Scarica SKIPPY NON MORIRE! di Edward S. Portman in pdf.

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Scarica SKIPPY NON MORIRE! di Edward S. Portman in pdf.
SlowMind One
una fanzine di letteratura impopolare
SKIPPY NON MORIRE!
di Edward S. Portman
Un remake del prologo di “Skippy muore” di Paul Murray
È
novembre,
fuori
fa
freddo
ed
è
in
qualche
modo
bello
vedere, oltre i vetri delle finestre, le persone camminare
tutte
quante
infagottate
nei
loro
cappotti
pesanti,
le
sciarpe legate al collo, i cappelli calati in testa, mentre
tremanti si alitano aria calda dentro le mani chiuse a cono,
vicino alla bocca. Ruprecht pensa: non sarebbe altrettanto
bello se in quel preciso momento pure lui stesse in qualche
modo
gelando,
orizzontali
senza
blu
e
neppure
grigie,
la
maglia
quella
con
di
lana
il
collo
a
strisce
alto,
le
maniche lunghe e la vita slabbrata senza più forma. Tutto
quanto
avrebbe
un
sapore
estremamente
diverso,
più
agghiacciante, direi, pensa Ruprecht.
Da
Ed’s
la
gente
entra
sbattendo
la
porta
a
vetri
dell’ingresso - senza fare caso alla voce scocciata della
1
grossa Ellen, cameriera nonché proprietaria del locale, che a
ogni nuovo cliente ripete di fare attenzione, cristo santo,
che prima o poi la finirete per rompere quella dannatissima
porta! – si scrolla di dosso il freddo e il malumore. Le
persone, almeno quelle normali, non vengono da Ed’s per il
cibo o le bevande o per chissà cos’altro possa attirare la
loro
attenzione;
le
persone,
in
questo
periodo
dell’anno,
vengono da Ed’s perché è l’unico posto dove potersene stare
bene bene al caldo tra l’uscita da lavoro e il ritorno a casa
per
cena,
nascondendosi
per
qualche
minuto
alle
preoccupazioni della giornata e a quelle del domani. Ormai
Ruprecht li conosce tutti i frequentatori assidui di Ed’s,
non per nome ma almeno di faccia. Ogni giorno vede più o meno
gli stessi volti stanchi, annoiati, spenti. A ognuno di essi
Ruprecht si diverte a disegnargli addosso una loro storia del
tutto inventata, supposta in un modo o in un altro da qualche
piccolo
particolare,
magari
di
poco
conto,
ma
capace
di
attirare la sua attenzione. C’è Murphy – nome inventato - per
esempio, un uomo sulla cinquantina, già coperto di rughe così
profonde
da
fare
pensare
che
il
sudore
gli
si
fosse
ghiacciato in faccia e avesse scavato questi immensi solchi
larghi, orizzontali sulla fronte per la maggior parte. Lui da
giovane aveva avuto una storia con Ellen e lei ne era ancora
in
qualche
modo
innamorata.
Era
l’unico
a
non
essere
rimproverato quando entrava, per lui la porta sembrava essere
più resistente.
Oppure c’è il distinto Guinness – altro nome inventato sempre
seduto
come
in
primo
piano,
quasi
volesse
essere
costantemente al centro dell’attenzione. È accompagnato ogni
2
giorno da una signora dai capelli lunghi rossi, una donna di
mezza
età,
truccata
pesante
attorno
agli
occhi
e
sulle
labbra, vestita elegante con abito quotidianamente tendente
al rosso, acceso, dei suoi stessi capelli. A lei Ruprecht non
ha mai dato un nome. Loro due sono colleghi di lavoro, in una
ditta o in una banca, ma con gli uffici separati, lontani.
Hanno una relazione, nata chissà come in uno strano incrocio
di
corridoi
ritrovano
da
e
fotocopie
Ed’s
per
e
stare
occupazioni
soltanto
ripetitive.
seduti
uno
Si
accanto
all’altra, senza dirsi niente di particolare, in uno strano
silenzio parlato, per poi tornare incuranti a casa dalle loro
rispettive famiglie.
