Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo

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Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
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FRANCO SALVATI
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Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Contenuto
EDITORIALE
Consorzio per lo Sviluppo di Nanotecnologie (CSN): una iniziativa realizzata dall'Azienda Ospedaliera
San Camillo-Forlanini in collaborazione con Società private per un nuovo scenario in campo oncologico
F. SALVATI
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Attualità della colonscopia endoscopica
C. GIANNELLI
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Topics on endoscopic colonscopy
ARTICOLI ORIGINALI
Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale e i parametri del monitoraggio
ambulatoriale della pressione arteriosa in pazienti affetti da ipertensione aeteriosa essenziale
M. C. BRAVI, M. COMPAGNUCCI, L. GASBARRONE
Relationship between anthropometric measures of central obesity and ambulatory blood
pressure monitoring in hypertensive patients
La gestione dei corpi estranei intravascolari
S. PIERI, P. AGRESTI, L. DE' MEDICI
Management of intravascular foreign bodies
CASISTICA CLINICA
Impiego degli spigot di Watanabe nel trattamento delle fistole parenchimali periferiche:
nostra esperienza
C. LOMBARDI, G. LUCANTONI, G. GALLUCCIO
Application of Watanabe spigots in the treatment of peripheral parenchymal fistulas:
our experience
RASSEGNE
Sindrome ipermetabolica maligna (Parte I)
M. GIACANELLI
Malignant hypermetabolic syndrome (I Section)
Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio (Parte I)
C. TUBILI, M.P. BERALDI, S. DI GIULIO
The management of fluid therapy (I Section)
Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni
C. LAURENTACI, G. LAURENTACI
Cancer stem cells of malignant solid tumors
Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora "trascurata"
A.M. ALTIERI, M. SIGNORA, G. GENCARELLI, F. SALVATI
Tobacco and tuberculosis: an association still "ovelooked"
GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA
Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale
B. NOTARGIACOMO
Inequalities in National Healt Service
Comunicazione e cura: dall'informazione alla controinformazione in Oncologia
L. MITELLO
Communication and therapy: from information to misinformation in Oncology
RECENSIONI
"Lopez Oncologia Medica Pratica"
F. SALVATI
"Psicologia clinica applicata alle professioni sanitiarie"
G. MINARDI
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La Rivista è stata selezionata da
ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES
per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS,
COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE,
FLUIDEX E WORLD TEXTILES
www.scamilloforlanini.rm.it
ERRATA CORRIGE
Rettifiche sul lavoro pubblicato nel fascicolo 1/2010 Organizzazione e struttura funzionale del Gruppo Operativo Interdisciplinare "Scompenso Cardiaco": la risposta sostenibile di un moderno sistema di cure a un problema emergente di Sanità pubblica
1. il nome corretto del primo autore è G. Pulignano e non G. Puglignano;
2. l'attribuzione istituzionale esatta dell'autore Laura Gasbarrone3 è la seguente: U.O.C. Medicina Interna I,
Dipartimento Medicina Interna, Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma;
3. l'attribuzione istituzionale esatta dell'autore Francesco Musumeci4 è la seguente: Divisione di Cardiochirurgia, Dipartimento Cardiochirurgia, Dipartimento Cardiovascolare, Azienda Ospedaliera San Camillo
Forlanini, Roma
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San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Editoriale
CONSORZIO PER LO SVILUPPO DI NANOTECNOLOGIE (CSN):
UNA INIZIATIVA REALIZZATA
DALL’AZIENDA OSPEDALIERA S. CAMILLO-FORLANINI
IN COLLABORAZIONE CON SOCIETÀ PRIVATE
PER UN NUOVO SCENARIO IN CAMPO ONCOLOGICO
FRANCO SALVATI*
Il trend innovativo che nella seconda
metà del ‘900 ha caratterizzato in Oncologia l’evoluzione sia in ambito diagnostico sia terapeutico ha subito in questi
ultimi anni una rilevante accentuazione grazie ad emergenti tipologie di studio e tra queste (genomica, proteomica,
metabolomica,micro-array, etc.) va suscitando sempre maggiore interesse la Nanotecnologia, branca che si riferisce a
particelle molecolari di dimensioni ultrapiccole, comprese tra 1 e 100 nanometri.
Queste nanoparticelle hanno comunque
una superficie sufficientemente ampia e
quindi in grado di legare, assorbire e
trasportare composti vari: nella Nanomedicina oncologica vengono sempre più
frequentemente impiegate per accrescere
le potenzialità attuali sia in fase diagnostica (soprattutto in termini di precocità
e tempestività) sia in fase terapeutica in
quanto sono in grado di migliorare la biodistribuzione degli agenti antineoplastici
e di consentire anche un più puntuale monitoraggio della malattia in trattamento.
La problematica inerente la diagnosi
precoce – o comunque tempestivamente
utile – è di rilevante importanza in campo
oncologico sia per quanto riguarda i tumori solidi che le neoplasie emolinfoproliferative poiché nella maggior parte dei casi
quanto prima si aggredisce la malattia
nella fase di “early cancer” tanto maggiore
è la probabilità di un successo terapeutico
valutabile nelle sue varie forme: eradicazione della malattia, risposta completa,
prolungamento del time to progression,
sopravvivenza globale.
Sotto questo profilo il contributo della
Nanotecnologia sta assumendo crescente
rilievo in quanto consente tra l’altro di
fornire rapidamente e chiaramente elementi sulla instabilità del genoma e di
individuare specifiche mutazioni, il che
molto frequentemente conduce ad una anticipazione diagnostica e di conseguenza
ad una sostanziale precocità nell’avviare
con maggiore tempestività il trattamento
terapeutico più indicato e possibilmente
personalizzato in rapporto alle peculiari
caratteristiche biomolecolari rilevate.
In particolare per quanto concerne la
diagnosi precoce delle lesioni nodulari di
assai piccole dimensioni la nanotecnologia
* Direttore della Rivista “Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini”
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
fornisce la possibilità di accrescere il potere di risoluzione delle tecniche di imaging
con l’impiego di radionuclidi gamma-emittenti, determinando anche una maggiore
accuratezza dell’interpretazione diagnostica e fornendo spesso elementi di specificità. Si delinea in tal modo l’importanza
di poter disporre e di gestire al meglio
sistemi diagnostici quali la Tomografia
Computerizzata, la Risonanza Magnetica Nucleare e la PET. È da sottolineare
quindi l’importanza – a monte di questo
aspetto – di una sempre più perfezionata
messa a punto di sistemi di microfluidica
per la sintesi di nuovi radiofarmaci.
Altrettanto essenziale è il ruolo che in
Oncologia la Nanotecnologia ha assunto
nell’ambito terapeutico: infatti l’impiego
di nanoparticelle tende, in sostanza, ad
interferire - migliorandola – sulla biodistribuzione degli agenti antineoplastici
citotossici che di conseguenza si concentreranno più agevolmente nella massa tumorale mentre, in parallelo, gli effetti tossici collaterali provocati dai farmaci stessi
tenderanno a ridursi significativamente.
Cio’ si realizza ricorrendo a sistemi vari
tra i quali quelli attualmente più in uso
sono imperniati sul concetto del c.d. “drug
targeting” sia attivo che passivo. Una delle
applicazioni pratiche del target attivo chiama in causa la radioimmunoterapia con
impiego di nanoparticelle rappresentate
da anticorpi monoclonali che trasportano
radiazioni ionizzanti, generalmente radionuclidi beta-emittenti. Tra gli altri settori
di applicazione è da menzionare, ad esempio, un sistema associato alla chirurgia che
consente di impiantare polimeri biodegradabili (quali la polianidride gliadel contenente il chemioterapico BC-nitrosourea) in
zone di glioblastoma non completamente
asportabili chirurgicamente.
Gli incoraggianti e promettenti progressi che con l’impiego delle nanotecnologie sono stati sin qui registrati sotto il
profilo diagnostico, terapeutico e conseguentemente prognostico nell’ambito di
molteplici patologie oncologiche (tumori
mammari, broncopolmonari, colo-rettali,
ovarici) anche in fase avanzata e/o pluritrattate inducono ragionevolmente a
prospettare che le aree di sviluppo della
Medicina nanotecnologica siano sempre
più numerose: tutto ciò presuppone imprescindibilmente un adeguato sviluppo e
una sempre più stretta collaborazione tra
il mondo della Ricerca (sia quella di base
che quella clinica applicata) ed il comparto
industriale. Questo soprattutto allo scopo
di realizzare qualificati ed attrezzati Laboratori nanotecnologici in cui si proceda
alla progettazione di sempre più perfezionati sistemi che consentano di installare
anche in seno a Complessi ospedalieri ad
alta specializzazione (sviluppando - anche
in via sperimentale - tecniche innovative
di imaging nell’ambito della medicina nucleare) sistemi diagnostici in particolare
PET/TC e RMN e sistemi,come prima auspicato, che rendano sempre più agevole
la microfluidica finalizzata alla sintesi di
radiofarmaci anche di nuova generazione
in modo da realizzare il superamento di
difficoltà attuali quali, ad esempio quelle relative alla preparazione – in forma
chimica appropriata - di radionuclidi che
emettono radiazioni alfa.
L’avvenuta costituzione di un Consorzio che sancisce la collaborazione operativa tra Settore pubblico e Settore privato,
e precisamente tra Azienda Ospedaliera
S.Camillo-Forlanini e le Società A.C.O.M.
Advances Center Oncology S.p.A e QMedical Italia S.r.l., costituisce il primo
esempio in Italia di come sia concretamente possibile promuovere iniziative che
abbiano l’obiettivo di contribuire, sulla
base dell’esperienza condotta all’interno
di un progetto multidisciplinare, al progressivo miglioramento dell’assistenza
– globalmente intesa - a malati portatori
di patologie oncologiche nel contesto di
programmi che si prefiggono anche di promuovere e curare la selezione, la formazione, la qualificazione, la riqualificazione
e la specializzazione delle risorse umane
utili al raggiungimento degli scopi sociali
che caratterizzano, anch’essi, le finalità
perseguite.
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
ATTUALITÀ DELLA COLONSCOPIA ENDOSCOPICA
TOPICS ON ENDOSCOPIC COLONSCOPY
CLAUDIO GIANNELLI
U.O.C. Gastroenterologia Riabilitativa
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Colonscopia. Endoscopia
Key words: Colonscopy. Endoscopy
La colonscopia endoscopica compie quest’anno i suoi 40 anni di vita.
Risale infatti al 1969 la prima esperienza di Overholt con un colonscopio Olympus di circa 90 cm, seguita un anno dopo
dall’esperienza di Wolff e Shinya, in 241
pazienti, con il primo colonscopio fornito
di 4 tiranti di angolazione. Solo un anno
dopo gli stessi autori introdussero la tecnica della polipectomia con ansa metallica
che riscosse un tale successo da portarli a
pubblicare nel 1973 una casistica di 1600
polipectomie senza complicanze maggiori.
Da allora abbiamo assistito, ed in ciò
posso dare una testimonianza personale
essendomi avvicinato a questa specialità
nel 1974, ad un sempre maggiore affinamento tecnologico nelle caratteristiche
strutturali degli apparecchi e negli accessori ad essi dedicati. Si è potuto così passare dalle anguste immagini della fibroendoscopia a quelle da schermo televisivo
della video endoscopia mediante l’uso di
CCD, in cui le fibre ottiche servono ormai
solamente a portare la luce. Nel campo
degli accessori si è avuto lo sviluppo di
anse per polipectomia di varia tipologia
rispondenti alle necessità emergenti, lacci
per emostasi preventiva,aghi per sclerosi
di lesioni sanguinanti o per marcare le lesioni per facilitarne il riscontro, palloncini
per dilatazioni delle stenosi postchirurgiche o cicatriziali,clips metalliche per emostasi ed infine protesi auto espandibili per
il trattamento delle stenosi neoplastiche
e postchirurgiche. Tutto ciò ha portato ad
uno sviluppo dell a tecnica colonscopica
rendendo sempre più possibili terapie endoscopiche in lesioni e situazioni fino ad
allora di esclusiva pertinenza chirurgica.
Si sono potute infatti trattare le lesioni
polipoidi anche di grossa taglia attraverso
misure profilattiche (infiltrazioni, lacci) o
curative (clips) riducendone in modo drastico la complicanza emorragica. L’avvento
dei cappucci trasparenti e delle infiltrazioni ha inoltre permesso di aggredire lesione
polipoidi sessili o piatte che rimanevano
uno dei maggiori problemi terapeutici del
colon. Peraltro negli ultimi 15 anni l’industria ha potuto fornire attraverso sofisticate soluzioni tecnologiche,immagini di
sempre maggiore perfezione e definizione.
Sono nati così gli strumenti con amplificazione di immagine che con l’ausilio di
coloranti (blu di metilene,indaco carminio)
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
hanno permesso di applicare una magnificazione d’immagine tale da esplorare
quasi in senso microscopico la superficie
mucosa. Ciò ha permesso di identificare
lesioni displastiche allo stadio più iniziale.
Situazione questa particolarmente utile
soprattutto in quelle patologie croniche in
cui la complicanza neoplastica rappresenta uno dei maggiori problemi nel followup: colite ulcerosa e malattia di Crohn.
Inoltre lo sviluppo della tecnica NBI (narrow band imaging) basata sull’uso di una
banda di luce particolare, ha permesso
di definire l’architettura vascolare della
mucosa con evidente vantaggio nell’identificazione precoce delle patologie. Per ultimo l’avvento della tecnica confocale laser
basata sull’uso combinato di una sorgente
laser con una sostanza fluorescente iniettata al paziente si è arrivati ad un potere
di amplificazione dell’immagine tale da
giungere ad immagini di tipo microscopico
che permettono di definire la normalità
o meno di singoli gruppi cellulari. Ciò ha
potenziato notevolmente la possibilità di
identificazione precoce di singoli foci neoplastici. Contemporaneamente a questo
tumultuoso progredire tecnologico la tecnica della colonscopia endoscopica ha dovuto
affrontare un processo di redefinizione dei
suoi standard qualititativi di esecuzione
attraverso un percorso di miglioramento
dell’appropriatezza e della competenza
con cui tale indagine viene fornita per
il miglioramento degli esiti clinici. Tale
esigenza è nata soprattutto in conseguenza dell’acquisizione della possibilità di
poter incidere in modo significativo nella
prognosi del cancro del colon retto attraverso la sua identificazione nelle sue fasi
più precoci. Questa neoplasia tipica delle
età fra i 50 ed i 70 anni ha una incidenza
(standardizzata per età), in Europa, pari a
35-55 per 100.000 rispettivamente nel sesso femminile e maschile. La sua mortalità
è fortemente influenzata dallo stadio in
cui viene diagnosticata. La percentuale di
sopravvivenza a 5 anni passa dal 95% nei
tumori identificati precocente a meno del
50% in quelli diagnosticati a lesione evoluta. Ciò ha posto la necessità di programmi
di screening che permettessero di identificare nel modo più precoce la presenza
della neoplasia. Inoltre l’esperienza pilota
dei gruppi americani e nordeuropei sulla
possibilità di interrompere, attraverso la
polipectomia, l’espressione della sequenza
adenoma-cancro, ci ha dato l’arma per
impedire l’insorgenza stessa della lesione
adenocarcinomatosa. Tutto ciò presuppone che la colonscopia debba essere eseguita nelle migliori condizioni possibili
(tecniche, di preparazione e di esecuzione)
per rispettare quel ruolo di gold standard
che le è stato conferito nell’identificazione
di polipi e carcinomi. Si è quindi sentita
la necessità, ai fini di migliorare quanto
possibile la prestazione,di istituire degli
indicatori di qualità che possono essere
di struttura (numero di esami/anno,sale
e dotazione per sedazione), di procedura
(appropriatezza e numero esami eseguiti
in sedazione) e di esito (percentuale di
raggiungimento del cieco, numero di polipi
rilevati, complicanze). Per questo motivo
diverse società scientifiche estere e l’AIGO (Associazione Italiana Gastroenterologi Ospedalieri) nel 2004 hanno promosso
studi prospettici per valutare la qualità delle prestazioni colonscopiche e per
migliorarne la “performance”. In quello
dell’AIGO condotto su 12.835 colonscopie
eseguite presso 278 centri italiani ( con la
partecipazione anche del Reparto da me
diretto) sono emerse alcune criticità: la
percentuale di raggiungimento del cieco
pari all’83%, anche se in linea con le medie europee è apparsa ancora lontana da
quanto ottenibile secondo le associazioni
Scientifiche (+/- 95%). La preparazione
è risultata inefficace quasi nel 20% dei
pazienti ed il ricorso alla sedazione si è
registrato solo nel 50% dei casi (nel mondo anglosassone rappresenta lo “standard
practice”) contribuendo con un intolleranza dei pazienti del 10% ad abbassare la
percentuale di raggiungimento del, cieco
e della rilevazione di polipi. L’analisi sulle
cause di queste criticità ed il conseguente
programma di correzione delle procedure
identificate come non efficienti ha portato
negli ultimi 4 anni ad un ulteriore evidente miglioramento degli esiti con percentuali di raggiungimento del cieco che si
aggirano attorno al 90-92%. Sulla base di
questi standard la colonscopia permette
C. Giannelli.: Attualità della colonscopia endoscopica
di rilevare il 90% dei polipi di dimensioni
superiori ad un centimetro ed di avere una
sensibilità nei confronti del cancro colo
rettale del 90%*. Diversi studi di costo-efficacia stimano che una colonscopia ogni 10
anni a partire dai 50 anni può prevenire,
attraverso l’asportazione delle lesioni polipoidi, circa il 75% dei cancri colorettali e
ridurre la mortalità, attraverso la precocità della diagnosi, del 64%*. Anche nella
sorveglianza dopo polipectomia e dopo
resezione curativa per cancro colo rettale,
la colonscopia rappresenta a tutt’oggi il
gold standard permettendo l’eliminazione
di eventuali polipi non diagnosticati al
primo esame (sincroni “missed”) e di eventuali polipi o cancri metacroni al primo
intervento. La tempistica di tale sorveglianza è articolata sulle caratteristiche
di grandezza,morfologia e numero dei polipi rimossi con cadenze variabili fra l’uno
(alto rischio) ed i tre anni (basso rischio).
L’ultimo elemento da valutare,trattandosi
di procedura invasiva, è rappresentato
dall’incidenza delle complicanze nella diagnostica e nella terapeutica. Il principale
evento avverso nella diagnostica è rappresentato dalla perforazione, più fre-
*
Arditi C. The EPAGE II Study Group Appropriateness of colonoscopy in Europe (EPAGE
II) Screening for colorectal Cancer. Endoscopy
2009; 41: 200-8
73
quentemente associata alla presenza di
diverticoli o di angolatura aderenziale. La
sua incidenza risulta con dati ampiamente oscillanti attorno all’uno su 10.000. Nel
caso dell’operativa l’evento più frequente
è rappresentato dall’emorragia postpolipectomia la cui incidenza varia fra lo
0,07 ed il 6%, fortemente influenzata dalle caratteristiche morfologiche del polipo
e dall’assetto coagulativo eventualmente
alterato per patologie o terapie antitrombotiche in atto.
In definitiva l’indagine colonscopica si
va evolvendo,anche sotto la spinta diagnostica concorrenziale della colonscopia
virtuale e della video capsula verso una
diagnostica di secondo livello dedicata a
situazioni particolari (lesioni displastiche
precoci) che necessitano di una definizione morfologica ed istologica di livello
avanzato ed ad un potenziamento delle
sue capacità operative: polipectomie di
lesioni piatte,mucosectomie di aree displastiche ed infine trattamento delle stenosi,
mediante protesi auto espandibili,anche
nelle situazioni di emergenza evitando
così stomie esterne altamente invalidanti
il paziente.
Corrispondenza e richiesta estratti:
Dr.Claudio Giannelli
V. Giuseppe Belluzzo 27 - 00149 Roma
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Articoli originali
RELAZIONE TRA LE MISURE ANTROPOMETRICHE NELLA OBESITÀ
CENTRALE E I PARAMETRI DEL MONITORAGGIO AMBULATORIALE
DELLA PRESSIONE ARTERIOSA IN PAZIENTI AFFETTI DA
IPERTENSIONE ARTERIOSA ESSENZIALE
RELATIONSHIP BETWEEN ANTHROPOMETRIC MEASURES OF
CENTRAL OBESITY AND AMBULATORY BLOOD PRESSURE
MONITORING IN HYPERTENSIVE PATIENTS
MARIA CRISTINA BRAVI, MARIO COMPAGNUCCI, LAURA GASBARRONE
U.O.C. Medicina Interna 1, Dipartimento di Medicina Interna,
Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Ipertensione arteriosa. Obesità centrale. Monitoraggio ambulatoriale della
pressione arteriosa
Key words: Hypertension. Central obesity. Ambulatory blood pressure monitoring
Riassunto – Introduzione. Studi prospettici hanno mostrato che l’accumulo di grasso addominale rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di diabete mellito, malattia coronarica, stroke e ipertensione arteriosa. Mentre la WHO indica il Body Mass Index (BMI) per valutare l’obesità, la circonferenza
addome (WC) e il rapporto tra quest’ultima e l’altezza (WHtR) sono stati proposti come migliori predittori
di grasso intraaddominale e di rischio cardiovascolare. Molti studi hanno dimostrato la relazione tra ipertensione ed obesità, ma mentre i livelli di pressione arteriosa (PA) rilevati durante l’esame clinico correlano
strettamente con il BMI e il rapporto vita/fianchi, poco nota è l’associazione tra le misure antropometriche e
i parametri pressori derivanti dal monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa (ABPM).
Obiettivo. Valutare l’associazione tra BMI, WC e WHtR e l’ipertensione arteriosa valutata attraverso
ABPM.
Metodi. 220 soggetti (115 maschi e 105 femmine) che afferivano al Centro per l’ipertensione arteriosa, non
in terapia antipertensiva con età media di 54,60 ± 12,89 anni, con BMI (kg/m2) di 26,16 ± 3,72, WC (cm) di
94,81 ± 10,83 e WHtR (cm/cm) di 0,563 ± 0,06 sono stati inseriti nello studio. La presenza di obesità centrale è stata valutata in accordo ai criteri NCEP-ATPIII (WC > 102 cm nei maschi e > 88 cm nelle femmine).
L’analisi statistica è stata effettuata con il programma SPSS 13.0.
Risultati. Nel gruppo degli ipertesi si sono osservati valori maggiori di BMI, di WC e di WHtR rispetto al
gruppo dei normotesi. In pazienti con obesità centrale (n = 87) abbiamo trovato elevati valori di pressione
arteriosa sistolica (PAS) e di pressione arteriosa diastolica (PAD) delle 24 h e di pressione pulsatoria delle
24 h (PP). Inoltre abbiamo riscontrato una diretta correlazione tra WC e la media della PAS delle 24 h in
tutti i soggetti.
Conclusioni. I nostri dati mostrano una associazione tra ipertensione arteriosa, valutata con ABPM, e le
misure antropometriche BMI, WC e WHtR soprattutto in pazienti con obesità centrale. La relazione tra WC
e la media della PAS delle 24 ore suggerisce che la semplice misurazione della distribuzione del grasso come
la WC potrebbe predire lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa nella popolazione generale.
Abstract – Introduction. Prospective epidemiological studies have shown increased abdominal fat accumulation to be an independent risk factor for diabetes, coronary artery disease, stroke and hypertension.
Whereas the WHO indicates body mass index (BMI) to evaluate obesity, waist circumference (WC) and waist
Lavoro presentato come Poster al 19TH European Meeting on Hypertension – Milano 12-16 giugno 2009
M. C. Bravi et al.: Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale
75
to height ratio (WHtR) have been proposed as a better predictors of intraabdominal fat and cardiovascular
risk. Many studies have shown the relationship between hypertension and obesity but whereas office blood
pressure closely correlates with BMI and waist-to-hip ratio, a few data are present regard to the association
between ambulatory blood pressure monitoring (ABPM) and anthropometric measures.
Objective. In this study we aimed to compare the association of the BMI, WC and WHtR with hypertension
evaluated by ABPM.
Methods. We studied 220 (115 male; 105 female) outpatients attending to our Internal Medicine Division,
antihypertensive therapy free, with a mean age of 54.60 ± 12.89 years, BMI (kg/m2) 26.16 ± 3.72, WC (cm)
94.81 ± 10.83 cm and WHtR (cm/cm) 0.563 ± 0.06. The occurrence of central obesity was evaluated according
to NCEP-ATP III criteria (WC > 102 cm in men and > 88 cm in women). Statistical analysis was performed
using SPSS 13.0.
Results. In hypertensive group we observed a greater BMI, WC and WHtR when compared with the normotensive group (Tab 1). In patients with central obesity (n = 87) we found elevated 24-hour systolic blood
pressure (SBP) mean and 24-hour diastolic blood pressure (DBP) mean and 24-hour pulse pressure (PP).
Furthermore, we found a direct correlation between WC and 24-hour SBP mean in all subjects.
Conclusions. Our data show an association between hypertension evaluated by ABPM and anthropometric
measures BMI, WC and WHtR, overall present in patients with central obesity. Furthermore, the relationship between WC and 24-hour SBP mean suggests that a simple measure of fat distribution as the WC could
represent a good predictor of hypertension in a general population.
