Larry Cuban e la lezione dei “mirtilli” – ovvero perchè la scuola non

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Larry Cuban e la lezione dei “mirtilli” – ovvero perchè la scuola non
Larry Cuban e la lezione dei “mirtilli” – ovvero perchè la scuola non è un
business.
Come avvenuto anche nelle precedenti edizioni, anche in occasione della pubblicazione dei
risultati degli ultimi test internazionali PISA sono seguite varie reazioni in molte parti del
mondo, Stati Uniti inclusi. In linea di massima, le obiezioni di chi fatica ad intravederne
scopo ed utilità riguardano l’attendibilità di queste prove quali parametri di misurazione
delle reali competenze degli studenti o quali indicatori della qualità scolastica e, più in
generale, delle politiche (e degli investimenti) in campo educativo.
In questo panorama, anche l’autorevole quotidiano statunitense Washington Post ha voluto
dedicare un ampio spazio ad interventi di esperti, per dare voce alle loro perplessità ed
aprire un confronto con i lettori. Tra i vari contributi pubblicati, anche alla luce delle
riflessioni sollecitate dal sondaggio recentemente condotto sulla Buona Scuola, quello di
Larry Cuban mi è sembrato, grazie alla sua ricercata semplicità espositiva e efficacia
comunicativa, particolarmente adatto a delineare le ragioni per le quali i “risultati scolastici”
non possono essere considerati il “prodotto” dell’”azienda scuola” tout court, in quanto
tralasciano tutta una vasta gamma di aspetti caratterizzanti l’essere e il fare scuola.
Larry Cuban è stato per 14 anni insegnante di scuole superiori, poi per altri 7 anni ha svolto
il ruolo di dirigente distrettuale ed infine, per altri 20 anni, è stato docente universitario. Al
suo attivo, molte pubblicazioni sull’educazione, sull’insegnamento, sulla storia delle riforme
del sistema scolastico, su come le politiche educative possono essere tradotte in pratiche e
sull’uso delle tecnologie da parte di docenti e studenti sia nel sistema scolastico che
universitario. Grazie al suo considerevole patrimonio di conoscenze e di esperienze,
all’indomani della pubblicazione dei risultati PISA 2013, Larry Cuban entra con
autorevolezza nel vivo del dibattito politico riproponendo una lezione contenuta in un suo
libro del 2004 intitolato “La lavagna e la morale del discorso: perchè le scuole non
possono essere assimilate al business” che conserva, a distanza di un decennio, tutta la sua
attualità. Nelle pagine introduttive del libro, racconta di un episodio accaduto ad un certo
Jamie Vollmer, ex amministratore di una rinomata azienda americana divenuto, nel corso
degli anni, un importante sostenitore dell’educazione e autore del libro “Le scuole non
possono farcela da sole”. L’esordio sulla scena del dibattito sull’educazione, da parte di
Jamie Vollmer, risale agli anni 80 quando divenne famoso per una sua frase sulla scuola che
diventò il manifesto del periodo (e che, ricordo, venne ripresa anche ai corsi di formazione
che presidi e direttori didattici frequentammo alla fine degli anni ’90 per diventare
“dirigenti scolastici” delle scuole autonome): “Se io facessi i miei affari così come voi
operate nelle scuole, avrei smesso da un bel po’ di fare affari!”. Quando
pronunciò questa storica frase, Vollmer era dirigente di un’azienda di gelati – divenuta
molto nota verso la metà degli anni 80 quando la rivista People assegnò il riconoscimento di
“produttrice del miglior gelato d’America” – ed era anche il rappresentante di un gruppo di
uomini d’affari impegnati nel miglioramento delle scuole pubbliche. Un giorno Vollmer
venne invitato a tenere una conferenza ad una platea di insegnanti e amministratori
scolastici. All’inizio della sua esposizione di 90 minuti, come in seguito ebbe modo di
raccontare, l’uditorio gli appariva freddo e risentito e, con il passare dei minuti, gli sembrò
addirittura di avvertire una sorta di rabbia crescente ed una certa agitazione. In sostanza,
nel corso della sua presentazione, Vollmer aveva sostenuto due principi: il primo era che le
scuole pubbliche avevano la necessità di cambiare perchè attualmente erano “come un
arcaico meccanismo di selezione e smistamento, che andava bene per l’era industriale, ma
che ormai erano fuori passo con i bisogni della società della conoscenza”; in secondo luogo,
che gli educatori “erano per la maggior parte un problema: resistenti al cambiamento,
rinchiusi nel loro “nido imbottito di piume”, protetti dal loro ruolo e difesi dallo scudo del
monopolio burocratico”. Tesi ardite e parole molto forti, non c’è che dire. Successivamente,
ritornando su questo episodio, Vollemer valutò il suo discorso un perfetto bilanciamento tra
ignoranza e arroganza.