O ancora: Bass – inventato pure lui - di schiena a tutti e al
mondo intero. Non si gira mai e non parla con nessuno. Si
limita
a
starsene
in
un
angolo,
tutto
ingobbito
nel
suo
soprabito, senza togliersi neppure il cappello. Ha commesso
un crimine efferato, magari uccidendo sua moglie a furia di
martellate in testa, ma è riuscito a farla franca per un
chissà
quale
cavillo
tecnico
o
inquinamento
di
prove.
Trascinato in tribunale ne è uscito pulito, senza neppure una
macchiolina microscopica invisibile sulla fedina penale; ma
dentro di sé sa bene cosa ha fatto e non passa giorno che
quella colpa non gli pesi micidiale sulle spalle, con tutta
la
sua
atrocità,
senza
avere
la
minima
occasione
–
impossibile – di potere tornare indietro nel tempo per non
commettere quello stupido sbaglio. Siede da solo e ordina da
bere: sette pinte di birra, scura. Tenta di affogare i suoi
ricordi.
3
Poi
ci
sono
lui
e
Skippy,
seduti
al
tavolo
leggermente
decentrato sulla destra rispetto all’entrata, con davanti a
ognuno
un
piatto
con
sopra
sei
ciambelle
dalla
farcitura
diversa. La loro storia non ha bisogno d’inventarsela, la
conosce bene: la vive.
Tutto è nato un pomeriggio tardi di qualche mese prima, verso
sera, quando Ruprecht vedendo passare Ellen vicino al loro
tavolo
con
in
mano
un
piatto
di
ciambelle
straripanti
marmellata di more, aveva detto a Skippy: scommetto che non
riesci
a
mangiarne
tre
di
seguito
in
meno
di
un
minuto.
Skippy aveva accettato la sfida di buon grado, contento di
poter
fare
qualcosa
per
spazzare
via
una
monotonia
esponenziale, e in questo modo era nata una tradizione. Da
quel giorno, a cadenza settimanale, si rinnovava la sfida, e
visto che ormai era appurato quanto Skippy fosse capace di
mangiare tre ciambelle nell’arco di un minuto, avevano deciso
di affrontarsi faccia a faccia, in una gara a due a chi
riusciva a mangiare più ciambelle in minor tempo possibile.
Quel giorno, se Ruprecht avesse vinto, avrebbe stabilito il
record di sedici successi consecutivi, una striscia positiva
mai eguagliata da quando lui e Skippy si erano inventati
quella specie di torneo. La tensione, per questo, si sente, è
palpabile, sembra prendere forma in piccoli cubi disposti uno
sopra l’altro in quello spazio del tavolino di Ed’s rimasto
libero, tra loro due e i piatti di ciambelle, mentre Ruprecht
e
Skippy
si
guardano
intensi,
come
due
pistoleri
in
un
vecchio film western, i polpastrelli delle dita frenetici a
sfiorare i calci delle proprie pistole o la curva zuccherosa
4
della prima ciambella, frementi di potere iniziare a mangiare
voraci.
L’orologio
del
locale
deve
segnare
le
quindici
con
la
lancetta dei minuti per dare il via, ovvero cinque minuti
dopo l’arrivo delle ciambelle, un periodo di tempo stabilito
dalle parti per potersi preparare psicologicamente e decidere
quale tecnica adottare, se morsi piccoli e veloci o bocconi
grandi
e
violenti.
contendenti
Di
schizzano
tanto
rapidi
in
tanto
agli
gli
angoli
occhi
delle
dei
due
orbite
per
controllare il conto alla rovescia, senza per questo perdere
di vista il piatto di ciambelle; e quando la lancetta dei
secondi inizia a ticchettare dalle trenta in poi, sempre più
vicina alla partenza, le occhiate si fanno di volta in volta
più
rapide,
più
convulse,
impazienti,
spasmodiche,
fino
a
quando.
Ruprecht si getta a capofitto sul proprio piatto afferrando
la
prima
ciambella
e
portandosela
alla
bocca.