Introduzione
L’obesità rappresenta un importante
fattore di rischio per le malattie “cardiometaboliche” che comprendono il diabete,
la dislipidemia, la malattia coronarica e
l’ipertensione arteriosa. Numerose organizzazioni internazionali tra le quali la World
Health Organization (WHO) indicano, per
la valutazione del peso corporeo, la misurazione del Body Mass Index (BMI) o indice
di massa corporea. Studi epidemiologici
hanno mostrato come un elevato BMI comporti un aumentato rischio di complicanze
mediche e un aumento della mortalità totale1-4. In ambedue i sessi si è dimostrato che
un BMI uguale o superiore a 30 individua i
soggetti obesi e quelli a maggiore rischio di
malattia cardiovascolare rispetto ai soggetti in eccesso ponderale (BMI compreso tra
25 e 29,9) o magri (BMI compreso tra 18,5
e 24,9). Molto importante appare anche la
distribuzione del grasso corporeo quale fattore di rischio per le malattie cardiovascolari. L’eccessiva localizzazione del grasso
nella regione addominale, definita anche
obesità centrale, è associata ad un aumentato rischio di malattia cardiometabolica.
La semplice misurazione della circonferenza addominale o waist circumference (WC)
rappresenta un marker di localizzazione
della massa grassa addominale essendo
correlata al grasso sottocutaneo e a quello
intra-addominale.
Tra i vari indici di misurazioni antropometriche anche il rapporto tra la WC
e l’altezza del soggetto (Waist to height
ratio - WHtR) è stato proposto come il miglior predittore di rischio cardiovascolare5.
La WC poi identifica meglio i pazienti con
accumulo di grasso intra-addominale, il
quale sappiamo essere responsabile della
sindrome metabolica che si caratterizza
per la presenza, tra le altre patologie, di
ipertensione arteriosa e di obesità.
Molti studi hanno mostrato la relazione
tra ipertensione arteriosa e obesità, ma
mentre i valori di pressione arteriosa (PA)
rilevati durante l’esame clinico correlano
strettamente con il BMI, sono presenti
pochi dati circa l’associazione tra le altre
misure antropometriche e i parametri
pressori derivanti dal monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa (Ambulatory Blood Pressure Monitoring - ABPM).
Per tale motivo abbiamo studiato l’associazione tra BMI, WC e WHtR e l’ipertensione arteriosa valutata attraverso ABPM
in una popolazione di soggetti afferenti al
nostro Centro per l’ipertensione nei primi
quattro mesi del 2009.
Metodi
Abbiamo studiato 220 soggetti (115
maschi e 105 femmine) che afferivano
al nostro centro per lo studio dell’iper-
76
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
tensione arteriosa. I soggetti non assumevano terapia antipertensiva, avevano
una età media di 54,60 ± 12,89 anni, con
BMI (kg/m2) di 26,16 ± 3,72, WC (cm) di
94,81 ± 10,83 e WHtR (cm/cm) di 0,563
± 0,06. La presenza di obesità centrale
è stata valutata in accordo con i criteri
NCEP-ATPIII (WC > 102 cm nei maschi
e > 88 cm nelle femmine)6. Le misurazioni
antropometriche sono state effettuate in
accordo alle procedure standard. Il BMI
è stato calcolato usando la formula: peso
(Kg)/altezza (m2). La WC è stata misurata
mediante l’utilizzo di un metro flessibile.
La PA delle 24 h è stata rilevata durante
un normale giorno lavorativo con ABPM
mediante l’utilizzo dello strumento A&D
TM 2430 effettuando le misurazioni al
braccio sinistro ogni 15 minuti di giorno
(h 07.00-22.00) e ogni 60 minuti di notte
(h 22.00-07.00). Sono stati considerati
ipertesi i soggetti con media della PA delle 24 h superiore a 130/80. Erano esclusi
dallo studio soggetti che svolgevano lavoro
notturno, pazienti affetti da patologie cardiovascolari, renali, neoplastiche o diabete
mellito tipo 1 e tipo 2.
L’analisi statistica è stata effettuata
tramite il programma di statistica SPSS.
Le differenze erano considerate statisticamente significative per una P < 0,05.
Risultati
Nel gruppo degli ipertesi abbiamo osservato un maggiore BMI (27,48 ± 3,74
vs 24,21 ± 2,70, p < 0,001), WC (99,36 ±
9,70 cm vs 88,11 ± 8,74, p < 0,00001) e
WHtR (0,587 ± 0,056 vs 0,529 ± 0,049, p <
0.00001) rispetto al gruppo dei normotesi
(Tab. 1). In pazienti con obesità centrale
(n = 87) abbiamo trovato elevati valori di
PA sistolica (PAS) delle 24 h (142 ± 12,93
vs 130,56 ± 12 mmHg, p < 0.0001), PA
diastolica (PAD) delle 24 h (83,76 ± 8,71
vs 79,56 ± 7,57 mmHg, p < 0,001) e di
pressione pulsatoria (PP) delle 24 h (58,23
± 11,36 vs 50,96 ± 9,20 mmHg, p < 0,0001).
Inoltre abbiamo riscontrato una diretta
correlazione tra WC e media della PAS
delle 24 h (p < 0,0001) in tutti i soggetti
(Fig. 1).
Tabella 1 - Differenze tra soggetti normotesi e
ipertesi
Ipertesi
(n = 131)
Normotesi
(n = 89)
P-value
Età (anni)
54,73± 13,40
54,40 ± 12,18
ns
Altezza (cm)
169,24 ± 8,2
165,83 ± 8,83
< 0,005
WHtR
(cm/cm)
0,587± 0,056
0,529 ± 0,049 < 0,0001
BMI (Kg/m2 )
27,48 ± 3,74
24,21 ± 2,70
< 0,001
WC (cm)
99,36 ± 9,70
88,11 ± 8,74
< 0,0001
143,70 ± 9,40
122,41 ± 7,39 < 0,0001
84,88 ± 8,06
75,80 ± 5,07
< 0,0001
104,16 ± 7,01
91,03 ± 5,19
< 0,0001
58,78 ± 10,29
46,56 ± 6,20
< 0,0001
Media PAS
24h (mmHg)
Media PAD
24h (mmHg)
Media
24h (mmHg)
Media PP
24h
Fig. 1 - Correlazione tra WC e PAS media delle
24 h in tutti i soggetti
Discussione
Il progressivo incremento della prevalenza di obesità osservata nella popolazione mondiale consente di considerare
tale patologia come una epidemia. La
sua presenza si associa ad una riduzione della aspettativa di vita di circa 6-7
anni, in rapporto alla maggiore evidenza
di malattie cardiovascolari nei pazienti
obesi. L’ipertensione arteriosa è circa sei
volte più frequente negli obesi rispetto
ai soggetti magri, ed è stato calcolato che
all’aumento di circa 10 Kg di peso corporeo corrisponde un incremento del 24% di
occorrenza di ictus cerebrale e del 12% di
coronaropatia7, 8.
M. C. Bravi et al.: Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale
I nostri dati hanno evidenziato che i
pazienti con valori di PAS delle 24 h superiore a 130/80 hanno gli indici antropometrici più elevati rispetto alla popolazione
dei soggetti normotesi. È interessante notare che tutte e tre le misurazione antropometriche effettuate (BMI, WC e WHtR)
mostrano una evidente differenza statistica, ma il BMI è quello meno significativo.
Riguardo alla WC si è evidenziata anche
una relazione diretta tra quest’ultima e
la PAS media delle 24 h in tutti i soggetti
studiati, suggerendo uno stretto legame
tra localizzazione addominale del grasso
corporeo e i livelli di PA. Che sia la localizzazione del grasso viscerale e non l’obesità complessiva a rappresentare il più
importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari viene anche riportato
dallo studio INTERHEART, uno studio
caso-controllo che ha esaminato 27.000
pazienti provenienti da circa 50 nazioni e
che ha mostrato una debole relazione tra
BMI e infarto del miocardio, mentre la
WC e il rapporto vita-fianchi (WHR) sono
risultati fattori di rischio altamente significativi per la cardiopatia ischemica9.
La PP è apparsa più elevata nel gruppo
dei soggetti con obesità centrale, consentendo quindi di considerare tali pazienti
a maggior rischio cardiovascolare visto il
legame esistente tra PP ed eventi fatali e
non fatali10, 11.
In conclusione questo studio evidenzia
la relazione tra BMI, WC e WHtR e i parametri derivanti da ABPM sia in pazienti
ipertesi che in soggetti normotesi.
La semplice misurazione della distribuzione del grasso corporeo come la WC
potrebbe aiutare a predire lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa nella popolazione
generale.
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type 2 diabetic patients. A cohort study. Diabetes Metab Res Rev 2006; 22(3): 172-5
Corrispondenza e richiesta estratti:
dott.ssa M. Cristina Bravi,
Medicina Interna I
Ospedale San Camillo, Forlanini, Roma
E-mail:[email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
LA GESTIONE DEI CORPI ESTRANEI INTRAVASCOLARI
MANAGEMENT OF INTRAVASCULAR FOREIGN BODIES
STEFANO PIERI, PAOLO AGRESTI,
DE’
MEDICI LORENZO
Radiologia Vascolare ed Interventistica
Azienda Ospedale S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Corpi estranei. Intravascolari. Recupero percutaneo
Key words: Foreign body. Intravascular. Percutaneous retrieval
Riassunto – Introduzione. Con il ricorso sempre più frequente ai trattamenti interventistici in un ventaglio
sempre crescente di patologie, sono aumentate esponenzialmente le complicazioni legate all’impiego dei vari
presidi, per cui sempre più spesso si deve ricorrere al recupero dei corpi estranei nel territorio vascolare.
Obiettivo del lavoro è riportare l’esperienza accumulata nella gestione dei corpi estranei intravascolari, utilizzando i vari presidi che l’incessante sviluppo tecnologico mette a disposizione del radiologo interventista.
Materiali e metodi. Nel periodo 1999-2006, 13 pazienti sono stati sottoposti a recupero di corpi estranei
intravascolari. In 10 casi si è trattato di recuperare frammenti di cateteri venosi centrali dislocati in varie
parti della circolazione venosa e negli ultimi 3 si è trattato di frammenti di fili guida.
L’accesso utilizzato è stato sempre il femorale, i presidi utilizzati diversi.
Risultati. Nei frammenti di cateteri venosi centrali il recupero è stato ottenuto nel 100% dei casi, impiegando il catetere pig-tail angolato come primo presidio per spostare il frammento dal territorio polmonare e il
catetere a cappio per recuperalo ed estrarlo.
Il recupero dei frammenti di fili guida è avvenuto in 2 casi, con l’ausilio di un catetere angiografico prima e
di un miotomo poi. Nel 3° paziente non è stato possibile effettuare il recupero per la probabile incarcerazione
del filo guida all’interno della parete della vena cava inferiore ad opera del naturale processo di riepitelizzazione. Non si sono registrate complicazioni.
Conclusioni. La gestione percutanea dei corpi estranei intravascolari, attraverso il loro recupero, si è dimostrata una opzione terapeutica valida, sicura e precisa nel trattare queste evenienze cliniche in costante
aumento d’incidenza, senza dover ricorrere alla soluzione più invasiva, rappresentata dalla chirurgia.
Abstract – Introduction. The utilization of interventional procedures in an increasing numbers of pathological conditions has brought on the frequency linked with the use of medical aids, and more frequently is
indispensable the percutaneous retrieval of foreign body in the vascular bed.
The objective of this article is to report our experience based on the utilization of new medical aids that the
technology offers to the interventional radiologist.
Materials and methods. Between 1999 to 2006, 13 patients were referred to our unit for percutaneous retrieval of foreign body. In 10 were retrieved fragments of central vascular catheters, disloged in different
segments of venous circulation; in the last 3 patients guide wire fragments were attempted to retrieve.
Results. The retrieval of central venous catheters fragments was done in the 100% of cases, using angled pigtail as first medical aid to remove the fragment from pulmonary bed and a goose neck catheter for definitive
retrieval and extraction.
79
S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari
Guide wire fragment’s retrieval was done in 2 patients with angiographic catheter first and a forceps after.
In the last one was impossible to retrieve the guide wire for its incarceration in the vena cava wall, after the
natural epithelization process.
Discussion. Percutaneous management of vascular foreign body is a safe and valid therapeutic option, extremaly precise in the therapy of that clinical conditions, without the invasiveness of surgical intervention.
Introduzione
Materiali e metodi
Il rapido sviluppo tecnologico e la
vasta applicazione delle procedure percutanee, sia in territorio arterioso che
venoso, ha comportato un aumento delle
complicanze specifiche correlate alla metodica, causate dalla presenza di corpi
estranei intravascolari1. Se in passato
prevalevano i frammenti di cateteri angiografici e di guide, oggi, il ventaglio dei
corpi estranei si è allargato, arrivando a
comprendere le spirali, i frammenti degli
stent e dei cateteri per infusione prolungata2,3.
Sin dalla sua prima descrizione, effettuata trent’anni fa4, il recupero percutaneo dei corpi estranei intravascolari si è
dimostrata un’opzione terapeutica efficace, diventando progressivamente la soluzione di riferimento, sempre più utilizzata, in tutte quelle situazioni di emergenza,
in grado di evitare i devastanti interventi
chirurgici e le possibili conseguenze ad
essi correlati5,6.
Numerosi sono stati i presidi descritti
e utilizzati per effettuare il recupero dei
corpi estranei: cappi artigianali, pinze,
cestelli, guide ricurve in punta5-7. Con
l’introduzione del microcatetere a cappio
in nitinol è stato superato lo svantaggio
rappresentato dal cappio artigianale, costruito con un piccolo filo guida inserito
all’interno di un catetere angiografico8.
Numerose sono tuttavia le situazioni cliniche che si possono presentare, per cui la
conoscenza delle varie opportunità tecniche consente al radiologo interventista di
affrontare con successo questa evenienza
tanto temuta.
Sulla base di una discreta casistica,
scopo dell’articolo è quello di riportare
l’esperienza accumulata nella gestione dei
corpi estranei intravascolari.
Nel periodo compreso tra maggio 1999maggio 2005 sono giunti alla nostra osservazione 13 pazienti per essere sottoposti
ad una procedura di recupero di corpo
estraneo intravascolare. In 10 casi erano
uomini e in 3 donne, con età media di 56
anni (range 16-74).
Le indicazioni al recupero hanno riguardato la presenza di frammenti di cateteri venosi centrali o di port, dislocatisi
in varie parti della circolazione venosa,
con lunghezza tra 6 e 25 cm (10 casi), la
perdita di frammenti di guida (3 casi). Il
loro riconoscimento è avvenuto a distanza dall’effettuazione della procedura, ma
sono stati inviati in regime di urgenza per
effettuare il tentativo di recupero percutaneo dei corpi estranei.
Dopo aver ottenuto il consenso informato, in anestesia locale, e il posizionamento
di un introduttore con valvola (9-10 Fr,
lungo 11 cm – Terumo, Terumo International, Tokyo, Giappone) sempre a livello
femorale, dopo una preventiva radiografia
diretta del torace, per localizzare la struttura da recuperare, nel caso di frammenti
di fili guida, il primo presidio utilizzato è
stato un catetere angiografico pig-tail [6
Fr, angolato di 145°, lungo 100 cm.- Cordis Europe, Olanda] (Fig. 1). Con la parte
rigida della guida idrofilica inserita al
suo interno fino a 3 cm dal ricciolo e con
opportune manovre di rotazione, questi
ci ha facilmente permesso di avvolgere il
frammento, consentendone poi lo spostamento al di fuori dell’arteria polmonare
o delle camere cardiache. A livello della
vena cava inferiore la scelta del recupero
si è orientata verso un catetere a pinza o
miotomo [Biopal 7, Cordis Europe, Roden,
Olanda], visto il minimo ingombro offerto
dal frammento di guida al recupero.
80
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
Fig. 1 a
Fig. 1 b
Fig. 1 – Paziente di anni 72, dopo aver eseguito
una procedura percutanea di nefrostomia, al
controllo TC, presenta in arteria polmonare un corpo estraneo. All’esame diretto [a] è
difficile distinguere una struttura filiforme,
molto lunga, rispetto all’ombra cardiaca e alla colonna vertebrale. Dopo aver introdotto un
introduttore valvolato 9 Fr a livello della vena
femorale destra, con l’ausilio di un catetere
angiografico, conformato a pig-tail, è stato
possibile prima avvolgere il filo guida sul catetere angiografico, poi trascinarlo all’esterno
della cavità cardiaca e del torace, nonostante
il flusso vorticoso del ritorno venoso [b], infine
recuperarlo con un miotomo [c].
Fig. 1 c
Nel caso dei frammenti di cateteri venosi centrali o di port, il presidio scelto
è stato il catetere a cappio [EN Snare,
MDTech, Gainesville, Florida, USA, 7 Fr,
lungo 120 cm, con apertura variabile tra
27 e 45 mm – Goose Neck ] ricorrendo ad
altre soluzioni tecniche in caso d’insuccesso momentaneo: lo stesso catetere angiografico pig tail per avvolgerlo o il miotomo
per recuperalo. Il diametro del catetere
a cappio selezionato è stato in genere
costante (25 mm), potendolo adattare di
volta in volta a seconda delle necessità, sia
come angolazione che come apertura. Non
abbiamo mai dovuto ricorrere ad una ulteriore angolazione del cappio o all’utilizzo
di cateteri guida pre-curvati. In caso di
81
S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari
assenza del presidio commerciale abbiamo
confezionato artigianalmente il sistema
di recupero con un catetere angiografico
selettivo [cobra, 5 fr, lungo 65 cm, Cordis
Europe, Olanda] e una guida idrofilica
[0,018”- lunga 180 cm, Terumo, Gamma
International, Roma, Italia].
Una volta recuperato il corpo estraneo,
questi è stato trasportato a livello pelvico
ed impegnato nell’introduttore. Sia che
fosse totalmente impegnato al suo interno,
come nel caso del frammento di filo guida,
o parzialmente, come nel caso di un frammento di catetere venoso, l’asportazione
è avvenuta lentamente, ma contestualmente all’introduttore, per evitare che il
tentativo di superamento della valvola
dell’introduttore ne causasse un indesiderato sganciamento.
Al termine della procedura, veniva
effettuata la radiografia del torace di
controllo. È stato considerato il successo
tecnico delle procedure, inteso come la
completa rimozione o il corretto riposizionamento dell’oggetto estraneo.
Risultati
Il recupero di corpi estranei intravascolari è stato eseguito con successo in 12
pazienti (97%).
Tra le procedure effettuate nel territorio
venoso, il recupero dei frammenti di cate-
Fig. 2 a
tere venoso centrale si è ottenuto in 10 casi
(100%). Quando il frammento era molto
lungo e posizionato all’interno dell’arteria polmonare (4 casi), abbiamo sempre
utilizzato il catetere pig tail angolato di
prima intenzione, per poter trascinare il
frammento di catetere fuori dalla vorticosa
circolazione polmonare e trasportarlo in
vena cava inferiore. A questo livello, è stato
possibile recuperarlo più stabilmente con
il catetere a cappio. Nei casi dei frammenti ubicati in atrio destro (6 casi), ma con
estremità in vena succlavia, in tronco anonimo sinistro o all’origine della vena cava
superiore abbiamo impiegato direttamente
il catetere a cappio, indipendentemente
dalla lunghezza del frammento (Fig. 2). In
4 casi, per assenza del presidio commerciale, è stato impiegato il sistema artigianale
di recupero, sempre con successo.
Per quanto riguarda il recupero dei fili
guida, questi si è ottenuto in 2 casi (83%),
entrambe localizzati all’interno dell’arteria polmonare destra; abbiamo impiegato
sempre prima il catetere angiografico pigtail precurvato per asportare il frammento dal circolo polmonare, per poi recuperarlo con successo in vena cava inferiore con il
miotomo. Per quanto riguarda il paziente
con il frammento di filo guida in vena cava
Fig. 2 b
82
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
Fig. 2 c
Fig. 2 – Donna di 68 anni, con precedente
asportazione della mammella sinistra e attualmente sottoposta a cicli periodici di chemioterapia. Ad un periodico controllo radioloFig. 2 d
gico del torace [a] ci si accorge che l’estremità
del catetere del port-A-cath è staccata dal serbatoio. Dopo aver posizionato un introduttore valvolato 8 Fr, grazie ad un particolare catetere per il recupero dei corpi estranei, il frammento di
port viene preso all’interno della cavità toracica, nella vena cava superiore [b], trasportato in
vena cava inferiore, in vena iliaca comune, per essere infine impegnato all’interno dell’introduttore in vena femorale. Una volta estratti contemporaneamente l’introduttore valvolato, il sistema
del recupero dei corpi estranei e il frammento di catetere all’interno [c], è possibile eseguire la
radiografia di controllo del torace, per confermare l’avvenuto recupero [d].
inferiore, l’unico caso in cui la procedura
di recupero è fallita, questi è stato affrontato direttamente con il catetere a cappio,
sia a livello prossimale che distale del filo
guida, senza riuscire mai ad afferrare una
delle estremità. Sulla base dell’anamnesi
raccolta dal paziente, si trattava molto
probabilmente di un frammento di filo guida, residuo non desiderato di un posizionamento di un port-A-cath, avvenuto tre
mesi prima, la cui presenza all’interno del
corpo umano era passato inosservato. Molto probabilmente, visto il tempo trascorso,
il filo guida era stato incorporato dalla parete della vena cava e per tale motivo non
esistevano porzioni libere che ne potessero
facilitare la cattura.
Non sono state notate complicanze o
lesioni vascolari; anche la fuoriuscita di
frammenti di catetere ripiegati non ha
richiesto una successiva riparazione chirurgica. Le successive visite cliniche ed
eco-color-doppler non hanno mostrato significative irregolarità di calibro dei vasi
venosi.
Discussione
Il trattamento percutaneo dei corpi
estranei continua ad essere applicato in
modo sicuro ed efficace in un numero sempre maggiore di pazienti Il rapido sviluppo
dei materiali endovascolari e di presidi,
tuttavia richiede un costante adattamento
e continua rifinitura delle tecniche interventistiche che sovraintendono al recupero dei corpi estranei endovascolari.
Dotter, nel primo lavoro sul recupero
dei corpi estranei eseguito con tecnica
percutanea, parla esclusivamente di frammenti di cateteri e guide10, mentre oggi lo
spettro dei presidi e degli oggetti intravascolari si è ampliato significativamente,
fino a comprendere i filtri cavali, spirali
da embolizzazione, gli stent endovascolari
(questi sono associati a un certo numero di
complicanze legate alla metodica, come la
dislocazione o il loro errato posizionamento, situazioni che richiedono un intervento
di asportazione o di corretta allocazione
del presidio)11.
S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari
La percentuale di complicanze gravi
associate con la disseminazione dei corpi
estranei è dell’ordine del 70%, con una
percentuale di mortalità tra il 24 e il
60%12. In particolare, i pazienti con una
localizzazione cardiopolmonare di corpi
estranei sono a rischio di un ventaglio di
situazioni cliniche che va dalle aritmie cardiache fino alla perforazione. Nel posizionamento di stent, la percentuale di errato
posizionamento è riportato nel 2,5% nella
localizzazione nei vasi periferici, mentre è
oltre l’8% nelle arterie coronarie12-14.
Le indicazioni alla rimozione o al corretto riposizionamento di ogni tipo di corpo estraneo è ampio, ma sostanzialmente
dovrebbe rispondere ad una serie di semplici quesiti.
La prima e più importante domanda a
cui fornire una valida risposta è se l’oggetto in questione necessiti di essere recuperato, cioè se la sua permanenza può essere foriera di complicanze o di successivi
eventi negativi. La risposta molto spesso è
frutto di un equilibrio tra basi scientifiche
e pressioni esterne. In considerazione delle possibili conseguenze ad essi ascrivibili,
tutti i corpi estranei intravascolari vengono rimossi prontamente15.
Indubbiamente la maggior parte degli
oggetti da recuperare sono frammenti di
cateteri venosi centrali, visto il costante
incremento del loro utilizzo; in genere
sono estremamente facili da prendere,
perché flessibili, di calibri ridotti, hanno
le estremità libere e, molto importante,
si trovano in strutture vascolari ampie,
a bassa pressione, dove tendono a sedimentare. Molto spesso non danno una
sintomatologia, tanto da essere scoperti
in corso di un controllo radiografico; tendono a localizzarsi centralmente15. Molto
diversa è la situazione dei corpi estranei
intravascolari arteriosi, che seppur molto
piccoli producono subito una sintomatologia ischemica e sono estremamente difficili da recuperare, perché la pressione e il
flusso tendono a portarli sempre più perifericamente, dove è sempre meno agevole
intervenire per via endovascolare8.
La seconda domanda a cui dare una
risposta è se i corpi estranei siano sicuramente endovascolari. L’anamnesi recente
83
e la radiografia del torace sono in genere
sufficienti a dare una esauriente risposta.
I quesiti successivi sono già più di pertinenza tecnica: possono essere recuperati
senza causare danni al paziente, quale
accesso e quale presidio utilizzare16,17.
