino rosso, sale, pepe nero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano, rhum e alcuni piccoli ingredienti rigorosamente segreti racchiusi nella vescica del suino. «Mia madre dice che per fare una buona salama, questa deve prendere il bollore e cuocere dalle sei alle otto ore immersa, meglio se avvolta in una pezzuola di telo fine, in una pentola d’acqua, ma senza farle toccare il fondo; uno stecco di legno appoggiato ai bordi sosterrà la salama col suo stesso spago. La vescica non si deve spaccare. Anche mangiarla è un rito. Meglio caldissima accompagnata con purea di patate o frittelle di crema fritta. E che dire dei cappellacci di zucca. Li condividia- mo con il Mantovano, ma noi non ci mettiamo l’amaretto». Ludovico Ariosto, invece, preferiva cibi semplici, cotti in casa alle ricche portate dei banchetti rinascimentali. «In casa mia mi sa meglio una rapa, ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco e mondo, e spargo poi di aceto e sapa, che a l’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio; e così sotto una vil coltre, come di seta o d’oro, ben mi corco». È forse la magia di Ferrara dove anche le cose più semplici diventano grandi e testimoni di un passato che continua vivere all’ombra del Castello Estense che risale al 1385 quando il Marchese Niccolò II d’Este ne ordinò il progetto a Bartolino da Novara. Il fossato, i ponti levatoi, le torri, tutto come allora. E con Ercole I d’Este il Castello divenne la residenza della Corte, una delle più raffinate e colte d’Europa. E un pizzico di Rinascimento ogni anno torna a vivere quando la città ne rievoca i fasti e si veste dei colori delle contrade per dar vita al Palio in Piazza Ariostea. «È davvero un posto piacevole e anche un po’ romantico. C’è tanto verde, è possibile sdraiarsi, prendere un gelato e vedere la gente passeggiare», dice Cinzia, che pur vivendo in un paesino a 13 chilometri da Ferrara, in provincia di Rovigo, si sente ferrarese. A Ferrara lavora e le sue figlie sono nate nella città estense. Ludovica, 9 anni, e Martina, 13. Anche loro respirano un po’ il clima dello stabilimento partecipando ai concorsi per i figli dei dipendenti. Hanno disegnato la mascotte di enipower e la mamma sul posto di lavoro. Poi tutti in piazza con mamma e papà, ferrarese «doc», per un gelato e per la «Vulandra», il festival che richiama centinaia di aquilonisti da tutta Europa. Tre giorni di festa e di colori nel cielo di Ferrara che, sullo sfondo del magnifico parco urbano, tra le mura rinascimentali e il Po, ospita anche un’altra suggestiva kermesse: il «Balloons Festival», con le sue mongolfiere variopinte. Ferrara è anche questo. Una città che non finisce mai di stupire ovunque si posi lo sguardo. Colore e tradizioni, palazzi monumentali e angoli nascosti, suoni e sapori raccontano come le nebbie il carattere dei ferraresi. Un po’ uggiosi, come quella coltre che avvolge la città, un po’ chiusi, ma ospitali in quella loro calma caratteriale che li accompagna sempre. «Sono di Ferrara. Non c’è altro aggettivo per descriverli», ripete Matteo, che un po’ ferrarese è diventato anche lui. Come Tasso, nella «commedia» c’è voluto entrare. ferrara 71 lo stabilimento via libera alle biciclette in Centrale Cinzia, nello stabilimento rappresenta l’«altra metà del cielo». In un ambiente di lavoro tutto declinato al maschile, lei è l’unica donna. «Mi coccolano tutti, sono gentili, accoglienti, professionali, mi trovo veramente bene». È lei che si occupa della parte amministrativa. Come ogni mattina, ha lasciato la macchina nel parcheggio dello stabilimento per prendere la bicicletta aziendale che la accompagnerà in tutti i suoi spo- stamenti della giornata. «Buongiorno, Ingegnere. Ben arrivato a Ferrara». Le presentazioni di rito, poi la consegna delle carte e le prime pratiche da firmare. «Autorizzazione alla circolazione in bicicletta nell’area dello stabilimento». Quel momento lo ricordano entrambi. Domenico sorride ancora quando ci pensa: «Ero arrivato a Ferrara a dirigere una centrale, uno degli impianti più moderni, dalle tecnologie più avan- La Centrale di Ferrara è gestita dalla Società enipower Ferrara srl (s.e.f.) che è controllata da enipower spa (51%) e ha come socio di minoranza la Società elettrica svizzera Elektrizitäts Gesellschaft Laufenburg AG (EGL). Oggi lo stabilimento produce energia elettrica e vapore. s.e.f. sta realizzando una nuova centrale costituita da due gruppi turbogas funzionanti a gas naturale (circa 800 MW totali), che utilizzano la tecnologia a ciclo combinato e comportano un minore impatto ambientale grazie all’utilizzo di bruciatori Ve Low Nox che minimizzano la formazione di ossidi di azoto. Con i nuovi impianti potrà cessare quindi l’utilizzo delle vecchie centrali, che bruciano anche olio combustibile. è stato costruito un nuovo elettrodotto di collegamento con la rete nazionale a 380 kV, completamente interrato ad impatto visivo nullo. La nuova centrale occupa un’area precedentemente occupata da impianti dismessi e smantellati. s.e.f. ha proceduto alla bonifica del suolo e della falda superficiale su progetto approvato dagli enti preposti; è in corso una ulteriore attività di bonifica della falda confinata profonda, nell’ambito di un progetto unitario di tutte le Società coinsediate. zate e il primo atto da firmare era un permesso per circolare in bicicletta». Lui stupito, con quel foglio in mano, che gli sembrava tanto uno scherzo. Lei, invece, serissima. «Qui si fa tutto in bicicletta, Ingegnere, presto se ne accorgerà anche lei». Gli è bastato davvero poco a capirlo. «Qui si nasce con la bicicletta», gli aveva detto Giancarlo, che è nato a Ferrara e quindi, come tutti, dall’età di tre anni ha cominciato a prendere confidenza con le due ruote. «Noi ferraresi abbiamo acquisito un occhio particolare nei confronti dei ciclisti, al punto che quando siamo in macchina, siamo in grado di capire e prevedere cosa faranno, che direzione prenderanno». E così anche nel perimetro dello stabilimento ora tutti si spostano in bici proprio come a Ferrara. E non è l’unica analogia. «Lo stesso petrolchimico – dice Alberto, 52 anni, assistente di produzione – ha la forma delle mura di cinta di Ferrara. Insomma gli Estensi hanno messo mano anche sul petrolchimico», ripete con ironia. «Mio nonno che ci lavorava mi raccontava che era una gran comodità avere il lavoro vicino a casa. Lavorava in uno dei magazzini di stoccaggio ed era contento. ferrara 73 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower partner 51% EGL 49% Potenza installata 841 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale da 390 MW unità a vapore n. / taglia n. 1 unità a vapore di riserva da 61 MW Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2010 Combustibili gas naturale Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Altre produzioni /servizi acqua chiarificata e demineralizza Bruciatori velonox unità n. 1 & 2 Aziende eni coinsediate e servite polimeri europa Non si lamentava dell’industria, di cui ne apprezzava i benefici, quanto piuttosto della grande urbanizzazione troppo vicina al centro storico». Perché se Ferrara non si tocca, lo stesso vale per la Centrale. Prendiamo Robertino, 53 anni, pur di non lasciare la sua città, dopo 32 anni ha cambiato lavoro, si è rimesso in discussione, ricominciando daccapo pur di rimanere nella nuova Centrale che ha visto nascere. «Non è questa che fa male alla città, ma lo fa la cattiva informazione. Io credo nell’ambiente e nella sicurezza, settori in cui opero, ma credo anche nell’industria, quella fatta in un certo modo e che va promossa per dare un futuro ai nostri figli». Parola di chi ama Ferrara e non l’ha mai voluta lasciare, anche quando lavorava a Bologna e stava fuori 16 ore, per lavorarne 8, ma la sera tornava. «Solo a Ferrara mi sento a casa – dice Robertino. è una città vivibile, a misura d’uomo, un paesone, anche se a 15 km, dove abito, non c’è Adsl, non c’è farmacia e il medico viene una volta alla settimana». Da apprendista idraulico, in una terra restia a favorire l’industria, di strada ne ha fatta. Tanta gavetta, passando dai livelli più bassi fino a diventare quadro nel settore commerciale. Da tecnico specializzato nelle macchine da cucire ha cominciato a montare tubi e grondaie, poi il salto di qualità l’Ufficio acquisti in una grande ditta. “Avresti difficoltà a parlare con un ingegnere francese a Milano?”, mi dissero, «Ci provai, andò bene». Poi tutto da rifare, a 50 anni, un nuovo mestiere, ancora a studiare, per la sicurezza, pur di rimanere nella Centrale di Ferrara. Nella stessa terra dove nonno Roberto e nonna Carola erano contadini, allevavano i maiali e facevano la salama da sugo ferrarese, una tradizione che risale agli Estensi e la cui cottura rima- ne ancora oggi un rito. «Volevano darmi il nome del nonno, ma quando sono nato pesavo solo 1 chilo e 700 grammi, ero talmente piccolo, e mio padre, muratore, temeva non ce la facessimo io e la mamma. Mi ha chiamato Robertino. E pensare che ora peso 90 chili e mamma Romea ha 90 anni e fa la sartina come allora, quando con la sua bicicletta girava nelle case di Ferrara per consegnare i vestiti che aveva cucito su misura». Ha due grandi passioni: la fotografia e la pesca. «Ho cominciato con una macchinetta fotografica di plastica trovata in un fustino di detersivo. Mentre andavo a pescare alle due di notte, alle foci del Po». In Centrale lo conoscono tutti. «Perché operando in realtà dove si lavora 24 ore, dopo 15 anni di turni, si diventa una grande famiglia. Si vive più con i colleghi che non con la moglie», ripete scherzando il suo collega Alberto. «Insieme si dividono criticità e momenti belli. Il lavoro crea legami molto forti. E ora che abbiamo cominciato ad aprire le porte della Centrale anche la città si rende conto che non siamo il “mostro” perché tutti noi siamo i primi ad amare Ferrara». dove vive enipower 75 ravenna da capitale dell’Impero a polo dell’energia Passeggia con la sua nipotina e il pensiero va a quando era bambino e il Porto Canale era navigabile. Ai due lati filari di pini accompagnavano quella stradina dove si poteva passeggiare e andare in bicicletta, mentre lungo la darsena in barca si arrivava dalla città al mare. «Buongiorno Direttore». Una voce interrompe i ricordi di Claudio, 68 anni. Per tutti è rimasto il Direttore, anche se la Banca l’ha lasciata da qualche anno. Conosce tutto della sua città: storia, arte, monumenti. «Ricordo la Ravenna degli anni Cinquanta, all’epoca dell’Anic, e anche con un po’ di nostalgia, forse perché il pensiero va a quando si era giovani e si diventa un po’ romantici». Era la “Città del silenzio” come la definiva D’Annunzio, con un’economia agricola. Poi arrivo l’Anic e Mattei. «Personalmente non l’ho conosciuto, ma ricordo bene quegli anni Ses- ravenna 77 santa, quando trovarono il metano a Marina di Ravenna. Era così in superficie. Ricordo quella fontana pubblica che cacciava acqua e gas tanto che ci si divertiva a incendiare l’acqua. Bastava farla scorrere sulle mani, avvicinare l’accendino e vedere la fiammella gassata di metano». Vennero perforati tantissimi pozzi e Mattei capì che c’era una ricchezza, stava per nascere il polo chimico. «Ricordo che quando fu costruito lo stabilimento Anic a Ravenna, Mattei si lamentò delle dimensioni del piazzale. Troppo piccolo per le macchine degli operai, in tempi in cui pochissimi avevano l’auto. Ma lui era questo. Guardava avanti e già pensava a quando i lavoratori sarebbero andati a lavoro con l’automobile». Tre grandi uomini hanno segnato la Ravenna degli anni Cinquanta: uno è stato Enrico Mattei, l’altro Luciano Cavalcoli e il terzo Benigno Zaccagnini. Tre amici che con grande lungimiranza riuscirono a segnare le tappe della Ravenna moderna, senza nulla togliere ai fasti della capitale dell’Impero Romano d’Occidente. «A cavallo tra gli anni Cinquanta e Ses- santa – ricorda il Direttore – c’erano i nostalgici che non vedevano bene il progresso, ma c’era anche chi aveva compreso che la svolta per la città era legata al rinnovo e al potenziamento dello scalo portuale, quale motore di sviluppo per l’industria del ravennate. Il polo chimico dava la possibilità ad altre aziende di nascere, ma il porto doveva avere un ruolo decisivo». ravenna 79 Lo aveva ben compreso Luciano Cavalcoli, allora presidente della Camera di Commercio. Ma occorreva il braccio politico e il resto lo fece Benigno Zaccagnini. Con la cosiddetta «legge Zaccagnini» di scrigno di arte, storia e cultura Capitale dell’Impero Romano d’Occidente, di Teodorico re dei Goti, dell’impero di Bisanzio in Europa: Ravenna è una di quelle città che non si possono raccontare. È uno scrigno da scoprire, come quella piccola costruzione in cotto che racchiude un patrimonio inestimabile di mosaici: il Mausoleo di Galla Placidia, solo uno degli otto siti tutelati dall’Unesco di questa città che conserva l’orgoglio della sua storia. Sul mare, ma fuori dai grandi traffici, è rimasta chiusa in sé stessa, non ha subito l’«industrializzazione», ma ne ha fatto uno dei punti di forza, mantenendo la sua vocazione di città d’arte e di turismo. Il rispetto dell’ambiente è diventato la prima regola per tutti. Città vivibile, si può scoprire passeggiando o andando in bicicletta. Nelle serate d’inverno un buon bicchiere di Sangiovese nelle «ca’ de ven», le case del vino o in trattoria davanti a un piatto di cappelletti, quelli romagnoli fatti solo con formaggio e ricotta, o di passatelli. E d’estate la vita si sposta a Marina di Ravenna, Punta Marina, Porto Corsini, Marina Romea, il massimo dell’organizzazione per chi ama il mare. E per gli appassionati della natura basta inoltrarsi nella Pineta litoranea