Un
morso,
masticate goffe dovute alle guancie piene: difficile riuscire
a buttare giù tutto quel bolo di pasta fritta masticata,
intrisa com’è di saliva, il sapore non lo sente neppure, non
riesce a distinguerne la farcitura. Non è quello che importa,
l’importante è andare veloce, dare un altro morso al pezzo
rimasto in mano, chino ancora sopra il piatto, e poi buttarsi
in
gola
quel
ripetere
lo
che
resta.
stesso
Afferrare
la
procedimento,
seconda
magari
ciambella,
tentando
di
migliorarlo, tritare il cibo più velocemente, o buttarlo giù
anche
se
forse
scendergli
lungo
sensazione
di
sarebbe
troppo
l’esofago,
sollievo
presto
per
appena
poi
passa
–
sentire
allargarsi
quel
un
in
nodo
una
presupposto
5
restringimento
allo
sterno,
all’altezza
e
scivolare
dell’attaccatura
via
verso
lo
delle
stomaco
costole
in
tutta
tranquillità.
Sono trascorse solo due ciambelle – il tempo non si misura
più in minuti secondi, millesimi di secondo – quando con la
coda dell’occhio Ruprecht vede volare fuori dal tavolo il
piatto
di
Skippy.
Per
un
quinto
di
ciambella,
o
due
masticate, prova il sudore freddo di avere perso, proprio con
il record di sedici vittorie consecutive a portata di mano,
un passo per entrare nella leggenda; ma poi ci riflette e
decide – decide – che è impossibile che Skippy sia riuscito a
finire sei ciambelle mentre lui ne ha mangiate appena due.
Guardando
per
terra
nota
infatti
insieme
al
piatto
anche
alcune ciambelle, quindi quel gesto, il buttare per terra il
piatto, non può essere una specie di esultanza da parte di
Skippy: lui, Ruprecht, non ha bevuto, non ha infranto alcuna
regola del gioco, e Skippy non ha finito le sue ciambelle.
Qualcosa non torna.
Quando Ruprecht alza lo sguardo dal suo piatto per guardare
Skippy,
vede
la
faccia
del
suo
amico
tutta
tremante,
un
attimo prima che il corpo di Skippy stesso, continuando a
vibrare come un cellulare durante una chiamata in modalità
silenziosa,
cada
giù
dalla
sedia
e
prenda
ad
agitarsi
dinoccolato in preda a quelli che paiono violenti attacchi
epilettici.
In modo piuttosto egoistico il primo pensiero di Ruprecht è
di avere ormai la vittoria in tasca, tant’è che non si getta
a terra in ginocchio per cercare di aiutare in qualche modo
Skippy, bensì afferra un’altra ciambella e se la porta alla
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bocca,
facendo
finta
di
nulla.
Nessuno
nel
locale
sembra
essersi accorto di niente, ognuno continua a fare esattamente
quello che fa sempre, pure in quel momento. Nell’aria c’è lo
stesso rumore di fondo chiacchiericciato, parole accatastate
una
sopra
l’altra
conversazioni
senza
diverse,
alcun
slegate
senso,
le
une
appartenenti
dalle
altre.
a
Ellen
sorride sempre dietro il bancone, lanciando di tanto in tanto
occhiate
traverse
sorridendo
a
sganascia
una
dalle
piegandosi
a
in
Murphy.
battuta
risate
due
in
Guinness
della
sua
battendo
il
amante
il
un’eccessiva
fa
cascamorto,
rossa,
pugno
sul
ostentazione
e
si
tavolo,
di
falsa
ilarità. Bass tracanna la sua quinta birra, e fra tutta la
confusione
possibile
del
locale,
come
la
voce
confusa
dell’altra gente che ancora, per ragioni di tempo e voglia,
non possiede una sua propria storia inventata, tra tutto il
brusio sommesso e la musica soffusa di sottofondo, il suono a
colpire di più, quasi fosse a un passo dal timpano, oppure
ancora più in profondità, dentro il cervello stesso, è il toc
sordo del fondo del bicchiere di Bass chi si appoggia sul
legno consumato del tavolo. Bevuta, toc. Altro sorso, toc.
