Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo
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ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di Redazione ALFONSO ALTIERI, ROBERTO BARTOLUCCI, FRANCESCO BELLI (Redattore capo), GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO DE PAOLIS, GIUSEPPE FAMULARO, PAOLO MATTIA,GIOVANNI MINARDI (Coordinatore), FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, STEFANO PIERI, ELIO QUARANTOTTO, GIUSEPPE RICCI, GIANDOMENICO SEBASTIANI, ALESSANDRO SEVERINO, ELISABETTA TARQUINI Segreteria di Redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato Scientifico-Editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, DONATO ANTONELLIS, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BERTI, FRANCO BIANCO, ELSA BUFFONE, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, PIERGIORGIO CAO, ALBERTO CIANETTI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, FILIPPO DE MARINIS, SALVATORE DI GIULIO, CLAUDIO DONADIO, VITTORIO DONATO, GIUSEPPE MARIA ETTORRE, LAURA GASBARRONE, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, PAOLA GRAMMATICO, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, ANDREA LEVI DELLA VIDA, ANNA LOCASCIULLI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, LAURO MARAZZA, PIERLUIGI MARINI, MASSIMO MARTELLI,ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, BRUNO ANDREA PESUCCI, VINCENZO PETITTI, LUCA PIERELLI, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, GIOVANNI PUGLISI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, GIOVANNI SCHMID, CLAUDIO STAZZI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, MIRELLA TRONCI, MAURIZIO VALENTINI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA Società Editrice Universo R OMA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Diamante Pacchiarini Direttore Amministrativo: Antonino Giliberto Società Editrice Universo R OMA Abbonamenti 2010 Italia: istituzionali € 100,00; privati € 73,00 Estero: istituzionali € 200,00; privati € 146,00 Il prezzo di ogni fascicolo (solo per l'Italia) è di € 20,00, se arretrato € 40,00 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. 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Direttore responsabile: Franco Salvati Iscrizione al registro della Stampa n. 176/98 con ordinanza del Tribunale di Roma in data 6/5/1998 © Copyright Società Editrice Universo s.r.l., Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 dalla TIPOGRAFIA CSR s.r.l. - Via di Pietralata 157, 00158 Roma I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Contenuto EDITORIALE Consorzio per lo Sviluppo di Nanotecnologie (CSN): una iniziativa realizzata dall'Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini in collaborazione con Società private per un nuovo scenario in campo oncologico F. SALVATI 69 Attualità della colonscopia endoscopica C. GIANNELLI 71 Topics on endoscopic colonscopy ARTICOLI ORIGINALI Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale e i parametri del monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa in pazienti affetti da ipertensione aeteriosa essenziale M. C. BRAVI, M. COMPAGNUCCI, L. GASBARRONE Relationship between anthropometric measures of central obesity and ambulatory blood pressure monitoring in hypertensive patients La gestione dei corpi estranei intravascolari S. PIERI, P. AGRESTI, L. DE' MEDICI Management of intravascular foreign bodies CASISTICA CLINICA Impiego degli spigot di Watanabe nel trattamento delle fistole parenchimali periferiche: nostra esperienza C. LOMBARDI, G. LUCANTONI, G. GALLUCCIO Application of Watanabe spigots in the treatment of peripheral parenchymal fistulas: our experience RASSEGNE Sindrome ipermetabolica maligna (Parte I) M. GIACANELLI Malignant hypermetabolic syndrome (I Section) Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio (Parte I) C. TUBILI, M.P. BERALDI, S. DI GIULIO The management of fluid therapy (I Section) Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni C. LAURENTACI, G. LAURENTACI Cancer stem cells of malignant solid tumors Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora "trascurata" A.M. ALTIERI, M. SIGNORA, G. GENCARELLI, F. SALVATI Tobacco and tuberculosis: an association still "ovelooked" GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale B. NOTARGIACOMO Inequalities in National Healt Service Comunicazione e cura: dall'informazione alla controinformazione in Oncologia L. MITELLO Communication and therapy: from information to misinformation in Oncology RECENSIONI "Lopez Oncologia Medica Pratica" F. SALVATI "Psicologia clinica applicata alle professioni sanitiarie" G. MINARDI 74 79 85 89 95 105 112 116 120 127 128 La Rivista è stata selezionata da ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS, COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE, FLUIDEX E WORLD TEXTILES www.scamilloforlanini.rm.it ERRATA CORRIGE Rettifiche sul lavoro pubblicato nel fascicolo 1/2010 Organizzazione e struttura funzionale del Gruppo Operativo Interdisciplinare "Scompenso Cardiaco": la risposta sostenibile di un moderno sistema di cure a un problema emergente di Sanità pubblica 1. il nome corretto del primo autore è G. Pulignano e non G. Puglignano; 2. l'attribuzione istituzionale esatta dell'autore Laura Gasbarrone3 è la seguente: U.O.C. Medicina Interna I, Dipartimento Medicina Interna, Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma; 3. l'attribuzione istituzionale esatta dell'autore Francesco Musumeci4 è la seguente: Divisione di Cardiochirurgia, Dipartimento Cardiochirurgia, Dipartimento Cardiovascolare, Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Editoriale CONSORZIO PER LO SVILUPPO DI NANOTECNOLOGIE (CSN): UNA INIZIATIVA REALIZZATA DALL’AZIENDA OSPEDALIERA S. CAMILLO-FORLANINI IN COLLABORAZIONE CON SOCIETÀ PRIVATE PER UN NUOVO SCENARIO IN CAMPO ONCOLOGICO FRANCO SALVATI* Il trend innovativo che nella seconda metà del ‘900 ha caratterizzato in Oncologia l’evoluzione sia in ambito diagnostico sia terapeutico ha subito in questi ultimi anni una rilevante accentuazione grazie ad emergenti tipologie di studio e tra queste (genomica, proteomica, metabolomica,micro-array, etc.) va suscitando sempre maggiore interesse la Nanotecnologia, branca che si riferisce a particelle molecolari di dimensioni ultrapiccole, comprese tra 1 e 100 nanometri. Queste nanoparticelle hanno comunque una superficie sufficientemente ampia e quindi in grado di legare, assorbire e trasportare composti vari: nella Nanomedicina oncologica vengono sempre più frequentemente impiegate per accrescere le potenzialità attuali sia in fase diagnostica (soprattutto in termini di precocità e tempestività) sia in fase terapeutica in quanto sono in grado di migliorare la biodistribuzione degli agenti antineoplastici e di consentire anche un più puntuale monitoraggio della malattia in trattamento. La problematica inerente la diagnosi precoce – o comunque tempestivamente utile – è di rilevante importanza in campo oncologico sia per quanto riguarda i tumori solidi che le neoplasie emolinfoproliferative poiché nella maggior parte dei casi quanto prima si aggredisce la malattia nella fase di “early cancer” tanto maggiore è la probabilità di un successo terapeutico valutabile nelle sue varie forme: eradicazione della malattia, risposta completa, prolungamento del time to progression, sopravvivenza globale. Sotto questo profilo il contributo della Nanotecnologia sta assumendo crescente rilievo in quanto consente tra l’altro di fornire rapidamente e chiaramente elementi sulla instabilità del genoma e di individuare specifiche mutazioni, il che molto frequentemente conduce ad una anticipazione diagnostica e di conseguenza ad una sostanziale precocità nell’avviare con maggiore tempestività il trattamento terapeutico più indicato e possibilmente personalizzato in rapporto alle peculiari caratteristiche biomolecolari rilevate. In particolare per quanto concerne la diagnosi precoce delle lesioni nodulari di assai piccole dimensioni la nanotecnologia * Direttore della Rivista “Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini” 70 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 fornisce la possibilità di accrescere il potere di risoluzione delle tecniche di imaging con l’impiego di radionuclidi gamma-emittenti, determinando anche una maggiore accuratezza dell’interpretazione diagnostica e fornendo spesso elementi di specificità. Si delinea in tal modo l’importanza di poter disporre e di gestire al meglio sistemi diagnostici quali la Tomografia Computerizzata, la Risonanza Magnetica Nucleare e la PET. È da sottolineare quindi l’importanza – a monte di questo aspetto – di una sempre più perfezionata messa a punto di sistemi di microfluidica per la sintesi di nuovi radiofarmaci. Altrettanto essenziale è il ruolo che in Oncologia la Nanotecnologia ha assunto nell’ambito terapeutico: infatti l’impiego di nanoparticelle tende, in sostanza, ad interferire - migliorandola – sulla biodistribuzione degli agenti antineoplastici citotossici che di conseguenza si concentreranno più agevolmente nella massa tumorale mentre, in parallelo, gli effetti tossici collaterali provocati dai farmaci stessi tenderanno a ridursi significativamente. Cio’ si realizza ricorrendo a sistemi vari tra i quali quelli attualmente più in uso sono imperniati sul concetto del c.d. “drug targeting” sia attivo che passivo. Una delle applicazioni pratiche del target attivo chiama in causa la radioimmunoterapia con impiego di nanoparticelle rappresentate da anticorpi monoclonali che trasportano radiazioni ionizzanti, generalmente radionuclidi beta-emittenti. Tra gli altri settori di applicazione è da menzionare, ad esempio, un sistema associato alla chirurgia che consente di impiantare polimeri biodegradabili (quali la polianidride gliadel contenente il chemioterapico BC-nitrosourea) in zone di glioblastoma non completamente asportabili chirurgicamente. Gli incoraggianti e promettenti progressi che con l’impiego delle nanotecnologie sono stati sin qui registrati sotto il profilo diagnostico, terapeutico e conseguentemente prognostico nell’ambito di molteplici patologie oncologiche (tumori mammari, broncopolmonari, colo-rettali, ovarici) anche in fase avanzata e/o pluritrattate inducono ragionevolmente a prospettare che le aree di sviluppo della Medicina nanotecnologica siano sempre più numerose: tutto ciò presuppone imprescindibilmente un adeguato sviluppo e una sempre più stretta collaborazione tra il mondo della Ricerca (sia quella di base che quella clinica applicata) ed il comparto industriale. Questo soprattutto allo scopo di realizzare qualificati ed attrezzati Laboratori nanotecnologici in cui si proceda alla progettazione di sempre più perfezionati sistemi che consentano di installare anche in seno a Complessi ospedalieri ad alta specializzazione (sviluppando - anche in via sperimentale - tecniche innovative di imaging nell’ambito della medicina nucleare) sistemi diagnostici in particolare PET/TC e RMN e sistemi,come prima auspicato, che rendano sempre più agevole la microfluidica finalizzata alla sintesi di radiofarmaci anche di nuova generazione in modo da realizzare il superamento di difficoltà attuali quali, ad esempio quelle relative alla preparazione – in forma chimica appropriata - di radionuclidi che emettono radiazioni alfa. L’avvenuta costituzione di un Consorzio che sancisce la collaborazione operativa tra Settore pubblico e Settore privato, e precisamente tra Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini e le Società A.C.O.M. Advances Center Oncology S.p.A e QMedical Italia S.r.l., costituisce il primo esempio in Italia di come sia concretamente possibile promuovere iniziative che abbiano l’obiettivo di contribuire, sulla base dell’esperienza condotta all’interno di un progetto multidisciplinare, al progressivo miglioramento dell’assistenza – globalmente intesa - a malati portatori di patologie oncologiche nel contesto di programmi che si prefiggono anche di promuovere e curare la selezione, la formazione, la qualificazione, la riqualificazione e la specializzazione delle risorse umane utili al raggiungimento degli scopi sociali che caratterizzano, anch’essi, le finalità perseguite. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 ATTUALITÀ DELLA COLONSCOPIA ENDOSCOPICA TOPICS ON ENDOSCOPIC COLONSCOPY CLAUDIO GIANNELLI U.O.C. Gastroenterologia Riabilitativa Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Colonscopia. Endoscopia Key words: Colonscopy. Endoscopy La colonscopia endoscopica compie quest’anno i suoi 40 anni di vita. Risale infatti al 1969 la prima esperienza di Overholt con un colonscopio Olympus di circa 90 cm, seguita un anno dopo dall’esperienza di Wolff e Shinya, in 241 pazienti, con il primo colonscopio fornito di 4 tiranti di angolazione. Solo un anno dopo gli stessi autori introdussero la tecnica della polipectomia con ansa metallica che riscosse un tale successo da portarli a pubblicare nel 1973 una casistica di 1600 polipectomie senza complicanze maggiori. Da allora abbiamo assistito, ed in ciò posso dare una testimonianza personale essendomi avvicinato a questa specialità nel 1974, ad un sempre maggiore affinamento tecnologico nelle caratteristiche strutturali degli apparecchi e negli accessori ad essi dedicati. Si è potuto così passare dalle anguste immagini della fibroendoscopia a quelle da schermo televisivo della video endoscopia mediante l’uso di CCD, in cui le fibre ottiche servono ormai solamente a portare la luce. Nel campo degli accessori si è avuto lo sviluppo di anse per polipectomia di varia tipologia rispondenti alle necessità emergenti, lacci per emostasi preventiva,aghi per sclerosi di lesioni sanguinanti o per marcare le lesioni per facilitarne il riscontro, palloncini per dilatazioni delle stenosi postchirurgiche o cicatriziali,clips metalliche per emostasi ed infine protesi auto espandibili per il trattamento delle stenosi neoplastiche e postchirurgiche. Tutto ciò ha portato ad uno sviluppo dell a tecnica colonscopica rendendo sempre più possibili terapie endoscopiche in lesioni e situazioni fino ad allora di esclusiva pertinenza chirurgica. Si sono potute infatti trattare le lesioni polipoidi anche di grossa taglia attraverso misure profilattiche (infiltrazioni, lacci) o curative (clips) riducendone in modo drastico la complicanza emorragica. L’avvento dei cappucci trasparenti e delle infiltrazioni ha inoltre permesso di aggredire lesione polipoidi sessili o piatte che rimanevano uno dei maggiori problemi terapeutici del colon. Peraltro negli ultimi 15 anni l’industria ha potuto fornire attraverso sofisticate soluzioni tecnologiche,immagini di sempre maggiore perfezione e definizione. Sono nati così gli strumenti con amplificazione di immagine che con l’ausilio di coloranti (blu di metilene,indaco carminio) 72 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 hanno permesso di applicare una magnificazione d’immagine tale da esplorare quasi in senso microscopico la superficie mucosa. Ciò ha permesso di identificare lesioni displastiche allo stadio più iniziale. Situazione questa particolarmente utile soprattutto in quelle patologie croniche in cui la complicanza neoplastica rappresenta uno dei maggiori problemi nel followup: colite ulcerosa e malattia di Crohn. Inoltre lo sviluppo della tecnica NBI (narrow band imaging) basata sull’uso di una banda di luce particolare, ha permesso di definire l’architettura vascolare della mucosa con evidente vantaggio nell’identificazione precoce delle patologie. Per ultimo l’avvento della tecnica confocale laser basata sull’uso combinato di una sorgente laser con una sostanza fluorescente iniettata al paziente si è arrivati ad un potere di amplificazione dell’immagine tale da giungere ad immagini di tipo microscopico che permettono di definire la normalità o meno di singoli gruppi cellulari. Ciò ha potenziato notevolmente la possibilità di identificazione precoce di singoli foci neoplastici. Contemporaneamente a questo tumultuoso progredire tecnologico la tecnica della colonscopia endoscopica ha dovuto affrontare un processo di redefinizione dei suoi standard qualititativi di esecuzione attraverso un percorso di miglioramento dell’appropriatezza e della competenza con cui tale indagine viene fornita per il miglioramento degli esiti clinici. Tale esigenza è nata soprattutto in conseguenza dell’acquisizione della possibilità di poter incidere in modo significativo nella prognosi del cancro del colon retto attraverso la sua identificazione nelle sue fasi più precoci. Questa neoplasia tipica delle età fra i 50 ed i 70 anni ha una incidenza (standardizzata per età), in Europa, pari a 35-55 per 100.000 rispettivamente nel sesso femminile e maschile. La sua mortalità è fortemente influenzata dallo stadio in cui viene diagnosticata. La percentuale di sopravvivenza a 5 anni passa dal 95% nei tumori identificati precocente a meno del 50% in quelli diagnosticati a lesione evoluta. Ciò ha posto la necessità di programmi di screening che permettessero di identificare nel modo più precoce la presenza della neoplasia. Inoltre l’esperienza pilota dei gruppi americani e nordeuropei sulla possibilità di interrompere, attraverso la polipectomia, l’espressione della sequenza adenoma-cancro, ci ha dato l’arma per impedire l’insorgenza stessa della lesione adenocarcinomatosa. Tutto ciò presuppone che la colonscopia debba essere eseguita nelle migliori condizioni possibili (tecniche, di preparazione e di esecuzione) per rispettare quel ruolo di gold standard che le è stato conferito nell’identificazione di polipi e carcinomi. Si è quindi sentita la necessità, ai fini di migliorare quanto possibile la prestazione,di istituire degli indicatori di qualità che possono essere di struttura (numero di esami/anno,sale e dotazione per sedazione), di procedura (appropriatezza e numero esami eseguiti in sedazione) e di esito (percentuale di raggiungimento del cieco, numero di polipi rilevati, complicanze). Per questo motivo diverse società scientifiche estere e l’AIGO (Associazione Italiana Gastroenterologi Ospedalieri) nel 2004 hanno promosso studi prospettici per valutare la qualità delle prestazioni colonscopiche e per migliorarne la “performance”. In quello dell’AIGO condotto su 12.835 colonscopie eseguite presso 278 centri italiani ( con la partecipazione anche del Reparto da me diretto) sono emerse alcune criticità: la percentuale di raggiungimento del cieco pari all’83%, anche se in linea con le medie europee è apparsa ancora lontana da quanto ottenibile secondo le associazioni Scientifiche (+/- 95%). La preparazione è risultata inefficace quasi nel 20% dei pazienti ed il ricorso alla sedazione si è registrato solo nel 50% dei casi (nel mondo anglosassone rappresenta lo “standard practice”) contribuendo con un intolleranza dei pazienti del 10% ad abbassare la percentuale di raggiungimento del, cieco e della rilevazione di polipi. L’analisi sulle cause di queste criticità ed il conseguente programma di correzione delle procedure identificate come non efficienti ha portato negli ultimi 4 anni ad un ulteriore evidente miglioramento degli esiti con percentuali di raggiungimento del cieco che si aggirano attorno al 90-92%. Sulla base di questi standard la colonscopia permette C. Giannelli.: Attualità della colonscopia endoscopica di rilevare il 90% dei polipi di dimensioni superiori ad un centimetro ed di avere una sensibilità nei confronti del cancro colo rettale del 90%*. Diversi studi di costo-efficacia stimano che una colonscopia ogni 10 anni a partire dai 50 anni può prevenire, attraverso l’asportazione delle lesioni polipoidi, circa il 75% dei cancri colorettali e ridurre la mortalità, attraverso la precocità della diagnosi, del 64%*. Anche nella sorveglianza dopo polipectomia e dopo resezione curativa per cancro colo rettale, la colonscopia rappresenta a tutt’oggi il gold standard permettendo l’eliminazione di eventuali polipi non diagnosticati al primo esame (sincroni “missed”) e di eventuali polipi o cancri metacroni al primo intervento. La tempistica di tale sorveglianza è articolata sulle caratteristiche di grandezza,morfologia e numero dei polipi rimossi con cadenze variabili fra l’uno (alto rischio) ed i tre anni (basso rischio). L’ultimo elemento da valutare,trattandosi di procedura invasiva, è rappresentato dall’incidenza delle complicanze nella diagnostica e nella terapeutica. Il principale evento avverso nella diagnostica è rappresentato dalla perforazione, più fre- * Arditi C. The EPAGE II Study Group Appropriateness of colonoscopy in Europe (EPAGE II) Screening for colorectal Cancer. Endoscopy 2009; 41: 200-8 73 quentemente associata alla presenza di diverticoli o di angolatura aderenziale. La sua incidenza risulta con dati ampiamente oscillanti attorno all’uno su 10.000. Nel caso dell’operativa l’evento più frequente è rappresentato dall’emorragia postpolipectomia la cui incidenza varia fra lo 0,07 ed il 6%, fortemente influenzata dalle caratteristiche morfologiche del polipo e dall’assetto coagulativo eventualmente alterato per patologie o terapie antitrombotiche in atto. In definitiva l’indagine colonscopica si va evolvendo,anche sotto la spinta diagnostica concorrenziale della colonscopia virtuale e della video capsula verso una diagnostica di secondo livello dedicata a situazioni particolari (lesioni displastiche precoci) che necessitano di una definizione morfologica ed istologica di livello avanzato ed ad un potenziamento delle sue capacità operative: polipectomie di lesioni piatte,mucosectomie di aree displastiche ed infine trattamento delle stenosi, mediante protesi auto espandibili,anche nelle situazioni di emergenza evitando così stomie esterne altamente invalidanti il paziente. Corrispondenza e richiesta estratti: Dr.Claudio Giannelli V. Giuseppe Belluzzo 27 - 00149 Roma E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Articoli originali RELAZIONE TRA LE MISURE ANTROPOMETRICHE NELLA OBESITÀ CENTRALE E I PARAMETRI DEL MONITORAGGIO AMBULATORIALE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA IN PAZIENTI AFFETTI DA IPERTENSIONE ARTERIOSA ESSENZIALE RELATIONSHIP BETWEEN ANTHROPOMETRIC MEASURES OF CENTRAL OBESITY AND AMBULATORY BLOOD PRESSURE MONITORING IN HYPERTENSIVE PATIENTS MARIA CRISTINA BRAVI, MARIO COMPAGNUCCI, LAURA GASBARRONE U.O.C. Medicina Interna 1, Dipartimento di Medicina Interna, Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Ipertensione arteriosa. Obesità centrale. Monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa Key words: Hypertension. Central obesity. Ambulatory blood pressure monitoring Riassunto – Introduzione. Studi prospettici hanno mostrato che l’accumulo di grasso addominale rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di diabete mellito, malattia coronarica, stroke e ipertensione arteriosa. Mentre la WHO indica il Body Mass Index (BMI) per valutare l’obesità, la circonferenza addome (WC) e il rapporto tra quest’ultima e l’altezza (WHtR) sono stati proposti come migliori predittori di grasso intraaddominale e di rischio cardiovascolare. Molti studi hanno dimostrato la relazione tra ipertensione ed obesità, ma mentre i livelli di pressione arteriosa (PA) rilevati durante l’esame clinico correlano strettamente con il BMI e il rapporto vita/fianchi, poco nota è l’associazione tra le misure antropometriche e i parametri pressori derivanti dal monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa (ABPM). Obiettivo. Valutare l’associazione tra BMI, WC e WHtR e l’ipertensione arteriosa valutata attraverso ABPM. Metodi. 220 soggetti (115 maschi e 105 femmine) che afferivano al Centro per l’ipertensione arteriosa, non in terapia antipertensiva con età media di 54,60 ± 12,89 anni, con BMI (kg/m2) di 26,16 ± 3,72, WC (cm) di 94,81 ± 10,83 e WHtR (cm/cm) di 0,563 ± 0,06 sono stati inseriti nello studio. La presenza di obesità centrale è stata valutata in accordo ai criteri NCEP-ATPIII (WC > 102 cm nei maschi e > 88 cm nelle femmine). L’analisi statistica è stata effettuata con il programma SPSS 13.0. Risultati. Nel gruppo degli ipertesi si sono osservati valori maggiori di BMI, di WC e di WHtR rispetto al gruppo dei normotesi. In pazienti con obesità centrale (n = 87) abbiamo trovato elevati valori di pressione arteriosa sistolica (PAS) e di pressione arteriosa diastolica (PAD) delle 24 h e di pressione pulsatoria delle 24 h (PP). Inoltre abbiamo riscontrato una diretta correlazione tra WC e la media della PAS delle 24 h in tutti i soggetti. Conclusioni. I nostri dati mostrano una associazione tra ipertensione arteriosa, valutata con ABPM, e le misure antropometriche BMI, WC e WHtR soprattutto in pazienti con obesità centrale. La relazione tra WC e la media della PAS delle 24 ore suggerisce che la semplice misurazione della distribuzione del grasso come la WC potrebbe predire lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa nella popolazione generale. Abstract – Introduction. Prospective epidemiological studies have shown increased abdominal fat accumulation to be an independent risk factor for diabetes, coronary artery disease, stroke and hypertension. Whereas the WHO indicates body mass index (BMI) to evaluate obesity, waist circumference (WC) and waist Lavoro presentato come Poster al 19TH European Meeting on Hypertension – Milano 12-16 giugno 2009 M. C. Bravi et al.: Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale 75 to height ratio (WHtR) have been proposed as a better predictors of intraabdominal fat and cardiovascular risk. Many studies have shown the relationship between hypertension and obesity but whereas office blood pressure closely correlates with BMI and waist-to-hip ratio, a few data are present regard to the association between ambulatory blood pressure monitoring (ABPM) and anthropometric measures. Objective. In this study we aimed to compare the association of the BMI, WC and WHtR with hypertension evaluated by ABPM. Methods. We studied 220 (115 male; 105 female) outpatients