che porta fin sulla riva della Pialassa, l’ampia laguna amata dai pescatori. cui era proponente, infatti, si potè ampliare il porto, che pur avendo lo svantaggio di essere artificiale in una zona sabbiosa, ha il grosso vantaggio di avere 12 chilometri di banchine a servizio delle industrie che si affacciano direttamente sul mare. «Il potenziamento – ricorda il Direttore – fu affidato alla Sapir, che aveva un capitale sociale di un milione di lire sottoscritto per il 51% dall’Anic, per il 39% dal gruppo Ferruzzi e per il 10% dalla Camera di Commercio, cui subentrarono poi con un successivo aumento di capitale il Comune, la Provincia, gli industriali e le banche». Ma il capitale non era sufficiente al finanziamento delle opere di sua competenza. «La Sapir, grazie alla “legge Zaccagnini”, potè espropriare le aree circostanti il nuovo porto a prezzi molto contenuti, essendo costituite da terreni agricoli scarsamente produttivi, rivendendole poi agli operatori interessati ai nuovi insediamenti in ambito portuale a prezzi adeguati al nuovo valore economico delle aree stesse, traendo le risorse per l’esecuzione delle opere dalla differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita». Cavalcoli aveva ragione a guardare oltre la chimica. E dopo l’Anic sono arrivate le piattaforme petrolifere, la grande industria estrattiva che ha fatto di Ravenna la capitale dell’energia, aprendola al Mediterraneo con quell’OMC, Offshore Mediterranean Conference, il più importante forum internazionale del settore. ravenna 81 ai dipendenti. Quei 460 alloggi del villaggio Anic devono andare a loro”. E così costituimmo una cooperativa di lavoratori, poi mi adoperai per quelli del «Villaggio Anic» Sul padellone guizzano ancora cefali e branzini. «La pesca è andata bene Dottor Antonio?». «Non sono Dottore, la mia laurea è la strada», ripete l’ex segretario regionale dei chimici. Guarda la rete; alle sue spalle il petrolchimico. È sul mare in un capanno sulla Pialassa della Baiona, insieme a un gruppo di ex-dipendenti. «Siamo sempre stati attenti all’ambiente e si vede. Meglio di questo c’è solo il Paradiso». Ha 70 anni, ora si gode la pensione e il suo mare, ma non ha dimenticato il suo lavoro di capoturno sugli impianti di produzione del cloruro di vinile. Anni durissimi. Poi sono arrivate le battaglie sindacali per l’ambiente e quell’incarico delicatissimo che gli aveva affidato Benigno Zaccagnini. «Mi chiamò e mi disse: “Tu hai una grande esperienza, vieni dal lavoro in fabbrica, devi gestire l’assegnazione del patrimonio immobiliare di eni una grande operazione sociale. “Devi chiedere alla Snam Immobiliare i finanziamenti”. Riuscii a ottenerli grazie proprio all’intervento del Direttore della Banca popolare di Ravenna, si trattò di un’operazione da decine di miliardi di vecchie lire e ogni lavoratore riuscì a comprare la casa a ravenna 83 prezzi sociali. E il merito fu solo di Zaccagnini. Ho un solo rammarico, non sono riuscito a fargli dedicare una piazza di quel villaggio». Oggi si chiama quartiere «San Giuseppe», ma per i ravennati rimane, il «Villaggio Anic», quello dove Luca, 48 anni, è vissuto crescendo all’ombra della centrale nella quale oggi riveste un ruolo di responsabilità. Costruito, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, dagli architetti milanesi Marco Bacigalupo e Ugo Ratti, a ridosso del petrolchimico e della città, era stato pensato proprio per i suoi dipendenti, come quello di San Donato Milanese, secondo la filosofia di Mattei con tanto verde, strutture sportive e anche la scuola elementare gestita dalle suore. Anche Maurizio, 51 anni, oggi assistente del responsabile di reparto in Centrale, affianca i ricordi di bambino a quelli dei racconti del padre Bruno, che ha cominciato a lavorare in centrale nel 1957 e ha visto nascere le prime caldaie. Da Bellaria a Ravenna e dopo il lavoro si fermava a dormire in quelle prime baracche costruite alle spalle dello stabilimento e che ancora si possono vedere nelle vecchie foto del petrolchimico. Un primo punto di appoggio per gli operai che venivano a lavorare da fuori. Poi sono state demolite e nel 1960 con tutta la famiglia si è trasferito nel nuovo «Villaggio Anic», dove tuttora vive con la moglie Eurosia, in quella che dopo anni di sacrifici è diventata la sua casa. un gruppo di amici partigiani Sulle amicizie di Enrico Mattei si è tanto parlato. Alcune sono note, come quella con Boldrini, Zanmatti, Vanoni e Colitti, altre meno note, come quelle con i ravennati Zaccagnini e Cavalcoli. «Ma sono in pochi a sapere che il partigiano Bill, Urbano Lazzaro, colui che salì sul famoso camion di soldati tedeschi a Dongo quel 27 aprile del 1945 e che identificò e arrestò il duce, per un certo periodo ha lavorato anche lui nella Centrale di Ravenna». L’episodio lo ricorda bene Maurizio, 51 anni. Suo padre Bruno, 81 anni, la Centrale l’ha vista nascere e ancora rammenta quelle visite di Enrico Mattei al petrolchimico. «Veniva spesso a Ravenna, arrivava in centrale, prendeva il compagno Bill e uscivano insieme. Erano stati partigiani della stessa Brigata, vecchi compagni d’armi, chissà forse ricordavano le loro avventure. Fu proprio Mattei a offrirgli il posto di lavoro in centrale». E Bruno queste cose le sapeva bene, perché pur non avendo mai parlato con Mattei, era amico di Lazzaro e conserva ancora con orgoglio quel suo primo libro sui fatti di Dongo, con la dedica che Bill gli aveva voluto fare. Il suo primo ricordo risale a quando aveva forse 3-4 anni. «Per noi bambini – dice Maurizio – era un posto fantastico. Abitavamo in un piccolo condominio, i nostri genitori erano turnisti nel reparto elettrico della centrale. Facevano le notti e noi non potevamo fare chiasso perché loro dovevano riposare, allora ci mandavano fuori a giocare. Era tutta campagna, tanto verde, ricordo le corse, i giochi, il cortile enorme. Non c’erano macchine, né strada, eccetto quella di collegamento». Ma i ricordi più belli sono legati all’estate, alla colonia, alle vacanze al villaggio eni a Borca di Cadore, in Abruzzo; c’erano le villette che venivano assegnate alle famiglie, alle quali veniva pagata anche la metà delle spese di viaggio, due alberghi e i campeggi. I ragazzi erano divisi in quattro gruppi: gli azzurri erano i più grandi, i gialli erano i piccolini, poi c’erano in mezzo i rossi e ver- ravenna 85 stati e quello che siamo, perché tra noi c’è ancora quella stessa coesione di quando eravamo ragazzi, dei nostri giochi, dei grandi spazi, delle speranze. È tutto bellissimo e ripensando a quei momenti c’è anche chi si mette a piangere». Ma una cosa è rimasta sempre uguale di. Arrivavano da tutt’Italia, i figli di dipendenti, da Gela, da Ravenna, da San Donato Milanese. Che bei ricordi, la cui memoria viene mantenuta viva ancora oggi attraverso uno dei più diffusi “social network” dove continuano ad incontrarsi. «Siamo “quelli del Villaggio Anic”, in rete c’è tutta la nostra storia, le vecchie foto, quello che siamo nel tempo: quello spirito goliardico e quel forte senso di appartenenza che ha sempre legato tutti, anche se di generazioni diverse. Maurizio ricorda ancora quando dalla Raffineria è passato in Centrale, dove c’era il padre. Porta impressa nella memoria l’accoglienza dei più anziani, la loro pazienza nel trasmettere il loro bagaglio di esperienza e conoscenza e soprattutto quella grande attenzione all’ambiente. Ma le storie all’ombra dello stabilimento si intrecciano. Anche suo suocero lavorava in Anic. Il Dottor Osvaldo, il papà di Raffaella, era dirigente nello stabilimento del petrolchimico, lavorava in amministrazione ed era stato nominato proprio da Mattei che sceglieva personalmente i suoi dirigenti. E lui continua ancora oggi a farsene un vanto. Ora è un poeta e scrive libri e poesie sulla città. Passato e presente si intrecciano. Anche Gianluca, 48 anni, è uno dei ragazzi del villaggio. A 24 anni è entrato in centrale, come operaio di una ditta elettrica. Per un po’ aveva lavorato nella pasticceria del nonno. Ricordava i «maritozzi» di quando era bambino. Era il dolce povero, un piccolo panino fatto con la pasta di pane, zucchero e un po’ di uva passa. Era il premio che nonna Iride gli dava il pomeriggio quando la aiutava a pulire le padelle. In centrale è subentrato a papà Giuseppe, molisano, arrivato a Ravenna a 18 anni, come carabiniere. Qui ha conosciuto mamma Rosa, ha lasciato l’Arma e per più di 25 anni faceva servizio di guardia allo stabilimento. Storie diverse con un unico comune denominatore: quel «Villaggio Anic» che li ha visti crescere e quella centrale dove lavorano fianco a fianco ogni giorno. E dopo il lavoro tutti insieme a casa di Giancarlo, davanti a quell’immenso camino a Pineta di Classe, dove Antonella ha steso la sfoglia, 40 uova, e tagliatelle a volontà. Carne alla brace, del buon Sangiovese e quella torta dolce che conserva ancora il sapore dei maritozzi dopo le sfide di pallone tra la Spem, la squadra di calcio del villaggio, e il Ravenna. ravenna 87 lo stabilimento come una grande nave Era il 1999, l’anno della liberalizzazione, l’anno dei cambiamenti e dei primi investimenti. Quel primo «piccolo» impianto con turbina a gas a ciclo combinato a Ravenna l’Ingegner Carlo, 49 anni, lo ha proprio visto nascere. «Solo» 120 MW di potenza e lui ne ha seguito tutte le fasi di sviluppo fin dall’inizio. Giornate intere trascorse a monitorare perché tutto funzionasse e perché i tempi di realizzazione venissero rispettati. «Il TG 501 è il mio primo figlio – ripete con la stessa fierezza di un padre che parla del suo primogenito –. Lo coccolavo come fosse un bambino», ricorda Carlo che a quel progetto ha dedicato anima e corpo. Approdato a Ravenna dopo la laurea, aveva lasciato la sua Porto San Giorgio e come tanti marchigiani era entrato in «casa» eni, undici anni prima. «Ricordo ancora il mio primo giorno nello stabilimento, ero fresco di laurea e il capo centrale mi accompagnò a visitare l’impianto. Ero completamente disorientato di fronte alla maestosità di quegli impianti. Ero vicino ai condensatori delle turbine, cilindroni di 4-5 metri di diametro e 7-8 di lunghezza. Ero convinto fossero le caldaie, ma rimasi in silenzio, non osando chiedere. E feci bene. Infatti, subito dopo mi portò dinanzi a quei “palazzi” di 35 metri e mi disse: “Ecco le caldaie”. Cominciai così a imparare è situato all’interno del sito petrolchimico multisocietario a 4,5 km dal centro di Ravenna. Il territorio circostante, soprattutto quello costiero e dell’immediato entroterra, è caratterizzato dalla presenza di numerose zone umide e pinete ricche di particolarità naturalistiche. La Centrale è composta da 4 unità produttive alimentate a gas naturale, di cui 3 cicli combinati e una caldaia tradizionale per un potenza elettrica istallata pari a 1.109 MW. Gli impianti inoltre producono vapore tecnologico per il sito industriale. Il 90% dell’energia prodotta è immesso nella Rete nazionale. Enipower inoltre assicura la gestione di parte della rete elettrica del sito multisocietario. La realizzazione e la messa in servizio di due nuovi cicli combinati ha determinato un netto miglioramento degli indici delle emissioni (-100% per polveri e SO2, -67% per NOX , -90% per CO e -37% per CO2), dei consumi idrici (-47%) e del consumo specifico di combustibile (-23%). Inoltre è stato realizzato un nuovo elettrodotto a 380 kV per l’esportazione di energia elettrica sulla Rete nazionale con valori dei campi elettromagnetici inferiori al limite fissato dalla Regione Emilia Romagna e dalla normativa nazionale. Tutte le aree di proprietà sono state certificate non contaminate dopo la bonifica dei suoli nel 2002, mentre per la falda è stato sottoscritto un protocollo per un intervento comune con tutte le società del sito. a conoscere quel mondo che era ben diverso da quello che si studia sui libri e a far tesoro di quanto i vecchi “maestri” della Centrale avevano da insegnarmi, rubando loro i segreti del mestiere». Solo una breve pausa di lavoro a Brindisi, poi il ritorno da protagonista in quello stabilimento di Ravenna del quale aveva vissuto la storia e la movimentata vita societaria, tra nascite e scomparse, progetti mai decollati, speranze e delusioni. «Noi della Centrale eravamo al servizio del petrolchimico, eravamo un pezzo di questo e la nostra vita lavorativa dipendeva dalle scelte fatte da co- loro che producevano e vendevano gomme, plastiche, fertilizzanti, resine e quant’altro ivi prodotto. Non avevamo insomma una nostra identità. Poi è arrivata enipower, le prime autorizzazioni per gli impianti a ciclo combinato ed è iniziata la corsa a realizzarli per poter partire. Dieci anni di identità ritrovata». Si inizia con la grande festa e la torta per quel TG 501, la certezza di un mercato in continua evoluzione. Arrivano poi i nuovi impianti, i cicli combinati, la nuova sala controllo. Bella, luminosa con ampie finestre. Sono gli anni della «luce» in tutti i sensi. Con gli investimenti, si lascia ravenna 89 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 972 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 2 cicli combinati a gas naturale da 390 mw - n. 1 ciclo combinato con turbina a gas da 123 MW unità a vapore n. / taglia n. 1 unità a vapore di riserva da 69 MW Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2004 Combustibili gas naturale Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Bruciatori velonox 1 unità Aziende eni coinsediate e servite polimeri europa alle spalle quel periodo buio quando si vedevano gli altri impianti chiudere e si temeva il declino. e anche Carlo ha finito di fare il pendolare e di dividersi tra lavoro e famiglia nelle Marche. Ha cominciato a conoscere anche