È in questa atmosfera, surreale, seguendo il ritmo di questo
metronomo, che Ruprecht si ravvede, riacquisisce coscienza,
vedendo
il
suo
amico
fare
quella
specie
di
break
dance
piegata per terra, senza nessuna musica, e dentro di sé si
dice di non potere essere così indifferente, privo di alcun
tipo
di
smuoversi
sensibilità,
nella
o
morale,
cosiddetta
anima
o
di
qualsiasi
una
cosa
persona
debba
in
una
situazione del genere, quando il tuo migliore amico se ne sta
a rantolare per terra senza nessuno ad aiutarlo. Prende il
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desiderio di vittoria, il record di sedici gare vinte, lo
prende come se potesse essere un pacco o una scatola e lo
sposta fuori dalla sua visuale, lo mette da parte. A questo
punto, per la prima volta, vede la scena in tutta la sua
reale urgenza. E ne ha paura.
Con la bocca ancora piena per metà di ciambella masticata
cerca di cacciare fuori un grido, una richiesta di aiuto
piuttosto
biascicata,
con
tanto
di
sputacchi
marroncini
a
volargli fuori al posto della voce. Nessuno si gira, nessuno
ne rimane allarmato. Solo quando si getta a terra e monta a
cavalcioni sopra la vita di Skippy, lo afferra per il bavero
della camicia cercando di fermarlo, mentre dietro di sé sente
le
gambe
di
lui
ballare
in
ebollizione
rapida,
ingoia
l’ultimo pezzo di ciambella rimastagli in bocca e urla –
questa
volta
urla
davvero
–
aiuto!
Allora
sì,
riesce
ad
attirare l’attenzione.
In un istante il locale cade in un silenzio innaturale, un
silenzio denso, compatto, non solo a livello di suoni ma
anche di movimenti. Nessuno pare muovere un dito, qualsiasi
cosa sembra avvenire al rallentatore, almeno agli occhi di
Ruprecht. È la prima salita di una montagna russa, dove la
carrozza sulla quale si è seduti si inerpica lentissima sulle
rotaie
e
ingranaggi
gli
unici
sono
rumori
risatine
oltre
agli
isteriche
scricchiolii
per
degli
stemperare
la
tensione, prima della discesa e delle urla e delle braccia
alzate, quando il tempo riprende a correre in modo normale,
anzi, accelera pure.
Il primo ad accorrere è Bass, o almeno l’uomo a cui Ruprecht
ha dato il nome di Bass. Gli piomba addosso disarcionandolo,
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buttandolo di lato, e prendendo Skippy per la vita lo tira
su, in piedi. Gli pratica la manovra di Heimlich, facendo
pressione
sulla
pancia,
prima
una
volta,
poi
un’altra,
e
un’altra ancora, a ripetizione.
Ruprecht nel frattempo si mette a camminare a quattro zampe,
cercando per terra le ciambelle che Skippy ha lanciato per
aria
un
attimo
prima
di
iniziare
a
divincolarsi
come
un
matto. Gli pare logico che se ne trovasse una morsicata e
capisse
cosa
possa
soffocare
il
suo
amico,
in
un
modo
o
nell’altro questo potrebbe aiutarlo.
Intorno
a
loro
circonferenza
si
è
creato
disegnata
un
cerchio
dalle
facce
di
vuoto,
preoccupate
con
la
degli
avventori di Ed’s: Ellen, Murphy, Guinness e l’amante rossa
di Guinness, tra gli altri.
Aspetta! urla poi a un tratto Ruprecht, non tanto a Bass
quanto piuttosto al nulla, o a chiunque. Per terra ci sono
sei
ciambelle
sei,
tutte
quante
belle
intere,
neppure
toccate. Ciò significa che Skippy non ha mangiato niente, e
niente gli ostruisce le vie respiratorie: non sta soffocando.
Bass molla la presa. Lasciato senza sostegno il corpo di
Skippy cade per terra come una marionetta a cui sono stati
tagliati i fili. Il cerchio si allarga, producendo un piccolo
boato di stupore, terrore e ansia. Chiunque pare avere paura
di toccare qualcosa, come se così facendo potesse sciupare un
qualche meccanismo delicato o prezioso. Nessuno dà una mano a
Skippy, neppure Ruprecht: è lui stesso a darsi una mano, è la
sua
mano
a
muoversi,
un
po’
a
scatti,
ma
lo
stesso
a
muoversi.