L’accesso è quasi sempre quello femorale. Viceversa, i presidi che possono essere
utilizzati sono diversi, con un differente
meccanismo d’azione: sia il catetere a
cappio che a canestro avvolgono e/o circondano il corpo estraneo, un catetere con
estremità a pinza lo afferra, il catetere a
palloncino e il catetere a pig tail lo disloca
in una altra sede, dove è più agevole il
recupero o minori le complicanze in caso
di insuccesso tecnico. In particolare poi,
il catetere a cappio deve essere scelto di
dimensioni superiori all’oggetto da recuperare, il cappio va fatto scorrere sul
catetere fino ad arrivare ad una estremità
libera, per poi indietreggiare chiudendo
il cappio18. Una volta catturato il corpo
estraneo intravascolare, la cui conferma
si ottiene evidenziando il restringimento
del catetere in coincidenza con il cappio,
si inizia a retrarre il tutto, seguendo le
operazioni sotto il diretto controllo fluoroscopico, applicando una ferma e continua
trazione sul cappio. Una volta giunti all’interno dell’introduttore, appositamente
scelto di calibro leggermente superiore al
presidio da recuperare, o in prossimità di
esso, se il corpo estraneo ripiegato non riesce ad entrare nell’introduttore, si retrae
contemporaneamente il catetere a cappio,
sempre in tensione, l’introduttore e il corpo estraneo.
Nel caso del recupero di uno stent, il
cappio può essere leggermente stretto attorno al filo guida, utilizzato come corsia
preferenziale per arrivare direttamente
oltre lo stent; aprendo il cappio poco oltre lo stent, è più agevole effettuarne il
recupero, retraendo il cappio aperto verso
lo stent; una volta confermato di averlo
catturato, può essere recuperato retraendo contemporaneamente tutti gli oggetti
coinvolti17.
Il catetere pig tail, per le guaine dei fili
guida o per i frammenti di catetere molto
lunghi arrotolati su sé stessi, e i cateteri
angiografici precurvati possono tornare
84
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
utili per arpionare il corpo estraneo intravascolare da recuperare, posizionato
in una sede non agevole per il catetere a
cappio. Quest’ultimo può essere utilizzato
in un secondo tempo, o in sostituzione si
possono scegliere cateteri a pinza, una
volta che la sede raggiunta dal corpo
estraneo consenta di operare in maggiore
tranquillità.
Nei casi in cui l’oggetto recuperato è
in territorio venoso e di calibro molto più
grande dell’introduttore, è bene retrarlo
più perifericamente possibile, fino alla
vena femorale, per poterlo recuperare attraverso l’incisione chirurgica della vena;
questa operazione appare preferibile rispetto ad un intervento maggiore19.
Sebbene sia riportato un successo superiore al 90%, la procedura può fallire
quando non esiste una estremità libera
dove fare passare il cappio del catetere per
il recupero.
Sulla base della nostra esperienza possiamo concludere affermando che la gestione percutanea dei corpi estranei intravascolari, attraverso il loro recupero
quando possibile, o il loro riposizionamento in sedi innocue, è sicura ed efficace, con
percentuali di complicanze connesse alla
metodica pressochè inesistenti, in grado
di risolvere l’urgenza clinica senza dover
ricorrere al più traumatico ed invasivo
intervento chirurgico.
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Stefano Pieri
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Casistica clinica
IMPIEGO DEGLI SPIGOTS DI WATANABE NEL TRATTAMENTO
DELLE FISTOLE PARENCHIMALI PERIFERICHE:
NOSTRA ESPERIENZA
APPLICATION OF WATANABE SPIGOTS IN THE TREATMENT
OF PERIPHERAL PARENCHYMAL FISTULAS:
OUR EXPERIENCE
CARLO LOMBARDI, GABRIELE LUCANTONI, GIOVANNI GALLUCCIO
U.O. Endoscopia Toracica,
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Broncoscopia. Fistola broncopleurica. Spigot di Watanabe. Perdite aeree persistenti
Key words: Bronchoscopy. Bronco-pleural fistula. Watanabe spigots. Persistent Air Leaks
Riassunto – Gli autori descrivono il caso clinico di due pazienti ricoverati rispettivamente il primo per
massiva contusione polmonare bilaterale con versamento pleurico mentre il secondo per escavazione (post
radioterapia) di linfoma del mediastino anteriore. Entrambi sviluppano durante la loro degenza fistole parenchimali periferiche non trattabili chirurgicamente. La nostra esperienza entra in campo con una tecnica
endoscopica innovativa
Abstract –The authors report the clinical case of two hospitalized patients, the first one with severe politrauma complicated by massive bilateral pulmonary contusion and pleural effusion, the second one with
lymphoma excavation (post radiotherapy) in anterior mediastinum. Both patients were not candidate for
surgery but both during the disease course developed alveolopleural fistula. Our experience shows a new
endoscopic technique
Introduzione
Le fistole parenchimali periferiche (Alveolo Pleural Fistulas, APF) sono comunicazioni a flusso continuo poste tra il parenchima polmonare e lo spazio pleurico,
persistenti (più di 24 ore)1,2 .
Le cause possono essere di origine
infettiva (polmoniti da micobatteri, da
miceti,ascessi,empiemi) di tipo iatrogeno
(complicanza di biopsie transbronchiali,to
racentesi, drenaggio pleurico, barotraumi
da ventilazione meccanica, chemioterapia
e radioterapia) post traumatiche, idiopatiche come nello pneumotorace spontaneo3,4.
Il trattamento standard delle APF prevede all’inizio il drenaggio pleurico, con
il posizionamento di un tubo toracico per
una i durata non superiore ai sette-quattordici giorni5,6.
La persistenza delle APF può comportare la formazione di empiema con conseguente stato settico, oppure polmoniti
aspirative da penetrazione di essudato
pleurico infetto nelle vie aeree.
Inoltre è possibile nel caso d’importante passaggio aereo, pneumotorace a
valvola con sbandieramento mediastinico,
e conseguente insorgenza d’insufficienza
respiratoria tale da richiedere uno specifico supporto ventilatorio7.
In caso di insuccesso, il trattamento di
elezione è la pleurodesi in toracoscopia o
la pleurectomia chirurgica8,9.
86
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
Qualora si osservi una recidiva si è spesso costretti ad un drenaggio pleurico a permanenza, o ad interventi demolitivi, quali
toracoplastiche o finestre pleuriche10,11.
Nel caso in cui tali metodiche chirurgiche non siano applicabili la chiusura delle
AFP diventa di competenza endoscopica12.
Le fistole visibili endoscopicamente
quali quelle post-exeretiche, di piccolo calibro (<3mm) possono essere trattate con
materiali sigillanti, mentre nelle fistole
parenchimali periferiche non vi è attualmente un trattamento codificato13.
Negli ultimi due anni sono giunti alla
nostra osservazione alcuni casi di APF
non trattabili chirurgicamente, nei quali è
stata applicata una metodica endoscopica
innovativa, con buoni risultati.
Sono stati adoperati, per gli esami endoscopici, strumenti rigidi e flessibili.
Il broncoscopio rigido Storz14, strumento all’avanguardia nella moderna pneumologia interventistica, garantisce al paziente un maggior controllo dell’anestesia ed,
una migliore visualizzazione del campo
operatorio grazie all’inserimento del fibroscopio Olympus.
La perdita aerea è stata identificata mediante occlusione seriata dei rami
bronchiali con palloncino vascolare, in
pazienti portatori di drenaggio pleurico in
aspirazione.
Gli spigot di Watanabe (Novatech,
Cedex, Francia)15 sono tappi di silicone
medicale a tronco di cono con denti d’aggancio sulle superfici laterali che ne facilitano l’ancoraggio alle pareti bronchiali16,17.
Sono presenti inoltre due linguelle per
l’aggancio con pinza bioptica , per il posizionamento o l’eventuale, facile rimozione.
Sono di tre misure con diametro di 5mm,
6mm, e 7mm (Fig. 1).
Fig. 1 - Spigots di Watanabe
polmonare bilaterale e versamento pleurico (Fig. 2). Il paziente, intubato e ventilato
meccanicamente in rianimazione per la
grave insufficienza respiratoria, ha sviluppato una fistola periferica nel contesto
del parenchima danneggiato. Si è così
sviluppato uno pneumotorace che ha reso
inefficiente la ventilazione assistita.
Per tale motivo il paziente è stato sottoposto a pleurectomia chirurgica in VATS
(Videotoracoscopia). Purtroppo, a causa
della rigidità del parenchima contuso il polmone non si è riespanso e la fistola ha recidivato con una perdita area persistente.
Per tale motivo è stato eseguito un
esame endoscopico, in sedazione, con paziente in ventilazione controllata. È stato
introdotto in trachea un broncoscopio rigido (Storz Operatore), attraverso il quale è
stato inserito un fibrobroncoscopio Olympus. Mediante un catetere vascolare con
palloncino si è identificato, con successive
occlusioni dei rami bronchiali tributari periferici, il subsegmento sede della fistola.
A questo punto due rami bronchiali del ramo apicale del lobare inferiore destro sono
stati occlusi mediante posizionamento di
Casi clinici
Vi presentiamo due casi di fistole parenchimali periferiche recidivate a trattamento chirurgico.
Caso n°1
Paziente di anni 44, maschio (S.A.),
grave politrauma, con massiva contusione
Fig. 2 - L’immagine TC mostra gli spigot di
Watanabe inseriti nei due rami bronchiali del
ramo apicale del lobare inferiore destro
C. Lombardi et al.: Impiego degli spigots di watanabe nel trattamento delle fistole parenchimali periferiche: nostra esperienza
87
dale di provenienza, non hanno ritenuto
praticabile alcun trattamento invasivo oltre al drenaggio.
É stato eseguito intervento di broncologia operativa in anestesia generale endovenosa e respiro spontaneo, nello stesso
modo di quanto già eseguito nel paziente
n. 1, con posizionamento di uno spigot di
Watanabe del calibro di 5 mm (Fig. 5), nel
ramo subsegmentario più anteriore dell’anteriore del lobare superiore destro, con
arresto della perdita aerea.
Il risultato si è mantenuto stabile nei
mesi successivi.
Fig. 3 - L’immagine TC ottenuta nel controllo a
sei mesi distanza mostra l’occlusione completa
del ramo bronchiale e la risoluzione definitiva
del quadro precedente
spigots di Watanabe, sino a determinare
l’arresto delle perdite aeree (Fig. 3).
Il paziente ha potuto così proseguire
il ciclo di terapia, sino a ristabilirsi ed al
controllo a sei mesi di distanza, pur in presenza di esiti cicatriziali e di fibrotorace,
era in buone condizioni respiratorie, senza
tubi di drenaggio.
Caso n. 2
Paziente di anni 42, femmina (P. G),
portatrice di linfoma del mediastino anteriore, dopo irradiazione ha sviluppato
una escavazione della massa che si è
fistolizzata verso il cavo pleurico e verso
il parenchima polmonare, con risultante persistente perdita aerea (Fig. 4). In
considerazione del quadro clinico, delle
aderenza post radioterapia e del quadro
polmonare, i chirurghi toracici dell’ospe-
Discussione
Nei due casi da noi trattati, giudicati
irrecuperabili con metodiche chirurgiche,
un intervento di broncologia operativa
di moderato impegno per il paziente, di
breve durata e totalmente reversibile, in
caso di insuccesso, ha consentito di obliterare il tramite fistoloso, con scomparsa
delle perdite aeree e obliterazione del cavo
pleurico. Non si sono verificate complicanze infettive e l’area di atelettasia indotta
dall’occlusione bronchiale è stata sempre
di modestissima entità ed ininfluente dal
punto di vista ventilatorio.
Fig. 5 - Spigot di Watanabe perfettamente
inserita e ancorata all’interno del ramo bronchiale
Fig. 4 - Escavazione polmonare esito della terapia radiante
88
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
In caso di perdite aeree persistenti parenchimali il posizionamento di spigot di
Watanabe, nella nostra esperienza, pur su
una casistica limitata, può consentire una
efficiente e rapida guarigione, con recupero funzionale del polmone.
Il basso costo dei materiali e delle procedure rende vantaggioso tale approccio,
che consente una drastica riduzione dei
tempi di degenza e dei costi di gestione in
questi gravi ammalati.
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Gabriele Lucantoni
U.O. Endoscopia Toracica,
Az. Osp. S. Camillo Forlanini, Roma
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Rassegne
SINDROME IPERMETABOLICA MALIGNA
(PARTE I)
MALIGNANT HYPERMETABOLIC SYNDROME
(I SECTION)
MANLIO GIACANELLI
UOC Neurologia Lancisi
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Ipertermia maligna. Sindrome neurolettica maligna
Key words: Malignant hyperthermia. Malignant neuroleptic syndrome
Riassunto – Della sindrome ipermetabolica si è tracciata la definizione, la fisiologia e la fisiopatologia, la
diagnosi e i presidi terapeutici. L’ipervalutazione del CK e l’importanza di evitare determinati anestetici,
soprattutto nel dubbio diagnostico di una S.I.M. L’importanza della interazione dei farmaci con i fattori metabolici espressa da uno schema molecolare dinamico ed infine la rappresentazione di un tessuto muscolare
visto alla microscopia elettronica.
Abstract – The paper exposes the definition, physiology, pathophysiology of malignant hypermetabolic
syndrome, the diagnosis and the therapeutic headmasters. He emphasizes the hypervaluation of CK and
the importance to avoid some anaesthetics, above all in the diagnostic doubt of a S.I.M., the importance of
the interaction of the drugs with metabolic factors expressed by a dynamic molecular scheme and at last it
shows the representation of a muscular tissue seen to the electronic microscopy.
Definizione
Si tratta di uno stato ipermetabolico e dismetabolico fulminante del sistema muscolare ereditato con modalità autosomica dominante. Tale stato patologico del sistema
muscolare è scatenato da anestetici oppure
da situazioni di stress o da ipertermia. Si
tratta sempre di persone geneticamente suscettibili di ammalare di questa sindrome.
La variabilità genotipica e quella ambientale (in senso lato), contribuiscono a dare
un quadro clinico mai uniforme. La classica
crisi ipermetabolica maligna può manifestarsi immediatamente a causa dell’esposizione ad anestetici oppure manifestarsi
nell’arco delle 24-36 ore dall’esposizione
suddetta. Può anche non manifestarsi per
nulla. Addirittura può manifestarsi per la
prima volta alla seconda o terza anestesia
subita dal soggetto suscettibile.
Agenti scatenanti: questi sono tutti i rilassanti muscolari depolarizzanti (inclusa
la succinilcolina), tutti gli anestetici volatili (halotano, enflurano, isoflurano, sevoflurano e desflurano), la caffeina e tutti i materiali alogenati di contrasto per i raggi X.
Inoltre i fattori ambientali stressanti quali interventi chirurgici,la gravidanza, le
infezioni e gli stress psicologici. Controverso è se le fenotiazine possano scatenare
questa sindrome,ma possono scatenare la
s. neurolettica maligna.
Farmaci certamente NON scatenanti
la S.I.M. sono gli antibiotici, gli antiistaminici, gli antipiretici, le benzodiazepine
(midazolam,diazepam, lorazepam), i barbiturici (tiopental, metoexital), propofol,
ketamine, i rilassanti muscolari non depolarizzanti (atracurium, cisatracurium,
pancuronio, vecuronio), droperidol, nitrossido, oppioidi, propanololo, i farmaci
90
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
vasoattivi, l’amide e gli esteri anestetici
locali (lignocaina, bupivacaina). Da considerare però che le ketamine, il pancuronio, i farmaci vasoattivi che hanno effetti
sul circolo, possono mimare la S.I.M.
Fisiologia
La depolarizzazione di membrana delle
fibre muscolari inizia al livello della placca
motrice ed è trasmessa lungo la fibra muscolare. Il potenziale di azione è trasmesso
a tutte le miofibrille componenti la fibra
muscolare attraverso il sistema tubulare T.
Tale sistema trasversale T proviene
dalla superficie della membrana muscolare (vedi Fig. 2 alla fine dell’articolo)
ed attraversa in profondità le miofibrille
disponendosi fra le vescicole o cisterne
laterali appartenenti al sistema reticolosarcoplasmico, ma non comunicando con
esse attraverso aperture di membrana.Attraverso il sistema T corrono gli elettroliti
provenienti dall’esterno della membrana
muscolare e con sistema “grilletto” provocano il rilasciamento del Ca++ dalle cisterne laterali del reticolo – sarcoplasmico
(SR) il quale ultimo inonda le fibrille muscolari. Si rinvia ad un secondo articolo la
complessità biochimica della contrazione
muscolare; qui importa dire che l’enzima
ATPasi (adenosintrifosfatasi) libera energia demolendo appunto l’ATP. L’enzima si
trova nelle “teste” della molecola miosina,
una delle molecole funzionali muscolari.
Le “teste” miosiniche si attaccano alla actina (altra proteina muscolare funzionale)
come in una ruota dentata. Si attua la
contrazione muscolare con un progressivo
accorciamento del muscolo. Immediatamente prima dell’inizio della contrazione
il Ca++ liberato dalle cisterne del SR è
necessario per innescare la contrazione
medesima. Cessata la contrazione il Ca++
torna nelle cisterne del SR con dispendio
di energia. Si attua il rilasciamento muscolare e le fibre tornano ad allungarsi.
Fisiopatologia
La sindrome ipermetabolica maligna
appare come la conseguenza di una cattiva regolazione del Ca++ nella fibra. In
particolare la cattura del Ca++ appare
regolare ma non sembra tale il rilascia-
mento del Ca++ dal SR. Questo sarebbe
il difetto primario. Nella membrana del
SR vi sono canali deputati alla liberazione
di ioni Ca++, costituiti da proteine e fra
queste le proteine dei recettori detti RIANODINE. Esistono altri recettori quali le
diidropiridine che sono colpiti da farmaci
usati nelle malattie cardiovascolari e che
provocano il blocco dei canali del Ca++. Di
quì la possibilità di una ipertermia da farmaci cardio-vascolari. Si è dimostrato che i
recettori rianodinici sono legati ai processi
di rilasciamento del Ca++ dal SR.
Elementi agonistici della contrazione
elementi antagonistici della contrazione
1. Ca2+
2. ATP
3. Caffeina
1. Mg2+
2. Tetracaina
3. Ruthenio rosso
Può esservi una funzione difettosa della
proteina del recettore rianodina che lega il
Ca++ . Gli studi genetici hanno individuate il gene che codifica per la rianodina nel
cromosoma 19q12-13. Nello stesso locus
della Central Core, (che è quest’ultima
una miopatia congenita).
Circa altri difetti per spiegare l’insorgere della temibile S.I.M., potrebbe esservi
un difetto funzionale della proteina regolatrice del recettore rianodina, che provocherebbe uno stato di permanente apertura
del canale per il Ca++ed una sua immissione esagerata nel tessuto contrattile.
La eccessiva concentrazione di Ca++
nel tessuto contrattile innesca una catena
di eventi dismetabolici:
a) disaccoppiamento della funzione eccitazione-contrazione.
b) aumento del consumo di O2.
c) aumento della produzione di CO2.
d) aumento della formazione del lattato
che causa acidosi lattica.
e) aumento dell’idrolisi di ATP che causa
eccessiva produzione di calore (ricordo
che l’ATP è un composto ricco di energia e quindi l’eccesso di questa idrolisi
oltre alla contrattura muscolare genera
aumento di calore per i noti principi
della termo-dinamica.
f) attivazione quindi degli elementi contrattili.
g) rigidità muscolare spesso con esordio
di contrattura dei m. masseteri. Inoltre
ipossia, ipercarbia, acidosi lattica, idro-
91
M. Giacanelli: Sindrome ipermetabolica maligna
lisi dell’ATP come detto e quindi aumento della temperatura corporea con
rottura delle cellule e rilasciamento dei
contenuti intracellulari, che provocano:
h) ipercaliemia
i) mioglobinuria che può esitare in insufficienza renale acuta.
l) tachicardia ed ipertensione arteriosa.
m)disritmie cardiache.
Aspetti clinici: non vi è una esatta
definizione clinica della S.I.M. stante la
enorme variabilità del quadro sintomatologico; questo è espresso da:
1) Rigidità dei m. masseteri con perdita
del “guizzo” muscolare dopo una stimolazione neuromuscolare.
Un tipico episodio di S.I.M. può accadere 20-30 minuti dopo l’inizio della
anestesia. È opinabile se interrompere
l’anestesia e sostituirla con anestetici
non depolarizzanti.
2) L’incidenza della sindrome nei bambini è del 1% con induzione di alotano
e somministrazione di succinilcolina
per aiutare l’intubazione e del 2,8%
nei bambini operati di strabismo. Oggi
questi anestetici non si usano più, anche se talora vapori di alotano venivano
usati per bambini non collaboranti. In
quei piccoli pazienti vi era un aumento
di CK MM, mioglobinuria,tachicardia e
disritmia cardiaca, indipendentemente
dall’insorgere o meno della sindrome.
3) Un aumento della end- tidal CO2 di 5
mmHg/ora al di sopra di una stabilita linea di base, è il segnale clinico più sensibile ma non specifico di una imminente
crisi di S.I.M., ma quando si evidenzia
esso si correla alla gravità dell’attacco.
4) Diminuzione della saturazione dell’ossigeno arterioso e cianosi.
5) Tachicardia: una inspiegabile tachicardia è spesso il primo segno.
6) Disritmia.
Tabella 1
Halothane
Caffeine
Groups
Comment:
European group protocol
1, 2, 3% baths
0.5, 1, 2, 3, 4mM
MH Susceptible
MH Negative
MH Equivocal
False negatives in RSA
7) Rigidità a dispetto dell’uso di miorilassanti.
8) Tachipnea.
Esami di laboratorio:
• mioglobinuria
• acidosi metabolica
• produzione eccessiva di anidride carbonica
• ipercalemia
• iperfosfatemia
• aumento dell’isoenzima CK MM.
Diagnosi
Una biopsia muscolare è il solo test
possible per la diagnosi di S.I.M. Biopsia
eseguita usualmente sul m.vasto laterale:
il frammento muscolare bioptico è quindi
esposto ad alotano, caffeina, alotano e
caffeina e/o rianodina. La misura della
contrattura isometrica è paragonata con
predeterminati valori di cut-off.
Vengono mostrati alcuni protocolli diagnostici europei e nord-americani (Tab. 1).
Tutti i pazienti con anomala contrattura
muscolare in vitro, hanno una grande possibilità di sviluppare una S.I.M. fulminante.
Central core disease è la sola malattia
certamente correlata alla S.I.M. Si tratta
di una miopatia congenita prossimale.
Il locus genetico è il medesimo di quello
della S.I.M.
Le miopatie possono essere interessate
dalla S.I.M. ma non come la central core e
sono: la distrofia muscolare di Duchenne,
la sindrome di Denborough (statura bassa, anomalie muscolo scheletriche, ritardo
mentale), la distrofia muscolare di Becker,
la miotonia congenita, la distrofia muscolare di Fukuyama (simile alla m. di Duchenne, ma con netto deficit intellettivo) e la
deficienza della deaminase mioadenilato.
La sindrome neurolettica maligna può
essere confusa con la S.I.M. L’esordio avviene 24-72 ore dopo la somministrazione
di un farmaco psicotropo quale:
idolo,droperidolo,flufenazina,clo
zapina,perfenazina,tioridazina.
La patogenesi della sindrome
North American protocol
è dovuta al blocco dei recettori
3% bath
dopaminici dell’ipotalamo e dei
0.5, 1, 2, 4, 8, 32mM
gangli basali. La NMS è caratteGuideline selection criteria
Sensitivity 100%
rizzata da acinesia,rigidità muSpecificity 79%
scolare, ipertermia, tachicardia,
cianosi, disfunzioni autonomi-
92
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
che, alterazioni del sensorio, ipersudorazione e livelli elevati di creatin chinasi (isoenzima MM). Cioè il punto di attacco dei farmaci
descritti è l’ipotalamo e la via finale comune
è l’ipertermia da contrattura muscolare. La
NMS ha una mortalità del 10% e si cura
con dantrolene, bromocriptina o biperidina.
Evidentemente sono da considerare i centri
metabolici ipotalamici.
Considerazioni “pratiche”
Se i valori del CK si mantengono a livelli
patologici, malgrado tre valutazioni ematiche intervallate da una o più settimane,
si deve eseguire una accurata anamnesi
personale del paziente e familiare . In particolare se vi sono stati episodi inspiegabili d’ipertermia, se vi sono stati risvegli da
una anestesia difficoltosi e prolungati dopo
la cessazione anestesiologica. I valori del
CK compresi fra 300 e 6-700 U.I., possono
destare apprensioni più degli altri valori
patologici, in virtù di alcune casistiche
che ne rilevano una discreta concordanza
con gli episodi di S.I.M. Naturalmente il
timore per i pazienti affetti da malattie
muscolari degenerative va considerato e
per i soggetti affetti da “central core” vale
una particolare riflessione, come già detto,
circa il locus genetico. Occorre evitare una
indiscriminata richiesta di biopsia muscolare per i malati che hanno un CK patologico e null’altro. Si considerino purtroppo i
rilievi medico-legali che spesso si fondano
sul valore patologico del CK, senza entrare in quelle considerazioni già riferite.
Gli elementi cardinali a protezione del
paziente e del medico sono il bando degli
alogenati e della succinilcolina.
È vero che oggi non si usano più, ma gli
alogenati vengono talora usati per l’induzione di anestesia in piccoli pazienti non
collaboranti. È altrettanto importante che
tutte le camere operatorie abbiano dantrolene ed una conoscenza accurata degli stadi successivi d’intervento in caso di crisi di
S.I.M. Ricordare sempre una inspiegabile
tachicardia ed un trisma dei masseteri,
intraoperatori.