attending to our Internal Medicine Division, antihypertensive therapy free, with a mean age of 54.60 ± 12.89 years, BMI (kg/m2) 26.16 ± 3.72, WC (cm) 94.81 ± 10.83 cm and WHtR (cm/cm) 0.563 ± 0.06. The occurrence of central obesity was evaluated according to NCEP-ATP III criteria (WC > 102 cm in men and > 88 cm in women). Statistical analysis was performed using SPSS 13.0. Results. In hypertensive group we observed a greater BMI, WC and WHtR when compared with the normotensive group (Tab 1). In patients with central obesity (n = 87) we found elevated 24-hour systolic blood pressure (SBP) mean and 24-hour diastolic blood pressure (DBP) mean and 24-hour pulse pressure (PP). Furthermore, we found a direct correlation between WC and 24-hour SBP mean in all subjects. Conclusions. Our data show an association between hypertension evaluated by ABPM and anthropometric measures BMI, WC and WHtR, overall present in patients with central obesity. Furthermore, the relationship between WC and 24-hour SBP mean suggests that a simple measure of fat distribution as the WC could represent a good predictor of hypertension in a general population. Introduzione L’obesità rappresenta un importante fattore di rischio per le malattie “cardiometaboliche” che comprendono il diabete, la dislipidemia, la malattia coronarica e l’ipertensione arteriosa. Numerose organizzazioni internazionali tra le quali la World Health Organization (WHO) indicano, per la valutazione del peso corporeo, la misurazione del Body Mass Index (BMI) o indice di massa corporea. Studi epidemiologici hanno mostrato come un elevato BMI comporti un aumentato rischio di complicanze mediche e un aumento della mortalità totale1-4. In ambedue i sessi si è dimostrato che un BMI uguale o superiore a 30 individua i soggetti obesi e quelli a maggiore rischio di malattia cardiovascolare rispetto ai soggetti in eccesso ponderale (BMI compreso tra 25 e 29,9) o magri (BMI compreso tra 18,5 e 24,9). Molto importante appare anche la distribuzione del grasso corporeo quale fattore di rischio per le malattie cardiovascolari. L’eccessiva localizzazione del grasso nella regione addominale, definita anche obesità centrale, è associata ad un aumentato rischio di malattia cardiometabolica. La semplice misurazione della circonferenza addominale o waist circumference (WC) rappresenta un marker di localizzazione della massa grassa addominale essendo correlata al grasso sottocutaneo e a quello intra-addominale. Tra i vari indici di misurazioni antropometriche anche il rapporto tra la WC e l’altezza del soggetto (Waist to height ratio - WHtR) è stato proposto come il miglior predittore di rischio cardiovascolare5. La WC poi identifica meglio i pazienti con accumulo di grasso intra-addominale, il quale sappiamo essere responsabile della sindrome metabolica che si caratterizza per la presenza, tra le altre patologie, di ipertensione arteriosa e di obesità. Molti studi hanno mostrato la relazione tra ipertensione arteriosa e obesità, ma mentre i valori di pressione arteriosa (PA) rilevati durante l’esame clinico correlano strettamente con il BMI, sono presenti pochi dati circa l’associazione tra le altre misure antropometriche e i parametri pressori derivanti dal monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa (Ambulatory Blood Pressure Monitoring - ABPM). Per tale motivo abbiamo studiato l’associazione tra BMI, WC e WHtR e l’ipertensione arteriosa valutata attraverso ABPM in una popolazione di soggetti afferenti al nostro Centro per l’ipertensione nei primi quattro mesi del 2009. Metodi Abbiamo studiato 220 soggetti (115 maschi e 105 femmine) che afferivano al nostro centro per lo studio dell’iper- 76 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 tensione arteriosa. I soggetti non assumevano terapia antipertensiva, avevano una età media di 54,60 ± 12,89 anni, con BMI (kg/m2) di 26,16 ± 3,72, WC (cm) di 94,81 ± 10,83 e WHtR (cm/cm) di 0,563 ± 0,06. La presenza di obesità centrale è stata valutata in accordo con i criteri NCEP-ATPIII (WC > 102 cm nei maschi e > 88 cm nelle femmine)6. Le misurazioni antropometriche sono state effettuate in accordo alle procedure standard. Il BMI è stato calcolato usando la formula: peso (Kg)/altezza (m2). La WC è stata misurata mediante l’utilizzo di un metro flessibile. La PA delle 24 h è stata rilevata durante un normale giorno lavorativo con ABPM mediante l’utilizzo dello strumento A&D TM 2430 effettuando le misurazioni al braccio sinistro ogni 15 minuti di giorno (h 07.00-22.00) e ogni 60 minuti di notte (h 22.00-07.00). Sono stati considerati ipertesi i soggetti con media della PA delle 24 h superiore a 130/80. Erano esclusi dallo studio soggetti che svolgevano lavoro notturno, pazienti affetti da patologie cardiovascolari, renali, neoplastiche o diabete mellito tipo 1 e tipo 2. L’analisi statistica è stata effettuata tramite il programma di statistica SPSS. Le differenze erano considerate statisticamente significative per una P < 0,05. Risultati Nel gruppo degli ipertesi abbiamo osservato un maggiore BMI (27,48 ± 3,74 vs 24,21 ± 2,70, p < 0,001), WC (99,36 ± 9,70 cm vs 88,11 ± 8,74, p < 0,00001) e WHtR (0,587 ± 0,056 vs 0,529 ± 0,049, p < 0.00001) rispetto al gruppo dei normotesi (Tab. 1). In pazienti con obesità centrale (n = 87) abbiamo trovato elevati valori di PA sistolica (PAS) delle 24 h (142 ± 12,93 vs 130,56 ± 12 mmHg, p < 0.0001), PA diastolica (PAD) delle 24 h (83,76 ± 8,71 vs 79,56 ± 7,57 mmHg, p < 0,001) e di pressione pulsatoria (PP) delle 24 h (58,23 ± 11,36 vs 50,96 ± 9,20 mmHg, p < 0,0001). Inoltre abbiamo riscontrato una diretta correlazione tra WC e media della PAS delle 24 h (p < 0,0001) in tutti i soggetti (Fig. 1). Tabella 1 - Differenze tra soggetti normotesi e ipertesi Ipertesi (n = 131) Normotesi (n = 89) P-value Età (anni) 54,73± 13,40 54,40 ± 12,18 ns Altezza (cm) 169,24 ± 8,2 165,83 ± 8,83 < 0,005 WHtR (cm/cm) 0,587± 0,056 0,529 ± 0,049 < 0,0001 BMI (Kg/m2 ) 27,48 ± 3,74 24,21 ± 2,70 < 0,001 WC (cm) 99,36 ± 9,70 88,11 ± 8,74 < 0,0001 143,70 ± 9,40 122,41 ± 7,39 < 0,0001 84,88 ± 8,06 75,80 ± 5,07 < 0,0001 104,16 ± 7,01 91,03 ± 5,19 < 0,0001 58,78 ± 10,29 46,56 ± 6,20 < 0,0001 Media PAS 24h (mmHg) Media PAD 24h (mmHg) Media 24h (mmHg) Media PP 24h Fig. 1 - Correlazione tra WC e PAS media delle 24 h in tutti i soggetti Discussione Il progressivo incremento della prevalenza di obesità osservata nella popolazione mondiale consente di considerare tale patologia come una epidemia. La sua presenza si associa ad una riduzione della aspettativa di vita di circa 6-7 anni, in rapporto alla maggiore evidenza di malattie cardiovascolari nei pazienti obesi. L’ipertensione arteriosa è circa sei volte più frequente negli obesi rispetto ai soggetti magri, ed è stato calcolato che all’aumento di circa 10 Kg di peso corporeo corrisponde un incremento del 24% di occorrenza di ictus cerebrale e del 12% di coronaropatia7, 8. M. C. Bravi et al.: Relazione tra le misure antropometriche nella obesità centrale I nostri dati hanno evidenziato che i pazienti con valori di PAS delle 24 h superiore a 130/80 hanno gli indici antropometrici più elevati rispetto alla popolazione dei soggetti normotesi. È interessante notare che tutte e tre le misurazione antropometriche effettuate (BMI, WC e WHtR) mostrano una evidente differenza statistica, ma il BMI è quello meno significativo. Riguardo alla WC si è evidenziata anche una relazione diretta tra quest’ultima e la PAS media delle 24 h in tutti i soggetti studiati, suggerendo uno stretto legame tra localizzazione addominale del grasso corporeo e i livelli di PA. Che sia la localizzazione del grasso viscerale e non l’obesità complessiva a rappresentare il più importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari viene anche riportato dallo studio INTERHEART, uno studio caso-controllo che ha esaminato 27.000 pazienti provenienti da circa 50 nazioni e che ha mostrato una debole relazione tra BMI e infarto del miocardio, mentre la WC e il rapporto vita-fianchi (WHR) sono risultati fattori di rischio altamente significativi per la cardiopatia ischemica9. La PP è apparsa più elevata nel gruppo dei soggetti con obesità centrale, consentendo quindi di considerare tali pazienti a maggior rischio cardiovascolare visto il legame esistente tra PP ed eventi fatali e non fatali10, 11. In conclusione questo studio evidenzia la relazione tra BMI, WC e WHtR e i parametri derivanti da ABPM sia in pazienti ipertesi che in soggetti normotesi. La semplice misurazione della distribuzione del grasso corporeo come la WC potrebbe aiutare a predire lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa nella popolazione generale. Bibliografia 1. Larsson B, Svardsudd K, Welin L, et al. Abdominal adipose tissue distribution, obesity, and risk of cardiovascular disease and death: 13 year follow up of participants in the study of men born in 1913. Br Med J 1984; 288: 1401-4 2. Lapidus L, Bengtsson C, Larsson B, et al. Distribution of adipose tissue and risk of cardiovascular disease and death: a 12 year follow up of 77 participants in the population study of women in Gothenburg, Sweden. Br Med J 1984; 289: 1257-61 3. Ducimetiere P, Richard J, Cambien F. The pattern of subcutaneous fat distribution in middleaged men and the risk of coronary heart disease: the Paris Prospective Study. Int J Obes 1986; 10: 229-40 4. Carr MC, Brunzell JD. Abdominal obesity and dyslipidemia in the metabolic syndrome: importance of type 2 diabetes and familial combined hyperlipidemia in coronary artery disease risk. J Clin Endocrinol Metab 2004; 89: 2601-7 5. Schneider HJ, Glaesmer H, Klotsche J, et al. For the DETECT Study Group Accuracy of anthropometric indicators of obesity to predict Cardiovascular risk. J Clin Endocrinol Metab 2007; 92: 594-8 6. Third Report of the National Cholesterol Education Program (NCEP) Expert Panel on Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults (Adult Treatment Panel III) final report. Circulation 2002; 106: 3143 7. National Heart, Lung and Blood Institute, National Institutes of Health. Clinical Guidelines on the identification, Evaluation and Treatment of Overweight and Obesity in Adults: The Evidence Report. Bethesda, Md: National Institutes of Health, 1998 8. Poirier P, Giles TD, Bray G, et al. 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Cristina Bravi, Medicina Interna I Ospedale San Camillo, Forlanini, Roma E-mail:[email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 LA GESTIONE DEI CORPI ESTRANEI INTRAVASCOLARI MANAGEMENT OF INTRAVASCULAR FOREIGN BODIES STEFANO PIERI, PAOLO AGRESTI, DE’ MEDICI LORENZO Radiologia Vascolare ed Interventistica Azienda Ospedale S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Corpi estranei. Intravascolari. Recupero percutaneo Key words: Foreign body. Intravascular. Percutaneous retrieval Riassunto – Introduzione. Con il ricorso sempre più frequente ai trattamenti interventistici in un ventaglio sempre crescente di patologie, sono aumentate esponenzialmente le complicazioni legate all’impiego dei vari presidi, per cui sempre più spesso si deve ricorrere al recupero dei corpi estranei nel territorio vascolare. Obiettivo del lavoro è riportare l’esperienza accumulata nella gestione dei corpi estranei intravascolari, utilizzando i vari presidi che l’incessante sviluppo tecnologico mette a disposizione del radiologo interventista. Materiali e metodi. Nel periodo 1999-2006, 13 pazienti sono stati sottoposti a recupero di corpi estranei intravascolari. In 10 casi si è trattato di recuperare frammenti di cateteri venosi centrali dislocati in varie parti della circolazione venosa e negli ultimi 3 si è trattato di frammenti di fili guida. L’accesso utilizzato è stato sempre il femorale, i presidi utilizzati diversi. Risultati. Nei frammenti di cateteri venosi centrali il recupero è stato ottenuto nel 100% dei casi, impiegando il catetere pig-tail angolato come primo presidio per spostare il frammento dal territorio polmonare e il catetere a cappio per recuperalo ed estrarlo. Il recupero dei frammenti di fili guida è avvenuto in 2 casi, con l’ausilio di un catetere angiografico prima e di un miotomo poi. Nel 3° paziente non è stato possibile effettuare il recupero per la probabile incarcerazione del filo guida all’interno della parete della vena cava inferiore ad opera del naturale processo di riepitelizzazione. Non si sono registrate complicazioni. Conclusioni. La gestione percutanea dei corpi estranei intravascolari, attraverso il loro recupero, si è dimostrata una opzione terapeutica valida, sicura e precisa nel trattare queste evenienze cliniche in costante aumento d’incidenza, senza dover ricorrere alla soluzione più invasiva, rappresentata dalla chirurgia. Abstract – Introduction. The utilization of interventional procedures in an increasing numbers of pathological conditions has brought on the frequency linked with the use of medical aids, and more frequently is indispensable the percutaneous retrieval of foreign body in the vascular bed. The objective of this article is to report our experience based on the utilization of new medical aids that the technology offers to the interventional radiologist. Materials and methods. Between 1999 to 2006, 13 patients were referred to our unit for percutaneous retrieval of foreign body. In 10 were retrieved fragments of central vascular catheters, disloged in different segments of venous circulation; in the last 3 patients guide wire fragments were attempted to retrieve. Results. The retrieval of central venous catheters fragments was done in the 100% of cases, using angled pigtail as first medical aid to remove the fragment from pulmonary bed and a goose neck catheter for definitive retrieval and extraction. 