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A tentoni, sdraiato con le spalle a terra, lo sguardo vitreo,
sempre più vitreo a guardare il soffitto, Skippy cerca di
afferrare una ciambella. Quando la raggiunge, avvicinandola
con dei movimenti frenetici delle dita, la stringe nel pugno
e la schiaccia con tutta la forza rimastagli in corpo. Uno
sciropposo
ripieno
rosso
–
alla
fragola
probabilmente
–
erutta molle nel suo palmo, appiccicandosi e colando un po’
ovunque.
Guardate! Guardate! Si sente gridare con una strana urgenza
dalla folla tutt’attorno.
Skippy
usa
inchiostro,
il
il
ripieno
dito
come
della
penna,
ciambella
come
tracciando
se
sul
fosse
pavimento
alcuni segni che hanno tutta l’aria di essere delle lettere.
DIAL
è
la
prima
e
unica
parola
comprensibile,
poi
la
marmellata comincia a esaurirsi piano piano e gli ultimi due
caratteri si perdono leggermente invisibili sul bianco della
mattonella sulla quale sono stati scritti.
DIAL, si domandano tutti. DIAL. DIAL? Per quanto paradossale
possa apparire, la drammaticità della scena si è trasformata
di colpo in una commedia dal vago sapore casalingo, dove un
gruppo di amici sono riuniti davanti a una lavagna a fare il
gioco dei film. Skippy a disegnarne il titolo e tutti quanti
a dovere indovinare.
Qualcuno
si
getta
in
ipotesi
azzardate,
altri
invece
procedono con metodo aggiungendo di volta in volta lettere in
ordine alfabetico: DIALAA, DIALAB, DIALAC. Ma il primo ad
arrivarci è ovviamente Ruprecht, l’unico che avrebbe potuto
arrivarci.
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Dì a LORI! Esplode zittendo chiunque, con immenso sollievo.
Una sensazione di liberazione lo pervade tutto quanto, quasi
gli avessero allentato un cappio stretto al collo.
Lori
è
una
ragazza
del
loro
anno,
alta,
capelli
corti
a
caschetto colore giallo canarino, leggermente mossi; limpida,
carnagione bianca come la neve con due occhi verdi enormi in
mezzo
alla
faccia.
Sorriso
largo
a
risplenderle
tra
due
sottili labbra deliziose, da baciare, letteralmente: per ore
ore
e
ore.
compagnia,
Ogni
lei
tanto
Skippy
escono
tutti
Ruprecht
e
insieme
altri
nella
ragazzi
stessa
con
cui
frequentano la scuola. Vanno al cinema o a bighellonare per
le strade, da qualche parte, a vedere le partite di calcio in
un pub, o da Ed’s, appunto, tutti riuniti attorno a un tavolo
a parlare dei compiti o dei professori e di quello che in
quel periodo dell’adolescenza pare essere la vita.
Per Ruprecht Lori non è una sconosciuta, ma allo stesso tempo
non ha con lei un rapporto tale da permettergli di capire
cosa le debba mai dire. Skippy non ha mai parlato di lei in
particolare,
se
non
inserendola
in
uno
o
due
discorsi
generici, dove lei si limitava a fare da figura di sfondo,
recitare un ruolo da comparsa. Ruprecht ha capito che deve
dire qualcosa a Lori, ma proprio non sa cosa diavolo possa
essere questo qualcosa.
Cosa?
Cosa?
Dì
a
Lori
cosa?
Ripete
rivolto
a
Skippy
con
insistenza, quasi arrabbiato perché quest’ultimo non riesce a
rispondergli. Il suo amico rimane per terra, con la bocca
muta, spalancata. Gli occhi gli sono diventati più grossi,
sembrano
essere
sul
punto
di
scoppiare,
esplodere
come
palloncini troppo gonfiati. Dalla bocca gli esce una schiuma
11
biancastra,
priva
di
bolle,
una
specie
di
bava
solo
più
consistente, non della stessa densità della normale saliva.
Il
corpo
continua
a
tremare,
spasmi
continui
ma
meno
violenti: delle piccole scosse ad attraversargli ogni singolo
muscolo, da capo a piedi. E lo sguardo, disperato, di chi
vuole dire qualcosa ma non riesce a farlo.