la Ravenna che c’era oltre i cancelli dello stabilimento. «Quanti scorci della città mi erano sfuggiti. Pian piano, grazie a mia moglie Sabina, che pur essendo anche lei marchigiana, da insegnante però aveva accompagnato tanti ragazzi a scoprire tutte le bellezze di Ravenna, non solo i monumenti noti in tutto il mondo ma anche gli splendidi scorci che si aprono improvvisamente dietro l’angolo. È diventata la mia guida in quella che è diventata la nostra città. E così mia figlia Anna, 9 anni, ha conosciuto anche il suo fratellino maggiore, il TG 501». Ripete sorridendo con orgoglio parlando della sua grande «famiglia». «Tutti insieme come su una grande nave, con lo stesso spirito di corpo e la stessa ferrea disciplina. La Centrale – dice Maurizio – è come una grande nave nella quale ognuno fa quelle cose che servono all’altro. C’è una grande coesione che si avverte soprattutto quando sei in difficoltà grave. È in quei momenti che viene fuori il carattere di chi lavora il centrale. Basta guardarsi in faccia e tutti sanno cosa fare. “Se affondiamo si spegne tutto” e questo non deve accadere. La nave non può affondare». E questa forte coesione si rafforza anche intorno a una tavola e condividendo momenti di goliardia nei turni di lavoro. Lo conferma Carlo, 43 anni, ironizzando sulle sue origini. «Alto, bello, biondo un vero vichingo». Dal 1989 è in Centrale. Aveva 23 anni quando è entrato da fuochista. Ha fatto la gavetta e oggi è assistente al responsabile di produzione. «enipower mi ha dato la possibilità di crescere. Ho passato gli anni più belli, dalle vecchie macchine all’automazione. Sono cambiate tante cose, ma non questo sentirsi famiglia, che si vive anche fuori dallo stabilimento». Vive a circa 4 chilometri dalla centrale, con Antonella, i due figli Michela, 13 anni, e Federico, 12, e il cane Harry, un piccolo bastardino, alto poco più di una spanna. «Da casa vedo i camini della Centrale. Benedetta Centrale, è un piacere andarci non ci si sente mai soli, e anche il duro lavoro dei turni diventa più leggero in un ambiente in cui non si è soli». «Sono finiti gli anni della “Marina”, i più anziani che avevano portato in centrale quella vecchia mentalità da caserma, hanno lasciato spazio ai giovani», dice Giancarlo Marini, 49 anni, quadrista, di Fabriano. «Sono ravennate d’adozione, ma le origini non si toccano». Anche lui di gavetta ne ha fatta. «Prima ero in Saipem. Sono entrato in Centrale a 29 anni sono ripartito da zero, ma sono fiducioso che arriveranno le soddisfazioni». Ama la natura e lo sport. Segue il figlio Federico sui campi di calcio. «Ha 16 anni, dicono che è bravo. Ma lo è anche Valentina, 12 anni, che gioca a pallavolo, e anche mia moglie Monica è sportiva. Senza sport non ci sappiamo proprio stare». Suo padre, Vittorio , lavorava all’Anic, Mauro, 48 anni, aveva 20 anni quando è stato assunto alla Sarom, poi è passato al «glorioso impianto» dell’acetilene. Ha girato diversi reparti prima di arrivare in centrale dove è operatore esterno. «Ora con enipower si lavora bene, anche io ho lavorato in quello che chiamavano il “bunker”, la vecchia centrale e quel clima di Marina. Poi c’è stato il ricambio generazionale e siamo arrivati noi giovani». Ha costruito una piccola casetta e ha potuto appagare il suo sogno di ragazzo: la moto. Finito il turno non vede l’ora di andare a dormire, ma poi salta sulla moto con la moglie Mirca o la figlia Flora, 15 anni, e va in giro per le colline. «Poi sosta a un chioschetto, una piadina con lo squacquerone e un bicchiere d’acqua… diciamo così, di altro non si può parlare». dove vive enipower 91 livorno sul filo della storia dalla raffineria alla Centrale La raffineria di Livorno, Giovanni, 51 anni, si può dire che la senta anche un po’ sua. Il nonno Gino, di Fauglia, nel Pisano, ha contribuito a costruirla. La nonna ricordava sempre quella fuga, mentre lavoravano, quando ci fu il bombardamento. «Nonno – ci raccontava – riuscì a saltare il muro della raffineria colpita dalle bombe e fuggire. Erano in tanti a lavorare lì quel giorno. Noi eravamo scappati dalle case verso la campagna, vedevamo le bombe cadere e non sapevamo se il nonno ce l’aveva fatta, se era riuscito a scappare e salvarsi». Così Giovanni nei suoi ricordi di bambino, ogni volta che sentiva questo racconto guardava la raffineria e quasi lo vedeva il nonno saltar giù dal muro. «Anche mio suocero lavorava alla “Stanic”. Molti continuano ancora a chiamarla così». Il porto di Livorno o la Stanic: livorno 93 questi erano i due posti più ambiti dai livornesi. «E Mattei a Stagno ne ha portati di Marchigiani». Ma a Giovanni l’idea di navigare non l’aveva mai entusiasmato, anche se come tutti i giovani livornesi aveva fatto l’Accademia navale. Quello che continuava a colpire la sua fantasia, fin da bambino, era quella Centrale elettrica sempre illuminata, giorno e notte, e il sapere che lì c’era sempre qualcuno. Qualcuno che teneva accesa la città. Ora Giovanni vive a Stagno a 1 chilometro di strada dalla raffineria e dalla Centrale, dove ci lavora ormai da 30 anni e come sempre ci va ogni giorno in bicicletta. Ma per le sue vacanze sceglie il camper. Ha girato l’Europa in roulotte con papà Carlo, 82 anni, e mamma Anna, 78. «Continuano a viaggiare, l’inverno lo passano sempre in Messico, è diventata la loro seconda casa. Purtroppo mia moglie ha il terrore dell’aereo». Pensa ai viaggi, guarda al mondo ma continua ad amare la vita di turnista in Centrale, quel «5 e 5» che comprava passando davanti al forno a legna. «Si chiama ancora così, come quando si andava a compra- re 5 lire di torta di ceci e 5 lire di pane». Uno sguardo al passato, ma il futuro lo vede nel figlio Francesco, 21 anni, che studia all’Università Ingegneria energetica. «Segue la tendenza del momento», ma nelle livorno 95 la piccola «Venezia» toscana Livorno, un piccolo “paesone” aperto a tutti. Per popolarla, nel 1593, Ferdinando I promulgò la legge «Livornina», una vera e propria Costituzione che favorisce l’immigrazione di mercanti d’ogni nazione. Potevano venire pirati e prostitute, gente di tutte le razze e di ogni colore. Una città da sempre multietnica e accogliente, perché Livorno è ancora così. “Set” ideale per registi come Paolo Virzì con le sue commedie agrodolci da «Ovosodo» ambientato proprio in quel quartiere di Livorno, che prende il nome da quelle maglie bianco gialle indossate durante il Palio marinaro, a «La prima cosa bella», romanzo popolare che parte dai Bagni Pancaldi, in una sera d’estate degli anni Settanta, da una “Miss” sullo sfondo della sua città e dalla generazione vissuta in quegli anni. Livorno dei registi e di quell’«Effetto Venezia», nel quartiere percorso da tortuosi canali navigabili scavalcati da ponti seicenteschi che tanto la avvicinano alla più famosa città sull’acqua. E così ogni anno, in agosto, quegli angoli suggestivi si animano: dalla musica al teatro, dalle iniziative espositive a quelle enogastronomiche, dai mercatini dell’artigianato alle escursioni in battello nei Fossi Medicei. Serate speciali in quella piccola «Venezia» toscana. sue parole si avverte l’orgoglio di un padre che è riuscito a trasmettere la sua passione al figlio. Perché quel legame forte tra raffineria, centrale e territorio si può dire che i livornesi ce l’hanno nel sangue. «I livornesi, perché i livornesi non sono toscani». Ci giocano sulle loro origini. Del resto l’ironia fa parte del loro carattere. «I miei antenati – dice Marco, 59 anni, responsabile di turno in Centrale – risalgono al 1600. Nel primo Registro delle ditte di Livorno, ho trovato la prima ditta di corallari, hanno svolto questo lavoro fino al secolo scorso». Ormai il corallo rosato tipico di queste zone, non si trova più e pian piano sono scomparse anche le botteghe artigiane per la lavorazione del corallo, mancando la materia prima. «Mio nonno Arturo – continua Marco – lavorava al porto, nelle attività di carico e scarico. Mio padre invece era impiegato alle poste. Io ho preso dal nonno la passione del mare. Sono stato ufficiale in Marina, dopo aver frequentato l’Accademia di Livorno. Fino all’età di 23 anni sono stato in mare, giravo tanto. Poi mi sono sposato e ho rimesso i piedi a terra. Non è stato difficile trovare lavoro sono stato caporeparto alla Piaggio. Cercavano ex ufficiali, volevano cambiare il modo di gestire il personale, convinti della maggiore autorevolezza che potesse avere un militare. Ci sono stato fino a 28 anni. Poi mi hanno chiamato in Centrale, non alla Stanic. Per i livornesi è la stessa cosa». «Questo avviene all’interno di realtà industriali preesistenti. Lo stesso accade a Brindisi – dice Antonio, 58 anni, di Palermo, per 30 anni nell’area del petrolchimico pugliese, da pochi mesi a Livorno come responsabile dei servizi tecnici –. La città conosce la raffineria, una presenza forte, significativa. Ma la Centrale apre le sue porte per farsi conoscere. E noi ora con enipower abbiamo una nostra forte identità e questo significa certezza e fiducia». livorno 97 Il gigante di ferro - Samuele Giglioli d’estate si va al mare, siamo più abbronzati. C’è il calcio, la Livornese. E le serate variano: dalla passeggiata alla discoteca, dalla birreria alla pizzeria e la domenica allo stadio. L’odio con il Pisa l’ho preso in eredità, forse risale addirittura ai tempi delle Repubbliche Marinare. Si dice: “Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”. Terribile. Ma lo il livornese? Ironia e sarcasmo «La Hunzicher l’avrei sposata, la Bruni l’ha presa il Presidente e così sono rimasto fuori». Un modo per dire che non è sposato. Alessandro, 38 anni, è la fotografia del livornese: un po’ spaccone ma dal cuore grande, pronto a ridere di sé e degli altri. I suoi genitori sono veneti, ma lui è nato a Livorno. Papà Roberto è arrivato negli anni Sessanta. Lavorava in raffineria. Poi è entrato il figlio, all’età di 22 anni, un mese prima che lui andasse in pensione. «Ci incontravamo a mensa, lui lavorava in raffineria e io ero operaio all’impianto di mineralizzazione, ora sono quadrista termoelettrico. Quando mi alzo alle 5 e un quarto per andare al lavoro, a Livorno ci siamo solo noi turnisti, qualche panificio aperto e il giornalaio. La cosa più bella è il passaggio sul lungomare che ci rincuora». Perché la vita da turnista non è certo facile, ma Alessandro riesce a vederci il bello. «C’è più tempo libero, La fortezza vecchia - Samuele Giglioli è ancor più la risposta dei pisani: “Che dio ti accontenti” ». Il livornese è così. «Ironico, sarcastico, dissacratorio, riesce a dire le cose più dure e difficili da digerire, in maniera diretta. Verità che difficilmente emergerebbero. Il primo impatto con lui non è quindi facile, poi si apprezza questo modo di comunicare e si formano grandi livorno 99 amicizie», spiega Stefano, 54 anni, di Colle Salvetti, a 14 chilometri da Livorno, entrato in raffineria nell’86, dopo altre esperienze lavorative e dal ‘92 è responsabile di turno in Centrale. «Da 24 anni in eni e ora in enipower. È stato un arricchimento continuo di esperienze lavorative, ma anche dal punto di vista umano e tecnologico. Dopo un po’ di anni che uno fa lo stesso lavoro quasi si adagia, invece io ho fatto tanta gavetta e svolto tante mansioni diverse». Il padre Franco ha vissuto gli anni del dopoguerra, nel ‘54, era elettricista di turno. «A quei tempi c’erano gli autobus di linea privata che li portavano a lavoro, erano bei tempi. A Natale arrivava a casa un furgone con tanti regali. Lui ci teneva tanto al lavoro in eni, ha fatto tanto perché io lavorassi qui, sono subentrato a lui come figlio di dipendente. Continuo a fare i turni. Mia figlia si è sposata e mi vedo con mia moglie Grazia in funzione dei suoi turni al supermercato. Mi è sempre piaciuto questo lavoro, ho tanti giorni liberi». « È il vantaggio di fare questo lavoro – dice Fabio, 38, anni, di Ardensa a sud di Livorno, – spero di continuare a fare il turnista: ogni due giorni di lavoro, uno di risposo. Ottimo per chi ha “hobby” e io li ho davvero tutti. Sono entrato a 23 anni alla Scuola militare in Marina, diplomato istituto nautico come macchinista navale, ho fatto domanda per la beffa di Modigliani e lo spumante Era l’estate del 2004, ma quello scherzo è passato alla storia. Nel Fosso Mediceo, dove nel 1909, si dice, Modigliani aveva gettato, sconfortato dal giudizio dei suoi concittadini, alcune delle sue sculture, vengono trovate tre teste in granito. Poi si scoprirà che gli autori erano tre studenti. «Si tratta di un gioco, di uno scherzo ben riuscito ottenuto non con un poetico e filologicamente corretto scalpello, bensì con un semplice e prosaico trapano elettrico “Black & Decker”». È la goliardia del livornese che viene fuori in ogni situazione. Un esempio in Centrale. «Tutti gli anni – racconta Marco – quando si avvicina il Natale e arrivano i pacchi dono, chi è di turno nasconde panettoni e spumanti nella centrale. Fino alla Befana è caccia al tesoro e si va avanti così fino a quando non si trova tutto e si può mangiare insieme. Ma c’è anche chi trova la bottiglia di spumante, la beve e la riempie di acqua minerale». Scherzo riuscito. Si brinda comunque al nuovo anno, con acqua e grandi risate. entrare in raffineria e in Centrale, non ero tipo adatto all’Accademia militare, mi sono congedato come sergente. Noi livornesi non vogliamo essere sottomessi, non amiamo le discriminazioni. E così dal ‘95 sono entrato in Centrale, prima come operatore, ora sono quadrista». «Il mio babbo lavora dove ci sono le torri alte, dove fanno la corrente», dice Filippo, il suo bambino di 7 anni. Ama il lavoro ma anche gli spazi liberi che il lavoro gli permette. «Mi piace la natura, mi piace pescare in apnea, andare