Qualora il medico abbia una fondata
convinzione di vulnerabilità alla S.I.M.
e non solo per i valori patologici del CK,
allora s’impone prima di ogni intervento
operatorio, una biopsia muscolare da sottoporre in vitro ai flussi di alotano e caffeina, per evidenziare la violenta contrazione
del frammento muscolare. Ricordo che tale evento in vitro è diagnostico al 99% per
sensibilità. Tuttavia in considerazione dei
casi di pronto intervento chirurgico, quando non v’è il tempo per eseguire gli esami
descritti, occorre rinunciare agli alogenati
ed alla succinilcolina, anche se i valori del
CK sono entro i valori normali. Altre considerazioni fisiopatologiche e molecolari
sugli anestetici: in Figg.1 e 2.
Fig. 1 - Cattura degli anestetici dalle membrane e
dalle tasche idrofobiche delle proteine. Alterazione dei percorsi di ossigeno nelle membrane e delle
proteine che utilizzano l’ossigeno,da parte degli
anestetici. Riduzione della disponibilità di ossigeno
nei siti di utilizzo delle proteine. Attivazione dei
meccanismi di sensibilizzazione all’ossigeno. Risposte cellulari a cascata generate dai meccanismi di
sensibilizzazione all’ossigeno.
Descrizione di un caso clinico:
una donna di 40 anni, schizofrenica,
in terapia con promazinici, sviluppò una
intensa ipertermia. Quest’ultimo sintomo
fu bloccato in rianimazione al S. Camillo
e la paziente riemerse con notevole stato confusionale, che si attenuò nei mesi
successivi, sino ad una discreta capacità
di riconoscere i congiunti e ad una sintonia ambientale di grado modesto. Presenti elementi di grave disartria, disfagia
(quest’ultimo poi risoltosi), riso spastico e
M. Giacanelli: Sindrome ipermetabolica maligna
“grimaces”. Spasticità agli arti inferiori ed
in minor misura ai superiori. La stazione
possibile era quella seduta. Dopo tre anni
la pz. si trova ancora nello stato descritto.
Fig. 2a - Transito dell’O2 attraverso le membrane
cellulari quindi attraversamento delle membrane
mitocondriali (organelli intracellulari) ed utilizzo
dell’O2 nella matrice mitocondriale da parte delle
creste, che sviluppano una enorme estensione di
superficie utile agli scambi metabolici e tale enorme
estensione di superficie è evidenziata dal ripiegamento delle creste medesime su se stesse.
2b - Diagramma dell’energia sviluppata (bistrato)
dai poli rivolti all’esterno ed all’interno della cellula, costituente la struttura molecolare della membrana cellulare.
2c - Schema della membrana cellulare (secondo la
teoria lamellare): le sfere rappresentano le teste
idrofile delle catene lipidiche. Le catene molecolari
fosfolipidiche costituiscono nell’insieme la membrana
cellulare. Le molecole del farmaco anestetico penetrano nel bilayer ed entrano in competizione con le molecole dell’ossigeno. Le proteine rivestono a loro volta
lo strato fosfolipidico disponendosi parallelamente a
questo in ambedue i piani del bilayer ed anzi si associano alle teste idrofile. L’anestetico penetra anche
nelle “tasche” idrofobiche delle proteine appartenenti
alla struttura di membrana
93
Trattamento di una fase acuta di una
crisi di S.I.M.
– Soccorso immediato:
– Stop immediato degli agenti scatenanti. Stop immediato dell’intervento chirurgico.
– Sedare il paziente, con infusione di midazolam o propofol.
– Iperventilare con 100% di ossigeno (> di
12 litri/min.). Somministrare dantrolene 2,5 mg/kg intravenoso in boli ripetuti sino a quando la p. CO2, la frequenza
cardiaca e la temperatura corporea si
siano normalizzate. Se 20 mg./kg non
hanno dato esito positivo, non si tratta
di una crisi di S.I.M.
– Correggere l’acidosi metabolica con
NaHCO3 1 mmol/kg.
– Correggere la ipercalemia con la ipe
rventilazione,completare con glucosio
(0,5g/Kg) ed insulina rapida (0,15 unità/
kg=0,3 unità/g glucosio) per infusione il
trattamento dell’acidosi metabolica.Aggiungere CaCl2 2-5mg/kg per stabilizzare il miocardio se il K+ >7.0 mmol/L.
– Monitorizzare end- tidal CO2, la saturazione del pulse ossimetro e la T° continuamente.
– Mantenere il flusso urinario >2ml/kg/
ora. Iniettare liquidi intravenosi e somministrare mannitolo (0,25mg/kg/NB
mannitolo 3 g per vial di dantrolene) e
lasix 1 mg/kg quando un adeguato CVP
non è sufficiente a mantenere la produzione di urine.
– Raffreddare il paziente con soluzioni
saline ghiacciate a 15 mg/kg ogni 15
minuti attraverso tre larghe cannule
endovenose a dimora, lavaggio delle
cavità corporee con soluzioni saline
ghiacciate (PNGT ed irrigazioni rettali
con catetere) e porre ghiaccio sulla nuca, nelle ascelle e negli inguini.
– Se le aritmie non rispondono al trattamento dell’acidosi, della ipossia, ipercarbia e ipercalemia, occorre adoperare gli agenti standard antiaritmici.
Procainamide è il farmaco di scelta
poiché inibisce le disritmie multiple.
Il cloruro di calcio 2-5 mg/kg deve
essere usato per stabilizzare il miocardio durante la ipercaliemia.Evitare
i bloccatori dei canali del calcio, che
possono determinare un collasso acuto
94
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
cardiovascolare se usati insieme con
dantrolene.
Dantrolene, farmaco “salvataggio”
della M.H. e della N.M.S.
Rilassante dei muscoli scheletrici per
dissociazione dell’accoppiamento eccitazione-contrazione, probabilmente interferendo con il rilascio del Ca++ dal reticolo
sarcoplasmico.
Assorbimento: per via venosa con la
formulazione liofilizzata mista con
mannitolo per migliorarne la solubilità acquosa. I
livelli plasmatici
terapeutici si raggiungono in 5 minuti.
Nella crisi di S.I.M. acuta s’interviene
con:
– dantrolene 2-3 mg/kg somministrati in
bolo rapido endovenoso, ripetuto ogni 5
minuti sino al blocco della crisi.
Per quanto concerne i segni centrali
di sonnolenza, vertigine e letargia, il farmaco agisce sui recettori GABA centrali e
periferici.
Per quanto concerne l’azione sui muscoli, la somministrazione di dantrolene
ristabilisce un livello normale di calcio ionizzato nel sarcoplasma. Inoltre inibizione
del rilascio del Ca++ dal reticolo sarcoplasmico e detto farmaco ristabilisce l’equilibrio del Ca++ sarcoplasmico aumentando
la percentuale di Ca++ legato.
Secondo alcuni autori, il dantrolene ha
benefici effetti profilattici nel prevenire o
attenuare gli sviluppi clinici della S.I.M.
in individui giudicati vulnerabili alla ipertermia maligna e portatori di condizioni spastiche croniche,paralisi cerebrali,
accidenti cerebro-vascolari e traumi del
midollo spinale.
I bloccatori dei canali del Ca++ (ad es.
verapamil) e il dantrolene somministrati
insieme durante una crisi di S.I.M., hanno
causato fibrillazione ventricolare, marcata
ipercalemia e collasso cardiovascolare. Un
nuovo analogo del dantrolene solubile in
acqua, l’Azumolene, è meno irritante del
primo ma ha una emivita di sei mesi paragonata ai quattro anni del dantrolene.
Nella fig. 3 (osservazione al microscopio elettronico, parzialmente mod. da Cell
Structure di Peter G.Toner and Catharine
E. Carr, Churchill Livingstone second ed.
1971) si vedono quattro miofibrille con i
segmenti “chiari” I costituiti da miofilamenti di actina (filamenti sottili) e con i
segmenti “scuri” A costituiti da filamenti
di miosina ( filamenti spessi). I sarcomeri
(o unità contrattili)
sono delimitati dalle spesse linee Z ,
ai lati delle quali si
vedono i mitocondri
riconoscibili dalla
particolare architettura interna delle creste. Quindi
l’unità sarcomerica
è compresa fra due
linee Z e contiene
due mezzi segmenti “chiari” e un segFig. 3 - Osservazione
mento” scuro”. Nel
al microscopio elettro- mezzo del segmento
nico
“scuro”si vede una
zona “chiara” costituita da soli filamenti spessi di miosina,
la zona H e al centro della H la linea M
particolarmente più scura.
Al limite fra i segmenti chiari e quelli
scuri si notano le cosiddette triadi costituite dalle due cisterne (S.R. sistema reticolo-sarcoplasmico) e dal tubulo trasverso
T. Il significato e l’importanza di questi
organelli sono già stati descritti.
Bibliografia essenziale
Bloch LH. Biopharmaceutics-Fall, PHCEU 2002;
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Dubowitz V. Muscle Biopsy, a modern approachRJM Lane 2007
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
FLUIDOTERAPIA: OBIETTIVI, STRUMENTI E MONITORAGGIO
(PARTE I)
THE MANAGEMENT OF FLUID THERAPY
(I SECTION)
CLAUDIO TUBILI1, MARIA PIA BERALDI1, SALVATORE DI GIULIO2
1
UOS di Diabetologia; 2UOC di Nefrologia e Dialisi e Trapianto
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Nutrizione parentale. Fluidoterapia
Key words: Parenteral nutrition. Fluids for intravenous administration
Riassunto – Nei pazienti che non possono, non devono o non vogliono assumere liquidi per os, l’idratazione
rappresenta il primo intervento di nutrizione artificiale. Le diverse situazioni cliniche richiedono un approccio
specifico per la somministrazione dei fluidi, al fine di ridurre il rischio sia di ipoperfusione tessutale che di
edema. Le variazioni del Volume Plasmatico dipendono non soltanto dalla quantità dei fluidi somministrati,
ma anche dalla loro distribuzione, che è determinata dalle proprietà delle membrane cellulari. I fluidi per la
terapia endovenosa non sono un semplice veicolo ma veri e propri agenti terapeutici, e la conoscenza delle loro proprietà dovrebbe indirizzarne la somministrazione; i dati attualmente disponibili su mortalità ed effetti
collaterali maggiori non dimostrano una chiara superiorità fra cristalloidi e colloidi o fra diversi tipi di colloidi:
la soluzione salina allo 0,9% è comunemente definita “fisiologica”, ma presenta significative differenze con il
plasma; le soluzioni elettrolitiche bilanciate sembrano avere una migliore efficacia clinica rispetto alla fisiologica, che è in definitiva sovraprescritta. La soluzione glucosata al 5% equivale all’acqua libera perché il glucosio
è rapidamente metabolizzato, rilasciandola. È necessario, in conclusione, rinforzare gli interventi educazionali
per migliorare fra i medici il management della fluidoterapia.
Abstract – In patients who can not, must not or do not want to drink, hydration is a real artificial nutrition
intervention. Different clinical situations require a specific approach for fluids administration to reduce the
risk of tissue hypoperfusion or oedema. The variations of Plasma Volume depend not only on the amount
of the fluid infused, but also on its distribution, that is determined by the membranes properties. Fluids
for intravenous therapy are not vehicles but real drugs and the knowledge of their properties should guide
the choice: the available data on mortality and major complications do not demonstrate the best efficacy
between crystalloids or colloids and between the different types of colloids: saline solution at 0.9% is commonly defined as “physiological”, but has significant differences with plasma; balanced electrolytic solutions
seem to give better clinical outcomes compared to saline, which is ultimately overprescribed. 5% glucose
solution is equivalent to water because glucose is rapidly metabolised, releasing pure water. It is necessary
to strengthen educational interventions to improve the management of fluid therapy.
Premessa
Se la nutrizione ha fra i suoi obiettivi
il mantenimento delle strutture corporee,
l’idratazione di un paziente non in grado
di assumere liquidi per via naturale o
con particolari esigenze dovute a varie
condizioni patologiche rappresenta un intervento di fondamentale importanza. Nel
paziente critico, ma più in generale in
96
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
tutte quelle condizioni in cui il paziente
non può, non deve o non vuole assumere
liquidi, l’idratazione costituisce il primo
intervento di Nutrizione Artificiale: questo si articola in vari “momenti terapeutici” che vanno dal “reintegro” di eventuali
perdite nei vari compartimenti corporei al
“mantenimento” dell’equilibrio dei compartimenti stessi, (soddisfacendo i fisiologici fabbisogni di acqua e di elettroliti) e
in ultimo alla “rianimazione”, che ha come
obiettivo primario il mantenimento della
volemia e del circolo.
La fluidoterapia possiede quindi numerose indicazioni, quelle più comuni sono la
reintegrazione delle perdite di liquidi ed il
ripristino di un circolo efficace, ma anche
la correzione dei disturbi elettrolitici ed
acido-base.
Si può realizzare con due categorie di
fluidi (cristalloidi e colloidi) che si differenziano per le loro proprietà biologiche
e fisico chimiche che ne indirizzano la
scelta nella pratica clinica: infatti le varie
soluzioni influenzano le proprietà emoreologiche del sangue, l’emostasi, l’integrità
vasale, l’infiammazione, l’entità e la durata dell’espansione della volemia.
Esistono pochi studi su larga scala
rivolti a stabilire i differenti effetti delle
varie soluzioni sulla prognosi dei pazienti
critici ed i dati attualmente disponibili
non sono definitivi.
Fisiopatologia dei fluidi corporei
In condizioni normali l’omeostasi dei
compartimenti idrici è mantenuta dall’apporto orale di acqua attraverso le bevande
e gli alimenti e dalla sua eliminazione
attraverso la produzione di urine da parte
dei reni, dalla perspiratio insensibilis muco-cutanea, dalla sudorazione e dall’eliminazione di acqua attraverso l’apparato
digerente (feci).
Compartimentazione dell’acqua corporea
Stabilire lo stato d’idratazione di un
soggetto significa conoscere non solo quanta acqua è presente nel suo organismo, ma
anche quanta parte di essa è disponibile.
Secondo il modello del corpo umano
a quattro compartimenti, le componenti
anidre (proteine, grasso, minerali, glicogeno) costituiscono il 40% circa della massa
corporea di un individuo adulto; l’acqua
corporea totale (total body water TBW) ne
costituisce circa il 60%: l’acqua intracellulare (intra cellular water ICW) rappresenta il 40% del peso corporeo ed è ricca
in potassio (il 98% del totale) e povera in
sodio, quella extracellulare (extra cellular
water ECW) il 20% suddivisa tra plasma
(3%) ed acqua interstiziale: il primo è una
soluzione acquosa di ioni inorganici ricca
in sodio e contenente molecole organiche,
sia piccole quali l’urea, sia di grandi dimensioni quali l’albumina e le globuline;
il sangue circolando all’interno dei vasi
provvede alla perfusione dei tessuti.
Una sua riduzione è responsabile di una
diminuzione di ossigeno disponibile (PO2)
all’interno dei tessuti, di un ridotto apporto di nutrienti e di una ridotta rimozione
di sostanze. Il risultato è una diminuita od
assente produzione di ATP in condizioni di
ipossia. La sofferenza tissutale prodotta
da un’insufficiente perfusione può condurre a shock.
L’acqua interstiziale (17%) ha la stessa
concentrazione dei liquidi intravascolari,
ma contiene proteine in concentrazioni
inferiori. Questa quota di acqua ed elettroliti è disponibile ad essere richiamata
nei vasi come meccanismo di compenso in
caso di necessità.
Le membrane cellulari separano il compartimento intracellulare da quello extracellulare; la concentrazione degli ioni sui
due versanti è regolata dall’ATPasi Na+K+
dipendente: il Sodio è mantenuto a livelli
di circa 140 mmol/l all’esterno delle cellule
e di 8 mmol/l al loro interno; un gradiente
analogo è presente anche per il Cloro. L’acqua può muoversi liberamente attraverso
le membrane. L’insulina svolge un ruolo
facilitatore sull’attività’dell’ATP-asi, favorendo il passaggio intracellulare di potassio necessario per l’uptake del glucosio.
Il passaggio dell’acqua attraverso la
maggior parte delle membrane cellulari
e quindi da e verso la cellula è regolato
prevalentemente dall’osmolarità dei tre
spazi.
C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio
L’osmolarità (280 mOsm/l) tra liquido
intra ed extracellulare tende all’equilibrio
nonostante la diversa composizione dei
due compartimenti.
Essa può essere calcolata come segue:
Posm =(Na+ x 2 )+glicemia +urea = 280-295 mOsm/l-1
(*Na+ glicemia urea espressi in mmol)
Posm = 2 * [Na+] + glucosio (mg/dl)/18 + BUN
(mg/dl)/2.8
L’urea contribuisce poco all’osmolarità
perché passa liberamente, cosicché in condizioni di normoglicemia si assume che:
Posm effettiva = Na+ *2
In condizioni normali la componente
determinante l’aumento dell’osmolarità è
il sodio (140–160 mmol/L) moltiplicato per
due, essendo l’elettrolita contenuto in maggior quantità nello spazio extracellulare.
A livello più generale il mantenimento del
bilancio idrico è garantito dalla estrema
stabilità della Posm plasmatica. Questo è
riconducibile a due meccanismi generali:
la sete e la secrezione di ADH(ormone antidiuretico) regolati da osmo e barocettori
situati a vari livelli nel Sistema Nervoso
Centrale e Cardiovascolare. L’ADH regola
a livello renale il riassorbimento dell’acqua e quindi la capacità di concentrare le
urine. Quando è presente ipoosmolarità
plasmatica la secrezione di ADH è inibita
e le urine sono ipotoniche, al contrario
se la Posm aumenta (disidratazione cellulare) la liberazione di ADH determina
l’emissione di urine ipertoniche con ritenzione di acqua libera. Se nonostante questo la Posm rimane alta (>290 mOsm/Kg)
compare la sensazione di sete.
Il sodio totale dell’organismo in un
adulto normale è di 60 mEq/kg di peso
corporeo. Il 30% non scambiabile è fissato
alle ossa, il 70% che è quello che possiede
proprietà osmotiche è per l’85% extracellulare dove si mantiene ad una concentrazione di 140 ± 5 mEq /l. Il volume del
settore extracellulare è mantenuto dal
sodio totale.
La regolazione del bilancio sodico è
legato al mantenimento di una volemia
efficace. I meccanismi che entrano in gioco
97
sono le perturbazioni emodinamiche e volemiche segnalate da baro e volumocettori
intratoracici, arteriosi ed intrarenali, che
mettono in atto meccanismi efferenti di
cui il più importante è il sistema reninaangiotensina-aldosterone (SRAA). Se la
volemia efficace si riduce a causa di un
bilancio sodico negativo la attivazione di
SRAA provoca ritenzione di Na+ attraverso una ridistribuzione del flusso capillare
che provoca aumentato riassorbimento di
sodio a livello del tubulo prossimale e la
liberazione di aldosterone che aumenta il
riassorbimento di sodio e cloro a livello del
tubulo collettore.
Il sodio è stato sfruttato per classificare
il tipo di disidratazione.
Generalmente al termine disidratazione si associa un aggettivo che la specifica:
ipotonica, isotonica, ipertonica.
Numerosi meccanismi patogenetici quali un ridotto apporto di liquidi (es: disfagia,
demenza, letargia, etc.) un aumento delle
perdite (es: diarrea, febbre, eccesso di diuretici) o alterazione dei meccanismi omeostatici (es. insufficienza renale, scompenso
cardiaco, SIADH, etc.) possono portare a
disidratazione con indice di severità che
va da lieve (solo alterazioni bioumorali) a
severa con pericolo di vita.
La disidratazione isotonica, che è la più
comune, la si identifica quando si verifica
perdita bilanciata di liquidi ed elettroliti
(es: vomito e diarrea).
Nella ipertonica, che è la seconda per
frequenza, abbiamo valori di sodio ematico più elevati (>140 meEq/L osmolarità
plasmatica > 300 mOsm/kg di acqua (infezioni, febbre, diabete insipido).
La disidratazione ipotonica si identifica
con basso sodio e bassa osmolarità (Na+
serico <135 mEq/L, osm plas < 280 mOsm
/Kg acqua (es: malattie renali).
Il tipo di disidratazione è determinato
dalla concentrazione del liquido che rimane nell’organismo, non da quello perso.
Nel paziente chirurgico possono persistere elevati livelli di ADH per diversi
giorni dopo l’intervento in risposta allo
stress legato al dolore. Se viene infusa una
grande quantità di acqua si può verificare
iponatriemia perché l’ADH impedisce la
fuga di acqua in eccesso.
98
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
Una corretta fluidoterapia deve tener
conto sia della quantità dei liquidi da infondere che della loro tipologia.
Dinamica dei compartimenti dei fluidi
Nel compartimento intravascolare sono
disciolte molecole che non possono attraversare facilmente la membrana capillare
per via delle piccole dimensioni dei pori.
L’endotelio capillare che separa l’interstizio e il compartimento intravasale, nei
quali si distribuisce l’ECW; presenta dei
pori il cui diametro consente il passaggio
di ioni inorganici e di molecole di basso
peso molecolare, mentre non permette, in
condizioni fisiologiche, il passaggio delle
macromolecole proteiche circolanti (globuline fibrinogeno albumina); queste sono il
principale fattore determinante la pressione oncotica intravasale (COP). L’albumina
è la più piccola (69.000 dalton) ma è quella
contenuta in maggior quantità.
L’equazione di Starling mette in relazione le grandezze fisiche che regolano il
flusso transcapillare:
Φv ∞ [(Pc-Pi) – σ (πc – πi)]
dove Φv è il flusso transcapillare dei
fluidi, Pc la pressione idrostatica capillare, Pi la pressione idrostatica interstiziale,
πc la pressione oncotica intravasale, πi la
pressione oncotica interstiziale e σ il coefficiente di riflessione, una caratteristica
propria dei distretti capillari che diminuisce in condizioni patologiche.
In condizioni normali Pc è maggiore di
Pi, questo gradiente pressorio provoca un
flusso lento e continuo dal lume capillare
all’interstizio: il fluido interstiziale è quindi drenato attraverso il sistema linfatico
verso la circolazione sistemica. In condizioni patologiche questo meccanismo può
essere alterato, con aumento della perdita
netta di liquidi dal comparto intravasale.
La compartimentazione fisiologica dei
fluidi si altera in numerose condizioni che
si osservano nel paziente ospedalizzato con
vari livelli di criticità: in chirurgia, ad
esempio una ridotta introduzione di liquidi
(digiuno preoperatorio, anoressia, alterazione dello stato di coscienza) e un aumento delle perdite (diarrea, vomito, febbre)
comportano una ridistribuzione dei fluidi
(aumento della πc) con richiamo di acqua
dall’interstizio per mantenere la volemia).
Molti anestetici causano vasodilatazione,
portando così alla riduzione del rapporto fra
volume dei liquidi circolanti e capacità del
comparto vasale, o riduzione della capacità
contrattile del miocardio con riduzione della
portata. Il passaggio di fluidi fra i compartimenti può inoltre ridurre la volemia.
Infiammazione, traumi, l’inadeguata
terapia perfusionale, la sequenza ischemia/riperfusione, la sepsi, la circolazione extracorporea possono compromettere l’integrità vasale aumentando così la
permeabilità capillare. Le macromolecole
diffondono nello spazio interstiziale con riduzione del volume plasmatico e formazione di edema per aumento della pressione
oncotica interstiziale .
In presenza di infiammazione aumenta
significativamente la quantità di liquido
in quei compartimenti (cavità pleurica e
peritoneale, ad esempio) che in condizioni
normali ne contengono minime quantità,
escludendolo funzionalmente dallo spazio
interstiziale e da quello intravasale.
Questo liquido può essere recuperato
nel giro di alcuni giorni con opportune
terapie, ma in acuto la perdita netta
equivale funzionalmente ad un’emorragia.
Questi “furti” sono frequenti in corso di
ustioni, traumi estesi e chirurgia maggiore e possono superare i 10mL/kg/h: sono
documentabili con l’impedenzometria segmentaria1 e possono essere aggravati da
una terapia endovenosa incongrua2.
Una corretta fluidoterapia deve tener
conto sia della quantità dei liquidi da infondere che della loro tipologia.
Nel paziente ospedalizzato, così come
nel soggetto normale, il bilancio idrico (In
& Out), è necessario per stabilire il corretto quantitativo di liquidi da introdurre.
La valutazione della diuresi è semplice e fa parte della routine clinica (vn
1000-1500 ml/die), a ciò vanno aggiunte le
Perdite Insensibili (1000 ml 300 ml cute
-700 ml a traverso le vie aeree) e le Perdite Correnti (500 ml per ogni aumento
di 1°C di temperatura corporea, 500-1500
per perdite extra da sudorazione; 1 ml per
ogni ml di perdita gastrointestinale).
99
C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio
Agli apporti idrici esogeni vanno aggiunte le secrezioni salivari (in media 1,5
l/24 h), gastriche (1,5 l/24 h), biliari(1.0
l/24 h), e pancreatiche (2,0 l/24 h). Nel
duodeno pervengono in condizioni normali
circa 8 l di liquidi al giorno, che vengono in
gran parte riassorbiti nei tratti a valle: nel
digiuno il flusso è ridotto a 3 l, e l’effluente
ileocecale è di circa 1,5 l; nel colon si realizza un ulteriore massiccio riassorbimento di acqua tanto che nelle feci si ritrovano
150 – 200 cc di acqua.