La mandibola si agita in lenti movimenti di appena pochi
millimetri, su e giù, senza però riuscire a proferire parola.
Quel miscuglio di umori o vomito o chissà cos’altro che gli
risale dalla gola e gli sporca le guancie, colando poi sui
capelli
e
sulla
nuca,
deve
avere
insonorizzato
le
corde
vocali, non permette loro di vibrare: lo ha reso muto.
Skippy non ce la fa proprio più, si vede, è allo stremo, non
si riesce a capire da dove possa recuperare l’ossigeno per
continuare a fare finta di respirare, rimanere ancora vivo.
A parlare al suo posto ci pensa Ellen, posizionata in prima
fila nel cerchio di persone. Sospira, un filo di voce: dille
che
l’ama,
intervallando
dille
le
che
frasi
l’ama.
con
Lo
ripete
un’occhiata
due
liquida
volte,
rivolta
a
Murphy. Skippy piega un poco la testa verso la sagoma gigante
di Ellen – vista dal basso deve sembrare ancora più grande,
con quel suo grembiule sporco legato dietro al collo, e le
maniche
corte
della
divisa
strette
aderenti
attorno
alle
braccia paffute – la guarda e cerca di abbozzare una specie
di sorriso, o quello che può sembrare un sorriso. Poi reclina
ancora di più la testa sul pavimento, arrivando a toccare un
angolo innaturale, come se i muscoli non lo tenessero più in
tensione, come una scarpa slacciata senza il piede dentro.
Trema un’ultima volta, giusto un leggero fremito, e niente
12
più:
rimane
fermo,
immobile,
ma
non
come
avrebbe
potuto
restare fermo giusto un’ora o anche solo dieci minuti prima,
bensì troppo fermo.
Le persone nel locale, forse per la prima volta, realizzano
quanto
sta
accadendo,
ancora
non
pronte
a
differenziare
quello che pensano stia ancora accadendo da quello che invece
è
già
accaduto,
confusionario,
aprire
le
lasciare
passato.
senza
finestre,
darsi
di
respirare
Prendono
il
un
fare
a
parlare,
ordine
entrare
ragazzo,
preciso.
dell’aria
mentre
in
modo
Dicono
di
fresca,
di
Ruprecht
si
alza
cercando di mettere quanto più spazio possibile tra lui e il
corpo
esanime
di
Skippy.
Cammina
all’indietro,
senza
voltarsi, e tenta di guardare la scena da più lontano, in
modo da poterne vedere qualche particolare che altrimenti gli
potrebbe
sfuggire:
magari
un
lieve
tremolio
delle
dita
a
indicare che Skippy è ancora vivo, o i movimenti degli occhi
in stile fase rem sotto le palpebre. Ma nulla.
Vorrebbe prenderlo e scuoterlo per le spalle, schiaffeggiarlo
o
praticargli
il
massaggio
cardiaco,
uno
due
tre,
respirazione, uno due tre, respirazione. Sarebbe patetico,
anche un pochino di cattivo gusto. Magari i presenti se la
potrebbero pure aspettare, una reazione del genere da parte
di
un
adolescente
di
fronte
alla
morte
del
suo
migliore
amico, in un luogo pubblico come quello, di fronte a tante
persone
sconosciute.