a caccia, raccogliere funghi in montagna. Fare passeggiate con mia moglie Eva e il bambino al “parterre”». Viene chiamato così dai livornesi il vecchio parco, dove una volta c’era il giardino zoologico. È una città semplice, ci accontentiamo del minimo indispensabile. La cosa più bella della mia città è il mare, con Emiliano, turnista anche lui, usciamo con la barca a pescare al largo di notte. D’inverno, andiamo a «totanare» (pescare i totani) e poi si fanno le grigliate insieme. Noi si pesca e noi si cucina», ci tiene a precisare Emiliano, collega turnista amico di passione. Si va fuori sulle secche della Meloia a tre miglia a largo davanti al porto di Livorno o verso Pisa dove c’è il faro che segna la secca che affiora dall’acqua». Dire di dove sia Giovanni, 42 anni, turnista non è certo cosa facile. Abita a Fauglia, in provincia di Pisa, ma è nato in Sardegna in provincia di Nuoro. Per 13 anni è stato a Venezia dove ha lavorato con ditte esterne nella raffineria a Porto Marghera. Ha avuto l’occasione di lavorare a Livorno nel 2005. « È più facile imbarcarmi e tornare a casa. Mi sento sardo, anche se mi trovo bene dovunque, a Livorno più facilmente, è una città davvero accogliente». Vive da solo. «Ci sono momenti che livorno 101 ti manca una compagna, ma altri in cui puoi prendere la macchina e andare dove vuoi». E così la sera si va insieme con gli amici a cena, a ballare, o a fare lunghe passeggiate al mare o in città, oppure si frequentano corsi di ballo o in palestra. «Facendo il turnista bisogna anche dormire un po’», ripete sorridendo e aggiunge: «ho un bel carattere, sono di buona compagnia e quando sento la nostalgia del mio paesino mi preparo un buon piatto di gnocchetti sardi, i “maloreddos” al sugo di ragù di salsiccia. Qualche volta faccio anche i ravioli, quando tornando dalla Sardegna porto la carne di maialino fresco. Gradisco i piatti della tradizione. Tutto quello che mi piace non quello che mi mettono davanti». In quel porto franco che è Livorno, tutti si trovano bene. E lo stesso accade anche in Centrale. «Anche quando prendiamo in giro i nuovi arrivati. Qui sembra lo sport preferito», sottolinea Marco, 50 anni, livornese, dall’età di 22 anni nello stabilimento. Entrò come operatore dell’impianto di demineralizzazione acqua ed è diventato capoturno. «Ricordo ancora il primo turbo gas da 25 Mw alla fine degli anni ‘80». Ha frequentato l’istituto nautico, ma ha seguito poi un’altra strada. «Il mare lo vedo ogni mattina dal Lungomare dove abito, proprio di fronte alla terrazza Mascagni, il punto di ritrovo dei livornesi. Sono sempre al corrente di quello che succede nella mia città». Battuta pronta, chiacchierone, grande loquacità. Ecco il livornese. livorno 103 lo stabilimento ora è tutto un lavoro di squadra Non ha nulla del modello un po’ «svizzero» della Centrale di Ravenna: tanti servizi e tutto perfettamente in ordine. Eppure Livorno, così chiassosa, caotica e trafficata, ha un grosso vantaggio: essere più simile al Meridione, alla sua Bari. Perché Fabio, 41 anni, nel capoluogo pugliese ci ha passato gli anni di studio. «Ci hanno messo 18 anni i miei genitori per decidere se vivere a Catania, terra d’origine di mia madre o a Bari, terra di origine di mio padre. E così abbiamo vissuto per 18 anni a Matera, poi in funzione della mia scelta universitaria, ci siamo trasferiti tutti a Bari». Laurea in Ingegneria, una borsa di studio in Inghilterra, poi il servizio militare e all’età di 28 anni l’ingresso in eni, dopo aver mandato curriculum e fatto colloqui. Da Mantova a Ravenna, per 13 anni, rivestendo diversi incarichi sempre legati al mondo delle Centrali e di enipower fino ad approdare a Livorno, come responsabile dello Stabilimento. «Sono arrivato in un momento in cui si intravvedevano nuovi investimenti e si puntava al rilancio del sito. Poi c’è stata la fase in cui sono cambiati scenari e prospettive. Ad un tratto gli investimenti sono stati cancellati, si è paventata anche la vendita, si è temuto per il personale. Ci sono stati momenti di for- è inserito all’interno della raffineria eni refining & marketing di Livorno nell’area industriale vicino al porto. La Centrale è composta da due gruppi turbogas da 25 e 149 MW e da tre caldaie. Produce calore per la raffineria e elettricità per la Rete di trasmissione nazionale e gli impianti contigui. Lo stabilimento gestisce, inoltre, un impianto di produzione di acque industriali, che attraverso processi di sedimentazione, filtrazione e demineralizzazione consente l’utilizzo dell’acqua per la produzione di vapore. Consente, quindi, il riutilizzo delle condense di ritorno dallo stabilimento e dalla raffineria, garantendo un notevole risparmio d’acqua (circa 500 mila metri cubi all’anno). Enipower gestisce anche il circuito dell’acqua di raffreddamento del sito multisocietario costituito da undici torri di raffreddamento a circuito chiuso senza utilizzo di acqua di mare. A causa delle perdite per evaporazione, per mantenere costante il volume dell’acqua, è attivo un reintegro continuo realizzato per il 95% con quella proveniente dall’impianto di trattamento delle acque reflue della raffineria, a sua volta recuperata all’interno del sito produttivo stesso, diminuendo così il prelievo dall’esterno, con un risparmio di circa 1,9 milioni di metri cubi all’anno. te tensione, con ripercussioni sulla centrale e rischi anche di blocco. I lavoratori, i cittadini si sentivano abbandonati». Sono stati giorni davvero difficili per Livorno. Si temeva fosse la fine. «E invece – spiega Fabio – bisognava riuscire a motivare le persone, spingerle a fare squadra, spiegare loro che bisognava continuare a lavorare. Ora la paura è passata, è ormai alle spalle; il lavoro è di ricompattare il gruppo senza mai abbassare la guardia. La vera sfida è confermare la nostra identità di enipower e operare con un unico grande obiettivo: fare in modo che tutti credano nel nostro “business”». Così man mano che i progetti assumevano consistenza anche Fabio ha cominciato a crederci e ha portato la sua famiglia in Toscana. Hanno scelto di vivere a metà strada tra Pisa e Livorno con i figli, livorno 105 i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 199 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 1 ciclo combinato a gas naturale da 149 MW unità a vapore n. / taglian. 1 turbina a gas e n. 2 unità a vapore da 50 MW totali Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2004 Combustibili gas naturale fuel gas (gas da recuperi di raffineria) olio combustibile a basso tenore di zolfo Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Altre produzioni /servizi acqua chiarificata e demineralizzata Aziende eni coinsediate e servite eni refining & marketing Carlotta, 5 anni, che già parla toscano, e il piccolo Alessio di 3 anni. «Da barese ho apprezzato il mare, l’animazione del suo porto e quegli scorci con i pescherecci che sono uguali dovunque. A Livorno, come a Bari, ci sono aree del porto che sembrano quasi realtà al di fuori del tempo, immutabili da sempre, come quei “casottini” sotto il molo del porto antico dove si tengono gli attrezzi, con porte sprangate, assegnati non si sa da chi, ma che appartengono solo al porto e ai pescatori». Tutta gente di mare, sia a Livorno che a Bari. Due lungomari incantevoli. Cozze e frutti di mare crudi a Bari, cacciucco a Livorno. «Attenzione alle “c”. Che siano 5 quanti devono essere i tipi di pesce da metter in questa straordinaria zuppa – avverte Samuele – con una “c” in meno abbiamo il caciucco, quello emiliano. Il nostro deve averne cinque di “c”. Il livornese si offende se si sbaglia la pronuncia». Gli è nata poco dopo essere entrato in centrale. «Prima durante l’adolescenza, non mi piaceva fare foto né essere fotografato, non ho foto di quel periodo della mia vita. Poi c’è stato il concorso voluto da enipower. Non riuscivo a trovare un angolo che potesse rappresentare a pieno Livorno. Poi ho trovato quello giusto ed è venuta: “Il vecchio e il mare”. In questi scatti c’è tutto ciò che rappresenta la mia città: come è nata perché c’è il monumento ai 4 Mori, voluto da Ferdinando I che aveva liberato la città dai Mori, il vecchio, i pescatori, i pescherecci, il mare, la raffineria, il porto». è fidanzato con Elisa e stanno cominciando a pensare al matrimonio. C’è un posto a loro molto caro: lo scoglio della ballerina. «L’ultimo giorno prima di salire sulla petroliera abbiamo passato lì l’intera giornata. Sono partito ma era in- Ora ha 29 anni, a soli 20 anni è entrato in Centrale in enipower. «Era nata da solo due anni, si può dire che sono cresciuto con lei». Samuele è operatore esterno addetto agli impianti. «Sono entrato all’impianto trattamento acqua. Da lì passano tutti e poi sono cresciuto. In realtà avevo scelto il mare, volevo intraprendere la carriera militare, non ho passato l’esame, sono stato militare di leva in Marina. Ho provato a navigare su una petroliera, ma ho visto che quella vita non faceva non era per me, Così sono entrato in Centrale. Mi piace davvero tanto e quando arriverò in sala quadri sarà come essere su una plancia di comando di una nave. Sono vicino alla meta, aspetto solo la prova, l’esame e il colloquio in cui mi diranno: “ok ci puoi stare” oppure “devi imparare ancora”». Ma Samuele ha anche un’altra passione, quella per la fotografia. Il vecchio e il mare - Samuele Giglioli sopportabile quella vita. è finita con una sorpresa, da buon livornese. «A casa di un’amica dove Elisa era stata invitata a una festa. Ci ha trovato anche me, ero tornato per sempre». E lei così estrosa le ha preparato una delle sue pizze strepitose e lui il suo piatto forte: linguine alle vongole». dove vive enipower 107 nettuno «siamo noi i pionieri del fotovoltaico in Italia» Forse è per quel «filo di pazzia» che dicono ci sia nei nettunesi e per quella capacità di guardare avanti di eni, che già dalla fine degli anni Settanta si comincia a parlare di fotovoltaico in Italia e proprio a Nettuno. «Siamo stati noi i pionieri nel campo dell’energia solare», ricorda Gianfranco, 58 anni, di Roma, una vera «colonna» dello Stabilimento di Nettuno, che oggi si occupa di analisi e pianificazione. Erano gli anni in cui l’Agip, attraverso la direzione Fonti Rinnovabili (FORE), aveva il compito di studiare tutte le rinnovabili, tra cui il fotovoltaico. Ma si deve arrivare agli anni Ottanta per passare alla fase dell’industrializzazione. Nel 1982 nasce infatti la «Pragma» (100% Agip Nucleare) con la «mission» di occuparsi di ricerca & sviluppo e di produzione e commercializzazione di moduli e sistemi. nettuno 109 Il pescato - Renato Bulfone La sua nascita è stata preceduta da una serie di azioni messe in campo dall’Agip a partire dalla trattativa per l’acquisizione della società «Solaris» del Gruppo «Galileo» di Firenze, piccolo centro di preindustrializzazione del fotovoltaico. Contemporaneamente all’acquisizione della Solaris si provvedeva all’acquisto dell’area dello Stabilimento di Nettuno dando, quindi, seguito al trasferimento delle attività da Firenze a Nettuno. Negli anni successivi si sono acquisite nuove licenze e macchinari negli Stati Uniti, iniziarono le assunzioni del personale in mobilità GEPI – ex Industrie Elettroniche dell’area di Latina e la capacità produttiva venne incrementata. La produzione iniziò a crescere supportata anche da programmi di ricerca con Enea ed Enel. L’obiettivo era di sviluppare l’industria fotovoltaica italiana. E con la «Pragma» arriva anche Roberto, 55 anni, pisano. Laurea in Fisica a Roma, alla Sapienza, con una tesi in materia di fotovoltaico e una grande voglia di continuare a dedicarsi alla ricerca in un settore che cominciava a muovere i primi passi. Si sentono i veri pionieri quel gruppo di giovani ricercatori, neo-laureati, che nel 1980 lavorano insieme in Università. «Non avevo ancora terminato il militare quando la “Pragma” mi ha contattato. Era nata a ottobre dell’82, ma già nel mese di marzo – ricorda Roberto – facevo parte di quel gruppo di “folli” di Nettuno che credevano nel sole. Ho vissuto l’euforia e l’entusiasmo di quegli anni, prima che diventasse un “business”, quando si faceva solo tanta ricerca, c’era tanta manualità e tanto impegno. Eravamo oltre 100 dipendenti, un posto simpatico dove c’erano tante donne che lavoravano e noi, un gruppo di venti giovani che arrivavamo tutti i giorni da Roma in pullman: un’ora di viagIl porto - Renato Bulfone gio, con un clima davvero goliardico e grandi dormite». Roberto continua a viaggiare, lo fa ormai da 27 anni. Ha scelto di vivere a Roma, all’Eur, per contemperare le esigenze della famiglia. «Ho avuto la fortuna di vivere una grande avventura, non siamo riusciti a diventare nettuno 111 I pescherecci - Renato Bulfone dalle fette di silicio alle celle Lo Stabilimento di Nettuno conserva e sviluppa il «know-how» tecnologico attraverso l’attività «core» del settore: la trasformazione di «wafer» o fette di silicio in celle fotovoltaiche. Queste, sottoposte a una serie di trattamenti chimico-fisici superficiali, diventano, quando sono esposte a irraggiamento solare, generatori di elettricità, ovvero celle ad effetto fotovoltaico. Le celle sono poi collegate in serie/parallelo e assemblate in moduli, utilizzabili come generatori, che forniscono diversi valori di tensione e potenza elettrica. Più moduli, interconnessi fra loro, costituiscono un impianto o sistema fotovoltaico. La produzione enipower a Nettuno oggi si basa sulla trasformazione in celle di fette di silicio multicristallino acquistate sul mercato. Grazie a ingenti investimenti su tutta la linea di produzione le vecchie apparecchiature sono state sostituite e si è introdotto un nuovo ciclo