79 S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari Guide wire fragment’s retrieval was done in 2 patients with angiographic catheter first and a forceps after. In the last one was impossible to retrieve the guide wire for its incarceration in the vena cava wall, after the natural epithelization process. Discussion. Percutaneous management of vascular foreign body is a safe and valid therapeutic option, extremaly precise in the therapy of that clinical conditions, without the invasiveness of surgical intervention. Introduzione Materiali e metodi Il rapido sviluppo tecnologico e la vasta applicazione delle procedure percutanee, sia in territorio arterioso che venoso, ha comportato un aumento delle complicanze specifiche correlate alla metodica, causate dalla presenza di corpi estranei intravascolari1. Se in passato prevalevano i frammenti di cateteri angiografici e di guide, oggi, il ventaglio dei corpi estranei si è allargato, arrivando a comprendere le spirali, i frammenti degli stent e dei cateteri per infusione prolungata2,3. Sin dalla sua prima descrizione, effettuata trent’anni fa4, il recupero percutaneo dei corpi estranei intravascolari si è dimostrata un’opzione terapeutica efficace, diventando progressivamente la soluzione di riferimento, sempre più utilizzata, in tutte quelle situazioni di emergenza, in grado di evitare i devastanti interventi chirurgici e le possibili conseguenze ad essi correlati5,6. Numerosi sono stati i presidi descritti e utilizzati per effettuare il recupero dei corpi estranei: cappi artigianali, pinze, cestelli, guide ricurve in punta5-7. Con l’introduzione del microcatetere a cappio in nitinol è stato superato lo svantaggio rappresentato dal cappio artigianale, costruito con un piccolo filo guida inserito all’interno di un catetere angiografico8. Numerose sono tuttavia le situazioni cliniche che si possono presentare, per cui la conoscenza delle varie opportunità tecniche consente al radiologo interventista di affrontare con successo questa evenienza tanto temuta. Sulla base di una discreta casistica, scopo dell’articolo è quello di riportare l’esperienza accumulata nella gestione dei corpi estranei intravascolari. Nel periodo compreso tra maggio 1999maggio 2005 sono giunti alla nostra osservazione 13 pazienti per essere sottoposti ad una procedura di recupero di corpo estraneo intravascolare. In 10 casi erano uomini e in 3 donne, con età media di 56 anni (range 16-74). Le indicazioni al recupero hanno riguardato la presenza di frammenti di cateteri venosi centrali o di port, dislocatisi in varie parti della circolazione venosa, con lunghezza tra 6 e 25 cm (10 casi), la perdita di frammenti di guida (3 casi). Il loro riconoscimento è avvenuto a distanza dall’effettuazione della procedura, ma sono stati inviati in regime di urgenza per effettuare il tentativo di recupero percutaneo dei corpi estranei. Dopo aver ottenuto il consenso informato, in anestesia locale, e il posizionamento di un introduttore con valvola (9-10 Fr, lungo 11 cm – Terumo, Terumo International, Tokyo, Giappone) sempre a livello femorale, dopo una preventiva radiografia diretta del torace, per localizzare la struttura da recuperare, nel caso di frammenti di fili guida, il primo presidio utilizzato è stato un catetere angiografico pig-tail [6 Fr, angolato di 145°, lungo 100 cm.- Cordis Europe, Olanda] (Fig. 1). Con la parte rigida della guida idrofilica inserita al suo interno fino a 3 cm dal ricciolo e con opportune manovre di rotazione, questi ci ha facilmente permesso di avvolgere il frammento, consentendone poi lo spostamento al di fuori dell’arteria polmonare o delle camere cardiache. A livello della vena cava inferiore la scelta del recupero si è orientata verso un catetere a pinza o miotomo [Biopal 7, Cordis Europe, Roden, Olanda], visto il minimo ingombro offerto dal frammento di guida al recupero. 80 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 Fig. 1 a Fig. 1 b Fig. 1 – Paziente di anni 72, dopo aver eseguito una procedura percutanea di nefrostomia, al controllo TC, presenta in arteria polmonare un corpo estraneo. All’esame diretto [a] è difficile distinguere una struttura filiforme, molto lunga, rispetto all’ombra cardiaca e alla colonna vertebrale. Dopo aver introdotto un introduttore valvolato 9 Fr a livello della vena femorale destra, con l’ausilio di un catetere angiografico, conformato a pig-tail, è stato possibile prima avvolgere il filo guida sul catetere angiografico, poi trascinarlo all’esterno della cavità cardiaca e del torace, nonostante il flusso vorticoso del ritorno venoso [b], infine recuperarlo con un miotomo [c]. Fig. 1 c Nel caso dei frammenti di cateteri venosi centrali o di port, il presidio scelto è stato il catetere a cappio [EN Snare, MDTech, Gainesville, Florida, USA, 7 Fr, lungo 120 cm, con apertura variabile tra 27 e 45 mm – Goose Neck ] ricorrendo ad altre soluzioni tecniche in caso d’insuccesso momentaneo: lo stesso catetere angiografico pig tail per avvolgerlo o il miotomo per recuperalo. Il diametro del catetere a cappio selezionato è stato in genere costante (25 mm), potendolo adattare di volta in volta a seconda delle necessità, sia come angolazione che come apertura. Non abbiamo mai dovuto ricorrere ad una ulteriore angolazione del cappio o all’utilizzo di cateteri guida pre-curvati. In caso di 81 S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari assenza del presidio commerciale abbiamo confezionato artigianalmente il sistema di recupero con un catetere angiografico selettivo [cobra, 5 fr, lungo 65 cm, Cordis Europe, Olanda] e una guida idrofilica [0,018”- lunga 180 cm, Terumo, Gamma International, Roma, Italia]. Una volta recuperato il corpo estraneo, questi è stato trasportato a livello pelvico ed impegnato nell’introduttore. Sia che fosse totalmente impegnato al suo interno, come nel caso del frammento di filo guida, o parzialmente, come nel caso di un frammento di catetere venoso, l’asportazione è avvenuta lentamente, ma contestualmente all’introduttore, per evitare che il tentativo di superamento della valvola dell’introduttore ne causasse un indesiderato sganciamento. Al termine della procedura, veniva effettuata la radiografia del torace di controllo. È stato considerato il successo tecnico delle procedure, inteso come la completa rimozione o il corretto riposizionamento dell’oggetto estraneo. Risultati Il recupero di corpi estranei intravascolari è stato eseguito con successo in 12 pazienti (97%). Tra le procedure effettuate nel territorio venoso, il recupero dei frammenti di cate- Fig. 2 a tere venoso centrale si è ottenuto in 10 casi (100%). Quando il frammento era molto lungo e posizionato all’interno dell’arteria polmonare (4 casi), abbiamo sempre utilizzato il catetere pig tail angolato di prima intenzione, per poter trascinare il frammento di catetere fuori dalla vorticosa circolazione polmonare e trasportarlo in vena cava inferiore. A questo livello, è stato possibile recuperarlo più stabilmente con il catetere a cappio. Nei casi dei frammenti ubicati in atrio destro (6 casi), ma con estremità in vena succlavia, in tronco anonimo sinistro o all’origine della vena cava superiore abbiamo impiegato direttamente il catetere a cappio, indipendentemente dalla lunghezza del frammento (Fig. 2). In 4 casi, per assenza del presidio commerciale, è stato impiegato il sistema artigianale di recupero, sempre con successo. Per quanto riguarda il recupero dei fili guida, questi si è ottenuto in 2 casi (83%), entrambe localizzati all’interno dell’arteria polmonare destra; abbiamo impiegato sempre prima il catetere angiografico pigtail precurvato per asportare il frammento dal circolo polmonare, per poi recuperarlo con successo in vena cava inferiore con il miotomo. Per quanto riguarda il paziente con il frammento di filo guida in vena cava Fig. 2 b 82 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 Fig. 2 c Fig. 2 – Donna di 68 anni, con precedente asportazione della mammella sinistra e attualmente sottoposta a cicli periodici di chemioterapia. Ad un periodico controllo radioloFig. 2 d gico del torace [a] ci si accorge che l’estremità del catetere del port-A-cath è staccata dal serbatoio. Dopo aver posizionato un introduttore valvolato 8 Fr, grazie ad un particolare catetere per il recupero dei corpi estranei, il frammento di port viene preso all’interno della cavità toracica, nella vena cava superiore [b], trasportato in vena cava inferiore, in vena iliaca comune, per essere infine impegnato all’interno dell’introduttore in vena femorale. Una volta estratti contemporaneamente l’introduttore valvolato, il sistema del recupero dei corpi estranei e il frammento di catetere all’interno [c], è possibile eseguire la radiografia di controllo del torace, per confermare l’avvenuto recupero [d]. inferiore, l’unico caso in cui la procedura di recupero è fallita, questi è stato affrontato direttamente con il catetere a cappio, sia a livello prossimale che distale del filo guida, senza riuscire mai ad afferrare una delle estremità. Sulla base dell’anamnesi raccolta dal paziente, si trattava molto probabilmente di un frammento di filo guida, residuo non desiderato di un posizionamento di un port-A-cath, avvenuto tre mesi prima, la cui presenza all’interno del corpo umano era passato inosservato. Molto probabilmente, visto il tempo trascorso, il filo guida era stato incorporato dalla parete della vena cava e per tale motivo non esistevano porzioni libere che ne potessero facilitare la cattura. Non sono state notate complicanze o lesioni vascolari; anche la fuoriuscita di frammenti di catetere ripiegati non ha richiesto una successiva riparazione chirurgica. Le successive visite cliniche ed eco-color-doppler non hanno mostrato significative irregolarità di calibro dei vasi venosi. Discussione Il trattamento percutaneo dei corpi estranei continua ad essere applicato in modo sicuro ed efficace in un numero sempre maggiore di pazienti Il rapido sviluppo dei materiali endovascolari e di presidi, tuttavia richiede un costante adattamento e continua rifinitura delle tecniche interventistiche che sovraintendono al recupero dei corpi estranei endovascolari. Dotter, nel primo lavoro sul recupero dei corpi estranei eseguito con tecnica percutanea, parla esclusivamente di frammenti di cateteri e guide10, mentre oggi lo spettro dei presidi e degli oggetti intravascolari si è ampliato significativamente, fino a comprendere i filtri cavali, spirali da embolizzazione, gli stent endovascolari (questi sono associati a un certo numero di complicanze legate alla metodica, come la dislocazione o il loro errato posizionamento, situazioni che richiedono un intervento di asportazione o di corretta allocazione del presidio)11. S. Pieri et al.: La gestione dei corpi estranei intravascolari La percentuale di complicanze gravi associate con la disseminazione dei corpi estranei è dell’ordine del 70%, con una percentuale di mortalità tra il 24 e il 60%12. In particolare, i pazienti con una localizzazione cardiopolmonare di corpi estranei sono a rischio di un ventaglio di situazioni cliniche che va dalle aritmie cardiache fino alla perforazione. Nel posizionamento di stent, la percentuale di errato posizionamento è riportato nel 2,5% nella localizzazione nei vasi periferici, mentre è oltre l’8% nelle arterie coronarie12-14. Le indicazioni alla rimozione o al corretto riposizionamento di ogni tipo di corpo estraneo è ampio, ma sostanzialmente dovrebbe rispondere ad una serie di semplici quesiti. La prima e più importante domanda a cui fornire una valida risposta è se l’oggetto in questione necessiti di essere recuperato, cioè se la sua permanenza può essere foriera di complicanze o di successivi eventi negativi. La risposta molto spesso è frutto di un equilibrio tra basi scientifiche e pressioni esterne. In considerazione delle possibili conseguenze ad essi ascrivibili, tutti i corpi estranei intravascolari vengono rimossi prontamente15. Indubbiamente la maggior parte degli oggetti da recuperare sono frammenti di cateteri venosi centrali, visto il costante incremento del loro utilizzo; in genere sono estremamente facili da prendere, perché flessibili, di calibri ridotti, hanno le estremità libere e, molto importante, si trovano in strutture vascolari ampie, a