In condizioni patologiche sono possibili alterazioni a tutti i livelli sopra
descritti(vomito, diarrea), che si traducono in una perdita netta di acqua3.
Analoghe considerazioni si possono fare
per i principali elettroliti: alterazioni del
transito o delle secrezioni inducono una
perdita prevalente di quegli elettroliti presenti nei singoli tratti del tubo digerente.
Fluidoterapia
Un soluto genera una pressione osmotica proporzionale al numero delle molecole
e degli ioni indipendentemente dalle loro
dimensioni. L’acqua è spinta attraverso le
membrane cellulari secondo il gradiente
osmotico verso lo spazio a maggiore concentrazione di soluti.
Il volume di distribuzione dei fluidi
infusi è pertanto condizionato dalla quantità di soluti.
L’espansione del volume plasmatico
(PV) dipende non solo dalla quantità del
fluido infusa (VI) ma anche dalla sua distribuzione (PVE = VI/VD).
Se consideriamo un modello chiuso, l’infusione di acqua determina l’espansione di
tutti i compartimenti corporei e solo il 7%
del volume infuso rimane nello spazio intravasale (fluidi intravasali /TBW=3/45 l);
l’infusione di acqua pura è irritante per le
vene a causa della sua ipotonicità, ma l’infusione di una soluzione glucosata al 5% è
equivalente a quella dell’acqua perchè il
glucosio è velocemente metabolizzato liberando acqua libera (come viene definita)
che si distribuisce nei tre comparti in maniera proporzionale alle loro “dimensioni
“pertanto maggiormente nelle cellule, la
quantità che resta nei vasi è trascurabile,
é inefficace emodinamicamente e può causare edema interstiziale e intracellulare.
L’infusione di soluzioni saline isotoniche (quali la soluzione fisiologica di NaCl
0.9% o il Ringer lattato) a causa dei meccanismi di pompa di membrana che regolano
la distribuzione delle varie specie ioniche
espande solo i compatimenti extracellulari
ed il 25% (fluidi intravasali /ECW=2/12 l)
resta nello spazio intravasale ( per ogni
litro infuso solo 300-350 ml rimangono in
circolo).
L’infusione di macromolecole (colloidi)
che si distribuiscono solo nello spazio intravascolare e non si allontanano dal circolo comporta almeno in teoria un’espansione del PV del 100% del volume infuso4.
Per prescrivere razionalmente una terapia di reintegro dei fluidi è pertanto
importante identificare quale comparto
è depleto, in condizioni di emergenza la
priorità è la ricostruzione di un adeguato
PV ed in questo contesto sono indicati
adeguati volumi di colloidi o cristalloidi5.
Situazioni particolari di disidratazione
semplice, come la chirurgia maggiore associata a significative perdite di liquidi
anche per l’evaporazione, potranno richiedere l’aggiunta di acqua sotto forma di
soluzione glucosata al 5%5, 6.
Tipologia dei fluidi
Le soluzioni per terapia endovenosa
possono essere classificate in cristalloidi
e colloidi, con differenti proprietà fisicochimiche.
Cristalloidi. Sono soluzioni acquose
di ioni inorganici e piccole molecole organiche: il soluto principale può essere
il glucosio o il cloruro di sodio, e possono
essere isotoniche, ipotoniche o ipertoniche
rispetto al plasma. La soluzione salina isotonica (fisiologica) ha una concentrazione
dello 0,9% (0,9 g/l). La soluzione fisiologica
a bassa concentrazione (5%) presenta un
pH di 4,0% inferiore a quello plasmatico
(7,35-7,45) e un’osmolarità di 280 mOsm/
l, situata nel range fisiologico (275-295).
La soluzione salina allo 0,9%, introdotta
100
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
nella pratica clinica nella seconda metà
dell’Ottocento, viene comunemente definite “fisiologica”, ma presenta significative
differenze con il plasma: la concentrazione
di Na+ è di 154 mmol/l, superiore a quella
plasmatica (135 – 145 mmol/l); quella di
Cl- è pure di 154 mmo/l (range normale 95105 mmol/l). Si viene così a realizzare un
rapporto equimolare con eccesso di Cl-, laddove il rapporto fisiologico è 1,28/1-1,45/1,
sono assenti il glucosio e gli altri elettroliti
presenti nel plasma(K+, Ca2+, HCO3-), ed il
pH risulta basso (5,0-5,5). L’osmolarità è
nettamente maggiore di quella plasmatica(308 mOsm/l vs. 275-295). Lo spazio di
distribuzione della soluzione fisiologica è
quello dell’ECW; in soggetti sani la somministrazione in bolo di soluzione glucosata al 5%, priva di Na+, è più efficiente
nel promuovere una rapida diuresi ad un
volume pari di soluzione salina allo 0,9%:
con quest’ultima il volume di urine è circa
il 50% di quello dopo soluzione glucosata:
una soluzione con caratteristiche intermedie (NaCl 0,9% con glucosio 5%) induce
una diuresi di entità intermedia7.
In uno studio randomizzato condotto
in cross-over su soggetti sani la somministrazione di 2 l di soluzione glucosata al
5% è stata eliminata totalmente entro 6
ore, mentre un pari volume di soluzione
fisiologica è presente ancora per il 60%
nello stesso periodo di tempo8.
Queste osservazioni, condotte in condizioni normali, possono essere interpretate in chiave evoluzionistica: l’uomo si è
trovato per millenni a fronteggiare condizioni di carenza relativa di sodio con
la dieta, per cui ha sviluppato efficienti
meccanismi di risparmio del sodio; al contrario non possiede sistemi di controllo
altrettanto efficienti dell’eliminazione dell’eccesso: questa condizione è tipica degli
attuali modelli alimentari occidentali, ed
è uno dei principali fattori causali dell’alta
prevalenza, in questi paesi, dell’ipertensione arteriosa9. Si può anche realizzare
in caso di somministrazione eccessiva di
NaCl per via venosa.
Esistono soluzioni addizionate con potassio, calcio, lattato che riproducono più
fedelmente la composizione ionica del plasma. I cristalloidi con composizione ionica
simile a quella del plasma sono definiti
anche “bilanciati”.
Le soluzioni bilanciate sono più simili
della soluzione fisiologica alla composizione ionica del plasma; le più diffuse sono
la soluzione di Ringer e quella di Hartmann (Ringer lattato): contengono meno
Na+ (147 mmol/l nella Ringer, 131 mmol/l
nella Hartmann, versus 154 mmol/l della
soluzione fisiologica). Nella Hartmann anche il Cl- è meno concentrato (111 mmol/l
vs 154 mmol/l). Il pH (6,0 e 6,5 rispettivamente nella Ringer e nella Hartmann,
contenente lattato in funzione tampone)
è più vicino a quello plasmatico. L’osmolarità del Ringer è alta, come quella della
soluzione fisiologica (309 vs 308 mOsm/l);
la Hartmann è isotonica nei confronti del
plasma (274 mOsm/l).
La minore osmolarità e concentrazione
di Na+ della Hartmann ne giustificano la
più rapida eliminazione urinaria. In uno
studio randomizzato in doppio cieco e cross
over in soggetti sani il 56% di un carico di
2 l di soluzione fisiologica non era stato
ancora eliminato dopo 6 ore a fronte del
30% di un uguale carico di Hartmann, a
conferma dello scarso adattamento all’eccesso di sodio. La minore concentrazione
di sodio comporta una ridotta secrezione
di ADH10.
Le soluzioni di glucosio possono essere
isotoniche (5% -50 g/l) o ipertoniche (1020-33- 50%). La piccola quantità di glucosio presente in quella al 5% è rapidamente
metabolizzata, rendendo disponibile acqua
libera, che penetra rapidamente nello spazio intracellulare: queste soluzioni sono
indicate nella disidratazione semplice. Le
soluzioni ipertoniche forniscono glucosio
come substrato metabolico; da sole nell’ipoglicemia o in combinazione all’insulina in caso di mantenimento dell’equilibrio
metabolico- nutrizionale.
Esse non esercitano pressione oncotica.
Il loro volume di distribuzione è l’ECW,
hanno limitata capacità di espansione
volemica, vanno somministrate a volume
elevato, non presentano nessun rischio
allergico, sono a basso costo.
Colloidi. I colloidi sono sostanze omogenee non cristallizzanti costituite da macromolecole o particelle submicroscopiche
C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio
di sostanze dispersa in un solvente. Le
particelle non possono essere separate da
filtri o centrifugate come il sangue. I colloidi usati nella pratica clinica sono semisintetici (gelatine, destrani, amidi idrossietilati HES) o naturali (emoderivati: albumina umana, frazioni plasmaproteiche,
plasma fresco o congelato, immunoglobuline). La maggior parte delle formulazioni sono veicolate in soluzioni isotoniche,
saline o glucosate. Quindi sono isotoniche
isosmotiche con il plasma, diffondono debolmente nell’interstizio. Le dimensioni
delle molecole sono altamente variabili e
sono descritte come polidisperse: le formulazioni di albumina umana sono titolate
al 95% e sono omogenee come dimensioni
molecolari (monodisperse). Il peso molecolare di un colloide è riferito alla media: il
pattern di distribuzione del peso può essere anche descritto dal rapporto dell’attività osmotica di una soluzione colloidale fra
membrane con differenti dimensioni dei
pori. Quando somministrate all’interno
del torrente circolatorio le loro dimensioni le costringono a rimanere nello spazio
intravascolare (non attraversano la membrana capillare) procurando un aumento
della pressione oncotica che determina
un riassorbimento dell’acqua dallo spazio
interstiziale e quando non sufficiente da
quello intracellulare. Queste soluzioni sono chiamate “plasmaespanders”.
a) Gelatine: sono derivate dall’idrolisi
del collageno bovino e sono stati i primi colloidi artificiali ad essere impiegati
clinicamente per il reintegro volemico.
Hanno un peso molecolare di 35000 dalton, sono attualmente disponibili in varie
preparazioni commerciali (Poligelina 3,5%
- EMAGEL Gelatina succinato 4% GELFUSIN). Passano agevolmente attraverso
la membrana glomerulare. Il 20-30% passa nello spazio interstiziale da cui può poi
rientrare nel compartimento intravasale.
La capacità di spandere il volume plasmatici è transitoria e dopo 4 ore l’espansione di volume è la metà di quanto infuso.
La presenza di calcio, al loro interno,
potrebbe indurre l’attivazione della cascata coagulatoria in presenza di sangue negli stessi devices di infusione. Negli ultimi
anni alcune preoccupazioni sono sorte in
101
seguito ai casi di base, ma nessuno dei
casi descritti è stato correlato all’uso di
derivati del collagene bovino11.
b) Destrani: Sono polimeri di derivazione biosintetica e sono disponibili in commercio in varie forme.
Le più comunemente usate sono il destrano 40 al 10% (PM 40.000 dalton) e
destrano 70 al 6% (PM 70.000 dalton). Le
molecole con PM < di 50.000 passano attraverso il filtro renale, quelle più grandi
vengono eliminate attraverso l’intestino o
metabolizzate dalle destranasi del sistema
reticolo endoteliale. Come tutti i colloidi si
distribuiscono nello spazio intravasale dove permangono per un tempo più o meno
lungo in relazione alle dimensioni delle
particelle. Il destano 40 produce maggiore
espansione volumetrica rispetto al 70 (per
1 litro 1-1,5 vs 0,8). Il 50% del destano 40
è eliminato in due ore e l’80% in 6 ore.
c) HES: gli acidi idrossietilati(HES) sono
colloidi sintetici prodotti a partire dall’amilopectina di mais o sorgo con successiva sostituzione idrossietilica a partire dall’idrossietilene, sul C2 o meno frequentemente su
C3 o C6 in presenza di catalizzatore alcalino. Questo trattamento li rende resistenti
all’attacco delle alfa amilasi aspecifiche
del sangue che li metabolizzerebbero rapidamente. Gli HES sono suddivisi in basso
(70-130kDA) medio (200kDA) ed alto peso
molecolare (450-480kDA). Esistono varie
preparazioni commerciali fra le più diffuse
Haes –Steril 6% e 10%. Recentemente in
Italia è stato messo in commercio il Voluven 6% PM 130 Dalton.
Proprieta dei colloidi. I colloidi semisintetici differiscono fra loro per durata
di azione, effetti emoreologici, eventuali
interferenze sull’emostasi, interazioni con
le cellule endoteliali e infiammatorie, reazioni avverse e costi.
La durata dell’effetto sull’espansione
del PV è condizionata dalla velocità di
eliminazione dal circolo e dal catabolismo
delle macromolecole. Il tasso di perdita
attraverso la barriera endoteliale e il
glomerulo renale è determinato dalle dimensioni delle molecole e dalle cariche di
superficie; la velocità di metabolizzazione
è dettata dalle caratteristiche chimiche
delle molecole.
102
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
HAES-STERIL 6% -
10%
Poli (O-2 idrossietil)
amido grado di sostituzione 0,5 (0,40-0,55)
(peso molecolare medio: 200.000)
g 60
g 100
Sodio cloruro
g 9,0
g 9,0
Na = 154 mmol/l
154 mmol/l
154 mmol/l
Cl = 154 mmol/l
154 mmol/l
154 mmol/l
308
308
< 1,0 mmol NaOH/l
< 1,0 mmol NaOH/l
3,5 - 6,0
3,5 - 6,0
+
-
Osmolarità teorica (mOsm/l)
Acidità
pH
Il tasso di perdita attraverso la barriera endoteliale ed il glomerulo renale è determinato dalle dimensioni delle molecole
e dalle cariche di superficie, teoricamente
il miglio HES dovrebbe essere quello con
il più basso peso molecolare in vivo al di
sopra dell’eliminazione renale che è di circa 70-80 dalton, il voluven è 70-80, l’ Haes
Steril 110-120 dalton.
La velocità di metabolizzazione è dettata dalle caratteristiche chimiche delle
molecole ad esempio rapporto c2/c6 negli
HES e resistenza all’idrolisi.
Possono determinare nefrosi osmotica
ed un recente studio ha evidenziato la loro
responsabilità diretta in danni istologici
renali di pazienti trapiantati che necessitavano di depurazione extrarenale i cui
donatori avevano ricevuto HES ad alto
dosaggio come rianimazione di volume.
Viscosità. I collodi riducono la viscosità del sangue con un meccanismo di
emodiluizione migliorando così il flusso
ematico. Questo effetto è proporzionale al
grado di espansione del PV ed è pertanto
maggiore con i prodotti a più basso peso
molecolare che producono una maggiore
espansione della volemia e riducono l’aggregazione dei globuli rossi. I colloidi a più
alto peso molecolare (70.000 dalton) sono
meno attivi su viscosità plasmatica e aggregazione eritrocitaria12 anche se l’emodiluizione indotta è comunque rilevante, e
sussistono dubbi sulla possibile riduzione
dell’ossigenazione tissutale12,13.
Emostasi. Tutti i colloidi semisintetici
influenzano l’emostasi, sia per la diluizione dei fattori della coagulazione, sia
per effetti specifici sui singoli componenti
dell’emostasi: al contrario l’emodiluizione
indotta dai cristalloidi induce uno stato
di ipercoagulabilità, di significato clinico
comunque modesto14 .
Le gelatine sembrano essere quelli con
minori effetti sulla coagulazione, anche
se è stata osservata una riduzione dei livelli dei fattori di von Willebrand (vWF),
e VIIIc, e studi sul tromboelastoramma
(TEG) e sonosclot suggeriscono che la
forza della coagulo si riduce dopo grosse
infusioni di questo tipo di colloidi, anche
se ci sono poche evidenze che ciò si possa
tradurre in un aumento del numero degli
eventi emorragici15. Gli effetti degli HES
sui meccanismi dell’emostasi dipendono
dal loro peso molecolare16: sebbene gli
indici coagulatori convenzionali non siano
alterati dagli HES ad alto peso molecolare, è stata segnalata una coagulopatia
con aumento del rischio di sanguinamento
dopo intervento chirurgico17, associata a
ridotta funzionalità piastrinica, sindrome tipo von Willebrand con riduzione di
vWF, di fattore VIIIc e del TEG. Gli HES
a basso e medio peso molecolare inducono
effetti simili ma di minore entità18.
I destrani, specie quelli a basso peso
molecolare, provocano alterazioni significative della coagulazione tanto da essere
considerati degli efficaci agenti antitrombotici19: oltre a diluire i fattori, aumentano
il flusso nel microcircolo per inibizione
dell’adesività piastrinica, riducono l’attivazione del fattore VII e promuovono la
fibrinolisi (ed hanno specifici effetti sui
singoli componenti della cascata emosta-
103
C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio
tica: riducono la concentrazione dei fattori
VIIIc e vWF, così come l’attività dello stesso VIIIc e l’aggregazione delle emazie). I
destrani ricoprono la superficie dei globuli
rossi e possono così interferire con la possibilità di eseguire test di compatibilità
ematica. Nei pazienti senza precedenti
alterazioni della coagulazione viene raccomandata una dose masima di 1,5–2,0 g/kg
di destrani per evitare complicanze emorragiche. Destrani ed HES avrebbero pure
effetti antinfiammatori, quali la riduzione
dell’adesione dei leucociti e delle piastrine
all’endotelio.
Fenomeni anafilattici: sono stati descritti con tutti i colloidi semisintetici e con
l’albumina: l’incidenza di manifestazioni
gravi è maggiore con le gelatine (<0,35%)
e i destrani (<0,28%) rispetto all’albumina
(<0,1%) e agli HES (<0,06)20.
Effetti dei colloidi sulla funzionalità renale. Le gelatine non influenzano
la funzione renale21 mentre i destrani possono dare insufficienza renale acuta per
stato iperoncotico con ridotta pressione di
filtrazione o per danno tubulare da diuresi
osmotica.
Gli effetti contrastanti degli HES su
coagulazione, per fusione d’organo e funzione renale risentono dei diversi HES
utilizzati, dei diversi pazienti selezionati e
delle modalità di somministrazione.
Alcuni studi hanno dimostrato che
pazienti trattati con HES possono avere disfunzioni renali, e studi istologici
su reni trapiantati mostrano alterazioni
tubulari(nefrosi osmotica)22 , anche se una
adeguata idratazione con cristalloidi previene questi effetti avversi sulla funzionalità renale. Uno studio recente controlla
l’effetto di HES 130/04 nella rianimazione
dei donatori, concludendo che l’utilizzo
degli HES di terza generazione sembra essere associato ad un migliore effetto sulla
funzione renale dei pazienti trapiantati23.
A seguito di una singola somministrazione endovenosa di Voluven(500 ml) in
pazienti con vari gradi di disfunzione
renale, l’emivita terminale e la concentrazione plasmatica massima(di picco) non
sono modificate dall’insufficienza renale, e
i livelli plasmatici tornano al livello basale
24 h dopo l’infusione24.
Uno studio multicentrico europeo su
3143 pazienti non mostra alterazioni sulla funzionalità renale25, ma al contrario
l’utilizzo di HES 130/04 al 6% era stato
associato a minori alterazioni della funzione renale e a minore marcata risposta
infiammatoria endoteliale rispetto alle
gelatine al 4%26. Gli HES non vengono
rimossi dalla dialisi e sono stati utilizzati
nell’ipotensione intradialitica, riuscendo
a mantenere la pressione arteriosa similmente alla somministrazione con albumina e con effetti superiori all’uso di soluzione salina ipertonica27.
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Claudio Tubili
Via Madonna di Fatima, 2
00147 - Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
CELLULE STAMINALI CANCEROSE DEI TUMORI SOLIDI MALIGNI
CANCER STEM CELLS OF MALIGNANT SOLID TUMORS
CONCETTA LAURENTACI1, GAETANO LAURENTACI*
1
U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione, ASL MT4, Matera
Parole chiave: Cellule staminali cancerose. Tumori solidi
Key words: Cancerous stem cells. Solid tumors
Riassunto – I tumori solidi contengono una piccola percentuale (3-5%) di cellule iniziali del cancro (CICs),
che sono capaci di rigenerare il tumore dopo la rimozione chirurgica o dopo un trattamento di chemioterapia.
Le CICs, inoltre, sono alquanto resistenti alla radio-terapia. Le CICS, che si possono identificare in vitro
usando marcatori cellulari specifici (CD133 o CD44), sono conosciute anche come cellule staminali cancerose
(CSCs) e sono state dimostrate in diversi organi (encefalo, colon, pancreas, fegato, polmone, ovaio, prostata, testa e collo), nel melanoma e nelle linee cellulari isolate dall’osteosarcoma e da altri tumori. I metodi
per identificare dette cellule staminali sono limitati. Una ricerca sulle CSCs, che esprimono una proteina
fluorescente considerata il bersaglio del 26S proteasoma, ha suggerito la possibilità di identificare queste
cellule in vitro ed i vivo. Numerose strategie terapeutiche (molecole microRNA, virus oncolitici, inibitori Akt,
temozolomide, imatinib mesilato e altri agenti) sono stati individuati per colpire ed eliminare le CSCs dei
tumori solidi maligni.
Abstract – The solid tumors contain a small proportion (3-5%) of cancer initiating cells (CICs), that are
capable of regenerating a tumor that has been surgical removed or treated with chemioterapic agents. The
CICs are also particularly resistant to ionizing radiation. The CICs can be identified in vitro using specific
cell markers (CD133 or CD44). The CICs are also known as cancer stem cells (CSCs) and have been demonstrated in different organs (brain, colon, pancreas, liver, lung, ovary, prostate, head and neck), melanoma
and cell lines isolated from osteosarcoma or other tumors. Methods to identify stem cells in vivo are lacking. A research, targeting CSCs to express a fluorescent protein that is target of 26S proteasome, suggested
the feasibility to identify and track these cells in vitro and in vivo. Many treatment strategies (microRNA
molecules, oncolytic viruses, Akt inhibitors, temozolomide, imatinib mesylate and other agents) have been
designed or are approaching to kill the CSCs of human solid tumors.
Introduzione
I tumori solidi maligni, che si sviluppano per gli effetti di mutazioni genetiche
sequenziali del DNA, sono il risultato
di una significativa instabilità genetica1. Questi tumori, inoltre, contengono
una piccola sottopopolazione di cellule
staminali (CS), che si rinnova mediante
divisione asimmetrica e differenziazione multilineare2, mentre viene esclusa
la colorazione fluorescente del DNA (3).
Queste cellule iniziali dei tumori (CIT),
identificate in diverse neoplasie maligne
*già Prof. Stabilizzato di Chirurgia Sperimentale Università degli Studi di Bari
106
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
(leucemie, mieloma multiplo, tumori cerebrali, carcinomi colorettali, prostatici,
epatocellulari e mammari), sono presenti
anche in altri organi e tessuti suscettibili
all’oncogenesi.
Gli studi di diversi ricercatori4-6, che
hanno riconosciuto alle CIT e alle cellule
staminali cancerose (CSC) la capacità del
tumore a recidivare dopo una remissione
terapeu-tica, si sono orientati a definire
le proprietà delle CIT e delle CSC, identificando i marcatori specifici di queste
cellule ed i meccanismi molecolari della
resistenza alla terapia, nell’inten-to di
prevenire la recidiva neoplastica o potenziare il trattamento primario.
Le osservazioni scientifiche di diversi
ricercatori7-10, in particolare, hanno rilevato che le CIT specifiche di diversi tessuti,
nonostante la variabilità del loro fenotipo,
possono condividere l’elevata espressione
di alcune glicoproteine di superficie (prominin 1 e 2) sulle cellule CD133. Queste
glicoproteine, isolate per la prima volta
dalle cellule staminali emopoietiche11, sono espresse sulle membrane cellulari e sono costituite da cinque domini transmembranari e da due ampie anse extracellulari
glicosilate. La molecola CD133, pertanto,
è il più importante marcatore dei numerosi tipi di CIT/CSC identificati negli ultimi
cinque anni.
Lo studio di tre linee cellulari dell’osteosarcoma umano (SAOS2, MG63, U2OS),
isolate da giovani pazienti caucasici, ha valutato l’espressione dell’antigene CD133+,
la positività del Ki67 e la presenza dei
trasportatori ABCG212. Questa indagine,
che ha accertato nel 3-5% delle cellule esaminate la positività della glicoproteina di
membrana CD133, ha confermato anche
per l’osteosarcoma le proprietà di questa
proteina come marcatore biologico delle
cellule staminali cancerose (CSC) comuni
a diversi tumori solidi maligni.
Proprietà delle cellule staminali
cancerose
La notevole importanza delle ricerche
sulle CIT, che possono rigenerare un tumore solido dopo la rimozione chirurgica
o in seguito agli effetti della resistenza
alla chemiotera-pia ed alla radioterapia,
ha sollecitato ulteriori ricerche sulle proprietà biologiche delle CSC, dotate dei
marcatori di membrana (CD133, CD44),
che identificano in vitro queste cellule.
Un’indagine sperimentale sulle cellule di
due tumori umani (glioma, carcinoma
della mammella femminile), ha accertato
la sensibile riduzione del 26S proteasoma,
che è il principale regolatore dei processi
proliferativi cellulari13, nella fase di remissione del tumore innestato in topi nudi.
L’elevata incidenza della bassa attività
del 26S proteasoma, espressa dalle cellule
dei due tumori (26,6% e 52,9%), ha indotto
i ricercatori a riconoscere l’idoneità della
riduzione di attività del proteasoma come
un fattore specifico dell’identità delle CIT,
da utilizzare in vivo come bersaglio per
l’eliminazione in vivo del tumore.