Non appena terminata la sua esposizione, vide alzarsi la mano di una signora. La signora,
dall’aria molto distinta, era una un’insegnante di Inglese di scuola superiore che aveva
pazientemente aspettato il suo turno per parlare. Cominciò pacatamente chiedendo:
-Lei, signore, ci ha detto di essere il dirigente una compagnia che produce dei buoni gelati-.
Vollmer prontamente replicò: -I migliori d’America, signora-.
-Molto bene - disse l’insegnante. - Sono saporiti e cremosi?- 16 % di panna - rispose con orgoglio.
- Gli ingredienti sono di prima scelta?- incalzò la professoressa.
- Primissima! Abbiamo ricevuto la tripla A -, rispose fiero Vollmer, ma tra sè cominciava a
fremere perchè non sapeva dove l’insegnante sarebbe andata a parare.
- Signor Vollmer, quando lei riceve un carico dei mirtilli e si accorge che la qualità non è
buona, cosa fa?Vollmer, nel silenzio della sala, sentì scattare la trappola ma non potè mentire.
-Li rimando indietro -.
L’insegnante diede un balzo e gridò:
-Giusto! E noi non abbiamo mai mandato indietro i nostri mirtilli. Noi li teniamo grandi o
piccoli, ricchi o poveri, di talento, eccezionali, abusati, spaventati, sicuri, senza casa,
maleducati e brillanti. Li prendiamo con i disturbi dell’apprendimento, con l’artrite
reumatoide giovanile e con l’inglese come seconda lingua. Noi li teniamo tutti e ciascuno di
loro! E questo perchè, signor Vollmer, non è un business. E’ una scuola! -.
A quel punto la platea esplose in un applauso e tutti i 290 insegnanti, presidi, autisti di
scuolabus, custodi, bidelli, segretari si alzarono in piedi e gridarono - Sì! Mirtilli! Mirtilli! -.
Quell’episodio segnò l’inizio della lunga trasformazione di Vollmer. Da allora visitò
centinaia di scuole e imparò che la scuola non è un business. Maturò l’idea che “le scuole
non sono in grado di controllare la qualità delle loro materie prime, dipendono dai capricci
della politica per i finanziamenti, sono costantemente maltrattate dalle ululanti orde dei
soggetti piu’ disparati, sono costantemente in disputa con “gruppi di clienti” che farebbero
fuggire di notte, urlando, anche il miglior Amministratore Delegato!”. Senza mai arrivare a
negare la necessità del cambiamento, in seguito ammise che “la riforma del sistema
educativo deve avere come obiettivo quello di dare a tutti i bambini il massimo delle
opportunità per riuscire nella società post-industriale°. Si persuase che “gli educatori non
possono fare questo da soli” e che “i cambiamenti possono avvenire solo se la comunità
circostante capisce, ripone fiducia, consenso e offre un supporto attivo”. Ma la cosa piu’
importante che Vollmer imparò fu che “le scuole riflettono le attitudini, le credenze e lo
stato di salute delle comunità che servono e che per migliorarne il sistema educativo serve
qualcosa di piu’ che cambiare le scuole: bisogna cambiare l’America!”. E non solo,
potremmo aggiungere noi.
Larry Cuban conclude il suo articolo sostenendo che la morale del discorso sulla scuola è che
“qualsiasi cosa si possa pensare sulla credibilità della storia dei mirtilli, Vollmer ha ragione
in una cosa: le scuole non sono un business e non possono funzionare come se lo fossero”.
Lucia Dalla Montà