bassa pressione, dove tendono a sedimentare. Molto spesso non danno una sintomatologia, tanto da essere scoperti in corso di un controllo radiografico; tendono a localizzarsi centralmente15. Molto diversa è la situazione dei corpi estranei intravascolari arteriosi, che seppur molto piccoli producono subito una sintomatologia ischemica e sono estremamente difficili da recuperare, perché la pressione e il flusso tendono a portarli sempre più perifericamente, dove è sempre meno agevole intervenire per via endovascolare8. La seconda domanda a cui dare una risposta è se i corpi estranei siano sicuramente endovascolari. L’anamnesi recente 83 e la radiografia del torace sono in genere sufficienti a dare una esauriente risposta. I quesiti successivi sono già più di pertinenza tecnica: possono essere recuperati senza causare danni al paziente, quale accesso e quale presidio utilizzare16,17. L’accesso è quasi sempre quello femorale. Viceversa, i presidi che possono essere utilizzati sono diversi, con un differente meccanismo d’azione: sia il catetere a cappio che a canestro avvolgono e/o circondano il corpo estraneo, un catetere con estremità a pinza lo afferra, il catetere a palloncino e il catetere a pig tail lo disloca in una altra sede, dove è più agevole il recupero o minori le complicanze in caso di insuccesso tecnico. In particolare poi, il catetere a cappio deve essere scelto di dimensioni superiori all’oggetto da recuperare, il cappio va fatto scorrere sul catetere fino ad arrivare ad una estremità libera, per poi indietreggiare chiudendo il cappio18. Una volta catturato il corpo estraneo intravascolare, la cui conferma si ottiene evidenziando il restringimento del catetere in coincidenza con il cappio, si inizia a retrarre il tutto, seguendo le operazioni sotto il diretto controllo fluoroscopico, applicando una ferma e continua trazione sul cappio. Una volta giunti all’interno dell’introduttore, appositamente scelto di calibro leggermente superiore al presidio da recuperare, o in prossimità di esso, se il corpo estraneo ripiegato non riesce ad entrare nell’introduttore, si retrae contemporaneamente il catetere a cappio, sempre in tensione, l’introduttore e il corpo estraneo. Nel caso del recupero di uno stent, il cappio può essere leggermente stretto attorno al filo guida, utilizzato come corsia preferenziale per arrivare direttamente oltre lo stent; aprendo il cappio poco oltre lo stent, è più agevole effettuarne il recupero, retraendo il cappio aperto verso lo stent; una volta confermato di averlo catturato, può essere recuperato retraendo contemporaneamente tutti gli oggetti coinvolti17. Il catetere pig tail, per le guaine dei fili guida o per i frammenti di catetere molto lunghi arrotolati su sé stessi, e i cateteri angiografici precurvati possono tornare 84 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 utili per arpionare il corpo estraneo intravascolare da recuperare, posizionato in una sede non agevole per il catetere a cappio. Quest’ultimo può essere utilizzato in un secondo tempo, o in sostituzione si possono scegliere cateteri a pinza, una volta che la sede raggiunta dal corpo estraneo consenta di operare in maggiore tranquillità. Nei casi in cui l’oggetto recuperato è in territorio venoso e di calibro molto più grande dell’introduttore, è bene retrarlo più perifericamente possibile, fino alla vena femorale, per poterlo recuperare attraverso l’incisione chirurgica della vena; questa operazione appare preferibile rispetto ad un intervento maggiore19. Sebbene sia riportato un successo superiore al 90%, la procedura può fallire quando non esiste una estremità libera dove fare passare il cappio del catetere per il recupero. Sulla base della nostra esperienza possiamo concludere affermando che la gestione percutanea dei corpi estranei intravascolari, attraverso il loro recupero quando possibile, o il loro riposizionamento in sedi innocue, è sicura ed efficace, con percentuali di complicanze connesse alla metodica pressochè inesistenti, in grado di risolvere l’urgenza clinica senza dover ricorrere al più traumatico ed invasivo intervento chirurgico. Bibliografia 1. Uflacker R, Lima S, Melichar AC. 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Stefano Pieri E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Casistica clinica IMPIEGO DEGLI SPIGOTS DI WATANABE NEL TRATTAMENTO DELLE FISTOLE PARENCHIMALI PERIFERICHE: NOSTRA ESPERIENZA APPLICATION OF WATANABE SPIGOTS IN THE TREATMENT OF PERIPHERAL PARENCHYMAL FISTULAS: OUR EXPERIENCE CARLO LOMBARDI, GABRIELE LUCANTONI, GIOVANNI GALLUCCIO U.O. Endoscopia Toracica, Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Broncoscopia. Fistola broncopleurica. Spigot di Watanabe. Perdite aeree persistenti Key words: Bronchoscopy. Bronco-pleural fistula. Watanabe spigots. Persistent Air Leaks Riassunto – Gli autori descrivono il caso clinico di due pazienti ricoverati rispettivamente il primo per massiva contusione polmonare bilaterale con versamento pleurico mentre il secondo per escavazione (post radioterapia) di linfoma del mediastino anteriore. Entrambi sviluppano durante la loro degenza fistole parenchimali periferiche non trattabili chirurgicamente. La nostra esperienza entra in campo con una tecnica endoscopica innovativa Abstract –The authors report the clinical case of two hospitalized patients, the first one with severe politrauma complicated by massive bilateral pulmonary contusion and pleural effusion, the second one with lymphoma excavation (post radiotherapy) in anterior mediastinum. Both patients were not candidate for surgery but both during the disease course developed alveolopleural fistula. Our experience shows a new endoscopic technique Introduzione Le fistole parenchimali periferiche (Alveolo Pleural Fistulas, APF) sono comunicazioni a flusso continuo poste tra il parenchima polmonare e lo spazio pleurico, persistenti (più di 24 ore)1,2 . Le cause possono essere di origine infettiva (polmoniti da micobatteri, da miceti,ascessi,empiemi) di tipo iatrogeno (complicanza di biopsie transbronchiali,to racentesi, drenaggio pleurico, barotraumi da ventilazione meccanica, chemioterapia e radioterapia) post traumatiche, idiopatiche come nello pneumotorace spontaneo3,4. Il trattamento standard delle APF prevede all’inizio il drenaggio pleurico, con il posizionamento di un tubo toracico per una i durata non superiore ai sette-quattordici giorni5,6. La persistenza delle APF può comportare la formazione di empiema con conseguente stato settico, oppure polmoniti aspirative da penetrazione di essudato pleurico infetto nelle vie aeree. Inoltre è possibile nel caso d’importante passaggio aereo, pneumotorace a valvola con sbandieramento mediastinico, e conseguente insorgenza d’insufficienza respiratoria tale da richiedere uno specifico supporto ventilatorio7. In caso di insuccesso, il trattamento di elezione è la pleurodesi in toracoscopia o la pleurectomia chirurgica8,9. 86 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 Qualora si osservi una recidiva si è spesso costretti ad un drenaggio pleurico a permanenza, o ad interventi demolitivi, quali toracoplastiche o finestre pleuriche10,11. Nel caso in cui tali metodiche chirurgiche non siano applicabili la chiusura delle AFP diventa di competenza endoscopica12. Le fistole visibili endoscopicamente quali quelle post-exeretiche, di piccolo calibro (<3mm) possono essere trattate con materiali sigillanti, mentre nelle fistole parenchimali periferiche non vi è attualmente un trattamento codificato13. Negli ultimi due anni sono giunti alla nostra osservazione alcuni casi di APF non trattabili chirurgicamente, nei quali è stata applicata una metodica endoscopica innovativa, con buoni risultati. Sono stati adoperati, per gli esami endoscopici, strumenti rigidi e flessibili. Il broncoscopio rigido Storz14, strumento all’avanguardia nella moderna pneumologia interventistica, garantisce al paziente un maggior controllo dell’anestesia ed, una migliore visualizzazione del campo operatorio grazie all’inserimento del fibroscopio Olympus. La perdita aerea è stata identificata mediante occlusione seriata dei rami bronchiali con palloncino vascolare, in pazienti portatori di drenaggio pleurico in aspirazione. Gli spigot di Watanabe (Novatech, Cedex, Francia)15 sono tappi di silicone medicale a tronco di cono con denti d’aggancio sulle superfici laterali che ne facilitano l’ancoraggio alle pareti bronchiali16,17. Sono presenti inoltre due linguelle per l’aggancio con pinza bioptica , per il posizionamento o l’eventuale, facile rimozione. Sono di tre misure con diametro di 5mm, 6mm, e 7mm (Fig. 1). Fig. 1 - Spigots di Watanabe polmonare bilaterale e versamento pleurico (Fig. 2). Il paziente, intubato e ventilato meccanicamente in rianimazione per la grave insufficienza respiratoria, ha sviluppato una fistola periferica nel contesto del parenchima danneggiato. Si è così sviluppato uno pneumotorace che ha reso inefficiente la ventilazione assistita. Per tale motivo il paziente è stato sottoposto a pleurectomia chirurgica in VATS (Videotoracoscopia). Purtroppo, a causa della rigidità del parenchima contuso il polmone non si è riespanso e la fistola ha recidivato con una perdita area persistente. Per tale motivo è stato eseguito un esame endoscopico, in sedazione, con paziente in ventilazione controllata. È stato introdotto in trachea un broncoscopio rigido (Storz Operatore), attraverso il quale è stato inserito un fibrobroncoscopio Olympus. Mediante un catetere vascolare con palloncino si è identificato, con successive occlusioni dei rami bronchiali tributari periferici, il subsegmento sede della fistola. A questo punto due rami bronchiali del ramo apicale del lobare inferiore destro sono stati occlusi mediante posizionamento di Casi clinici Vi presentiamo due casi di fistole parenchimali periferiche recidivate a trattamento chirurgico. Caso n°1 Paziente di anni 44, maschio (S.A.), grave politrauma, con massiva contusione Fig. 2 - L’immagine TC mostra gli spigot di Watanabe inseriti nei due rami bronchiali del ramo apicale del lobare inferiore destro C. Lombardi et al.: Impiego degli spigots di watanabe nel trattamento delle fistole parenchimali periferiche: nostra esperienza 87 dale di provenienza, non hanno ritenuto praticabile alcun trattamento invasivo oltre al drenaggio. É stato eseguito intervento di broncologia operativa in anestesia generale endovenosa e respiro spontaneo, nello stesso modo di quanto già eseguito nel paziente n. 1, con posizionamento di uno spigot di Watanabe del calibro di 5 mm (Fig. 5), nel ramo subsegmentario più anteriore dell’anteriore del lobare superiore destro, con arresto della perdita aerea. Il risultato si è mantenuto stabile nei mesi successivi. Fig. 3 - L’immagine TC ottenuta nel controllo a sei mesi distanza mostra l’occlusione completa del ramo bronchiale e la risoluzione definitiva del quadro precedente spigots di Watanabe, sino a determinare l’arresto delle perdite aeree (Fig. 3). Il paziente ha potuto così proseguire il ciclo di terapia, sino a ristabilirsi ed al controllo a sei mesi di distanza, pur in presenza di esiti cicatriziali e di fibrotorace, era in buone condizioni respiratorie, senza tubi di drenaggio. Caso n. 2 Paziente di anni 42, femmina (P. G), portatrice di linfoma del mediastino anteriore, dopo irradiazione ha sviluppato una escavazione della massa che si è fistolizzata verso il cavo pleurico e verso il parenchima polmonare, con risultante persistente perdita aerea (Fig. 4). In considerazione del quadro clinico, delle aderenza post radioterapia e del quadro polmonare, i chirurghi toracici dell’ospe- Discussione Nei due casi da noi trattati, giudicati irrecuperabili con metodiche chirurgiche, un intervento di broncologia operativa di moderato impegno per il paziente, di breve durata e totalmente reversibile, in caso di insuccesso, ha consentito di obliterare il tramite fistoloso, con scomparsa delle perdite aeree e obliterazione del cavo pleurico. Non si sono verificate complicanze infettive e l’area di atelettasia indotta dall’occlusione bronchiale è stata sempre di modestissima entità ed ininfluente dal punto di vista ventilatorio. Fig. 5 - Spigot di Watanabe perfettamente inserita e ancorata all’interno del ramo bronchiale Fig. 4 - Escavazione polmonare esito della terapia radiante 88 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 In caso di perdite aeree persistenti parenchimali il posizionamento di spigot di Watanabe, nella nostra esperienza, pur su una casistica limitata, può consentire una efficiente e rapida guarigione, con recupero funzionale del polmone. Il basso costo dei materiali e delle procedure rende vantaggioso tale approccio, che consente una drastica riduzione dei tempi di degenza e dei costi di gestione in questi gravi ammalati. Bibiografia 1. Singh N, Agarwal R. Bronchopleural fistula or alveolopleural fistula? Not just semantics. Chest 2006; 130(6): 1948 2. Lam Sin Man G, Lau Chun Wing A. Alveolopleural or Bronchopleural Fistula. The American College of Chest Physicians (Hong Kong and Macau Chapter) and The Hong Kong Lung Foundation. 