produttivo. L’obiettivo è di ridurre i costi di produzione delle celle, incrementando la potenzialità e l’affidabilità dell’impianto, nonché la qualità del prodotto finale. La linea di produzione può processare fino a circa 8.000.000 di celle fotovoltaiche l’anno, corrispondenti a una potenza elettrica di picco pari a circa 30 MW, triplicando la capacità produttiva del vecchio impianto. Le celle multicristalline che la nuova linea è in grado di produrre generano, una volta assemblate, moduli con una potenza media di 220 w ed efficienze di generazione in linea con i parametri ottimali disponibili sul mercato. Molto importanti anche le attività di sviluppo tecnologico all’interno dello stabilimento, focalizzate sulla valutazione e ottimizzazione delle metodologie di produzione al fine di migliorare continuamente i suddetti parametri di qualità, capacità produttiva ed efficienza delle celle. i “leader” nel settore, ma la sfida del “made in Italy” non è ancora finita». A Nettuno si guarda al futuro, ma con un pizzico di rimpianto verso il passato. «I programmi andavano avanti, ma poi non trovavano sbocco. Allo- Il castello Torre Astura - Renato Bulfone ra ne partivano di nuovi. Poi finivano anche questi. Cambiava la tecnologia, ma eni continuava a investire a fronte di una possibilità di sviluppo vero dell’attività. Tanta speranza ma troppi bilanci in passivo». Nel frattempo la «Pragma» era diventata «Italsolar» (100% Agip) e si accingeva a diventare «Eurosolare». «Arrivai a Nettuno nel Il faro - Renato Bulfone 1992, – dice Gianfranco – quale responsabile amministrativo e del personale, per seguire tale passaggio. Non era facile, per me che avevo lavorato nel mondo del petrolio per 15 anni, capire ed entrare nei meccanismi del settore fotovoltaico. Doveva essere per un breve periodo ma le attività mi hanno coinvolto a tal punto che oggi sono ancora quì. Ci ho passato una vita con impegni pesanti ma anche con tante soddisfazioni. Nel 1999 mi hanno mandato in Cina come “general manager” di una “ joint venture” Eurosolare (100% eni) e un Istituto di ricerca cinese per la crescita del silicio e la produzione delle fette, a seguito della decisione di esternalizzare tale attività, non essendo la stessa economicamente sostenibile per lo stabilimento di Nettuno. Dal 2004 siamo diventati Eni Tecnologie e dal 2006 enipower». La spiaggia - Renato Bulfone nettuno 113 il silicio in mano alle donne L’avventura del fotovoltaico nasce intorno a un gruppo donne. Lavoravano a Latina in una fabbrica di semiconduttori e dopo il suo fallimento furono assorbite dalla neonata «Pragma». Da allora molte sono andate via, qualcuna è rimasta, ne sono arrivate di nuove, perché a Nettuno la presenza femminile ha sempre avuto un peso significativo. Pina, «Paina» come la chiamavano sul lavoro, 56 anni, ha scelto di andare via, di andare in pensione dopo 28 anni di fotovoltaico. Ha scelto Mattia, il nipotino di un anno, al quale ora potrà raccontare la sua straordinaria avventura. «Non è stato facile – confessa a pochi giorni dall’addio al lavoro – ho anche pianto sfogliando le vecchie foto: quel primo lingotto, la prima fetta di silicio pressurizzato, quelle piccole piramidine». Il pensiero torna indietro perché lei, diplomata in chimica, lavorava in prima linea nel laboratorio di ricerca e fino al 2005 è stato tecnico ricercatore. Con un pizzico di orgoglio, condiviso con i colleghi di quegli anni, dice: «Sono la storia di questa società, siamo partiti dal nulla, i processi erano proprio all’inizio e completamente diversi da oggi. Adesso si usano macchine serigrafiche per formare la griglia, una volta si faceva il bagno di nichel per elettolisi e i contatti erano fatti con piombo e stagno». All’inizio erano necessarie le abili e delicate mani delle donne per lavori come questi. «Il nostro “know how” era il fiore all’occhiello, facevamo il silicio in casa. Le nostre tecnologie sono arrivate in Cina, in Australia, partecipavamo a progetti internazionali». Ora a Nettuno non si fa più ricerca e «Paina» ha deciso di fare la nonna, di portare a casa i suoi ricordi legati al lavoro e al gruppo con cui lavo- rava. «Ricordo la terrazza sul mare dove andavo a prendere il gelato nella pausa pranzo, la passeggiata con i colleghi e le colleghe. Quella grande torta per il primo modulo fotovoltaico da 50 Watt. È stato come un figlio per noi. E la macchina solare “Futura” al World Solar Challenge. I pannelli fotovoltaici li avevamo realizzati noi». Ripercorre la sua vita all’ombra del fotovoltaico. nettuno 115 Una storia di tanti piccoli successi, che non hanno mai fatto rumore. Anche Luisa, 48 anni, ha vissuto tutte le fasi dello stabilimento. «L’abbiamo tirata su bene questa fabbrica. Più si andava avanti e più arrivavano le novità». È entrata come operaia nell’83, appena finita la scuola. «Cercavano personale e feci domanda. È stato il mio primo lavoro. Tutto per me era nuovo e bello. Poi sono diventata impiegata, ora mi occupo di magazzino». Dello stesso gruppo di partenza, dell’82 faceva parte anche Meri, 49 anni, di Nettuno. «Ho sentito che aprivano questo stabilimento, appena diplomata in ragioneria, sono entrata nell’ufficio del personale. Per 11 anni ne ho seguito le vicende: da quel primo nucleo di donne ai ricercatori che arrivavano da ogni parte del mondo. C’era un gran movimento. Abbiamo superato anche le 150 unità lavorative. nel mondo per portare la luce Alessandro, 47 anni, abita ad Anzio, ma è nato a Nettuno. Perito elettronico ed elelettrotecnica. Il padre faceva il ferroviere, e lui sognava di girare il mondo su una nave. Per questo era entrato nella Marina Militare, c’era rimasto solo un anno e mezzo a bordo della nave Libeccio «a gustare la vita da zingaro». Poi è tornato a terra per fare il capo cantiere impiantista in una società di Nettuno e nell’88, con altri ragazzi appena usciti da scuola, è stato caposquadra nell’istallazione di un impianto fotovoltaico sperimentale della potenza di 100kW di picco. Finito quel lavoro parlò al direttore della sua voglia di viaggiare. «Mi chiamarono dopo qualche mese. “Ci serve un giovane che ha voglia di girare”. Ho accettato e come supervisore all’installazione di impianti fotovoltaici, ho girato mezzo mondo». Nel 1994, ha sposato Nadia, di Anzio e si è spostato a 3 chilometri da casa sua. Per anni impegnato nella manutenzione di impianti elettrici e tecnologici, per lo stop alle attività estere di installazione di impianti fotovoltaici. A ottobre ‘97 sono nati i gemelli Lorenzo e Eleonora. Ora hanno 12 anni, ma pochi giorni dopo la nascita è ripresa l’attività esterna: una missione in Congo di circa un anno e mezzo. «Avevano 20 giorni quando sono partito per Una bella esperienza che continua. Sono soddisfatta del mio lavoro e lo devo a mio padre, lavorava in polizia e aveva saputo dell’arrivo di questa nuova società». Santuario Maria Goretti - Renato Bulfone un’avventura bella, onerosa, faticosa, sono stato fortunato che mia moglie mi ha aspettato». Alle soglie del ‘98 con «Eurosolare», si riprende a viaggiare ma per fortuna le tappe sono state più brevi: Senegal, Algeria, Egitto, Tibet per creare energia dove non c’è, per portarla in ospedali, scuole, centri sanitari, posti isolati dove non c’è nulla se non povertà. «E noi portiamo un barlume di speranze per queste popolazioni: la luce in una sala parto o il frigorifero per tenere le medicine in un dispensario. Dove vado non c’è la civiltà, siamo noi a portarla. Dalle zone malariche della Nigeria dove il fango mi arrivava alla cintola per elettrificare un ospedale in mezzo alla palude, al Cairo, quell’11 settembre, quando scorrevano le immagini dell’attentato in un autogrill e noi pensavamo fosse un film. Credo di essere uno degli uomini più fortunati del mondo, mi piace il mio lavoro. Noi di eni abbiamo messo sempre al primo posto l’aiuto alle popolazioni». Poi si torna a casa e con tutta la famiglia si va al mare, al poligono militare di Torre Astura. Alle spalle dello stabilimento c’è un castello sull’acqua e la natura è ancora bella e selvaggia come quella dei Paesi dove lui continua a portare la luce. Ci lavora, invece da 10 anni, Raffaella, 38 anni, operatrice nel reparto celle. È entrata per uno stage di 10 mesi nello stabilimento, insieme a un gruppo di ragazze e ragazzi. «Cercavano ragazzi disoccupati e con il titolo di perito elettronico industriale. E pensare che mi piaceva l’informatica e avevo scelto l’indirizzo di perito nettuno 117 elettronico industriale, solo perché non mi piaceva la ragioneria. Dopo un anno e mezzo dallo stage ci hanno richiamato. L’elettronica mi ha conquistata – confessa Raffaella – anche se i macchinari cambiano ed è tutto sempre più computerizzato, anche i processi che vengono fatti a una fetta di silicio affinché diventi una cella fotovoltaica. Quante cose ho visto cambiare. Per un periodo ho fatto anche i turni notturni». Lavoro, casa, amici in una cittadina bella e tranquilla come Nettuno, dove gli americani hanno portato il “baseball”, ma dove è nato anche il mitico Bruno Conti, campione mondiale. «A volte ci spostiamo a Latina, altre volte preferiamo il nostro bellissimo borgo antico e i suoi localini. Per il resto continuo a godermi gli spaghetti alle vongole di mamma Simonetta e l’arrosto farcito, preparato con la carne buona che porta in casa papà Vittorio, macellaio». Pamela, anche se ha solo 30 anni, di Nettuno, aveva 20 anni quando è entrata come perito informatico. L’unica donna con questo titolo. Ora è operatrice di linea. È contenta di questi 10 anni trascorsi nello stabilimento e del nuovo corso con enipower. Un lavoro trovato quasi per ca- so. «Dalla scuola avevano chiamato mio fratello per sapere se era interessato a questo lavoro. Ma la cosa a lui non interessava, allora fece il mio nome. Mi hanno assunto». Il resto è storia di oggi e non solo di fotovoltaico. «Mi devo sposare a giugno, anche il mio futuro marito lavora nel settore ambientale. È di Anzio – si ferma, sorride – una volta c’era rivalità tra i due paesi». Andrà a vivere lì, ma le fotografie le farà nel borgo di Nettuno. «Lì c’è racchiusa tutta la storia della mia terra». Atmosfere medioevali, scorci bellissimi, tra slarghi, piazzette e vedute straordinarie sul mare e sul Forte Sangallo, percorrendo il versante esterno delle mura. Sicuramente l’addio al nubilato sarà con le amiche e anche con qualche collega. «Amo la sfoglia fatta in casa. Quella sera non mancheranno le fettuccine con il sugo di pesce, astice o frutti di mare, ma ci saranno anche le ciambelline e le crostate. Proprio ieri ne ho portata una in stabilimento. Ci vorrebbero anche le coscette di rana, Pina è brava a cucinarle, ma ormai è così difficile trovarle». Il lavoro è finito, le «signore del fotovoltaico» di ieri e di oggi escono dallo stabilimento. Le raggiunge Piero, 40 anni, il responsabile di produzione, è entrato che ne aveva 22. «Vi manda i saluti Pier Franco, sempre in prima linea sui campi di “baseball”. Ricorda sempre quella partita Cuba-Panama, quando era arbitro internazionale nella Coppa intercontinentale, e quella stretta di mani di Fidel Castro negli spogliatoi. E poi mentre ero in vacanza in camper con Catiuscia nella zona di Bomarzo, nell’alto La- zio, ho trovato un campo fotovoltaico dimostrativo di prima generazione in una zona recintata vicino a un boschetto. Era abbandonato, non so se funzionasse. Però sono riuscito a leggere il marchio: “Italsolar”. Sarà lì, quindi, da più di 20 anni. Quello sicuramente è opera nostra». nettuno 119 lo stabilimento insieme per una nuova sfida Ci hanno creduto prima di tutti, hanno vissuto momenti esaltanti, non si sono mai voluti arrendere perché in quell’energia che arriva dal sole ci hanno sempre tutti creduto. Ora per loro si presenta una nuova sfida. Forse la più difficile. Con enipower per rilanciare il settore del fotovoltaico e lo Stabilimento di Nettuno. Lo sa bene Alfredo, 44 anni, ingegnere, marchigiano di San Benedetto del Tronto. Da pochissi- Lo stabilimento di Nettuno, conferito in enipower dal 1° giugno 2006, è ubicato nell’Agro Pontino Romano, a circa 5 km da Nettuno e 60 km da Roma. Oltre alle aree produttive, di servizio tecnico e didattiche ospita un impianto fotovoltaico di 124 kWp che produce energia elettrica per le necessità dello stabilimento. Opera nella produzione di celle solari ad alta efficienza a base di silicio cristallino e moduli fotovoltaici cristallini a marchio Eurosolare con potenza compresa tra 110 Wp e 240 Wp e nella progettazione e installazione di sistemi fotovoltaici “chiavi in mano” con potenza non inferiore a 10 kW, utilizzabili per applicazioni a isola o connesse alla rete elettrica di distribuzione. Tutte le attività sono a basso impatto ambientale in una prospettiva orientata allo sviluppo sostenibile. Nello stabilimento è svolta una rilevante azione didattica e formativa sia sul territorio nazionale che internazionale, direttamente o attraverso enti pubblici o privati, mettendo a disposizione le conoscenze e le esperienze sul fotovoltaico. Il mercato di riferimento per le attività fotovoltaiche è quello nazionale anche in considerazione dello sviluppo avuto negli ultimi anni con l’introduzione del «Conto Energia», ma non mancano cooperazioni a progetti eni a livello internazionale. è in fase di completamento la nuova linea di produzione che consentirà di raggiungere una capacità produttiva di 30 MW. mi mesi ha ricevuto l’incarico di traghettare l’impianto che «cattura il sole» verso una nuova esaltante ma difficilissima avventura. È una realtà diversa da quelle dove finora ha lavorato. Si avvicina molto di più alla realtà manifatturiera. Una novità per lui che da 15 anni si è sempre occupato di