Lo studio dei marcatori cellulari, che
caratterizzano le cellule (CIT/CSC) favorenti la diffusione o la recidiva dei tumori
solidi maligni, ha descritto un particolare
aspetto della DNA metilazione dell’antigene CD133 (Prominin-1). Questa ricerca,
eseguita sulle linee cellulari dei carcinomi
del colon e dei glioblastomi14, ha evidenziato la DNA metilazione primaria del
promoter CpG del CD133 nelle cellule
con espressione ridotta o assente della
proteina, mentre nelle cellule CD133+
pure il processo di metilazione è risultato
assente. Si è riconosciuto, pertanto, che la
DNA metilazione del CD133 è un evento
anormale del promoter, che non si verifica
nel colon e nel cervello normali, ma soltanto nelle colture cellulari dei tumori primari. Questa osservazione ha confermato
che il meccanismo della DNA metilazione
aberrante è associato nei tumori umani
all’anomalia del silenziamento genico.
Le ricerche degli ultimi cinque anni
hanno dimostrato l’esistenza delle CSC,
che danno origine ai tumori solidi maligni
e sono in grado di sostenere la resistenza
del tumore alla terapia (chirurgica, radiante e farmacologica) o di riattivare la
proliferazione neoplastica dopo qualsiasi
trattamento15-18. Si è rilevato, tuttavia,
che la presenza delle CSC può risultare
limitata e caratterizzata dalla mancanza
C. Laurentaci et al.: Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni
di metodi per preservare queste cellule.
Un gruppo di ricercatori, pertanto, si è
proposto di valutare una procedura di
preservazione criogenica per le CIT dei
tumori cerebrali19, dimostrando che la
metodica è idonea a preservare il fenotipo
biologico ed il profilo genetico delle CIT.
Questa procedura tecnica , che ha consentito di disporre di una riserva di CIT per
eseguire altre ricerche sperimentali, è stata usata anche per studi sulle CSC di altri
tumori (cr. mammella, prostata, polmone,
testa e collo), per valutare la resistenza
alla terapia e le modalità di espansione
progressiva dei tumori.
La tecnica di conservazione criogenica
è stata utilizzata anche per identificare
e carat-terizzare le CSC dei carcinomi
ovarici20. In particolare, si è accertato
che le cellule dei carcinomi ovarici derivano da una sottopopolazione di cellule
CD44+CD17+, che sostengono la chemioresistenza di questi tumori maligni e
possono rappresentare il bersaglio di una
eventuale indicazione terapeutica. Le ricerche sulle CSC della mammella hanno
sostenuto l’importanza dell’identificazione
dei marcatori biologici specifici21-23, che
sono coin-volti nella cancerogenesi della
ghiandola, risultando i bersagli della terapia rappresentati dal marcatore Ki67
della proliferazione cellulare e dal recettore estrogeno (ER) positivo o negativo24. Il
numero limitato delle CSC rispetto al volume del carcinoma mammario, tuttavia,
ha reso problematico il riscontro di queste
cellule e la definizione del meccanismo
molecolare dell’attivazione proliferativa.
Lo studio delle CSC del carcinoma
pancreatico, a sua volta, ha evidenziato
che queste cellule esprimono i marcatori
di superficie CD44 e CD24 in proporzioni
limitate (0,5% e 1,0%) rispetto a tutte le
cellule cancerose25. Le CSC pancreatiche,
inoltre, manifestano una regolazione eccessiva dei geni del rinnovamento delle
cellule staminali normali (Sonic hedgehog
o SHH e BMI-1) ed un’azione di supporto
alla diffusione delle metastasi neopla-stiche.
L’indagine, eseguita su una serie di
linee cellulari positive per il recettore
androgeno (RA+) dei carcinomi della pro-
107
stata umana26, ha rilevato la presenza e la
bassa frequenza dell’antigene di membrana CD133+, sostenendo che queste cellule
sono dotate di una capacità proliferativa
illimitata tipica delle CIT. Secondo queste
indicazioni, pertanto, le CIT della prostata che esprimono il recettore RA+ possono
acquisire l’attività di cellule stami-nali,
risultando un bersaglio terapeutico per le
cellule cancerose della prostata.
I melanomi possono contenere in bassa
frequenza le cellule oncogeniche (CIT/
CSC), che esprimono i marcatori di membrana CD133+ e ABCG2+27,28. Queste cellule sono state osservate nei melanomi
prodotti dagli innesti cellulari xenogenici
nei topi e da una linea cellulare melanomatosa (WM115), che esprime i più
importanti fattori angiogenici (notch 4)
e linfoangiogenici (prox 1 e podoplanin),
cooperanti alla genesi del tumore.
Alcuni studi hanno identificato la presenza di cellule staminali adulte (CSA)
nella tiroide umana29,30. Queste cellule
esprimono diversi marcatori specifici: il
fattore nucleare di trascrizione OCT-4
(noto come OCT-3 o OCT-3/4) ed i marcatori endodermici GATA-4 e HNF4-alfa. In
alcune linee cellulari (ARO, KAT-4, KAT18, FRO) del carcinoma anaplastico della
tiroide31, che è un tumore ad elevata malignità e con prognosi scadente, si è rilevata una piccola sottopopolazione di CSC
(CD133+). Queste cellule, che esprimevano anche il fattore specifico di trascrizione dei tiroblasti (TTF-1) ed il marcatore
cellulare staminale OCT-4, sono risultate
negative per altri marcatori (c-KiT e THY1) di cellule staminali. Tra le quattro linee
cellulari in esame, tuttavia, soltanto le
linee ARO e KAT-4 hanno evidenziato una
frequenza elevata (64 + 9 % e 57 + 12%) di
cellule CD133+.
In analogia ad altri tumori epiteliali, i
carcinomi spinocellulari della testa e del
collo (CSTC) contengono una popolazione
eterogenea di cellule cancerose, documentata da varie osservazioni scientifiche32- 34.
Le cellule dei CSTC, inoltre, contengono anche una piccola frazione (<10%) di
CSC che, dopo un arricchimento selettivo,
esprimono il marcato-re cellulare di membrana CD44+. Queste cellule CD44+ sono
108
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
caratterizzate dal gene BMI1, che agisce
come fattore di trascrizione del rinnovamento cellulare.
Cellule staminali dei tumori
cerebrali
Le ricerche, che hanno riconosciuto
l’esistenza delle cellule staminali oncogene (CIT/CSC) dei glioblastomi, hanno
evidenziato che esprimono il gene CD133
e altri geni neurogenici, dotati di un significativo potenziale rigenerativo35. Le CSC
dei glioblastomi, infatti, possono ripresentare le proprietà policlonali dei tumori
primari dopo l’innesto nei topi nudi. Nell’esaminare la possibilità di una terapia
genica di inibizione delle CSC glioma- tose
35
, si sono valutati gli effetti della proteina
morfogenetica dell’osso (BMP4) su que-ste
cellule. La BMP4, che si comporta come
un agente inibitore/regolatore delle cellule
iniziali del processo neoplastico, ha dimostrato la sua utilità come agente terapeutico non citotossico in combinazione alla
terapia cellulare specifica.
L’analisi comparativa delle CSC del
glioblastoma multiforme di 44 pazienti,
con i relativi decorsi clinici, ha previsto
le possibilità di sopravvivenza di questi
pazienti36. L’espressione combinata dei
marcatori CD133+/Ki67 nelle colture in
vitro delle CSC, infatti, ha sostenuto l’importanza di questi prodotti genici per
la prognosi del tumore, derivante dalla
progressione neoplastica e dallo scadente
esito clinico.
L’esame, di una linea cellulare di glioblastoma umano (U-87 MG), ha confermato la presenza di una piccola sottopopolazione di CSC, che esprimeva il marcatore
di membrana CD13337. Queste cellule sono risultate resistenti all’apoptosi indotta
dall’attivazione del recettore Fas. Si è riconosciuta, pertanto, l’esigenza di un trattamento idoneo a modificare l’anomalia.
La scoperta delle cellule staminali dei
gliomi maligni (CSGM) ha contribuito a
chiarire i meccanismi di sviluppo e progressione della gliomagenesi38. Le analisi
delle CSGM criopreservate e scongelate
periodicamente ha contribuito a confron-
tare le proprietà biologiche delle CS dei
gliomi primari (SU-1) e secondari (SU-2).
Le CS primarie (SU-1), che sono rimaste
stabili anche dopo una serie di episodi
alterni di congelamento e scongelamento,
dopo l’innesto intracranico in topi nudi
(atimici) hanno prodotto una massa neoplastica con bassa capacità invasiva. Le
CS secondarie (SU-2), invece, hanno dimostrato una proprietà alquanto aggressiva
ed invasiva, rispetto alle proprietà cellulari dei tumori primari. I due tipi di CS (SU1, SU-2), tuttavia, non hanno raggiunto
mai la differenziazione terminale, manifestando uno stadio primitivo di differenziazione con bassa attività autofagica.
Le cellule staminali dei gliomi maligni
(CSGM) esprimono livelli elevati del gene
e del-l’oncoproteina c-Myc, che sono necessari allo sviluppo ed alla progressione del
tumore39. La perdita del gene c-Myc, infatti, abolisce la produzione delle CSGM,
sostenendo l’impor-tanza del gene nella
biologia delle CS gliomatose.
La Nestin è una proteina filamentosa
che è implicata nelle fasi precoci di attività delle linee cellulari neuronali. L’espressione della proteina Nestin, pertanto, è un
marcatore di differenziazione del fenotipo
più aggressivo dei glioblastomi, che si
può utilizzare per la prognosi di questi
tumori maligni. L’indagine in 156 pazienti affetti da glioblastomi, che ha valutato
l’espressione della proteina mediante una
metodica seriale40, non ha rilevato alcuna
differenza significativa durante il decorso
clinico successivo alla radioterapia. L’inda-gine, che ha studiato la correlazione
tra l’espressione dei marcatori biologici
Nestin e CD133 ed il grado di malignità
dei gliomi41, ha contribuito a valutare la
prognosi di questi tumori. Il riscontro
combinato dei due marcatori, infatti, ha
sostenuto la previsione della natura aggressiva del glioblastoma.
Inibizione delle cellule staminali dei
tumori solidi.
Le ricerche che hanno identificato le
cellule staminali dei tumori cerebrali
(CSTC) hanno aperto nuove prospettive
per la terapia di questi tumori42, riconoscendo l’utilità e l’efficacia di diversi
agenti terapeutici. Le microRNA (miRNA)
C. Laurentaci et al.: Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni
sono piccole molecole di RNA, che regolano l’espressione genica e partecipano
a varie funzioni cellulari, influenzando
l’evoluzione di diverse infermità43-46. Le
miRNA sono molecole di RNA non codificanti costituite da 19-24 molecole, che
regolano geni cruciali per alcune funzioni
cellulari (apoptosi, differenziazione e sviluppo). Le miRNA, inoltre, sono coinvolte
nella fase iniziale e nella progressione dei
tumori maligni, agendo come oncogeni o
geni tumore-soppressori47,48. Altre osservazioni hanno confermato che le miRNA
agiscono come regolatori della0 apoptosi49,
evidenziando anche significativi effetti
sulle metastasi come attivatori o soppressori50. Altre indagini51,52, a loro volta, hanno segnalato che alcune miRNA (micro-7
e micro-21) sono coinvolte nella genesi dei
glioblastomi.
Uno studio con le miRNA, specialmente con la miRNA-451 a concentrazioni
nanomo-lecolari, ha inibito la formazione
e lo sviluppo delle neurosfere delle cellule A172, agendo in sinergia con l’imanitib-mesilato e potenziando il suo effetto
biologico53. Analoghi risultati sono stati
ottenuti con le cellule CD133 derivate dai
glioblastomi primari. Queste osserva- zioni
hanno sostenuto che alcune miRNA possono agire come prodotti capaci di influenzare la differenziazione delle CSC in modo da
inibire la proliferazione neoplastica.
Un’altra indagine, basata sulla transfezione del miRNA-124 e del miRNA-137,
ha accertato la differenziazione delle CS
neurali murine, delle CS derivanti dall’oligodendro-glioma murino e dalle CS del
GBM umano54. L’arresto del ciclo cellulare
del GBM, in particolare, ha riconosciuto
l’efficacia dei due miRNA verso il tumore
maligno.
Le indagini basate su alcune linee cellulari di neuroblastomi, che esprimevano
i marcatori cellulari CD133 e ABCG2 e
risultavano resistenti alla doxorubicina,
hanno suggerito l’efficace inibizione delle
CSC ad opera di un virus oncolitico (herpes simplex virus: HSV), privato dell’azione patogena da una mutazione genetica55.
La proteina Nestin, espressa dalle CSC,
ha rappresentato il bersaglio dell’azione
oncolitica del HSV.
109
Lo sviluppo delle terapie, che considerano le CSC come un bersaglio sensibile
per la sopravvivenza dei pazienti neoplastici, hanno accertato che una popolazione
arricchita di CSC dei tumori cerebrali e
suscettibile all’azione citolesiva di un inibitore dell’Akt56. Il meccanismo d’azione
dell’inibitore-Akt è stato attribuito in prevalenza all’induzione della apoptosi ed alla
soppressione della formazione di neurosfere. Si è evidenziato, inoltre, che l’azione
dell’inibitore-Akt riduceva la motilità e la
capacità invasiva delle cellule neopla-stiche. L’inibizione dell’Akt verso le CSC ha
migliorato la sopravvivenza dei topi immuno-compromessi riceventi l’innesto xenogenico di cellule del glioma umano.
La chemioterapia dei glioblastomi
(GBM), basata sulla Temozolomide (TMZ),
può contenere la crescita di questi tumori,
fino alla recidiva favorita dalla persistenza delle CSC57. L’analisi degli effetti della
TMZ sulle cellule CD133+ e CD133- delle
linee dei GBM, tuttavia, ha evidenziato la
resistenza all’azione citotossica del chemioterapico, mentre si verificava la deplezione delle cellule CD133+ e non delle
CD133-. Un esperimento in vitro con dosi
sub-letali di TMZ per 2 giorni, invece, ha
accertato la possibilità di una completa
eliminazione delle CSC (CD133+). Questa
indicazione, in prospettiva, ha suggerito
la possibi-lità di un analogo effetto anche
in vivo, previa definizione di un adeguato
protocollo tera-peutico.
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preferentially deplets cancer stem cells in glioblastoma. Cancer Res 2008; 68: 5706-15
Corrispondenza e richiesta estratti:
dott.ssa C. Laurentaci
U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione
ASL MT, 75100 - Matera
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
TUBERCOLOSI E FUMO DI TABACCO:
UNA ASSOCIAZIONE ANCORA “TRASCURATA”
TOBACCO AND TUBERCULOSIS:
AN ASSOCIATION STILL “OVELOOKED”
ALFONSO MARIA ALTIERI1, MAURO SIGNORA2,
GIORGETTA GENCARELLI3, FRANCO SALVATI4
1
UOC Broncopneumologia e Tisiologia, 2 UOC Pneumologia oncologica II,
Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini Roma; 3UOC Malattie Apparato Respiratorio,
Azienda Ospedaliera S. Andrea, Roma; 4Società Italiana di Tabaccologia, SITAB
Parole chiave: Fumo di tabacco. Tubercolosi polmonare. Correlazioni
Key words: Smoking. Respiratory tuberculosis. Relationship
Riassunto – Oggetto della Rassegna è la correlazione tra fumo di tabacco e rischio di tubercolosi polmonare
in bambini, giovani adulti ed anziani.
Abstract – Objet of this review is the risk of respiratory tuberculosis from exposure to tobacco smoke in
children, adults and elderly.
L’impatto negativo del fumo di tabacco sulle vie respiratorie ed in particolare
sulle capacità difensive della mucosa nei
confronti degli agenti infettivi è noto da
tempo. In particolare da anni si indaga sul
ruolo del fumo nello sviluppo della tubercolosi e da tutti gli studi a disposizione è
emersa una significativa correlazione tra
fumo attivo, fumo passivo, inquinamento
degli ambienti chiusi e insorgenza di tubercolosi (TB). Si calcola che ogni anno
muoiano nel mondo per TB due milioni di
persone, la maggior parte nei Paesi in via
di sviluppo. In questi Paesi vivono 900 milioni degli 1,1 miliardi di fumatori dei vari
continenti e la circostanza non è casuale,
stando a quanto affermato nel 2007 dalla
Harvard School of Public Health sulla
rivista PloS Biology: i dati raccolti hanno
messo in evidenza che i soggetti fumatori
hanno un rischio maggiore rispetto ai non
fumatori e che la TB incide maggiormente
nei Paesi dove si fuma di più con conse-
guente enorme impatto sociale e sanitario1.
Recentemente Bates et al.2 e Chang et
3
al. hanno affrontato di nuovo, attraverso
sistematiche rassegne integrate da metanalisi, la problematica già sollevata più di
50 anni addietro (precisamente nel 1956)
da Lowe4 relativa all’eventuale rapporto
tra abitudine tossico-tabagica e TB polmonare nei suoi numerosi aspetti: sulla
scorta dei risultati di queste ricerche l’International Union Against TB and Lung
Diseases e la World Health Organization
hanno predisposto un piano per ulteriori
approfondimenti al fine di una più precisa valutazione del rischio soprattutto in
chiave di Prevenzione sia primaria che
secondaria5.
Zellweger6 ha individuato tre diversi
tipi di rischio inerenti l’influenza del fumo
di tabacco sulla TB:
• rischio di infezione allorchè si è esposti
al contagio, specialmente per quanto
A. M. Altieri et al.: Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora “trascurata”
riguarda i bambini esposti al fumo passivo e gli adulti fumatori;
• rischio di malattia conclamata nei soggetti con infezione tubercolare latente;
• rischio di morte per TB.
In particolare il RR di infezione nei
bambini esposti al fumo passivo è proporzionale all’intensità e alla durata dell’esposizione al pari, del resto, di quanto
si osserva negli adulti fumatori attivi. Per
quel che concerne il rischio di malattia
nei soggetti con pregressa infezione è da
sottolineare che la malattia si sviluppa
soltanto nel 10% degli adulti mentre tra i
bambini si verifica nel 50% di quelli di età
non superiore ad un anno. Circa la mortalità per TB attribuibile al fumo attivo Lin
et al.7 stimano, in base ai dati di metanalisi, che la OR sia pari a 2,2.
Prendendo in considerazione le tre fasce di popolazione rappresentate rispettivamente da bambini, adulti e anziani
i relativi contributi della letteratura (per
altro numericamente assai scarsi) evidenziano situazioni infettivo-epidemiologiche
diversificate e quindi di particolare interesse come qui di seguito riferito.
Nell’ambito della popolazione infantile
risaltano i dati relativi al rilievo che può assumere il fumo passivo sia nei Paesi europei
che in paesi di altri Continenti. Per quanto
concerne l’Europa è significativo quel che
è emerso dallo studio spagnolo condotto da
Altet et al.8 del Dipartimento di Sanità di
Barcellona: l’esposizione passiva al fumo di
tabacco dei familiari, sia in ambito domestico sia al di fuori di esso, è risultata correlata
con un aumento del rischio che la malattia
tubercolare insorga immediatamente dopo
la fase di infezione. Inoltre nei bambini
di età 0-9 anni tale rischio è risultato più
elevato rispetto a quello in cui incorrono i
bambini di 10 o più anni di età; è inoltre
emerso che la correlazione dose-risposta
con il numero di sigarette fumate dagli
adulti in ambito domestico è statisticamente assai significativa (p<0,001).
Nell’ambito extraeuropeo è da segnalare il ponderoso studio multicentrico sudafricano del TB Center della Faculty of
Health Science dell’Università di Cape
Town coordinato da den Boon et al.9 con
la collaborazione franco-olandese, sotto
l’egida del UIATLD. Da questo studio che
113
ha coinvolto 1344 bambini di età inferiore
a 15 anni è emerso che - benchè in generale per il fumo passivo non vi sia chiara
evidenza di associazione con l’infezione
da Micobatterio Tubercolare - l’analisi
stratificata relativa a famiglie in cui fosse
presente un paziente con malattia tubercolare ha evidenziato che tale associazione
è risultata significativamente presente,
come documentato correttamente dal test
cutaneo alla tubercolina.
A conclusioni pressoché analoghe approda lo studio condotto in India da Sing
et al10: del Dipartimento di Malattie Polmonari di Chandgarh che peraltro si caratterizza per l’età dei bambini oggetto
della ricerca, tutti di età inferiore ai 5 anni. Ne è risultato che: 1) la prevalenza sia
dell’infezione che della malattia tubercolare nei bambini contagiati in casa da familiari adulti è più elevata rispetto a quella
rilevata tra la popolazione generale e 2)
il rischio è significativamente maggiore a
seguito del contatto con adulti bacilliferi.
Quanto ai fattori di rischio, i più rilevanti per la trasmissione del contagio sono
stati: l’età minore di 2 anni (p<0,0001), lo
stato di grave malnutrizione (p<0,0001),
la mancata vaccinazione con BCG e l’esposizione al fumo passivo (p<0,0003). È da
sottolineare peraltro, che il rischio (ovviamente più elevato a seguito di contatti con
familiari bacilliferi) è risultato comunque
significativo anche a seguito di contatti
con familiari malati non bacilliferi.
In letteratura i riferimenti relativi al
fumo di sigaretta nella popolazione di
adulti non anziani sono parimenti piuttosto scarsi sia per quanto riguarda i Paesi
europei sia per quelli degli altri Continenti. Tra i più interessanti è da citare quello
dovuto a Ariyothai et al.11 del Takin Hospital in cui su iniziativa del Ministero
tailandese della Sanità ci si è proposti di
valutare gli eventuali effetti del fumo di
sigaretta, attivo e passivo sull’insorgenza
della TB nell’adulto. Sulla base dei dati
raccolti in ambito tisiologico ospedaliero
è risultata una significativa associazione
con la precoce età di iniziazione al tabagismo nonchè con la durata dell’abitudine
tabagica: il rischio più elevato di contrarre la malattia è stato riscontrato rispetto
al rischio dei non fumatori negli adulti
114
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
che avevano iniziato all’età di 15 anni,
in quelli che avevano fumato per più di
10 anni e nei fumatori di oltre 10 sigarette/die. Anche per il fumo passivo con
esposizione oltre 3 volte la settimana, la
stima ha comportato un significativo aumento del rischio rispetto alla popolazione adulta non esposta. Peraltro, in tema
di rapporti tra tabagismo e TB nell’adulto
sono riportati in letteratura contributi
relativi ad eventuale ritardo della negativizzazione dell’espettorato dei malati
fumatori rispetto a quelli non fumatori:
viene segnalato in particolare da Abal
et al.12 che nei malati fumatori attivi la
negativizzazione dell’espettorato avviene
meno precocemente.
Infine per quanto attiene la correlazione tra tabagismo e rischio di TB nella
popolazione anziana sono da segnalare le
conclusioni dell’ampio studio di Leung et
al.13: in confronto a soggetti mai fumatori
il rischio di ammalare di TB polmonare è
risultato in rilevante eccesso tra i fumatori abituali (il che, peraltro non è stato
osservato per quanto concerne la TB extrapolmonare). Inoltre anche tra i fumatori anziani abituali si è dimostrato che la
cessazione dal fumo è in grado di ridurre
almeno della metà il rischio di contrarre la
malattia tubercolare.
Questi contributi provengono sia da
Paesi extraeuropei (come nel caso del precedente riferimento) sia da Paesi europei.
In particolare per quanto riguarda la Spagna Gullòn Blanco et al.14 a conclusione
della loro ricerca su pazienti tubercolari
che non presentavano immunodeficienza
alcuna né erano affetti da infezione da
HIV hanno segnalato che l’abitudine tossico-voluttuaria tabagica ritardava la negativizzazione dell’espettorato. Gli stessi
AA in un successivo studio15 su più ampia
casistica hanno rilevato che il tempo di
negativizzazione dell’esame colturale dell’espettorato correlava significativamente
con la variabile “gender”: alla fine del
secondo mese di terapia infatti la percentuale di persistente positività è risultata
nettamente superiore nelle donne rispetto
agli uomini (44% vs 23,3%: p=0,03).
Anche lo studio realizzato in Turchia da
Güler et al.16 ha dimostrato che i pazienti
fumatori affetti da TB si sono negativizza-
ti più tardivamente rispetto a quelli non
fumatori: in particolare tra i fattori che
hanno favorito significativamente questo
ritardo è da annoverare la coesistenza del
diabete mellito che ha inciso in maniera
più rilevante nel gruppo dei fumatori.
L’importanza del fattore “diabete mellito” nel determinare un ritardo della negativizzazione dell’espettorato all’esame
colturale è stata confermata dallo studio
lituano di Holtz et al.17 eseguito in collaborazione con i ricercatori di Atlanta in soggetti affetti da TB multiresistente (MDR).
Inoltre da una studio effettuato da autori
russi18 su 405 pazienti fumatori (di cui 84
fumatori di tabacco inveterati) e 193 pazienti non fumatori (gruppo di controllo)
al momento della diagnosi di tubercolosi
polmonare, il fumo è stato correlato con
un significativo aumento dei casi di resistenza (anche MDR) del Mycobacterium
tuberculosis ai farmaci: i ceppi resistenti sono stati 42,9% nei fumatori (54,4%
nei fumatori di tabacco “incalliti”) versus
31,9% nel gruppo di controllo (p<0,01).