2009; 19: 234-40 3. El-Sayed A, Deschamps C. 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Malignant neuroleptic syndrome Riassunto – Della sindrome ipermetabolica si è tracciata la definizione, la fisiologia e la fisiopatologia, la diagnosi e i presidi terapeutici. L’ipervalutazione del CK e l’importanza di evitare determinati anestetici, soprattutto nel dubbio diagnostico di una S.I.M. L’importanza della interazione dei farmaci con i fattori metabolici espressa da uno schema molecolare dinamico ed infine la rappresentazione di un tessuto muscolare visto alla microscopia elettronica. Abstract – The paper exposes the definition, physiology, pathophysiology of malignant hypermetabolic syndrome, the diagnosis and the therapeutic headmasters. He emphasizes the hypervaluation of CK and the importance to avoid some anaesthetics, above all in the diagnostic doubt of a S.I.M., the importance of the interaction of the drugs with metabolic factors expressed by a dynamic molecular scheme and at last it shows the representation of a muscular tissue seen to the electronic microscopy. Definizione Si tratta di uno stato ipermetabolico e dismetabolico fulminante del sistema muscolare ereditato con modalità autosomica dominante. Tale stato patologico del sistema muscolare è scatenato da anestetici oppure da situazioni di stress o da ipertermia. Si tratta sempre di persone geneticamente suscettibili di ammalare di questa sindrome. La variabilità genotipica e quella ambientale (in senso lato), contribuiscono a dare un quadro clinico mai uniforme. La classica crisi ipermetabolica maligna può manifestarsi immediatamente a causa dell’esposizione ad anestetici oppure manifestarsi nell’arco delle 24-36 ore dall’esposizione suddetta. Può anche non manifestarsi per nulla. Addirittura può manifestarsi per la prima volta alla seconda o terza anestesia subita dal soggetto suscettibile. Agenti scatenanti: questi sono tutti i rilassanti muscolari depolarizzanti (inclusa la succinilcolina), tutti gli anestetici volatili (halotano, enflurano, isoflurano, sevoflurano e desflurano), la caffeina e tutti i materiali alogenati di contrasto per i raggi X. Inoltre i fattori ambientali stressanti quali interventi chirurgici,la gravidanza, le infezioni e gli stress psicologici. Controverso è se le fenotiazine possano scatenare questa sindrome,ma possono scatenare la s. neurolettica maligna. Farmaci certamente NON scatenanti la S.I.M. sono gli antibiotici, gli antiistaminici, gli antipiretici, le benzodiazepine (midazolam,diazepam, lorazepam), i barbiturici (tiopental, metoexital), propofol, ketamine, i rilassanti muscolari non depolarizzanti (atracurium, cisatracurium, pancuronio, vecuronio), droperidol, nitrossido, oppioidi, propanololo, i farmaci 90 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 vasoattivi, l’amide e gli esteri anestetici locali (lignocaina, bupivacaina). Da considerare però che le ketamine, il pancuronio, i farmaci vasoattivi che hanno effetti sul circolo, possono mimare la S.I.M. Fisiologia La depolarizzazione di membrana delle fibre muscolari inizia al livello della placca motrice ed è trasmessa lungo la fibra muscolare. Il potenziale di azione è trasmesso a tutte le miofibrille componenti la fibra muscolare attraverso il sistema tubulare T. Tale sistema trasversale T proviene dalla superficie della membrana muscolare (vedi Fig. 2 alla fine dell’articolo) ed attraversa in profondità le miofibrille disponendosi fra le vescicole o cisterne laterali appartenenti al sistema reticolosarcoplasmico, ma non comunicando con esse attraverso aperture di membrana.Attraverso il sistema T corrono gli elettroliti provenienti dall’esterno della membrana muscolare e con sistema “grilletto” provocano il rilasciamento del Ca++ dalle cisterne laterali del reticolo – sarcoplasmico (SR) il quale ultimo inonda le fibrille muscolari. Si rinvia ad un secondo articolo la complessità biochimica della contrazione muscolare; qui importa dire che l’enzima ATPasi (adenosintrifosfatasi) libera energia demolendo appunto l’ATP. L’enzima si trova nelle “teste” della molecola miosina, una delle molecole funzionali muscolari. Le “teste” miosiniche si attaccano alla actina (altra proteina muscolare funzionale) come in una ruota dentata. Si attua la contrazione muscolare con un progressivo accorciamento del muscolo. Immediatamente prima dell’inizio della contrazione il Ca++ liberato dalle cisterne del SR è necessario per innescare la contrazione medesima. Cessata la contrazione il Ca++ torna nelle cisterne del SR con dispendio di energia. Si attua il rilasciamento muscolare e le fibre tornano ad allungarsi. Fisiopatologia La sindrome ipermetabolica maligna appare come la conseguenza di una cattiva regolazione del Ca++ nella fibra. In particolare la cattura del Ca++ appare regolare ma non sembra tale il rilascia- mento del Ca++ dal SR. Questo sarebbe il difetto primario. Nella membrana del SR vi sono canali deputati alla liberazione di ioni Ca++, costituiti da proteine e fra queste le proteine dei recettori detti RIANODINE. Esistono altri recettori quali le diidropiridine che sono colpiti da farmaci usati nelle malattie cardiovascolari e che provocano il blocco dei canali del Ca++. Di quì la possibilità di una ipertermia da farmaci cardio-vascolari. Si è dimostrato che i recettori rianodinici sono legati ai processi di rilasciamento del Ca++ dal SR. Elementi agonistici della contrazione elementi antagonistici della contrazione 1. Ca2+ 2. ATP 3. Caffeina 1. Mg2+ 2. Tetracaina 3. Ruthenio rosso Può esservi una funzione difettosa della proteina del recettore rianodina che lega il Ca++ . Gli studi genetici hanno individuate il gene che codifica per la rianodina nel cromosoma 19q12-13. Nello stesso locus della Central Core, (che è quest’ultima una miopatia congenita). Circa altri difetti per spiegare l’insorgere della temibile S.I.M., potrebbe esservi un difetto funzionale della proteina regolatrice del recettore rianodina, che provocherebbe uno stato di permanente apertura del canale per il Ca++ed una sua immissione esagerata nel tessuto contrattile. La eccessiva concentrazione di Ca++ nel tessuto contrattile innesca una catena di eventi dismetabolici: a) disaccoppiamento della funzione eccitazione-contrazione. b) aumento del consumo di O2. c) aumento della produzione di CO2. d) aumento della formazione del lattato che causa acidosi lattica. e) aumento dell’idrolisi di ATP che causa eccessiva produzione di calore (ricordo che l’ATP è un composto ricco di energia e quindi l’eccesso di questa idrolisi oltre alla contrattura muscolare genera aumento di calore per i noti principi della termo-dinamica. f) attivazione quindi degli elementi contrattili. g) rigidità muscolare spesso con esordio di contrattura dei m. masseteri. Inoltre ipossia, ipercarbia, acidosi lattica, idro- 91 M. Giacanelli: Sindrome ipermetabolica maligna lisi dell’ATP come detto e quindi aumento della temperatura corporea con rottura delle cellule e rilasciamento dei contenuti intracellulari, che provocano: h) ipercaliemia i) mioglobinuria che può esitare in insufficienza renale acuta. l) tachicardia ed ipertensione arteriosa. m)disritmie cardiache. Aspetti clinici: non vi è una esatta definizione clinica della S.I.M. stante la enorme variabilità del quadro sintomatologico; questo è espresso da: 1) Rigidità dei m. masseteri con perdita del “guizzo” muscolare dopo una stimolazione neuromuscolare. Un tipico episodio di S.I.M. può accadere 20-30 minuti dopo l’inizio della anestesia. È opinabile se interrompere l’anestesia e sostituirla con anestetici non depolarizzanti. 2) L’incidenza della sindrome nei bambini è del 1% con induzione di alotano e somministrazione di succinilcolina per aiutare l’intubazione e del 2,8% nei bambini operati di strabismo. Oggi questi anestetici non si usano più, anche se talora vapori di alotano venivano usati per bambini non collaboranti. In quei piccoli pazienti vi era un aumento di CK MM, mioglobinuria,tachicardia e disritmia cardiaca, indipendentemente dall’insorgere o meno della sindrome. 3) Un aumento della end- tidal CO2 di 5 mmHg/ora al di sopra di una stabilita linea di base, è il segnale clinico più sensibile ma non specifico di una imminente crisi di S.I.M., ma quando si evidenzia esso si correla alla gravità dell’attacco. 4) Diminuzione della saturazione dell’ossigeno arterioso e cianosi. 5) Tachicardia: una inspiegabile tachicardia è spesso il primo segno. 6) Disritmia. Tabella 1 Halothane Caffeine Groups Comment: European group protocol 1, 2, 3% baths 0.5, 1, 2, 3, 4mM MH Susceptible MH Negative MH Equivocal False negatives in RSA 7) Rigidità a dispetto dell’uso di miorilassanti. 8) Tachipnea. Esami di laboratorio: • mioglobinuria • acidosi metabolica • produzione eccessiva di anidride carbonica • ipercalemia • iperfosfatemia • aumento dell’isoenzima CK MM. Diagnosi Una biopsia muscolare è il solo test possible per la diagnosi di S.I.M. Biopsia eseguita usualmente sul m.vasto laterale: il frammento muscolare bioptico è quindi esposto ad alotano, caffeina, alotano e caffeina e/o rianodina. La misura della contrattura isometrica è paragonata con predeterminati valori di cut-off. Vengono mostrati alcuni protocolli diagnostici europei e nord-americani (Tab. 1). Tutti i pazienti con anomala contrattura muscolare in vitro, hanno una grande possibilità di sviluppare una S.I.M. fulminante. Central core disease è la sola malattia certamente correlata alla S.I.M. Si tratta di una miopatia congenita prossimale. Il locus genetico è il medesimo di quello della S.I.M. Le miopatie possono essere interessate dalla S.I.M. ma non come la central core e sono: la distrofia muscolare di Duchenne, la sindrome di Denborough (statura bassa, anomalie muscolo scheletriche, ritardo mentale), la distrofia muscolare di Becker, la miotonia congenita, la distrofia muscolare di Fukuyama (simile alla m. di Duchenne, ma con netto deficit intellettivo) e la deficienza della deaminase mioadenilato. La sindrome neurolettica maligna può essere confusa con la S.I.M. L’esordio avviene 24-72 ore dopo la somministrazione di un farmaco psicotropo quale: idolo,droperidolo,flufenazina,clo zapina,perfenazina,tioridazina. La patogenesi della sindrome North American protocol è dovuta al blocco dei recettori 3% bath dopaminici dell’ipotalamo e dei 0.5, 1, 2, 4, 8, 32mM gangli basali. La NMS è caratteGuideline selection criteria Sensitivity 100% rizzata da acinesia,rigidità muSpecificity 79% scolare, ipertermia, tachicardia, cianosi, disfunzioni autonomi- 92 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 che, alterazioni del sensorio, ipersudorazione e livelli elevati di creatin chinasi (isoenzima MM). Cioè il punto di attacco dei farmaci descritti è l’ipotalamo e la via finale comune è l’ipertermia da contrattura muscolare. La NMS ha una mortalità del 10% e si cura con dantrolene, bromocriptina o biperidina. Evidentemente sono da considerare i centri metabolici ipotalamici. Considerazioni “pratiche” Se i valori del CK si mantengono a livelli patologici, malgrado tre valutazioni ematiche intervallate da una o più settimane, si deve eseguire una accurata anamnesi personale del paziente e familiare . In particolare se vi sono stati episodi inspiegabili d’ipertermia, se vi sono stati risvegli da una anestesia difficoltosi e prolungati dopo la cessazione anestesiologica. I valori del CK compresi fra 300 e 6-700 U.I., possono destare apprensioni più degli altri valori patologici, in virtù di alcune casistiche che ne rilevano una discreta concordanza con gli episodi di S.I.M. Naturalmente il timore per i pazienti affetti da malattie muscolari degenerative va considerato e per i soggetti affetti da “central core” vale una particolare riflessione, come già detto, circa il locus genetico. Occorre evitare una indiscriminata richiesta di biopsia muscolare per i malati che hanno un CK patologico e null’altro. Si considerino purtroppo i rilievi medico-legali che spesso si fondano sul valore patologico del CK, senza entrare in quelle considerazioni già riferite. Gli elementi cardinali a protezione del paziente e del medico sono il bando degli alogenati e della succinilcolina. È vero che oggi non si usano più, ma gli alogenati vengono talora usati per l’induzione di anestesia in piccoli pazienti non collaboranti. È altrettanto importante che tutte le camere operatorie abbiano dantrolene ed una conoscenza accurata degli stadi successivi d’intervento in caso di crisi di S.I.M. Ricordare sempre una inspiegabile tachicardia ed un trisma dei masseteri, intraoperatori. Qualora il medico abbia una fondata convinzione di vulnerabilità alla S.I.M. e non solo per i valori patologici del CK, allora s’impone prima di ogni intervento operatorio, una biopsia muscolare da sottoporre in vitro ai flussi di alotano e caffeina, per evidenziare la violenta contrazione del frammento muscolare. Ricordo che tale evento in vitro è diagnostico al 99% per sensibilità. Tuttavia in considerazione dei casi di pronto intervento chirurgico, quando non v’è il tempo per eseguire gli esami descritti, occorre rinunciare agli alogenati ed alla succinilcolina, anche se i valori del CK sono entro i valori normali. Altre considerazioni fisiopatologiche e molecolari sugli anestetici: in Figg.1 e 2. Fig. 1 - Cattura degli anestetici dalle membrane e dalle tasche idrofobiche delle proteine. Alterazione dei percorsi di ossigeno nelle membrane e delle proteine che utilizzano l’ossigeno,da parte degli anestetici. Riduzione della disponibilità di ossigeno nei siti di utilizzo delle proteine. Attivazione dei meccanismi di sensibilizzazione all’ossigeno. Risposte cellulari a cascata generate dai meccanismi di sensibilizzazione all’ossigeno. Descrizione di un caso clinico: una donna di 40 anni, schizofrenica, in terapia con promazinici, sviluppò una intensa ipertermia. Quest’ultimo sintomo fu bloccato in rianimazione al S. Camillo e la paziente riemerse con notevole stato confusionale, che si attenuò nei mesi successivi, sino ad una discreta capacità di riconoscere i congiunti e ad una sintonia ambientale di grado modesto. Presenti elementi di grave disartria, disfagia (quest’ultimo poi risoltosi), riso spastico e M. Giacanelli: Sindrome ipermetabolica maligna “grimaces”. Spasticità agli arti inferiori ed in minor misura ai superiori. La stazione possibile era quella seduta. Dopo tre anni la pz. si trova ancora nello stato descritto. Fig. 2a - Transito dell’O2 attraverso le membrane cellulari quindi attraversamento delle membrane mitocondriali (organelli intracellulari) ed utilizzo dell’O2 nella matrice mitocondriale da parte delle creste, che sviluppano una enorme estensione di superficie utile agli scambi metabolici e tale enorme estensione di superficie è evidenziata dal ripiegamento delle creste medesime su se stesse. 