attività di produzione elettrica. Da Milano, dopo alcune di esperienze all’estero, in Grecia, legate alla distribuzione del gas, è rientrato in Italia, a Milano per poi approdare a Nettuno. «Divido la mia vita tra le due città. Devo dire che la cosa che mi ha subito colpito di questo stabilimento è il fatto che si trova immerso nel verde, fatto un po’ atipico rispetto alla mia esperienza. Mi ricorda quei centri di ricerche spinti sullo stile dei modelli americani. Non ci sono nettuno i numeri dello Stabilimento Ciclo lavorativo • trattamento superficiale delle fette • deposizione acido ortofosforico sulle fette • diffusione acido ortofosforico nelle fette • rimozione ossido dalla superficie delle celle • trattamento antiriflesso • serigrafia e metallizzazione contatti • classificazione celle Realizzazione dei moduli l’assemblaggio delle celle è affidato a terzi, che operano su indicazioni, specifiche tecniche e procedure enipower, per cui i pannelli prodotti hanno il “brand” «Eurosolare». Lo stabilimento di Nettuno mantiene la competenza del controllo della qualità attraverso test funzionali Dal prodotto all’impianto enipower mette a disposizione dei propri clienti lo studio di fattibilità e la progettazione del sistema fotovoltaico, l’assistenza nell’espletamento delle pratiche autorizzative e nella stipula della convenzione con il Gestore dei Servizi Elettrici (GSE) per il riconoscimento del «conto energia»; l’assistenza nell’ottenimento di forme di finanziamento dell’impianto fotovoltaico 121 ciminiere o strutture di grande impatto architettonico». Diverso l’ambiente e diverse le persone. «Qui tutti si conoscono, sono colleghi di vecchia data, ma sebbene ci viva solo tre giorni alla settimana mi sono integrato bene e sono pronto per la mia “mission”. È il momento del fotovoltaico. Ora lo sanno tutti. Questi sono gli anni di enipower, dell’orgoglio ritrovato. Le strategie sono cambiate. Lo ha capito la gente, lo hanno capito quelli che lavorano allo Stabilimento di Nettuno. Si è modificato anche il personale, ora un terzo guarda al mercato, è diminuito invece il personale operativo sulla linea di produzione. Il nostro “business” ci vede concentrati sulla trasformazione della fetta di silicio in cella, il dispositivo in grado di trasformare la luce e trasformarla in energia elettrica. Oltre a produrre celle e moduli e progettare sistemi per il mercato, realizzeremo anche una serie di centrali fotovoltaiche per produrre energia da fonte rinnovabile per la vendita». Anche Stefano, 36 anni, ingegnere elettrico, palermitano, a Nettuno ci è arrivato da due anni, dopo aver girato diverse centrali elettriche, da Genova a Ferrera Erbognone. Per lui si apre questa nuova sfida che si chiama competitività. La sua famiglia è rimasta a Pavia, dove c’è il piccolo Matteo, 4 anni, ed è in arrivo un secondo figlio. «Li aspetto in estate per le vacanze a Nettuno, dove c’è questa bella spiaggia, un bel mare e un borgo antico dove Matteo può giocare con la sua spada di gomma e sentirsi un piccolo cavaliere». Mentre il papà lavora per quell’energia pulita del futuro dei suoi figli che a Nettuno è già una piccola ma importante realtà. «Oggi la coscienza locale si è accresciuta – dice Roberto, anche lui tra i pionieri – i nettunesi sanno cosa può dare il fotovoltaico, in una zona periferica, artigianale, dove ci sono solo piccole attività. Fino ad ora non c’è stata grossa risonanza, ora sono incuriositi e accorrono alle nostre iniziative di “fabbriche aperte”. Vogliono conoscere questa finestra sul mondo che si è aperta tanti anni fa a Nettuno». Mare con pannello solare - Stefano Bertazzi dove vive enipower 123 brindisi storia e leggende all’ombra del porto Mastro Teodoro la sua piccola storia da raccontare l’aveva anche lui. Proprio lui che aveva passato una vita a risuolare scarpe e sistemare valigie di cuoio nella sua bottega di «scarparo» (calzolaio) accanto al porto, ascoltando storie di culture e civiltà lontane, guardando il mare, sognando le Indie e viaggi fantastici. Il bisnonno, Teodoro come lui, era uno dei «figli della dominazione spagnola». Di quei soldati del Forte a mare che avevano messo su famiglia, ma avevano dovuto rinunciare al servizio militare per lavorare e mantenerla. Li chiamavano i «giannizzeri di Brindisi», i discendenti dei soldati spagnoli, poveri ma non dimenticati. A occuparsi di loro il più famoso castellano del Forte a Mare, il «maestro di campo» Aloysio Ferreyra di Lisbona, che il 25 febbraio 1711 istituì, con un proprio capitale di 9.000 ducati, una rendita di 600 ducati annui a brindisi 125 favore dei soldati del castello e dei loro eredi. E così fu stilata una lista di beneficiari del «Pio Monte Ferreira», un’istituzione benefica operante fino al 1940. Mastro Teodoro, però, di storia ne raccontava un’altra. Spirito levantino, parlava, invece, di un eroico ufficiale, Capitan Alonso e del suo grande amore per Donna Teresa, di una morte sul campo di battaglia, onorato e decorato. Vantava amicizie con il Capitano Pedro Aloysio de Torres, che portò l’acqua alla città, facendo costruire, con il contributo dei più benestanti, le tre fontane all’interno del centro abitato, in quella Piazza della Vittoria, un tempo divisa tra Piazza dei nobili e Piazza della plebe. Tra storia e leggenda, tra scarpe rotte e navi pronte a salpare, quando i soldi non arrivarono più, si ripiegò sul lavoro e la sua bottega cresceva tra i sogni di viandanti e viaggiatori, quelli che sulla storica «Valigia delle Indie», c’erano stati. Dopo l’apertura del Canale di Suez, infatti, il Governo italiano aveva stipulato una convenzione con la «Peninsular and Oriental Steam Navigation Company». Ogni settimana la «Valigia delle Indie» partiva da Londra con treno speciale via Calais per arrivare a Brindisi. Da qui salpava il piroscafo postale inglese (P&O) che attraverso il Canale di Suez giungeva nell’Oceano Indiano e quindi a Bombay. E così Brindisi diventò, tra il 1870 e il 1914, il porto d’imbarco della principale comuni- cazione tra Londra e le Indie. Storia e leggende all’ombra di un porto. Viaggiatori immaginari come Phileas Fogg nato dalla fantasia di Jules Verne nel suo libro «Il giro del mondo in 80 giorni», protagonisti della storia come il mahatma Gan- dhi, nel 1931, di ritorno da Roma e in partenza per l’India, ricevuto dal canonico Pasquale Camassa, che gli diede da bere in una coppa del V secolo a.C. il latte della capra che lo accompagnava nei suoi viaggi. C’è la terra e il mare, il treno e il tran- satlantico, in quella che è sempre stata la porta di Roma verso l’Oriente. Lì finiva la Via Appia, proprio dove si ergevano maestose le due colonne romane. È da Brindisi che partivano gli eserciti di Roma. Qui sbarcavano vittoriose le legioni di Flaminio, Sci- brindisi 127 sognando la «Valigia delle Indie» La fantasia di Jules Verne quel “Giro del mondo in 80 giorni” lo faceva partire proprio da quel treno internazionale «India mail», noto in Europa come «Valigia delle Indie». Una sera di ottobre del 1872, Phileas Fogg, gentiluomo inglese, con il suo domestico Passpartout, iniziava il suo viaggio fantastico da Victoria Station a Londra. Ma la «Valigia delle Indie» esisteva davvero e i suoi passeggeri erano alti ufficiali, diplomatici, inviati speciali del «Times» o persone che avevano rapporti con l’India, possedimento dell’Impero britannico. Quando fu aperto il Canale di Suez, nel 1869, l’Inghilterra, guardò alla via italiana come la più breve, e non ebbe più dubbi quando fu aperta la galleria del Moncenisio, che collegava, in pochi minuti, la Francia con l’Italia. La «Valigia delle Indie» partiva da Londra, ogni settimana il venerdì alle 20,45 e raggiungeva Brindisi in 42 ore e 30 minuti, con il suo carico di merci preziose, posta diplomatica e valuta. Il servizio si effettuava con il «treno di lusso - Peninsular Express, composto esclusivamente di carrozze a letti, e di una carrozza ristorante» in coincidenza con i piroscafi della P&O Company, in partenza ogni domenica da Brindisi per Port Said, e quindi per Bombay e Calcutta. Così fino al 1914. pione, Silla. È qui che Cesare e Pompeo si sono contesi il dominio della Repubblica. È qui che moriva Virgilio di ritorno da un viaggio in Grecia e chiedeva il manoscritto dell’Eneide per bruciarla. Ma è da qui che i Crociati partivano per la terra Santa e fiorivano gli scambi e i commerci. È qui che si alternavano le dominazioni tra declini e rinascite: Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Veneziani, Spagnoli, Austriaci, Borboni. Il resto è storia di oggi, di un mondo che è ancora in transito, di sbarchi clandestini e di turisti in rotta verso la Grecia e le sue isole. Non c’è più Mastro Teodoro a raccontare la sua storia. La sua bottega di calzolaio è cresciuta tanto, a forza di risuolare scarpe e riparare valigie di viandanti. Il porto è diventata la sua ricchezza, il suo spirito è rimasto fiero, levantino, come tutti i brindisini, colonizzati nella terra ma non nel cuore. Gara di vela - Vincenzo Molinaro brindisi 129 ricchi commercianti, anche quando Brindisi era la capitale d’Italia. Si colgono tutt’intorno le tracce del passato nell’architettura barocca degli edifici vicini: il cinquecentesco palazzo Montenegro, oggi sede del Prefetto. Nelle sue sale passarono re Ferdinando IV e Gioacchino Murat. Fu poi acquistato dalla Peninsula and Oriental Steam Navigation Company, società titolare della «Valigia delle Indie». E il pensiero va sempre lì. Quando Dante parla del nonno e dei suoi antenati «giannizzeri», gli occhi gli si illuminano. Il mare ce l’ha nel cuore anche lui. Quella passione che gli ha trasmesso lo «scarparo» quando da bambino lo portava nel quartiere delle «sciabiche», le reti dei pescatori, e gli raccontava itinerari avventurosi. Una passione che aveva continuato a inculcargli il padre. «Proprio qui, davanti all’“Internazionale” – ricorda Dante – mio nonno terra di sbarchi e viaggiatori Guarda il mare, sente il vento, vede le onde incresparsi, quel porto naturale che si apre in due seni, quello di Ponente e quello di Levante, e che avvolge la città su tre lati. In lontananza lo sguardo si posa sullo «schifarieddu», la piccola imbarcazione di legno che ancora collega i due versanti di Brindisi. E il pensiero va a nonno Teodoro, lo «scarparo». Quando con la mano lo accompagnava sul molo e gli raccontava le avventure di quei ricchi viaggiatori inglesi della «Valigia delle Indie». Un mondo che alla fine era riuscito a vedere anche lui. Aveva fatto fortuna ed era tornato nella sua Brindisi e nel suo porto. Aveva acquistato un negozio di scarpe ed era riuscito a dare un futuro ai suoi figli. Erano gli anni d’oro del «Brindisi Hotel» (oggi Hotel Internazionale) in perfetto stile liberty, che aveva visto passare re e regine, nobili e Lu Schifarieddu - Mario Capriotti brindisi 131 Monumento al Marinaio d’Italia - Mario Capriotti Tramonto - Vincenzo Molinaro calava giù con una corda mio padre perché imparasse a nuotare e ad amare il mare». Quante volte l’aveva sentita ripetere questa storia mentre percorrevano Viale Regina Margherita lungo la banchina del porto. Le voci dei pescatori dai loro pescherecci carichi di pesce fresco, gli sbarchi di viaggiatori, turisti, clandestini, quanti albanesi sono passati di lì accolti nelle case dei brindisini. Una mescolanza armoniosa di voci, suoni e dialetti del mondo. Ma anche di sapori: gli involtini di verza che ricordano quelli di foglie di vite della cucina greca. Albero ospedale di Summa Vincenzo Molinaro Poi i marinai. Per loro un pensiero speciale. Un monumento dedicato simbolicamente al «Marinaio d’Italia». Una sorta di gigantesco timone di circa 54 metri, che attraversando il canale Pigonati domina il porto interno. Visto dall’alto richiama un uccello stilizzato e dal suo terrazzo la città appare in tutti i suoi volti. Sulla sommità la statua di marmo della Madonna e alla sua base, una cappella sacrario che ricorda i caduti delle guerre mondiali. Qui è custodita la Campana della corazzata «Benedetto Brin», affondata nel porto di Brindisi nel 1915. Oggi come allora Dante guarda con orgoglio la sua città: i due castelli, quello Svevo, detto anche «castello grande» o «di terra» voluto nel 1227 da Federico II come residenza fortificata propria e per le sue guarnigioni a terra, che delimita il centro antico verso levante e quello Aragonese o Alfonsino, quello «di il cavallo bianco che porta il Santissimo La Processione del «Cavallo parato» rievoca il difficile approdo a Brindisi nel 1250 di Luigi IX, re di Francia, di ritorno dall’Egitto dalla settima crociata. La sua nave che portava l’Eucarestia, per il forte vento o una mareggiata, si schiantò rovinosamente sullo scoglio di un promontorio della costa, tre miglia a sud di Brindisi. I marinai temevano il peggio, pensavano che la nave naufragasse, ma il re pregava tranquillamente davanti al Santissimo. Sul punto dove si era arenata la nave lo accolse l’arcivescovo Pietro III, che essendo molto vecchio, era in sella a un cavallo bianco. Il re gli consegnò l’Eucarestia e la portò in processione in città, seguito dai reali e dal popolo. La leggenda vuole che nel punto di spiaggia dove il cavallo pose le zampe durante il trasbordo dell’Eucaristia, abbia lasciato l’impronta dello zoccolo e da qui sia sgorgata acqua dolce. Di qui il nome del promontorio, Punta Cavallo. E vicino allo scoglio fu edificata una torre a devozione. mare» sull’Isola di Sant’Andrea, in una posizione strategica di difesa. Le arcate gotiche del portico dei Cavalieri Templari da cui si accede al Museo Archeologico «Francesco Ribezzo», studioso di cultura messapica. Ne percorre le sale e si ferma incantato davanti ai Bronzi di Punta