Commento
Vari AA tra cui Casali et al.19 e più recentemente Pai et al.20 (questi ultimi esprimendosi addirittura in termini di “interazione
letale”) hanno illustrato il rapporto negativo tra fumo di tabacco e vie respiratorie che
si può manifestare con l’incremento della
secrezione bronchiale o la ridotta clearance muco-ciliare. I meccanismi chiamati
in causa sono vari21 tra essi l’apoptosi dei
macrofagi alveolari, la ridotta espressione
delle proteine di superficie correlate alla
presentazione dell’antigene (al che sembra
concorrere anche la nicotina che è in grado
d’interferire negativamente sul segnale di
trasduzione) e la stessa interleuchina-18
della quale nell’espettorato indotto dei fumatori sono stati rilevati livelli ridotti. È
da segnalare il danno che viene inferto alla
funzione macrofagica, fondamentale nella
difesa contro il Micobatterio tubercolare,
sia in termini di ridotta aderenza batterica
e di capacità fagocitaria sia in termini di
minor rilascio di citochine pro infiammatorie con contestuale danno di capacità di
killing sia infine, per la ridotta produzione
A. M. Altieri et al.: Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora “trascurata”
di TNF-α e di NO. Inoltre il fumo di tabacco è uno dei più potenti ossidanti a cui un
individuo possa esporsi, la sua azione viene
svolta in maniera diretta attraverso gli
ossidanti in esso contenuti ed indiretta attraverso la stimolazione di cellule infiammatorie residenti e reclutate, le quali una
volta attivate producono sostanze reattive
dell’O2 (ROS).
È più che plausibile che molti di questi
meccanismi possano concorrere negativamente nell’influenzare le svariate ripercussioni che il tabagismo sembra avere
sulla TB alla luce delle sia pur scarse
esperienze riportate dalla letteratura e
che comunque sembrano giustificare l’allarme espresso a riguardo nel 2002 da
Maurya et al.22. Da qui l’ulteriore impegno
“a non trascurare” questo campo di studio
alla luce sia del rilievo che in questi ultimi
anni viene dato all’infezione tubercolare
latente sia alla TB attiva: si profila quanto
meno opportuno, a giudizio degli Autori di
questa Rassegna, l’inserimento del controllo del fumo di tabacco nei programmi
di prevenzione della TB.
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. A. M. Altieri, Via Vegezio, 15
00136 - - Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Gestione e organizzazione sanitaria
DISUGUAGLIANZE NEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
INEQUALITIES IN NATIONAL HEALTH SERVICE
BRUNO NOTARGIACOMO
U.O. Sistema Informativo Aziendale, Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Servizio Sanitario Nazionale. Disuguaglianza
Key words: National Health Service. Inequality
La legislazione vigente affida al Servizio
Sanitario Nazionale (SSN) il compito di attuare i principi costituzionali di tutela della
salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività, uguaglianza e universalità dell’accesso ai servizi,
globalità dell’assistenza preventiva, curativa e riabilitativa, inviolabilità della libertà
individuale nel consenso al trattamento sanitario, rispetto della dignità personale nell’erogare le prestazioni, solidarietà politica,
economica e sociale, sussidiarietà verticale
tra i livelli istituzionali del servizio pubblico
ed orizzontale tra il servizio pubblico e l’autonoma iniziativa di cittadini singoli o associati nel processo assistenziale. Le politiche
sanitarie degli anni ’90, fondate sul paradigma della “limitazione delle risorse”, hanno
trasformato la Riforma Sanitaria 833/78
condizionando i livelli di prestazioni sanitarie alla disponibilità di risorse finanziarie
e convertendo le Unità Sanitarie Locali in
Aziende Sanitarie Locali (ASL). Al fine di
conciliare il diritto alla salute con le risorse
finanziarie lo Stato determina nello stesso
tempo i Livelli Essenziali ed Uniformi di
Assistenza (LEA) ed il fabbisogno finanziario per realizzarli. I LEA costituiscono un
vincolo per l’autonomia dei Servizi Sanitari
Regionali, che ne assicurano l’erogazione
attraverso le ASL e le Aziende Ospedaliere
(AO); essi vanno garantiti a tutti i cittadini a prescindere da età, sesso, condizione
personale e socio-economica, residenza, cultura, religione e colore della pelle. Le ASL
erogano i LEA con servizi propri o privati
accreditati dalle Regioni, mentre i cittadini sono liberi di scegliere i medici curanti
ed i luoghi di cura. Le ASL e le AO sono
governate da un Direttore Generale (DG),
che risponde dei risultati raggiunti alla Regione, che lo nomina. I Direttori delle Unità
Operative (DUO) sono incaricati dal DG e
la loro attività è sottoposta a verifiche periodiche. Stato, Regioni ed ASL concorrono
all’attuazione del SSN con funzioni rispettivamente di indirizzo-coordinamento, di
legislazione e di erogazione e pianificano le
attività attraverso il Piano Sanitario Nazionale, il Piano Sanitario Regionale ed il Piano Attuativo Locale; questi devono essere
coerenti in modo tale che il livello superiore
vincoli quello immediatamente inferiore. Al
contempo le Regioni hanno l’autonomia di
erogare prestazioni non comprese nei LEA e
di reperire le risorse finanziarie necessarie
per soddisfarli. I LEA sono erogati gratuitamente, ma lo Stato può prevedere forme
di compartecipazione degli utenti; anche le
Regioni possono prevedere ulteriori forme
di compartecipazione per risanare eventuali
disavanzi nel bilancio economico. Infine è
prevista la partecipazione degli Enti Locali,
delle Organizzazioni Sindacali, delle Associazioni sociali non profit e di comunità di
cittadini a tutti i livelli di programmazione. In definitiva la legislazione garantisce
l’universalità e l’uguaglianza dei cittadini
nell’usufruire di livelli di assistenza predefiniti per quantità e qualità. Nella realtà,
come documentato da numerosi studi, esistono significative disuguaglianze, a sfavore
delle classi socio-economiche svantaggiate e
delle popolazioni meridionali, nell’accesso
ai servizi, negli esiti delle cure ricevute, nei
comportamenti rischiosi per la salute, nella
mortalità e nella morbosità. All’origine delle
disuguaglianze tra cittadini vi sono ragioni
diverse, in grande parte indipendenti dall’organizzazione del servizio sanitario e correlate al contesto socio-economico, ambientale, politico, valoriale, culturale, religioso,
oltre che alle caratteristiche biologiche individuali, come dimostrato dal fatto che
B. Notargiacomo: Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale
i grandi progressi dell’ultimo secolo nelle
condizioni sanitarie siano stati determinati
innanzitutto dal progresso politico, sociale
ed economico e che la mortalità e morbosità
per molte malattie infettive siano diminuite
prima della disponibilità di vaccini ed antibiotici. Al contempo il modello consumistico
dominante, riducendo la rilevanza della socialità e della partecipazione a favore della
individualizzazione nell’esprimere bisogni e
domanda, ha reso più ardua l’individuazione dei bisogni primari e delle strategie prioritarie per risolverli. Non va sottovalutata,
infine, la portata delle politiche neoliberiste
dell’ultimo trentennio, che hanno ridimensionato il welfare state, diminuendo la sicurezza delle condizioni socio-economiche delle popolazioni più svantaggiate. Tutto ciò,
però, non giustifica le disfunzioni del SSN,
che sono all’origine di ulteriori disequità e
discriminazioni tra utenti e vanno approfondite in modo rigoroso per superare l’ambiguità di riflessioni generiche e gattopardesche, cui ci ha abituato la dialettica interna
alle principali forze politiche del paese. Solo
a fini esplicativi si possono individuare tre
gruppi di fattori interni al SSN: l’evoluzione
rapida della ricerca, della tecnologia e dei
trattamenti disponibili; l’appropriatezza,
l’efficacia e l’efficienza delle prestazioni e
dei percorsi assistenziali; gli aspetti giuridici, istituzionali ed organizzativi del SSN.
Sui primi due gruppi è disponibile una
letteratura ampia ed esauriente, che ne
evidenzia la complessità, le implicazioni logistiche ed organizzative, i limiti intrinseci
di incertezza legati al livello delle acquisizioni scientifiche raggiunto, la conseguente
provvisorietà. A tale proposito basti citare il
dibattito e le elaborazioni sui LEA, sul governo clinico, sul governo del rischio e delle
tecnologie biomediche. Oltre a ciò esistono
molti studi ed esperienze sul miglioramento
dei sistemi di informazione, sulla presa in
carico e l’integrazione tra servizi, finalizzati
a facilitare l’accesso alle persone più svantaggiate. Il terzo gruppo di fattori, invece,
è quasi del tutto assente nella letteratura
scientifica, verosimilmente per il suo carattere più direttamente politico; esso merita
un approfondimento particolare sia perché
condiziona l’operatività dei primi due gruppi sia perché è suscettibile di cambiamenti a
breve termine. Di seguito indico i fattori che
mi sembrano più rilevanti.
Aziendalizzazione
La creazione delle ASL ha introdotto
nel SSN alcune contraddizioni sistemiche,
117
che ne pregiudicano la capacità di assicurare a tutti i cittadini servizi appropriati
ed adeguati per qualità e quantità. Dal
punto di vista logico-concettuale si tratta
di un’aziendalizzazione del tutto virtuale
sia perché manca la conditio sine qua del
rischio imprenditoriale sia perché le ASL
non hanno piena autonomia, essendo la programmazione sanitaria appannaggio della
Regione. Dal punto di vista organizzativo la
discrezionalità della scelta dei DG da parte
della Regione e DUO da parte dei DG ha reso ancora più pervasiva la presenza dei partiti nella gestione delle ASL e determinato
condizioni aggiuntive di inefficienza del
SSN per le seguenti ragioni: le valutazioni
preliminari alle nomine e le verifiche dei
risultati raggiunti, previste dal legislatore,
sono vanificate ab origine, come dimostra
l’esperienza reale, dal prevalente criterio
dell’appartenenza partitica; il DG, non investendo risorse sue personali, non ha un
interesse “vitale” alla gestione sana ed efficiente, mentre è portato a far prevalere gli
interessi del committente politico, al quale
deve la sua nomina; la nomina discrezionale
dei DUO da parte di DG senza competenze
cliniche ne mina l’autonomia e l’autorevolezza necessarie per salvaguardare i servizi
sanitari dall’invadenza partitica ed amministrativa e per coordinare e dirigere i medici ed il restante personale; DG e DUO molto
difficilmente possono essere rimossi, i primi
perché, nella logica della spartizione, il movimento di una singola posizione rischia di
mettere in crisi l’equilibrio complessivo tra
i partiti, i secondi perché la verifica viene
effettuata con modalità sostanzialmente
sindacali; le ASL vengono stimolate ad
un’astratta competizione piuttosto che a
collaborare per integrarsi, evitando particolarismi, duplicazioni e sprechi di risorse; i cambiamenti delle direzioni aziendali
conseguenti ai cambiamenti politici introducono nella vita dei presidi discontinuità
inaccettabili, che spesso sono motivate solo
dall’esigenza di dare un segno della nuova
presenza; le rimozioni per “cattiva gestione” frequentemente vengono contrattate e
scambiate con incarichi alternativi, sempre
e comunque a danno dei cittadini, del SSN e
della democrazia, mentre sono rari i casi nei
quali vengono presi opportuni provvedimenti di natura amministrativa e/o giudiziaria.
È inconfutabile che gli interessi clientelari dei partiti politici prevalgano su ogni
altra considerazione; non si comprenderebbe altrimenti come non ci si renda conto
che l’aziendalizzazione sia un bluff, che
la direzione sanitaria ed amministrativa,
118
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
per la loro natura tecnica, debbano essere
stabili e che il DG debba essere individuato
tra clinici di riconosciuto prestigio culturale e professionale, per rendere accettabile
un potere sovraordinato di governo delle
attività cliniche ed assistenziali e di scelta
dei medici più competenti per dirigere i
servizi. In definitiva, pur non mancando
esperienze gestionali virtuose soprattutto
nelle Regioni centro-settentrionali, è il modello aziendalistico che non può funzionare
e non è appropriato ad una realtà, che si
distingue storicamente per l’occupazione
partitica dei servizi pubblici, l’evasione ed
omissione delle regole scritte, l’impunità
e, ultima ma non per importanza, la mancanza di controllo sociale, che consegue al
coinvolgimento dei sindacati nella gestione
clientelare del personale. La catena clientelare condiziona negativamente la responsabilizzazione dei dirigenti, l’organizzazione razionale dei servizi, l’utilizzazione
ottimale delle attrezzature e la qualità dei
percorsi assistenziali, perché fa venir meno
le funzioni di controllo e valutazione.
Accreditamento e valutazione
Sono strumenti fondamentali per garantire la sicurezza, l’affidabilità e la
qualità dei servizi sanitari e sociali. Per
l’accreditamento esistono criteri e requisiti facilmente standardizzabili, mentre
la valutazione è oggettivamente difficile,
soprattutto quando si debba effettuare su
singoli operatori o servizi. La legislazione
definisce le diverse attribuzioni statali,
regionali e locali in materia di accreditamento ed obbliga alla valutazione. Un accettabile sistema dovrebbe assicurare l’accreditamento rapido e rigoroso dei servizi,
la valutazione dei medesimi attraverso un
set minimo di indicatori validi, la revoca
dell’accreditamento quando non vengano
raggiunti i risultati minimi attesi, la pubblicazione ufficiale dei risultati relativi
ad ospedali e servizi su siti istituzionali
statali e regionali. Nella realtà, in molte
Regioni l’accreditamento non viene effettuato per evidenti ragioni clientelari e, di
conseguenza, non vi è alcuna garanzia per
gli utenti di essere affidati a servizi in possesso dei minimi requisiti strutturali, funzionali e qualitativi. Per quanto riguarda
la valutazione, le poche iniziative dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e di alcune
Regioni, che hanno iniziato a produrre
confronti basati sull’esito “mortalità” di un
numero ristretto di DRG già sperimentati
e validati nel mondo anglosassone nei decenni trascorsi, hanno scatenato reazioni
durissime di Istituti di ricovero privati e
pubblici, denunce, ricorsi alla magistratura amministrativa, polemiche giornalistiche. Ovviamente, a causa delle difficoltà
intrinseche alla valutazione della qualità
effettuata sulla base di informazioni limitate quantitativamente e caratterizzate da
un’ampia variabilità nella compilazione e
codifica, anche i risultati di studi epidemiologici ben condotti mantengono una quota
non riducibile di incertezza, che consiglia
prudenza nell’interpretarli e disponibilità
a recepire osservazioni metodologiche e di
merito e ad effettuare ulteriori approfondimenti; tale margine di incertezza, però,
non giustifica la confutazione pregiudiziale
della loro validità. In verità anche tale
vicenda dimostra una diffusa insofferenza
per le regole, alimentata dalla mancanza di
autorevolezza e credibilità delle istituzioni,
che per prime ne omettono il rispetto quando non stabiliscono percorsi certi, trasparenti, sistematici e rigorosi per accreditare,
valutare e decidere conseguentemente; in
tale contesto le valutazioni ed i confronti
possono essere recepiti come arbitrarie
iniziative di qualche ricercatore viziato di
“protagonismo eccessivo”, mentre gli erogatori valutati sanno che la denuncia di
manipolazione dei dati otterrà almeno l’effetto di creare confusione e ritardare sine
die eventuali decisioni regionali.
Libera professione (LP)
Essa costituisce una sorta di privilegio
di casta, sul quale il legislatore è intervenuto tante volte, sempre dandone per
scontata l’intoccabilità e con l’intento, nel
migliore dei casi, di renderlo compatibile
con le esigenze del servizio pubblico. Il
nodo non è stato sciolto nemmeno dalla legislazione degli ultimi anni, che trasforma
tutti i medici in dirigenti e “privatizza” la
contrattazione individuale degli incarichi,
degli obiettivi di attività e della remunerazione ad essi collegata. Senza entrare
nel merito di una discussione giuridica e
di opportunità, va considerato che la LP
costituisce, nella realtà di tutti i giorni,
lo strumento per ottenere in anticipo, superando gli ostacoli delle liste di attesa,
prestazioni di ogni tipo, dalla semplice
visita specialistica all’intervento chirurgico più complesso. Ciò diventa tanto più
eticamente e socialmente inaccettabile, in
quanto i tempi di attesa in regime istitu-
B. Notargiacomo: Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale
zionale sono lunghi ed assolutamente fuori controllo. Anche se non si può stabilire
una relazione causale tra LP e lunghezza
dei tempi di attesa per le prestazioni in
regime istituzionale, non si può negare
che l’evidente conflitto di interesse possa
influenzare il grado di utilizzazione delle attrezzature e degli spazi pubblici in
diversi modi: inducendo l’aumento della
domanda inappropriata di prestazioni in
LP e, conseguentemente, l’aumento i tempi di attesa per il percorso istituzionale;
non pretendendo il miglioramento dei
percorsi e del comfort delle attività istituzionali; facendo diminuire la disponibilità per le attività istituzionali dei medici
più impegnati nella libera professione;
creando conflitti tra operatori a scapito
dell’armonia interna, che è necessaria per
pianificare le attività in modo razionale
ed efficiente. La contraddizione tra l’obiettivo dichiarato dell’equità e la reale disequità è palesemente testimoniata dalla
mancanza di una semplice informazione
quantitativa sul rapporto tra attività libero professionale ed istituzionale articolato
per prestazione. Sarebbe auspicabile per
evidenti motivi etici e facile tecnicamente
eliminare la LP, fissare un tetto massimo
di remunerazione e definirne la gradualità attraverso diverse possibili forme di riconoscimento della qualità e di incentivazione, fondate sulla valutazione regionale
e locale degli esiti, sull’utilizzazione delle
strutture disponibili e sulla libera scelta del medico da parte degli utenti, che
potrebbe essere realizzata attraverso un
contributo aggiuntivo al ticket attuale.
Responsabilizzazione dei duo sull’appropriatezza dei trattamenti
Costituisce la contraddizione di più
complessa soluzione, perché è strettamente correlata alla qualità, alla correttezza
professionale ed alle capacità di direzione e
coordinamento tecnico scientifico dei DUO.
Senza entrare nel merito delle riforme necessarie nella formazione universitaria e
post universitaria, nella ridefinizione dello
stato giuridico e nei criteri di selezione
ed assunzione, va considerato che sarebbe
necessario ristabilire un ruolo di effettiva direzione e responsabilizzazione, oltre
che di generico coordinamento, dei DUO, i
quali dovrebbero essere garanti dell’appropriatezza del trattamento globale (medico,
infermieristico e tecnico) a tutte le persone
ricoverate, a prescindere dalle modalità del
119
ricovero. Per poter esercitare tale funzione,
i DUO, nel rispetto di regole e criteri predefiniti e concordati, dovrebbero rispondere
della formazione dei medici giovani loro affidati, della qualità di tutti i medici coordinati, della presa in carico delle persone, che
non può prescindere dall’affidarle ai medici
più indicati per i trattamenti necessari.
Conclusioni
La complessità dei determinanti delle
disuguaglianze nella salute esterni al SSN
non può continuare a costituire il pretesto
per non affrontare e ridurre le contraddizioni interne all’organizzazione del SSN,
che sono all’origine di ulteriori fattori di
discriminazione e disuguaglianza. Le forze
professionali, sindacali, politiche e culturali, che sono realmente interessate alla
difesa ed alla realizzazione dei principi costituzionali, dovrebbero impegnarsi molto
più fattivamente nella scelta di politiche
sanitarie adeguate e capaci di risolvere concretamente tali contraddizioni, che,
oltre a produrre disuguaglianza, sono all’origine del clientelismo, dei conflitti di
interesse e della deresponsabilizzazione
ampiamente diffusi nella sanità pubblica e
nelle istituzioni che la governano.
Bibliografia essenziale
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1/2009
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
COMUNICAZIONE E CURA: DALL’INFORMAZIONE
ALLA CONTROINFORMAZIONE IN ONCOLOGIA
COMMUNICATION AND THERAPY:
FROM INFORMATION TO MISINFORMATION IN ONCOLOGY
LUCIA MITELLO
Dipartimento Infermieristico, Tecnico, Riabilitativo, Ostetrico, (DITRO)
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Comunicazione. Informazione. Oncologia. Etica
Key words: Communication. Information. Oncology. Ethic
Introduzione
La ridefinizione, nell’ambito del dibattito
sui concetti di salute e malattia, del modello biomedico, fondato sulla malattia e di
quello psicosociale fondato sulla persona ha
determinato nuovi e necessari interrogativi
ai quali è obbligatorio dare alcune risposte
in linea con la nuova prospettiva che pone
il malato e non più l’operatore e il sistema
al centro dell’interesse dell’organizzazione
sanitaria.
Questa visione si configura come un modello accettabile e condivisibile all’interno
del quale tutte le figure sanitarie si riconoscono nell’interazione con “l’altro”.
Questa circostanza ha contribuito a far
si che le questioni inerenti la comunicazione
potessero subire un notevole approfondimento tendente a munire l’operatore sanitario di strumenti, informazioni, tecniche,
metodologie mutuate da differenti discipline
scientifiche: counseling, PNL (Programmazione Neuro Linguistica), psicologia dinamica, pedagogia, tecniche di improvvisazione,
di comunicazione di massa.
È necessario prendere coscienza che il
processo terapeutico, che porterà la persona malata verso la guarigione o la stabilizzazione della sua malattia, ha inizio
quando gli si offre realmente la possibilità
di partecipare, tenuto conto delle sue reali
competenze, alla gestione del proprio percorso terapeutico; questo implica che gli
operatori della salute, medici, infermieri,
psicologi, assistenti sociali debbano porsi
nei confronti del malato non in modo autoritario.
Mettere in discussione la prospettiva
autoritaria, nel significato che ne offre
Rogers (1997), capovolge i termini nei
quali si inscrive la relazione comunicativa
tradizionale centrata sulla malattia. L’enfasi si sposta dunque dalla malattia alla
persona.
Nella sua prospettiva Rogers, infatti,
assume, come carattere peculiare, l’abilità
dei sanitari di predisporre un intervento
comunicativo efficace il cui scopo dovrebbe
tendere sia a incoraggiare la libera e piena
espressione del malato sia a farlo partecipe attivamente. Questo nuovo approccio
contribuisce, a chiarire dubbi e superare
difficoltà connesse al “vivere” la malattia.
Questo presuppone che gli operatori
della salute debbano possedere delle conoscenze specifiche di natura medica, tecnica,
psicologica, scientifica, per una relazione
comunicativa intesa come momento informativo, conoscitivo e terapeutico.
Comunicazione e relazione
I due soggetti della relazione vivono una
asimmetria comunicativa attribuibile alla
naturale soggezione che il malato sviluppa
nei confronti degli addetti ai lavori per la
diversa competenza rispetto alla malattia e
per i disagi connessi ad essa che gli impediscono una gestione razionale del rapporto,
L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica
quali: la malattia in sé, la presenza di dolore
fisico, la provenienza socio-culturale, fattori
emotivi, preconcetti e pregiudizi sulla sanità
e sulla malattia, le modalità tipiche della
sua personalità, la percezione reale o distorta della malattia, le aspettative che chi soffre
si crea; inoltre contingenze ambientali come:
la presenza di rumori e fattori di disturbo
del setting comunicativo rappresentati dal
luogo fisico e il tempo a disposizione.
Questa condizione di asimmetria non è
riconducibile unicamente a una diversità
di conoscenze scientifiche ma nel tempo
si è tradotta in una vera e propria asimmetria nello status morale dei due interpreti della relazione. Questa condizione di
asimmetria si realizza con la ipotesi che il
malato sprovvisto di conoscenze mediche
sia in una condizione di incapacità morale,
ovvero della possibilità di decidere autonomamente (Gracia 1993).
In tempi non lontani questa forma di
giustificazione è stata usata come giustificazione morale alla totale subordinazione
del paziente alla volontà dei sanitari e del
sistema sanitario. Le riflessioni etiche su
queste questioni tendono oggi a giustificare forme alternative di tale relazione che
tengano in considerazione l’autonomia del
paziente e l’inderogabilità del dovere del
medico di informare il paziente e ottenere
il consenso per le cure a cui dovrà essere
sottoposto. La relazione in questo caso si
configura come un patto sottoscritto liberamente da due individui autonomi (Engelhardt 1999).
In tale modello la relazione si rappresenta come il risultato di un contratto in
cui le parti assumono lo stesso potere di
trattativa. Se da una parte alle ragioni del
modello contrattualista bisogna riconoscergli il merito di aver contribuito a mettere
definitivamente in discussione il modello
paternalistico-medico-centrico a favore dei
diritti del malato, dall’altra presenta dei
limiti legati al contratto in quanto tale. Il
contratto, infatti, sottodimensiona alcuni
aspetti della relazione che sono riscontrabili in un rapporto comunque asimmetrico
per la reale vulnerabilità del paziente e per
la differenza di conoscenze. Ma l’asimmetria sicuramente non giustifica la premessa
per una riesumazione del modello paternalistico. Il contrattualismo sostenuto da Engelhardt dunque pone qualche problema di
ordine morale. Non tiene conto della componente emozionale della relazione e dell’investimento in fiducia, come sostiene Ca-
121
terina Botti, che contraddistingue le attese
del paziente nei confronti degli operatori.