2b - Diagramma dell’energia sviluppata (bistrato) dai poli rivolti all’esterno ed all’interno della cellula, costituente la struttura molecolare della membrana cellulare. 2c - Schema della membrana cellulare (secondo la teoria lamellare): le sfere rappresentano le teste idrofile delle catene lipidiche. Le catene molecolari fosfolipidiche costituiscono nell’insieme la membrana cellulare. Le molecole del farmaco anestetico penetrano nel bilayer ed entrano in competizione con le molecole dell’ossigeno. Le proteine rivestono a loro volta lo strato fosfolipidico disponendosi parallelamente a questo in ambedue i piani del bilayer ed anzi si associano alle teste idrofile. L’anestetico penetra anche nelle “tasche” idrofobiche delle proteine appartenenti alla struttura di membrana 93 Trattamento di una fase acuta di una crisi di S.I.M. – Soccorso immediato: – Stop immediato degli agenti scatenanti. Stop immediato dell’intervento chirurgico. – Sedare il paziente, con infusione di midazolam o propofol. – Iperventilare con 100% di ossigeno (> di 12 litri/min.). Somministrare dantrolene 2,5 mg/kg intravenoso in boli ripetuti sino a quando la p. CO2, la frequenza cardiaca e la temperatura corporea si siano normalizzate. Se 20 mg./kg non hanno dato esito positivo, non si tratta di una crisi di S.I.M. – Correggere l’acidosi metabolica con NaHCO3 1 mmol/kg. – Correggere la ipercalemia con la ipe rventilazione,completare con glucosio (0,5g/Kg) ed insulina rapida (0,15 unità/ kg=0,3 unità/g glucosio) per infusione il trattamento dell’acidosi metabolica.Aggiungere CaCl2 2-5mg/kg per stabilizzare il miocardio se il K+ >7.0 mmol/L. – Monitorizzare end- tidal CO2, la saturazione del pulse ossimetro e la T° continuamente. – Mantenere il flusso urinario >2ml/kg/ ora. Iniettare liquidi intravenosi e somministrare mannitolo (0,25mg/kg/NB mannitolo 3 g per vial di dantrolene) e lasix 1 mg/kg quando un adeguato CVP non è sufficiente a mantenere la produzione di urine. – Raffreddare il paziente con soluzioni saline ghiacciate a 15 mg/kg ogni 15 minuti attraverso tre larghe cannule endovenose a dimora, lavaggio delle cavità corporee con soluzioni saline ghiacciate (PNGT ed irrigazioni rettali con catetere) e porre ghiaccio sulla nuca, nelle ascelle e negli inguini. – Se le aritmie non rispondono al trattamento dell’acidosi, della ipossia, ipercarbia e ipercalemia, occorre adoperare gli agenti standard antiaritmici. Procainamide è il farmaco di scelta poiché inibisce le disritmie multiple. Il cloruro di calcio 2-5 mg/kg deve essere usato per stabilizzare il miocardio durante la ipercaliemia.Evitare i bloccatori dei canali del calcio, che possono determinare un collasso acuto 94 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 cardiovascolare se usati insieme con dantrolene. Dantrolene, farmaco “salvataggio” della M.H. e della N.M.S. Rilassante dei muscoli scheletrici per dissociazione dell’accoppiamento eccitazione-contrazione, probabilmente interferendo con il rilascio del Ca++ dal reticolo sarcoplasmico. Assorbimento: per via venosa con la formulazione liofilizzata mista con mannitolo per migliorarne la solubilità acquosa. I livelli plasmatici terapeutici si raggiungono in 5 minuti. Nella crisi di S.I.M. acuta s’interviene con: – dantrolene 2-3 mg/kg somministrati in bolo rapido endovenoso, ripetuto ogni 5 minuti sino al blocco della crisi. Per quanto concerne i segni centrali di sonnolenza, vertigine e letargia, il farmaco agisce sui recettori GABA centrali e periferici. Per quanto concerne l’azione sui muscoli, la somministrazione di dantrolene ristabilisce un livello normale di calcio ionizzato nel sarcoplasma. Inoltre inibizione del rilascio del Ca++ dal reticolo sarcoplasmico e detto farmaco ristabilisce l’equilibrio del Ca++ sarcoplasmico aumentando la percentuale di Ca++ legato. Secondo alcuni autori, il dantrolene ha benefici effetti profilattici nel prevenire o attenuare gli sviluppi clinici della S.I.M. in individui giudicati vulnerabili alla ipertermia maligna e portatori di condizioni spastiche croniche,paralisi cerebrali, accidenti cerebro-vascolari e traumi del midollo spinale. I bloccatori dei canali del Ca++ (ad es. verapamil) e il dantrolene somministrati insieme durante una crisi di S.I.M., hanno causato fibrillazione ventricolare, marcata ipercalemia e collasso cardiovascolare. Un nuovo analogo del dantrolene solubile in acqua, l’Azumolene, è meno irritante del primo ma ha una emivita di sei mesi paragonata ai quattro anni del dantrolene. Nella fig. 3 (osservazione al microscopio elettronico, parzialmente mod. da Cell Structure di Peter G.Toner and Catharine E. Carr, Churchill Livingstone second ed. 1971) si vedono quattro miofibrille con i segmenti “chiari” I costituiti da miofilamenti di actina (filamenti sottili) e con i segmenti “scuri” A costituiti da filamenti di miosina ( filamenti spessi). I sarcomeri (o unità contrattili) sono delimitati dalle spesse linee Z , ai lati delle quali si vedono i mitocondri riconoscibili dalla particolare architettura interna delle creste. Quindi l’unità sarcomerica è compresa fra due linee Z e contiene due mezzi segmenti “chiari” e un segFig. 3 - Osservazione mento” scuro”. Nel al microscopio elettro- mezzo del segmento nico “scuro”si vede una zona “chiara” costituita da soli filamenti spessi di miosina, la zona H e al centro della H la linea M particolarmente più scura. Al limite fra i segmenti chiari e quelli scuri si notano le cosiddette triadi costituite dalle due cisterne (S.R. sistema reticolo-sarcoplasmico) e dal tubulo trasverso T. Il significato e l’importanza di questi organelli sono già stati descritti. Bibliografia essenziale Bloch LH. Biopharmaceutics-Fall, PHCEU 2002; 430 Dubowitz V. Muscle Biopsy, a modern approachRJM Lane 2007 Fortunato P. Malignant hyperthermia- USAF May, DC 20 february 2000 Gurrera R.G. Sympathoadrenal hyperactivity and etiology of neuroleptic malignant syndrome. Am J Psych 1999; 156: 2 Jurkat-Rott K. Genetics and pathogenesis of malignant hyperthermia-muscle nerve 2000; 23: 4 Monnier N. Biologie de l’hyperthermie maligne-Annales de biologie clinique, 2000; 58, 2: 147-56 Russel D. Anesthesia, 2000; 2 S.I.A.A.R.T.I. Linee - guida sulla ipertermia maligna. Congresso S.I.A.A.R.T.I, Roma, 1999 (a tutt’oggi immodificate) Zhao F, et al. Dantrolene inhibition of ryanodine receptors Ca2+ release channels. J Biol Chem 2001; 27, 276(17): 13810-6 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 FLUIDOTERAPIA: OBIETTIVI, STRUMENTI E MONITORAGGIO (PARTE I) THE MANAGEMENT OF FLUID THERAPY (I SECTION) CLAUDIO TUBILI1, MARIA PIA BERALDI1, SALVATORE DI GIULIO2 1 UOS di Diabetologia; 2UOC di Nefrologia e Dialisi e Trapianto Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Nutrizione parentale. Fluidoterapia Key words: Parenteral nutrition. Fluids for intravenous administration Riassunto – Nei pazienti che non possono, non devono o non vogliono assumere liquidi per os, l’idratazione rappresenta il primo intervento di nutrizione artificiale. Le diverse situazioni cliniche richiedono un approccio specifico per la somministrazione dei fluidi, al fine di ridurre il rischio sia di ipoperfusione tessutale che di edema. Le variazioni del Volume Plasmatico dipendono non soltanto dalla quantità dei fluidi somministrati, ma anche dalla loro distribuzione, che è determinata dalle proprietà delle membrane cellulari. I fluidi per la terapia endovenosa non sono un semplice veicolo ma veri e propri agenti terapeutici, e la conoscenza delle loro proprietà dovrebbe indirizzarne la somministrazione; i dati attualmente disponibili su mortalità ed effetti collaterali maggiori non dimostrano una chiara superiorità fra cristalloidi e colloidi o fra diversi tipi di colloidi: la soluzione salina allo 0,9% è comunemente definita “fisiologica”, ma presenta significative differenze con il plasma; le soluzioni elettrolitiche bilanciate sembrano avere una migliore efficacia clinica rispetto alla fisiologica, che è in definitiva sovraprescritta. La soluzione glucosata al 5% equivale all’acqua libera perché il glucosio è rapidamente metabolizzato, rilasciandola. È necessario, in conclusione, rinforzare gli interventi educazionali per migliorare fra i medici il management della fluidoterapia. Abstract – In patients who can not, must not or do not want to drink, hydration is a real artificial nutrition intervention. Different clinical situations require a specific approach for fluids administration to reduce the risk of tissue hypoperfusion or oedema. The variations of Plasma Volume depend not only on the amount of the fluid infused, but also on its distribution, that is determined by the membranes properties. Fluids for intravenous therapy are not vehicles but real drugs and the knowledge of their properties should guide the choice: the available data on mortality and major complications do not demonstrate the best efficacy between crystalloids or colloids and between the different types of colloids: saline solution at 0.9% is commonly defined as “physiological”, but has significant differences with plasma; balanced electrolytic solutions seem to give better clinical outcomes compared to saline, which is ultimately overprescribed. 