Chissà
come
affronterebbero
loro
una
situazione del genere a parti invertite? Qualcuno potrebbe
scoppiare in un pianto a dirotto, oppure tirare cazzotti al
muro, farsi del male. Nessuno, credo, potrebbe mai prevedere
la risposta di Ruprecht davanti al corpo tornato fermo di
13
Skippy. Lui non piange, non si fa violenza, piuttosto si
scaglia veloce contro Ellen, la getta a terra, per quanto
impetuosa è la sua rincorsa e violento il contatto contro il
corpo morbido avvolto dal grasso di Ellen. Magari pure Ellen
si lascia un po’ andare, chi lo sa? Forse però è un bene,
perché solo quando si ritrova sopra di lei, muovendo le mani
contro il suo torace, non proprio tirando cazzotti quanto
piuttosto delle specie di pacche poco decise, l’ombra di vere
e proprie botte, solo allora le lacrime cominciano a rigargli
copiose le guancie, e la voce gli si impasta di umori mentre
il
naso
inizia
a
grondargli
nonostante
non
abbia
il
raffreddore, e vorrebbe prendere Ellen, senza fare caso al
suo peso né al fatto che lui, Ruprecht, non ha tutta questa
forza nelle braccia, e sbatterla contro il muro, appenderla a
uno degli appendiabiti attaccati alle pareti e maledirla, sì,
maledirla,
o
rimproverarla
per
non
avere
tenuto
la
bocca
chiusa, per una volta; rinfacciargli il fatto che se Skippy è
morto è solo e soltanto colpa sua, perché ha voluto per forza
precisare, finire quella frase al posto suo, ché se non ci
avesse pensato lei magari Skippy sarebbe rimasto lì a tremare
e
sbavare,
ma
pur
sempre
vivo,
perché
sentiva
di
non
potersene andare fino a quando non gli avesse detto di dire a
Lori che lo amava, cazzo! Aveva questa semplice frase ad
ancorarlo qui, in questo schifosissimo posto, voleva dirle,
la vedeva come un compito, e se tu non gli avessi dato la
risposta giusta, se non ti fossi intromessa a finire per lui
quel che lui invece doveva finire, senza se e senza ma, lui
sarebbe
ancora
qui,
a
cercare
di
finire
quella
cazzo
di
frase, quella stupida balorda frase romantica del cazzo!
14
Nessuna di queste parole però gli esce dalla bocca. Gli unici
suoni
che
emette
sono
dei
mugugni
privi
di
significato,
lamenti impastati dalle lacrime e dalla rabbia, tanto che
Ellen non vede quel gesto, l’averla buttata a terra, o quei
pugni leggeri ripetuti contro il suo petto, come un’accusa
nei suoi confronti, tutt’altro. Pensa sia un modo per cercare
comprensione, affetto. Prova pure ad abbracciarlo, il piccolo
Ruprecht, sembra balbettare a fior di labbra, quasi a volerlo
coccolare come si fa con un bambino vittima di un torto,
un’ingiustizia da niente, priva di significato.
Appena Ruprecht sente le braccia possenti di Ellen cingergli
le spalle – gommose oserebbe dire, se solo avesse la lucidità
per pensarlo – scatta in piedi respingendola. Il corpo di
Skippy
è
dietro
di
lui,
sdraiato
per
terra
come
lo
ha
lasciato; Ellen è anche lei stesa per terra, appoggiata ora
sui gomiti, intenta a rialzarsi, proprio di fronte a lui. Le
altre
persone
spaventate
o
gli
sono
intorno,
impaurite,
quanto
tutte
quante
piuttosto
non
indecise
proprio
sul
da
farsi.
Ruprecht sfreccia fuori dal locale, facendosi largo tra la
gente a capannello un po’ attorno a Skippy, un po’ intenta ad
aiutare Ellen, un po’ a provare a fermarlo. Esce sbattendo la
porta a vetri dell’entrata/uscita – ‘fanculo se si rompe,
magari si rompesse – e si ferma a metà marciapiede, poco
oltre: la strada deserta, neppure il suono di un’ambulanza in
lontananza.
L’aria è glaciale, lo sente nel respirare a singhiozzi sempre
più
profondi.
polmoni,
gli
Gli
arriva
spalanca
i
nei
meandri
bronchi
con
più
nascosti
violenza,
pura.
dei
Le
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lacrime si ghiacciano agli angoli degli occhi, gli angoli
interni, lungo tutta la base del naso. Le mani cominciano a
pizzicargli
in
punta
di
spilli
affilati,
prima
sui
polpastrelli, poi sulle falangi e infine non sul palmo ma sul
dorso. Sente le ossa irrigidirsi, nel midollo, risalire le
braccia e arrivargli alla base del collo. Un vento novembrino
gli entra da uno spiraglio del colletto della maglia e gli
lecca umido tutta la colonna vertebrale.
Lì fuori si gela, ma più del freddo, in qualche modo, è una
strana sensazione di vuoto, dentro, a pesare ed espandersi: a
fare male.
Skippy è morto.
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