Le relazioni di fiducia non si stabiliscono
solitamente per contratto ma nascono attraverso prassi consolidate nel tempo (Botti 2000). Se consideriamo uno dei principi
del modello contrattualista che è quello del
dovere del medico di “dire sempre la verità”
al paziente” (Beauchamp e Childress 1999)
vediamo che nella pratica quotidiana questo si realizza attraverso il coinvolgimento
di altre qualità non rubricabili nelle regole
che disciplinano un rapporto contrattuale.
Il dire la verità dovrebbe essere legato alla
sensibilità psicologica del terapeuta che
deve farsi carico di una grande responsabilità che è quella di saper comprendere qual
è il limite di comprensione della verità da
parte del paziente. Le diverse variabili che
contraddistinguono queste pratiche hanno
portato a immaginare un tipo di relazione
medico-paziente-infermiere, che può superare tutti i limiti legati sia al paternalismo
che al contrattualismo.
Il sapere medico deve tracciare delle
linee in cui, operatori della salute da una
parte e malati dall’altra possono sostenere
posizioni diverse e riconoscersi nei diversi
punti di vista morali, sperimentando una
sorta di etica della fiducia.
L’attitudine del prendersi cura delle
persone però, rinvia necessariamente a un
insieme di competenze intellettuali, affettive, morali che ogni operatore della salute
deve possedere per entrare in relazione
alle persone. Questo consente, di dare una
risposta emozionale positiva alle condizioni delle persone malate, una risposta il cui
fine è di affermare la nostra disponibilità
nei confronti del loro benessere; identificarci con le loro sofferenze e il nostro desiderio di fare il possibile per alleviare il loro
stato (Callahn 1990). In parole semplici
non considerare il corpo del malato come
qualcosa solo da esplorare scientificamente, come organi separabili dalla “persona”
che le ospita.
Pellegrino e Thomasma hanno ipotizzato un modello medico-paziente incentrato
sull’amicizia e sull’obbiettivo comune della
ricerca della salute. Pur ritenendo tale
relazione sempre auspicabile nel corso della vita non si configura in questo tipo di
relazione, dettato dallo stato di necessità,
quell’intimità necessaria per una relazione
di tipo amicale.
Ma quale senso dare al principio dell’autonomia? I criteri comuni cui molte scuole
122
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
fanno capo sono che il paziente deve essere
informato per scegliere liberamente tra le
diverse possibilità di cura, attraverso le informazioni ricevute diventare competente
per identificare la possibilità adatta a lui.
Ma quando un paziente diventa veramente
competente? La genericità dei criteri finora analizzati non tengono adeguatamente
conto del vissuto delle persone, delle narrazioni, delle rappresentazioni sociali e
dell’apparato simbolico che mettono in gioco nella fase della malattia. Senza contare
che spesso i pazienti chiedono di diventare
competenti non sulle implicazioni delle terapie o sulle percentuali di guarigioni, ma
sulla sofferenza e i dolori che seguiranno
le terapie, sulle indagini diagnostiche e
sulla qualità di vita, che dovranno affrontare. Nella relazione di cura, quindi, l’uso
della categoria dell’autonomia tout court
(considerando che non in tutte le fasi della
propria vita si mantiene lo stesso grado di
competenza, e che l’autonomia non è un valore assoluto, ma un ideale che si costruisce
attraverso un processo relazionale), non
sembra sufficiente per risolvere i problemi
sollevati. Inoltre, vi è anche la possibilità
che alcuni malati non desiderino avvalersi
del diritto all’autoderminazione e si avvalgano del diritto di non essere informati e di
affidarsi completamente ai propri curanti,
il medico, infatti, non è necessariamente
obbligato a informare, ma deve offrire l’informazione, che può essere rifiutata. È necessario ripensare ai criteri per un efficace
consenso informato, tenendo conto della
soggezione a cui il paziente è sottoposto,
nei confronti dei propri curanti.
La competenza o più semplicemente, la
capacità di intendere e di volere, in questo
caso è sottoposta alla differenza emotiva
delle due parti: quale autonomia è possibile
riconoscere in questo caso? E quanto la soggezione nei confronti dei medici o infermieri
influisce sul giudizio di scelta competente?
Informazione e autonomia
Le persone malate a causa della perdita
di ruolo e della differenza di posizione che
occupano in quel contesto, non sono abituate ad agire in modo autonomo e troveranno
enormi difficoltà nel prendere decisioni sulla
propria salute e a districarsi in situazioni
sanitarie molto complesse, quali le cure in
oncologia.
Il problema è che i malati non diventano
competenti per aver ricevuto alcune infor-
mazioni sulle neoplasie o sugli effetti collaterali delle chemioterapie. Le persone malate entrano negli ospedali con la loro storia
personale, con le loro paure, con la loro
incompetenza che tale, spesso, resterà per
tutto il percorso della terapia e che inciderà
prepotentemente sulla scelta della cura. Il
ruolo che gioca la scarsa considerazione di
sé, nel contesto della malattia, e la sopravvalutazione del personale sanitario, quello
che Engelhardt definisce le asimmetrie di
potere (Engelhardt 1999) tra medici, infermieri e malati, devono indurci a considerare tali fattori meritevoli di considerazione
per la risoluzione di dilemmi bioetici. Sarà
necessario, infatti, che le persone abbiano
la possibilità di opporsi a tali sentimenti
che li rendono vulnerabili, senza dover fare
scelte che danneggerebbero ulteriormente
la propria condizione per esempio scegliendo di non curarsi.
La situazione che si auspica è che i pazienti
siano in grado di sottrarsi ai sentimenti oppressivi quali la soggezione, nei confronti dei sanitari, per scegliere in modo autonomo secondo
i propri valori e conoscenze, anche se questa
visione appare poco realistica se non astratta,
rispetto alle categorie che abbiamo contribuito
a definire prima.
La “migliore” cura e assistenza che un
medico o un infermiere sceglie per il proprio
paziente è la migliore perché è la cura negoziata con il paziente, ma questo deve valere
anche per la scelta di non curarsi. Il malato
ha, infatti, il diritto di rifiutare un trattamento ritenuto indispensabile per la sua
salute, pur nella diversità dei valori e delle
motivazioni che vi si riconoscono alla base.
È proprio nella relazione che lega operatori della salute, malati e persone vicine al
malato che si può individuare il tratto dirimente su cui fondare la nostra riflessione.
È attraverso un processo di “attenzione”
che arriviamo a una risposta che abbia una
rilevanza morale. Dworkin (1998) definisce
precisamente cosa si deve intendere per
dignità umana: il diritto che gli operatori
sanitari sappiano riconoscere i veri interessi
critici di chi soffre e sappiano vedere in lui
una creatura che possiede un proprio genere e un proprio status morale che sono intrinsecamente e oggettivamente importanti
per il modo in cui vivrà. La dignità umana
è, dunque, collocabile nei valori individuali
delle persone ed è importante venga loro
riconosciuta una piena autonomia morale e
la libertà di dare il proprio significato agli
eventi della vita compresa la malattia.
L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica
Susan Sherwin (1992) propone una concezione dell’autonomia che poggia su una
visione relazionale della persona. Intendere la persona in un senso relazionale
significa tener conto del fatto che essa è
il prodotto delle relazioni interpersonali
e politiche di cui fa esperienza. Significa
che le persone non nascono già formate,
ma emergono da un insieme complesso di
interazioni con i loro simili.
Se l’individuo è posto in una fitta rete di
relazioni, sarà in grado di esprimere la propria autonomia mediandola con i consigli
del proprio infermiere o del proprio medico.
Sceglierà così liberamente di curarsi o di
abbandonare la cura dopo una negoziazione accurata, obiettiva e partecipe. In tal
modo in ordine a una scelta di cura o a una
non scelta diventa proporzionalmente più
importante la comunicazione tra infermieri, medici e pazienti sul senso della vita e
sul suo valore. Non si tratta di un semplice
scambio di informazioni sugli interventi
terapeutici, consistenti in semplici prestazioni cliniche o farmacologiche, ma di un
consenso a proposito del senso della cura
iscrivendola in un universo culturale il più
possibile condiviso. Sarebbe interessante,
in merito alla scelta della cura, contrapporre al modello paternalistico, la nozione
di potere trasformativo (Kuhse 2000) con
un uso positivo del potere a vantaggio di
chi la cura la deve ricevere e a volte (suo
malgrado) subire.
Si ravvisa nell’attenzione verso l’altro,
uno dei segni più caratteristici della condotta morale. È importante superare l’ostacolo del volere attribuire autonomia a “tutti i costi”, e del “ragionamento prudenziale”
che spesso contraddistingue le professioni
sanitarie, rimettendo ogni decisione del
paziente alla compilazione del modulo di
consenso informato.
Il solo consenso informato, espressione
(come si sostiene) dell’autonomia del paziente, non chiarisce quali devono essere
i comportamenti da adottare e i giudizi da
esprimere in quel determinato contesto, se
non quelli formali.
Se il consenso informato esprime l’autodeterminazione dell’individuo alla cura, i
nostri consigli, al di là dell’atto formale, ci
impegnano a uno sforzo superiore di immaginazione che ci aiuti a interrogarci sulla
strada migliore da intraprendere, offrendo
una visione più ricca e complessa di quella
attuale e di valutare i bisogni del malato
come se fossero i nostri (Mitello 2004).
123
Una variante del paternalismo classico è
rappresentata dal paternalismo fiduciario
(Engelhardt 1999), dove i malati delegano
volontariamente le proprie scelte a qualcun altro, spesso al medico o all’infermiere
o ai parenti e amici. Se tutti questi soggetti coinvolti rispondessero direttamente si
configurerebbe una sorta di paternalismo
indotto con manipolazione della volontà del
paziente. L’alternativa è quella di informare il paziente e aiutarlo nella comprensione
senza pilotare la scelta in alcuna direzione.
A una considerazione omeostatica della
malattia in cui prevale un atteggiamento
passivo si contrappone un modello dinamico in cui le persone considerano lo stato di
malattia come una continua crescita delle
proprie capacità personali e della propria
possibilità di autodeterminarsi.
Nonostante i limiti e le riserve che si
possono avanzare al modello contrattualista restano tuttavia validi i principi a cui
fa riferimento: i diritti inalienabili del paziente e i doveri del medico anche se ottenere il consenso informato del paziente non
esaurisce gli obblighi morali del medico.
Comunicare una diagnosi di cancro senza
considerare la sensibilità del paziente e le
conseguenze che tale comunicazione può
determinare non pone il medico in una
posizione di violazione di obblighi legali
ma lo pone in una posizione moralmente
disapprovabile. Quello che si auspica è che
nella relazione tra operatori della salute
e malati si assolvano oltre agli obblighi
giuridici anche quelli riconducibili a virtù
che ogni operatore della salute dovrebbe
possedere nell’esercizio quotidiano del proprio lavoro.
L’attitudine del prendersi cura delle
persone rinvia a un insieme di competenze intellettuali, affettive, morali che ogni
operatore della salute deve possedere per
entrare in relazione con le persone malate.
Questo consente, al di là dell’autonomia
che rimane un principio morale fondamentale, di dare una risposta emozionale
positiva e di sostegno alle condizioni e alla
situazione di altre persone, una risposta il
cui proposito è di affermare la disponibilità
a identificarsi con loro, coi loro problemi e,
il desiderio di fare il possibile per alleviare
le loro sofferenze.
Se l’individuo è posto in una fitta rete di
relazioni, è in grado di esprimere la propria
autonomia mediandola con i consigli del
proprio infermiere o del proprio medico.
Sceglierà così liberamente di curarsi o di
124
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
abbandonare la cura dopo una negoziazione responsabile e consapevole.
La buona informazione
Michael Taussing nel suo lavoro sulla
reificazione delle relazioni umane affronta
il problema della capacità di mascheramento della medicina. Egli sostiene che i segni
e i sintomi di una malattia e la tecnologia
che le accompagna non sono “cose in se
stesse”. Non sono neanche fatti unicamente
biologici ma segni delle relazioni sociali dissimulati come realtà naturali. In definitiva
i professionisti della medicina interpretano
segni e sintomi come realtà significative e le
costruiscono come realtà individualizzate,
destoricizzate e desocializzate. Queste componenti entrano in gioco nel momento della
trasmissione dell’informazione al malato.
Negando la componente sociale dei segni e
dei sintomi la medicina, nella prassi quotidiana degli operatori sanitari, introduce
una reificazione delle relazioni umane che
Lukàcs definiva “oggettività fantasmatica”,
una sorta di mistificazione per cui il mondo viene convertito in una serie di oggetti
aprioristici che rispondono unicamente alla
propria legge naturale. Quello che si vuole
sottolineare è la strumentalizzazione politica della medicina. La relazione medico-paziente mostra in tale contesto la gerarchia
di sapere e potere che caratterizza generalmente la comunicazione terapeutica.
Gli operatori sanitari spesso adottano una comunicazione opposta a quella
che Lacan (1989) definisce del soggetto al
quale si attribuisce un sapere: il paziente
“non sa” e insegue negli addetti ai lavori
un’azione che riduca il suo malessere e
l’angoscia che questo provoca. Il malato
narra, descrive segni e sensazioni e di tutto questo gli operatori recuperano spesso
solo alcuni sintomi che gli consentono di
fare una diagnosi: la versione biografica
non entra nella brevità di una definizione
di realtà oggettiva: “lei ha il cancro!”. Il
problema è che il cancro provoca paure,
disperazione, orrore e per ogni individuo
queste espressioni si manifestano in modo
diverso. Ecco come la comunicazione non
può che essere differente e ricondotta alla esperienza personale e al vissuto della
persona e come l’universalizzazione dei
fenomeni in un’ottica di medicina globale
non può essere un modello accettabile. La
stessa Evidence based medicine sta spingendo, forse troppo, verso il privilegio di
“fatti provati” piuttosto che verso l’incontro
tra due persone: chi cura e chi è curato.
È sempre più evidente e urgente la necessità di un cambiamento della struttura
della comunicazione tra operatori e utenti.
Si va delineando un nuovo modello che si
può sintetizzare con il termine inglese di
empowerment. Con questo neologismo sanitario non facilmente traducibile in lingua
italiana si intende sintetizzare il processo di
spostamento del “potere” dal curante al curato e alla variazione della relazione dei due
soggetti coinvolti. Nella Carta di Ottawa
del 1986 è stato descritto come: un processo
che rende le persone capaci di aumentare
il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Il concetto di empowerment mette
in discussione quello di compliance che
presuppone dipendenza a favore dell’autodeterminazione del paziente. Non significa
che nella relazione il paziente posizionato in
one up trasferisce l’operatore in one down.
Questo non gioverebbe al paziente che comunque ha bisogno di un professionista
competente che tiene conto della persona
e non di un esecutore di ordini, anche se
queste indicazioni provengono dal malato.
L’empowermet rappresenta una diversificazione complessa dei rapporti su differenti
piani: sociali, culturali, clinici ed etici. L’empowermet acquista senso solo attraverso un
processo comunicativo sistematico. Il processo per essere completo deve includere il
coinvolgimento della famiglia e dei soggetti
significativi per il malato.
Comunicazione e controinformazione
Nell’ era che in molti definiscono della globalizzazione anche l’informazione
medica ha subito delle trasformazioni e
reinterpretazioni. Chi deve comunicare e
informare oltre agli aspetti squisitamente
relazionali deve fare i conti con le nuove
tecnologie che hanno subito una diffusione capillare in tutti gli angoli del mondo.
Internet è entrato nelle case e le informazioni che vi circolano sono incontrollabili. Il
malato moderno oltre all’aspetto culturale,
sociale e etico presta attenzione alle informazioni scientifiche che riceve dopo averle
in maniera autonoma cercate nei numerosi
motori di ricerca di tutto il pianeta. Ma
l’informazione via cavo, attraverso cui si
ha la presunzione di auto curarsi dopo aver
ipotizzato e formulato una auto-diagnosi,
presenta molti limiti riconducibili alla qualità delle informazioni che si acquisiscono
L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica
e alla competenza che deve possedere chi è
deputato a fare diagnosi.
Ziman, fisico teorico, nell’analizzare il
modo in cui lavorano gli scienziati nel nostro
tempo ritiene che siamo entrati in un’era
che definisce postaccademica. Nella società
odierna le scelte rilevanti sull’utilizzo della
ricerca non sono prese esclusivamente dagli
esperti ma da una moltitudine di figure che
a vario titolo si sentono coinvolti: burocrati,
politici, bioeticisti, manager, imprenditori
cittadini. Questo ha determinato che il tipo
di comunicazione della scoperte scientifiche
ha modificato il suo statuto ontologico, ma
mentre nel passato non era determinante,
in era post accademica è imprescindibile.
Non c’è scienza senza informazione. La
comunicazione pubblica della scienza con
ogni mezzo mediatico sembra un elemento
fondamentale della società organizzata e
della civiltà attuale. È importante però distinguere l’informazione tra pari, ovvero nel
gruppo di esperti e la divulgazione. Questo
tipo di comunicazione/informazione crea dei
problemi: i soggetti del cambiamento non
sempre riescono ad adeguarsi. Gli scienziati
non hanno ancora imparato a dialogare con
linguaggio semplice accessibile al pubblico
dei non esperti. Altri agenti informano diffondendo notizie a volte poco attendibili che
non consentono ai fruitori di districarsi tra
migliaia di file qualche volta contraddittori.
Internet, quotidiani, televisioni i maggiori
diffusori di notizie sulle nuove scoperte per
curare le neoplasie versano in una profonda
crisi culturale che confonde chi da profano
accede alle informazioni. L’etica che serpeggia alla base di questo tipo di informazioni
è prevalentemente quella del mercato. Lo
sviluppo esponenziale degli istituti informativi ha fatto inoltre abbassare la soglia
critica dei soggetti autorevoli un tempo
designati istituzionalmente a dare informazioni. La diffusione della scienza attraverso
i media ha danneggiato la qualità dell’informazione. La disinformazione spesso
non consente una buona comunicazione
che nel caso di una patologia quale quella
neoplastica determina spesso allarmismi,
perdita di tempo, ricerche affannose di cure miracolose. La cattiva informazione ha
determinato comportamenti individuali e
di massa che, lungi dall’essere deprecabili perché hanno consentito una maggiore
presa di coscienza e consapevolezza delle
cure, spesso ostacolano il rapporto di fiducia tra pazienti e operatori. Anche il British
Medical Journal ha affrontato nel 2003
125
l’argomento, sostenendo che nei mezzi di
informazione si affrontano i problemi della
medicina presentando le scoperte di nuovi
farmaci. E questo in campo oncologico gioca
un ruolo predominante, data l’attualità e la
diffusione della patologia. La divulgazione
sistematica e priva di regole, non gestisce le
incertezze e le complessità e non si pone il
problema di creare aspettative dannose che
possono mettere in discussione le cure che
oggi vengono usate quotidianamente negli
ospedali. Se da una parte è aumentato il
bisogno della scienza di comunicare con la
stampa, dall’altra è aumentato anche l’interesse delle persone per i temi che riguardano la medicina e i modo particolare per le
malattie che continuano a mietere vittime.
Questo ha indotto i media a disattendere
scrupolosità, neutralità e oggettività.
Complici a volte gli scienziati sempre
più spesso anche imprenditori, che attraverso la divulgazione raggiungono la
notorietà e così operando non alimentano
più bisogni legati alla buona informazione,
alle scelte consapevoli, alla valutazione dei
rischi.
Le notizie clamorose giocano sull’emotività delle persone e non aiutano ad entrare
nel problema. Gli operatori fanno fatica a
comunicare incertezze e complessità della
medicina. Temi come le ultime scoperte per
il cancro sono affrontati dai media senza
la dovuta tutela di chi il cancro lo ha contratto veramente e di chi con grande fatica
dovrà farsene carico: medici, infermieri, familiari e amici. Non c’è, credo, un momento
ben definito in cui la scienza può diventare
notizia ma è necessario incamminarsi verso un’etica dell’informazione.
Conclusioni
Ho tentato di delineare diversi argomenti per indicare come la diffusione di temi
concernenti la salute è spesso inadeguata
e richiede un perfezionamento. La posta in
gioca è notevole e coinvolge tutti i paesi del
mondo. Sia i professionisti della salute che
i professionisti dell’informazione, in quanto
entrambi comunicatori, hanno la responsabilità morale e professionale di sviluppare
il dibattito pubblico su queste questioni così
cogenti per la salute degli individui. Probabilmente il successo sarà legato all’impegno
che tutti prodigheranno nei confronti del
bene pubblico e dalla capacità di tutti i soggetti coinvolti, medici, infermieri, pazienti,
eticisti, nel produrre relazioni cooperative
126
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010
all’interno dei vincoli delle relative professioni/associazioni.
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Corrispondenza e richiesta estratti
Dott. Mitello Lucia
Via Cavizzana, 84
00124 - Roma
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
Recensioni
“LOPEZ ONCOLOGIA MEDICA PRATICA”
La III^ edizione del Manuale “Lopez
Oncologia Medica Pratica” (Società
Editrice Universo, 2010, pagg. 3716,
Euro 280,00), che fa seguito a quelle del
2000 e 2005 e che, accanto a Massimo
Lopez curatore delle precedenti, vede associati tre altri autorevoli Oncologi quali
Nicola Gebbia, Stefano Cascinu e Paolo
Marchetti, nasce sia dall’esigenza di “tener dietro” alla grande mole di informazioni che in questi ultimi anni sono state
acquisite nell’ambito dei percorsi molecolari delle neoplasie sia dall’acquisizione di
tecniche di analisi genetica e molecolare
grazie alle quali è ormai possibile esaminare in tempi ragionevolmente brevi
anche migliaia di geni e proteine che sono
implicati nelle genesi dei tumori.
I quattro Co-Autori sottolineano nella
Prefazione del “Manuale” (che peraltro
sarebbe stato più appropriato definire
“Trattato”), il fatto che il “cancro - lungi
dall’essere una unica unità clinica - risulta costituito da un gran numero di
malattie ognuna delle quali può avere una
peculiare caratterizzazione molecolare”: è
una considerazione che ha portato gli AA.
ad ampliare notevolmente la parte relativa alla Biologia delle neoplasie mantenendo peraltro sostanzialmente immutata la
complessiva impostazione dell’Opera.
Uno dei pregi di questa III^ Edizione
è soprattutto quello di aver selezionato
alcuni aspetti che si delineano maggiormente utilizzabili nella pratica clinica
in quanto più idonei a fornire un reale
contributo a coloro che di fatto operano
sul campo, nelle corsie, e di conseguire in
tal modo una personalizzata impostazione
dei trattamenti terapeutici e, conseguentemente, un miglioramento dei risultai
potenzialmente ottenibili.
Dopo le parti dedicate agli aspetti biologico-molecolari il Manuale si snoda in
altri quindici capitoli all’inizio dei quali
viene proposta una “Sintesi”, avendo gli
AA. ritenuto utile facilitare in tal modo la
chiara, ma rapida visione di quel che di
maggiormente rilevante attiene ai singoli
argomenti trattati.
Di notevole interesse pratico i capitoli
dedicati, nelle ultime parti del Manuale,
all’Informatica in Oncologia, agli Schemi
di chemioterapia ed al Repertorio di farmaci usati in ambito oncologico, nonché la
consistente serie di Appendici di agevole
consultazione e chiaramente di grande
utilità pratica. Il fatto che la trattazione
dei numerosi argomenti si caratterizzi
per essere presentata con criteri didattici
costituisce un valore aggiunto di cui potrà
certamente avvalersi una vasta gamma di
lettori, compresi gli specialisti delle varie
patologie neoplastiche d’organo ed anche
gli studenti nel momento in cui affrontano
lo studio di tali patologie.
Franco Salvati
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010
“PSICOLOGIA CLINICA APPLICATA
ALLE PROFESSIONI SANITARIE”
Il libro “Psicologia clinica applicata
alle professioni sanitarie” (219 pagine),
Edizioni Kappa 2009, euro 17,00), di Raffaella Gorio e Coll., che ho avuto il piacere
e l’onore di leggere in anteprima, illustra
in modo semplice e facilmente comprensibile gli aspetti salienti della psicologia generale clinica e della psicologia applicata
alla professione.
Vengono trattati le origini e gli orientamenti della Psicologia e le più frequenti
e rilevanti problematiche dell’adolescenza
e dell’età adulta (i disturbi del comportamento alimentare, tra cui l’anoressia,
la bulimia e l’alcolismo, i disturbi della
sessualità, i disturbi d’ansia, i disturbi
correlati alle malattie croniche, i disturbi
correlati all’attività lavorativa etc.). Di
particolare interesse sono, soprattutto per
che esercita una professione sanitaria, i
capitoli relativi alla comunicazione, alla
relazione d’aiuto, allo stress professionale
e al burn-out.
La facile comprensione del testo è una
evidente dimostrazione della competenza
e dell’esperienza degli Autori, specialisti
del settore ma soprattutto “esperti sul
campo”, che hanno avuto il merito di esplicitare in forma sintetica ed efficace la loro
pratica quotidiana. Questo testo pertanto
consente di ampliare in modo significativo le conoscenze professionali in ambito
psicologico, di migliorare i comportamenti
e le dinamiche interpersonali e quindi di
svolgere con maggiore consapevolezza e
competenza il proprio ruolo in ambito lavorativo e sociale.
Il libro fa parte della Collana “Psicologia e Ospedale”, nata con l’intento degli
Autori di trasmettere e far condividere i
contenuti esperienziali di una attività prestata in Ospedale “empaticamente “ e “a
fianco” delle persone in un momento particolarmente delicato della loro esistenza:
“la condizione di malattia”.
Giovanni Minardi