del Serrone. Dal porto la scalinata Virgiliana lo conduce alle colonne romane (ne è rimasta una. È straordinario il capitello con Giove, Nettuno, Pallade e Marte inframmezzati dai Tritoni) e al duomo romanico distrutto dal terremoto del 1743, dove Federico II nel 1225 aveva sposato Isabella di Brienne, e ricostruito nel 1750; al seminario, alla loggia del Palazzo Balsamo, del XIV secolo, che ospitava la Zecca angioina, a Palazzo Granefei-Nervegna. È un susseguirsi di emozioni. Percorre le strade del centro antico: le chiese (testimonianze delle Crociate come quella di San Giovanni al Sepolcro, dell’XI secolo, la chiesa di Santa Lucia con la sua cripta basiliana e il complesso di San Benedetto e ancora la chiesa di Santa Maria del Casale e i suoi affreschi del XIV-XV secolo, la barocca chiesa di Santa Teresa nel quartiere degli spagnoli brindisi 133 Lungomare - Vincenzo Molinaro che ricorda Don Aloysio Ferreira), le dimore storiche. Si ferma con gli amici in Piazza della Vittoria, vicino alla Fontana De Torres, costeggia le mura antiche, attraversa le storiche porte: Porta Mesagne, Porta Lecce, i bastioni e i torrioni. È un brulicare di gente assiepata ai lati delle strade, la banda, uno scampanellio, la gente intona i canti sacri ed ecco un cavallo bianco, il «cavallo parato». In groppa l’arcivescovo di Brindisi porta in processione il Sacramento nella festività del Corpus Domini, accompagnato dai rappresentanti dell’Ordine dei Cavalieri di Malta e dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme che reggono le sei aste del baldacchino. I fuochi d’artificio illuminano il cielo di Brindisi da Punta Penne a Punta Cavallo, per un’altra festa, la processione a mare, la prima settimana di settembre. Le statue e le reliquie dei santi patroni della città San Teodoro d’Amasea e San Lorenzo da Brindisi, dal castello aragonese entrano nel porto su una barca seguite da altre imbarcazioni. È una festa di luci e colori, di fede e tradizione. Ma un’altra fiaccola brilla nel cielo di Punta Cavallo, quella del petrolchimico, ma questa è un’altra storia. brindisi 135 lo stabilimento Inserito nel polo petrolchimico di Brindisi, alla periferia della città, si affaccia sul mare Adriatico. Con l’entrata in esercizio nel 2006 della nuova centrale, degli impianti originali sono in esercizio i soli generatori alimentati con vapore di recupero dall’adiacente impianto di «cracking» di polimeri europa e una caldaia come riserva fredda. La nuova centrale è composta da 3 cicli combinati per una potenza di 1170 MW. I turbogas sono alimentati da una miscela di gas naturale e gas petrolchimico: quest’ultimo permette il risparmio di gas naturale e favorisce anche una riduzione annua delle emissioni di CO 2 (circa 142.000 t/anno). L’energia elettrica è destinata in parte ai fabbisogni delle società coinsediate, in parte è immessa sulla rete nazionale tramite un nuovo elettrodotto a 380 kV, entrato in esercizio nel 2005, che garantisce bassissimi valori di campo magnetico. Il vapore tecnologico prodotto è ceduto agli impianti delle Società coinsediate. Rilevante per il recupero delle risorse idriche è l’impianto a osmosi inversa che nell’ambito della bonifica della falda acquifera soggiacente lo stabilimento, contribuisce al riutilizzo delle acque riducendone il prelievo da acquedotti e pozzi artesiani. Vicino allo stabilimento è in esercizio l’impianto di «phytoremediation» che utilizza alcune specie di piante per rimuovere l’agente inquinante del terreno proveniente dalle bonifiche del sito. una luce sul promontorio Dante a Punta Cavallo ci va ogni giorno. è l’altra faccia di Brindisi. Quella dell’industria, quella del sogno del petrolchimico, negli anni Cinquanta, all’epoca della MonteShell (una combinazione tra Montecatini e Shell) su una superficie 4 volte maggiore di quella della città con un proprio molo proteso per 500 metri sul mare per l’attracco delle petroliere. Erano gli anni in cui si puntava sulla chimica in Italia. Doveva portare sviluppo e occupazione. Le cose andarono diversamente. A raccogliere la sua eredità la più grande azienda italiana: eni. Sempre lì a Punta Cavallo, quel promontorio sul mare che ricorda a Dante le sue origini e rafforza il suo legame con la storia, all’ombra del Forte dalle mura rosse. Lui ha potuto studiare e si è fatto una posizione nella Centrale, è un inFarfalla - Rosario Cigna gegnere, si occupa della cura degli impianti, ma continua ad amare il mare e il vento che spinge la sua vela dal porto al largo. Con le «armi» della tecnologia difende il suo «castello», come gli antenati spagnoli difendevano la loro fortezza e il loro porto. «Lo Stabilimento e la Centrale enipower – dice Rosario, che oggi occupa un posto di rilievo del- la società – sono come un porto sicuro, assicurano l’energia di cui ha bisogno la comunità, sostengono l’occupazione e molte attività economiche indotte. Sono l’occasione per far crescere le diverse abilità tecniche e umane che danno qualità alla comunità. Sono rete perché, attirano capitali e lavoratori con le loro culture e risorse. Danno occasione a brindisi 137 scambi di materie prime e di prodotti energetici, senza limitazione di distanza». Chi trasforma i rischi in opportunità, la paura dello straniero in occasione di crescita, come quello «scarparo» che si faceva raccontare di Paesi lontani mentre riparava le borse ai passeggeri de “La valigia delle Indie” e che i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 1.321 MW Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 3 cicli combinati a gas naturale da 390 MW, di cui 2 adatti all’utilizzo anche di off gas unità a vapore n. / taglian. 1 unità a vapore di riserva e recupero vapore da impianto cracking da 151 MW Anno di entrata in servizio dei nuovi cicli combinati 2005 Combustibili gas naturale off gas (gas da processo petrolchimico) Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Altre produzioni/servizi acqua dissalata e demineralizzata Aziende eni coinsediate e servite polimeri europa Porto Interno - Mario Capriotti Villaggio di Pescatori - Mario Capriotti è cresciuto. «Oggi i suoi antenati sono protagonisti di questo mondo interconnesso. Non si limitano a sognarlo, lo vivono. Parlano le lingue, usano la tecnologia, viaggiano». Non sono più servitori nel castello degli stranieri ma li accolgono o vanno in altri Paesi per portare lì la tecnologia che hanno imparato. «Gli uomini e le donne di enipower – dice Rosario – non hanno più bisogno di sognare. Essi vivono da protagonisti nelle loro comunità. Sanno che le opportunità contengono rischi che il loro lavoro è, soprattutto, tenerli sotto controllo e impedire che possano nuocere». Perché Rosario possa ancora fotografare una farfalla variopinta posata su un fiore in mezzo al verde e Mario possa immortale lo «schifarieddu» con il suo carico di pesce fresco da portare al mercato e Vincenzo una gara di vela. Mentre il piccolo Alberto continua a sognare la sua «Turbochiocciola» che intanto è diventata la mascotte di enipower e una schiera di graffitari a colorare le pareti dello stabilimento brindisino. dove vive enipower 139 taranto l’altro volto della città dei due mari Lo chiamavano «Marche Poll» come Marco Polo, il grande viaggiatore veneziano che raccontò l’Oriente nel suo «Milione», e come il piroscafo «Marco Polo» sul quale raccontava che il padre si fosse imbarcato. E con il suo mitico berretto da «panarijdde» (il ragazzino di strada, ma anche il giornale tarantino di cui aveva fatto lo strillone), Amedeo Orlolla (questo era il suo vero nome), girando per Taranto vecchia ne raccontava le avventure a bordo di quella nave. Varata nel 1912, fu requisita il 17 luglio del 1940 e utilizzata in numerose missioni in Libia. Era nel porto militare di Taranto, nel Mar Piccolo, lì dove si concentrarono tutte le navi della flotta italiana, rimanendo però esposte alle ricognizioni degli aerei nemici. E quella tragica notte dell’11 novembre 1940 pochi aerei inglesi bombardarono la flotta italiana. Ci furono 60 morti e 600 feriti. Ma la taranto 141 «Marco Polo» sopravvisse alla guerra dei convogli davanti alla portaerei «Littorio» che veniva colpita da tre siluri. Poi, però, ne ricordava il suo triste declino: la cattura da parte dei tedeschi l’8 settembre 1943, l’affondamento il 12 maggio 1944 a La Spezia, per costruire la rada e nel dopoguerra la definitiva demolizione del relitto. È la Taranto della storia della Marina Militare Italiana, tra il Mar Piccolo e il Mar Grande, all’ombra di quel ponte girevole emblema della città. Ma è anche la storia della Taranto fatta dalla gente, dai protagonisti della strada come «Marche Poll». Viso burbero, la giacca di un paio di misure più larga, pendente su un fianco e in mano l’immancabile sigaretta. Nato a Taranto il 27 agosto 1895, dove è morto l’11 gennaio del 1982, anche lui ha segnato la storia. Sulla sua tomba al cimitero «San Brunone», in una cappella comunale, i fiori non mancano mai e neppure le sigarette che continuano a portargli i passanti. Il suo sorriso bonario, caricatura di un’epoca andata, oggi sopravvive grazie al più diffuso “social network”, dove gli amici di «Marche Poll» continuano a raccontare la sua umanità fatta di gesti semplici. «Aveva svolto i lavori più umili - ricorda zio Cataldo, che lo incontrava sempre nelle strade di Taranto vecchia - dal garzone di fornaio al carbonaio, al venditore di girandole colorate. Ma l’immagine che ho di lui è con quell’“ammuzzo” (mucchio) di buste gialle contenenti le schedine della Sisal, già compilate, che vendeva ai passanti. “A vuè mo? ‘A buste?” (la vuoi adesso la busta?), diceva con il suo dolce e impertinente sorriso senza denti». Perché «Marche Poll» Due bambini - Leonardo Cuccaro Pescatori - Leonardo Cuccaro lo amavano tutti. Credevano portasse fortuna. Ha venduto schedine fino all’età di ottant’anni. I tarantini che lo incontravano per strada, lo prendevano sottobraccio e lo portavano al bar per offrirgli da bere o per dargli qualche sigaretta. «Era il sorriso della città», l’altra faccia di una Taranto dai due volti e dai due mari. Della Città vecchia sull’isola e taranto 143 Montemesola città - Angelo Lisi il ponte girevole Quanta storia è passata sotto quel ponte girevole tra il Mar Piccolo e il Mar Grande, su quel canale scavato nel 1480 a difesa del castello aragonese. Lungo 400 metri e largo 73, fu inaugurato il 22 maggio 1887. Funzionava grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio sul Torrione di San Lorenzo: 600 metri cubi di acqua che in caduta azionavano le due braccia del ponte. Il nuovo, costruito dall’Impresa Industriale Italiana, dedicato a S. Francesco di Paola, patrono della gente di mare, fu inaugurato il 10 marzo 1958, dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. È costituito da due semiponti. L’apertura, con un sistema elettrico, inizia con la rotazione di circa 45° del semiponte lato Città Vecchia, poi con la rotazione di 90° del semiponte del Borgo, seguita dal completamento della rotazione di quello lato Città Vecchia. Si è aperto nel 1965 per far passare l’«Amerigo Vespucci», dopo circa 20 anni ha visto partire la fregata «Grecale» verso il Golfo Persico. Marinai sull’attenti, il tricolore, l’inno d’Italia, mentre le navi più belle della flotta italiana tagliano la città. Partenze e ritorni, intorno a quel ponte che oggi, sempre più di rado, apre e chiude le sue braccia. della Città nuova del polo siderurgico e del petrolchimico. Prendeva la vita con ironia. «Appuendete ‘nnande!» (abbottonati avanti) diceva al passante sfuggente, lo sguardo inevitabilmente andava alla «braghetta» del pantalone. Naturalmente era chiusa. Una piccola beffa, un pretesto per riderci insieme e poi la classica domanda: «A vuè mo? ‘A buste?». Al funerale di Amedeo partecipò tutta Taranto che accompagnò la sua ultima passeggiata per la città tra le note delle marce funebri della Settimana Santa. Vestito di bianco come aveva Barca su sfondo - Antonio De Roma sempre voluto, accompagnato dal Sindaco e da tutte le autorità. Ecco, Taranto è anche questa. taranto 145 «Taranto era molto più bella e pulita», ricorda con nostalgia. E il pensiero va al mare, alle cozze freschissime mangiate naturalmente crude («si dice che noi tarantini ormai siamo immuni da ogni malattia»), le vere cozze, quelle di Taranto, «non quelle greche scaricate nel porto. Ora gra- leggende, miracoli e tradizioni antiche Antonio oggi ha 46 anni e anche se nella Taranto vecchia non ha mai vissuto, la conosce da quando era bambino. Tra i vicoletti e gli «stretti», (le strette stradine del borgo antico), lo portava sempre zio Cataldo (lo zio di uno zio). Cataldo, come il patrono della città. Il Santo irlandese, le cui spoglia sono conservate nel Duomo dell’XI secolo, dalla facciata barocca e dalla cupola in stile bizantino. «Placò la tempesta e ci regalò le cozze più buone del mondo», ripeteva sempre lo zio pescatore, o meglio «contadino del mare», veri e propri coltivatori che tra pali e corde si prendono cura di quel delizioso frutto custodito tra le due valve. E in quel Mar Piccolo Antonio ci faceva anche il bagno, una bella nuotata con gli amici e poi tutti a raccogliere le cozze. Può dire di essere stato uno di quell’ultima schiera di ragazzini a essersi tuffati in quelle acque ancora limpide, come quelle dello storico stabilimento «Santa Lucia» sul Mar Grande, proprio a ridosso della città. Ora è in completo abbandono, prima era il lido dei tarantini. Ma di acque fresche e limpide, Antonio ricorda anche quelle del fiume Galeso. Un piccolissimo corso d’acqua di origine carsica. «Uno di quei fiumi sotterranei della nostra terra – dice Antonio – l’acqua sorgiva era fredda, e quando faceva tanto caldo andavamo lì a fare il bagno». Tramonto 1 - Michele Sannino taranto 147 pepata di cozze da “record” Cozze da «guinness»! è proprio il caso di dirlo. Perché Taranto nella storia dei primati è riuscita ad entrarci realizzando la «pepata di cozze» più grande del mondo. Quasi quattro tonnellate di cozze per preparare uno dei piatti più tipici della tradizione tarantina. E così ha strappato il primato ai francesi in una straordinaria «kermesse» che ha visto all’opera oltre 500 volontari, i quali hanno condito il pregiato frutto del mare di Taranto con 300 chilogrammi di pomodori, 150 litri di olio rigorosamente pugliese, 750 teste d’aglio, 3 chili di sale, 20 chili di pepe, 150 litri di vino e 300 chilogrammi di croccanti crostini di pane. E poi tutti in piazza a gustare la «pepata» fatta con la cozza più buona del mondo. Sempre, anche nella sua semplicità, quando viene aperta dalle mani del pescatore che con il suo coltello, con gesto veloce, ne stacca il frutto, ci spreme su una goccia di limone e la porta alla bocca: cruda, gustosa, afrodisiaca, davvero unica. zie ai continui controlli, nel golfo di Taranto ci sono solo le nostre: grandi, succose, davvero uniche». «Un vero miracolo». E il pensiero va a San Cataldo, ordinato vescovo da San Patrizio nel V secolo. Mentre pregava sul Santo Sepolcro sentì la voce del Signore: «Vai a convertire Taranto». La leggenda vuole che San Cataldo fosse sorpreso in mare da un’improvvisa e violenta tempesta; le onde crescevano e l’equipaggio preso dal timore gli chiese di pregare per la salvezza. Il Santo si tolse l’anello pastorale e lo gettò in mare. La bufera si placò e nel punto dove lanciò l’anello l’acqua del mare diventò dolce e fresca come quella di un fiume di montagna. Nasce così il famoso «citro» di San Cataldo, più noto come l’«Anjedde de S. Catàvede», ben visibile fino a qualche anno fa. Perché il vero segreto delle cozze tarantine sono proprio i «citri», che in realtà una spiegazione scientifica ce l’hanno. Sono le tipiche sorgenti sotterranee carsiche di acqua dolce, sirene delle barche. Momenti di devozione con la benedizione alla città raccolta in festa ai lati del canale e sul lungomare, che accompagna il Santo nel rientro nella Città vecchia e nel Duomo. Momenti di folklore con il Palio, nato del 1986. Una regata di barche a remi tra i rioni della città, con i marinai che indossano gli abiti d’epoca e la sfilata storica in costume che ricorda le nozze tra Maria d’Enghien e il re di Napoli Ladislao d’Angiò, avvenute a Taranto nel 1407. Altri ritmi, altri gesti, altri segni in quell’incedere lento e cadenzato dei «Perdune», i confratelli penitenti, scalzi e incappucciati, che «nazzicando» (la tipica andatura), sfilano in processione ai ritmi esasperati delle «traccole» (strumento musicale in legno con maniglie battenti in ferro che, agitate ritmicamente, scandiscono il passo e le soste delle processioni). Ricordano i pellegrini che si trovano in Puglia. Quelle che hanno originato le caratteristiche gravine delle Murge. Il più grande e famoso «citro» è quello di San Cataldo che riesce a ricreare nel Mar Piccolo, un mare chiuso, le condizioni idrobiologiche ideali perché le cozze possano crescere e avere quel sapore che le distingue, e che è dovuto proprio a quelle correnti di acqua dolce e alla bassa salinità delle acque in quel tratto di mare. Ma per tutti rimane il miracolo del monaco irlandese che a maggio viene festeggiato nella storica processione a mare. La statua d’argento esce dal Duomo e sfila in processione su un carro addobbato di fiori per la Taranto vecchia, poi prende il largo su una nave messa a disposizione dalla Marina Militare. Tante imbarcazioni, grandi e piccole, la attendono e accompagnano il suo passaggio dal Mar Grande al Mar Piccolo tra i fuochi d’artificio e le Gabbiano - Michele Sannino taranto 149 che si recavano a Roma per chiedere il perdono dei peccati. E dalla chiesa di San Domenico, a mezzanotte del Giovedì Santo parte la Processione dell’Addolorata, che si protrae fino al giorno successivo. Poi il Venerdì Santo dalla chiesa della Madonna del Carmine un’altra processione, quella dei Misteri, con le sue statue ottocentesche in cartapesta, dalla Vergine Addolorata al Cristo morto e gli altri segni che rievocano la passione di Cristo. Tradizioni che si tramandano da secoli e che riescono ancora oggi a coinvolgere tutta la città, che di notte assume un fascino del tutto particolare. «Che bella serata», dice Paolo Villaggio nel film di Lina Wertmuller «Io speriamo che me la cavo», affacciandosi da un balcone della Taranto vecchia di fronte allo splendido golfo. Uno straordinario e suggestivo panorama dalla «palazzata» (come la chiamano i tarantini), che si affaccia sulla ringhiera e guarda al mare, raccontando la sua storia secolare racchiusa in quell’ipogeo «De Beaumont Bonelli Bellacicco». Fin dall’era geologica, circa 65 milioni di anni fa, il luogo porta i segni della Magna Grecia, arrivando ai Bizantini, al Medioevo e al Seicento. Su tre livelli in 700 metri quadri e per 12 metri, la Taranto sotterranea, tra la roccia calcarea con i fossili dei mitili e lo sbocco sul mare, con l’accesso diretto alla battigia sul lungomare. Quello stesso golfo dove non si affaccia solo la storia, l’arte, l’architettura, la musica di Giovanni Paisiello e del suo «Barbiere di Siviglia», dove non ci sono solo i preziosissimi «ori» del Museo nazionale archeologico, testimonianza eccellente dell’arte orafa ellenistica. Su quel pontile si affaccia anche la grande industria, quella dell’energia, dove ogni giorno Antonio contribuisce a scrivere un’altra pagina di storia. taranto 151 lo stabilimento giochi e goliardia nella grande famiglia eni Contadini «a mare» o «a terra», operai nelle piccole fabbriche manifatturiere o marinai. «La Marina Militare ha occupato la parte migliore del golfo e dell’attracco tarantino e con essa - dice Antonio - ha tolto un po’ di spina dorsale, non è riuscita a sollecitare l’ingegno dei tarantini». Per loro poi è arrivato il boom dell’acciaio, migliaia di posti di lavoro, Ilva, Italsider, i grandi colossi della siderurgia. Altiforni e ciminiere sono spuntate sul cielo della nuova Taranto industriale. Ed è qui che nel 1964 è stata costruita la Raffineria di Taranto, nello stesso anno in cui si avviò la realizzazione del Parco Serbatoi (grezzo) e dei primi impianti di lavorazione su iniziativa della «Shell Italiana», per coprire il fabbisogno del sud-Italia. La Shell rimarrà fino al 1975, quando la Raffineria passerà sotto il controllo nazionale del Gruppo eni, con il marchio societario di «Industria Italiana Petroli» (IP), controllata da AgipPetroli e per piccola parte da Snam. «Erano gli anni dell’“Austerity” ricorda Antonio - per far fronte alla crisi petrolifera. Erano gli anni dell’Italia a piedi e delle targhe alterne, delle compagnie straniere che cominciarono ad abbandonare il Paese, di una forte scesa in campo da parte del Gruppo eni per è è situato all’interno della raffineria eni refining & marketing a nord del Golfo di Taranto, a pochi chilometri dalla città. La Centrale è composta da quattro caldaie, un impianto turbogas e quattro turbine a vapore ed è fortemente integrata con la realtà industriale locale, alla quale fornisce vapore tecno logico ed energia elettrica, utilizzata dalla raffineria e in piccola parte ceduta alla Rete di trasmissione nazionale. Sebbene lo stabilimento gestisca impianti a tecnologia tradizionale, la capacità cogenerativa e l’utilizzo dei gas di raffineria permettono di ottenere «performance» confrontabili con gli altri impianti di nuova tecnologia costruiti da enipower. Si sta lavorando per realizzare una nuova Centrale a Ciclo Combinato da 240 MWe alimentata a gas naturale in sostituzione dei gruppi alimentati a olio combustibile, con una consistente riduzione delle emissioni in atmosfera. Fornirà in modo efficiente e affidabile vapore tecnologico, oltre che energia elettrica, alla raffineria eni. L’energia elettrica non consumata in sito sarà esportata verso la Rete di trasmissione nazionale. L’impatto ambientale sarà minimo grazie all’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili con elevata efficienza del nuovo ciclo combinato (rendimento ca 54%); utilizzo di bruciatori a bassissima emissione di NoX ; abbattimento delle polveri e SO2; riduzione di CO2 per unità di energia prodotta. tutelare i posti di lavoro». Il resto a Taranto è storia di oggi, di questo decennio. Nel 2001, gli impianti legati alla Centrale Termoelettrica operante all’interno del sito (CTE), sono stati conferiti a un’altra società del Gruppo eni, la enipower. «Centrale e Raffineria di fatto sono diventate due cose diverse, ma per chi ci lavora rimangono sempre la stessa famiglia. Il personale enipower ha fatto fatica a sentirsi parte di una società diversa dalla raffineria. È quell’orgoglio di appartenenza che continua a legarci. E ora il progetto di una nuova centrale rilancia nuove speranze tra i lavoratori la cui età media è tra i 30 e i 40 anni». Si sentono protagonisti, insieme sono una bella squadra. Leonardo, 43 anni, voleva entrare in marina, poi dopo alcune esperienze come guardia costiera, è entrato in raffineria come operaio specializzato, aveva 25 anni. Ha coperto tutte le posizioni. È passato in sala con- Quattro bambini - Leonardo Cuccaro taranto 153 Un bambino con ciminiere su sfondo - Leonardo Cuccaro i numeri della Centrale Quote partecipazione enipower 100% Potenza installata 87 mw Tipologia impianti cicli combinati n. / taglian. 1 turbina a gas da 42 MW con caldaia a recupero unità a vapore n. / taglian. 2 unità a vapore da 45 MW totali Combustibili fuel gas (gas da recuperi di raffineria) olio comb. a basso tenore di zolfo Prodotti della cogenerazione energia elettrica vapore tecnologico Altre produzioni/servizi acqua dissalata e demineralizzata Aziende eni coinsediate e servite eni refining & marketing trollo, poi è diventato capoturno. «Da turnista, lavorando la notte e avendo tre giorni liberi, studiavo. Mi mancano sei esami per diventare ingegnere industriale. Appena posso riprendo». Da «buyer» è passato al servizio di prevenzione e sicurezza ambientale. «è difficile trasmettere alla popolazione che la nuova centrale da realizzare sarà un bene, mettiamo via i vecchi generatori a vapore che usano il vecchio combustibile». E lui a Taranto ci tiene anche se non è più quella che ha ritratto nelle sue foto: il vecchio borgo, i vicoletti, quel bambino in calzoncini che si porta la mano al viso per non farsi fotografare e sullo sfondo le ciminiere fumanti. Vecchi giochi di bimbi. Giochi di squadra in centrale, tornei di calcio e cene conviviali per il piacere di stare insieme, accompagnati da piccoli scherzi e tanta goliardia a caccia dei «fantasmi della centrale» e di invisibili cani al guinzaglio. Antonio, 42 anni, di Palagiano, la terra degli agrumi a 20 km da Taranto, è un maestro in queste cose. È lui l’artefice della pergamena con la «Preghiera degli operatori della Centrale enipower», affissa in bacheca, che con ironia presenta pregi e difetti del personale. «Ha preso il posto di papà Vito e da 13 anni è in eni. Per due anni è stato in raffineria a Sannazzaro, poi a Taranto ed ora lavora in centrale». Michele, 46 anni, è turnista, lavora la notte e smonta all’alba. «Il rosso del cielo si confonde con il rosso del mare. Che spettacolo l’alba sul golfo di Taranto. È così bella che ho voluto fotografarla». Con lui è la terza generazione che lavora in eni, dopo il nonno e il padre. Aveva 3 anni quando il padre fu trasferito da Napoli a Taranto nel 1967, per lavorare prima in raffineria e poi al pontile. Nel ’90, quando andò in pensione, Michele ne prese il posto. Taranto è ormai diventata la sua città. «Ha il lungomare più bello d’Italia. Ne è fiero come tutta la squadra di enipower. Noi all’ambiente ci teniamo davvero. Lo dico, non perché lavoro in centrale, ma perché qui c’è sempre stata un’attenzione particolare al territorio e alla città». Tramonto 2 - Michele Sannino dove vive enipower 155 Biografia dell’autore Luigia Ierace, giornalista professionista, è nata a Potenza nel 1960. Laureata in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Salerno, con tesi in Diritto Amministrativo sul «Garante dell’editoria» (1988). Procuratore legale. E’ iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 1989. E’ redattore alla «Gazzetta del Mezzogiorno» a Potenza. Collabora dal 2005 con «Il Sole 24 Ore». Si occupa di cronaca, società, ambiente, cultura, economia con particolare interesse per i temi energetici. Ha seguito seminari di alta formazione sulla professione giornalistica nel settore energetico ed ambientale. Dal 2008 è Segretario dell’Associazione della Stampa di Basilicata. Interviste e testi a cura della giornalista Luigia Ierace Immagini di Stefano Gattucci Contributi fotografici tratti dal concorso fotografico rivolto ai dipendenti enipower: Mario Capriotti, Rosario Cigna, Vincenzo Molinaro, Loris Melloni, Roberto Mantovani, Fabio Ghio, Roberto La Vecchia, Nicola Mason, Ottorino Di Leo, Samulele Giglioli, Fernando Capoccia, Simone Franceschetti, Luca Donelli, Maurizio Dessì, Stefano Bertazzi, Renato Bulfone, Antonio De Roma, Leonardo Cuccaro, Angelo Lisi, Michele Sannino Si ringrazia Massimo Caprara per i suoi utili consigli Un ringraziamento a Daniele Mammolini per l’impegno profuso nella realizzazione del volume Progetto grafico e impaginazione Korus srl Creatività di copertina a cura di Beatrice Remilleux Stampa Marchesi Grafiche Editoriali spa Finito di stampare nell’aprile 2010 è vietata la riproduzione non espressamente autorizzata anche parziale effettuata con qualsiasi mezzo eni.com