5% glucose solution is equivalent to water because glucose is rapidly metabolised, releasing pure water. It is necessary to strengthen educational interventions to improve the management of fluid therapy. Premessa Se la nutrizione ha fra i suoi obiettivi il mantenimento delle strutture corporee, l’idratazione di un paziente non in grado di assumere liquidi per via naturale o con particolari esigenze dovute a varie condizioni patologiche rappresenta un intervento di fondamentale importanza. Nel paziente critico, ma più in generale in 96 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 tutte quelle condizioni in cui il paziente non può, non deve o non vuole assumere liquidi, l’idratazione costituisce il primo intervento di Nutrizione Artificiale: questo si articola in vari “momenti terapeutici” che vanno dal “reintegro” di eventuali perdite nei vari compartimenti corporei al “mantenimento” dell’equilibrio dei compartimenti stessi, (soddisfacendo i fisiologici fabbisogni di acqua e di elettroliti) e in ultimo alla “rianimazione”, che ha come obiettivo primario il mantenimento della volemia e del circolo. La fluidoterapia possiede quindi numerose indicazioni, quelle più comuni sono la reintegrazione delle perdite di liquidi ed il ripristino di un circolo efficace, ma anche la correzione dei disturbi elettrolitici ed acido-base. Si può realizzare con due categorie di fluidi (cristalloidi e colloidi) che si differenziano per le loro proprietà biologiche e fisico chimiche che ne indirizzano la scelta nella pratica clinica: infatti le varie soluzioni influenzano le proprietà emoreologiche del sangue, l’emostasi, l’integrità vasale, l’infiammazione, l’entità e la durata dell’espansione della volemia. Esistono pochi studi su larga scala rivolti a stabilire i differenti effetti delle varie soluzioni sulla prognosi dei pazienti critici ed i dati attualmente disponibili non sono definitivi. Fisiopatologia dei fluidi corporei In condizioni normali l’omeostasi dei compartimenti idrici è mantenuta dall’apporto orale di acqua attraverso le bevande e gli alimenti e dalla sua eliminazione attraverso la produzione di urine da parte dei reni, dalla perspiratio insensibilis muco-cutanea, dalla sudorazione e dall’eliminazione di acqua attraverso l’apparato digerente (feci). Compartimentazione dell’acqua corporea Stabilire lo stato d’idratazione di un soggetto significa conoscere non solo quanta acqua è presente nel suo organismo, ma anche quanta parte di essa è disponibile. Secondo il modello del corpo umano a quattro compartimenti, le componenti anidre (proteine, grasso, minerali, glicogeno) costituiscono il 40% circa della massa corporea di un individuo adulto; l’acqua corporea totale (total body water TBW) ne costituisce circa il 60%: l’acqua intracellulare (intra cellular water ICW) rappresenta il 40% del peso corporeo ed è ricca in potassio (il 98% del totale) e povera in sodio, quella extracellulare (extra cellular water ECW) il 20% suddivisa tra plasma (3%) ed acqua interstiziale: il primo è una soluzione acquosa di ioni inorganici ricca in sodio e contenente molecole organiche, sia piccole quali l’urea, sia di grandi dimensioni quali l’albumina e le globuline; il sangue circolando all’interno dei vasi provvede alla perfusione dei tessuti. Una sua riduzione è responsabile di una diminuzione di ossigeno disponibile (PO2) all’interno dei tessuti, di un ridotto apporto di nutrienti e di una ridotta rimozione di sostanze. Il risultato è una diminuita od assente produzione di ATP in condizioni di ipossia. La sofferenza tissutale prodotta da un’insufficiente perfusione può condurre a shock. L’acqua interstiziale (17%) ha la stessa concentrazione dei liquidi intravascolari, ma contiene proteine in concentrazioni inferiori. Questa quota di acqua ed elettroliti è disponibile ad essere richiamata nei vasi come meccanismo di compenso in caso di necessità. Le membrane cellulari separano il compartimento intracellulare da quello extracellulare; la concentrazione degli ioni sui due versanti è regolata dall’ATPasi Na+K+ dipendente: il Sodio è mantenuto a livelli di circa 140 mmol/l all’esterno delle cellule e di 8 mmol/l al loro interno; un gradiente analogo è presente anche per il Cloro. L’acqua può muoversi liberamente attraverso le membrane. L’insulina svolge un ruolo facilitatore sull’attività’dell’ATP-asi, favorendo il passaggio intracellulare di potassio necessario per l’uptake del glucosio. Il passaggio dell’acqua attraverso la maggior parte delle membrane cellulari e quindi da e verso la cellula è regolato prevalentemente dall’osmolarità dei tre spazi. C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio L’osmolarità (280 mOsm/l) tra liquido intra ed extracellulare tende all’equilibrio nonostante la diversa composizione dei due compartimenti. Essa può essere calcolata come segue: Posm =(Na+ x 2 )+glicemia +urea = 280-295 mOsm/l-1 (*Na+ glicemia urea espressi in mmol) Posm = 2 * [Na+] + glucosio (mg/dl)/18 + BUN (mg/dl)/2.8 L’urea contribuisce poco all’osmolarità perché passa liberamente, cosicché in condizioni di normoglicemia si assume che: Posm effettiva = Na+ *2 In condizioni normali la componente determinante l’aumento dell’osmolarità è il sodio (140–160 mmol/L) moltiplicato per due, essendo l’elettrolita contenuto in maggior quantità nello spazio extracellulare. A livello più generale il mantenimento del bilancio idrico è garantito dalla estrema stabilità della Posm plasmatica. Questo è riconducibile a due meccanismi generali: la sete e la secrezione di ADH(ormone antidiuretico) regolati da osmo e barocettori situati a vari livelli nel Sistema Nervoso Centrale e Cardiovascolare. L’ADH regola a livello renale il riassorbimento dell’acqua e quindi la capacità di concentrare le urine. Quando è presente ipoosmolarità plasmatica la secrezione di ADH è inibita e le urine sono ipotoniche, al contrario se la Posm aumenta (disidratazione cellulare) la liberazione di ADH determina l’emissione di urine ipertoniche con ritenzione di acqua libera. Se nonostante questo la Posm rimane alta (>290 mOsm/Kg) compare la sensazione di sete. Il sodio totale dell’organismo in un adulto normale è di 60 mEq/kg di peso corporeo. Il 30% non scambiabile è fissato alle ossa, il 70% che è quello che possiede proprietà osmotiche è per l’85% extracellulare dove si mantiene ad una concentrazione di 140 ± 5 mEq /l. Il volume del settore extracellulare è mantenuto dal sodio totale. La regolazione del bilancio sodico è legato al mantenimento di una volemia efficace. I meccanismi che entrano in gioco 97 sono le perturbazioni emodinamiche e volemiche segnalate da baro e volumocettori intratoracici, arteriosi ed intrarenali, che mettono in atto meccanismi efferenti di cui il più importante è il sistema reninaangiotensina-aldosterone (SRAA). Se la volemia efficace si riduce a causa di un bilancio sodico negativo la attivazione di SRAA provoca ritenzione di Na+ attraverso una ridistribuzione del flusso capillare che provoca aumentato riassorbimento di sodio a livello del tubulo prossimale e la liberazione di aldosterone che aumenta il riassorbimento di sodio e cloro a livello del tubulo collettore. Il sodio è stato sfruttato per classificare il tipo di disidratazione. Generalmente al termine disidratazione si associa un aggettivo che la specifica: ipotonica, isotonica, ipertonica. Numerosi meccanismi patogenetici quali un ridotto apporto di liquidi (es: disfagia, demenza, letargia, etc.) un aumento delle perdite (es: diarrea, febbre, eccesso di diuretici) o alterazione dei meccanismi omeostatici (es. insufficienza renale, scompenso cardiaco, SIADH, etc.) possono portare a disidratazione con indice di severità che va da lieve (solo alterazioni bioumorali) a severa con pericolo di vita. La disidratazione isotonica, che è la più comune, la si identifica quando si verifica perdita bilanciata di liquidi ed elettroliti (es: vomito e diarrea). Nella ipertonica, che è la seconda per frequenza, abbiamo valori di sodio ematico più elevati (>140 meEq/L osmolarità plasmatica > 300 mOsm/kg di acqua (infezioni, febbre, diabete insipido). La disidratazione ipotonica si identifica con basso sodio e bassa osmolarità (Na+ serico <135 mEq/L, osm plas < 280 mOsm /Kg acqua (es: malattie renali). Il tipo di disidratazione è determinato dalla concentrazione del liquido che rimane nell’organismo, non da quello perso. Nel paziente chirurgico possono persistere elevati livelli di ADH per diversi giorni dopo l’intervento in risposta allo stress legato al dolore. Se viene infusa una grande quantità di acqua si può verificare iponatriemia perché l’ADH impedisce la fuga di acqua in eccesso. 98 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 Una corretta fluidoterapia deve tener conto sia della quantità dei liquidi da infondere che della loro tipologia. Dinamica dei compartimenti dei fluidi Nel compartimento intravascolare sono disciolte molecole che non possono attraversare facilmente la membrana capillare per via delle piccole dimensioni dei pori. L’endotelio capillare che separa l’interstizio e il compartimento intravasale, nei quali si distribuisce l’ECW; presenta dei pori il cui diametro consente il passaggio di ioni inorganici e di molecole di basso peso molecolare, mentre non permette, in condizioni fisiologiche, il passaggio delle macromolecole proteiche circolanti (globuline fibrinogeno albumina); queste sono il principale fattore determinante la pressione oncotica intravasale (COP). L’albumina è la più piccola (69.000 dalton) ma è quella contenuta in maggior quantità. L’equazione di Starling mette in relazione le grandezze fisiche che regolano il flusso transcapillare: Φv ∞ [(Pc-Pi) – σ (πc – πi)] dove Φv è il flusso transcapillare dei fluidi, Pc la pressione idrostatica capillare, Pi la pressione idrostatica interstiziale, πc la pressione oncotica intravasale, πi la pressione oncotica interstiziale e σ il coefficiente di riflessione, una caratteristica propria dei distretti capillari che diminuisce in condizioni patologiche. In condizioni normali Pc è maggiore di Pi, questo gradiente pressorio provoca un flusso lento e continuo dal lume capillare all’interstizio: il fluido interstiziale è quindi drenato attraverso il sistema linfatico verso la circolazione sistemica. In condizioni patologiche questo meccanismo può essere alterato, con aumento della perdita netta di liquidi dal comparto intravasale. La compartimentazione fisiologica dei fluidi si altera in numerose condizioni che si osservano nel paziente ospedalizzato con vari livelli di criticità: in chirurgia, ad esempio una ridotta introduzione di liquidi (digiuno preoperatorio, anoressia, alterazione dello stato di coscienza) e un aumento delle perdite (diarrea, vomito, febbre) comportano una ridistribuzione dei fluidi (aumento della πc) con richiamo di acqua dall’interstizio per mantenere la volemia). Molti anestetici causano vasodilatazione, portando così alla riduzione del rapporto fra volume dei liquidi circolanti e capacità del comparto vasale, o riduzione della capacità contrattile del miocardio con riduzione della portata. Il passaggio di fluidi fra i compartimenti può inoltre ridurre la volemia. Infiammazione, traumi, l’inadeguata terapia perfusionale, la sequenza ischemia/riperfusione, la sepsi, la circolazione extracorporea possono compromettere l’integrità vasale aumentando così la permeabilità capillare. Le macromolecole diffondono nello spazio interstiziale con riduzione del volume plasmatico e formazione di edema per aumento della pressione oncotica interstiziale . In presenza di infiammazione aumenta significativamente la quantità di liquido in quei compartimenti (cavità pleurica e peritoneale, ad esempio) che in condizioni normali ne contengono minime quantità, escludendolo funzionalmente dallo spazio interstiziale e da quello intravasale. Questo liquido può essere recuperato nel giro di alcuni giorni con opportune terapie, ma in acuto la perdita netta equivale funzionalmente ad un’emorragia. Questi “furti” sono frequenti in corso di ustioni, traumi estesi e chirurgia maggiore e possono superare i 10mL/kg/h: sono documentabili con l’impedenzometria segmentaria1 e possono essere aggravati da una terapia endovenosa incongrua2. Una corretta fluidoterapia deve tener conto sia della quantità dei liquidi da infondere che della loro tipologia. Nel paziente ospedalizzato, così come nel soggetto normale, il bilancio idrico (In & Out), è necessario per stabilire il corretto quantitativo di liquidi da introdurre. La valutazione della diuresi è semplice e fa parte della routine clinica (vn 1000-1500 ml/die), a ciò vanno aggiunte le Perdite Insensibili (1000 ml 300 ml cute -700 ml a traverso le vie aeree) e le Perdite Correnti (500 ml per ogni aumento di 1°C di temperatura corporea, 500-1500 per perdite extra da sudorazione; 1 ml per ogni ml di perdita gastrointestinale). 99 C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio Agli apporti idrici esogeni vanno aggiunte le secrezioni salivari (in media 1,5 l/24 h), gastriche (1,5 l/24 h), biliari(1.0 l/24 h), e pancreatiche (2,0 l/24 h). Nel duodeno pervengono in condizioni normali circa 8 l di liquidi al giorno, che vengono in gran parte riassorbiti nei tratti a valle: nel digiuno il flusso è ridotto a 3 l, e l’effluente ileocecale è di circa 1,5 l; nel colon si realizza un ulteriore massiccio riassorbimento di acqua tanto che nelle feci si ritrovano 150 – 200 cc di acqua. In condizioni patologiche sono possibili alterazioni a tutti i livelli sopra descritti(vomito, diarrea), che si traducono in una perdita netta di acqua3. Analoghe considerazioni si possono fare per i principali elettroliti: alterazioni del transito o delle secrezioni inducono una perdita prevalente di quegli elettroliti presenti nei singoli tratti del tubo digerente. Fluidoterapia Un soluto genera una pressione osmotica proporzionale al numero delle molecole e degli ioni indipendentemente dalle loro dimensioni. L’acqua è spinta attraverso le membrane cellulari secondo il gradiente osmotico verso lo spazio a maggiore concentrazione di soluti. Il volume di distribuzione dei fluidi infusi è pertanto condizionato dalla quantità di soluti. L’espansione del volume plasmatico (PV) dipende non solo dalla quantità del fluido infusa (VI) ma anche dalla sua distribuzione (PVE = VI/VD). Se consideriamo un modello chiuso, l’infusione di acqua determina l’espansione di tutti i compartimenti corporei e solo il 7% del volume infuso rimane nello spazio intravasale (fluidi intravasali /TBW=3/45 l); l’infusione di acqua pura è irritante per le vene a causa della sua ipotonicità, ma l’infusione di una soluzione glucosata al 5% è equivalente a quella dell’acqua perchè il glucosio è velocemente metabolizzato liberando acqua libera (come viene definita) che si distribuisce nei tre comparti in maniera proporzionale alle loro “dimensioni “pertanto maggiormente nelle cellule, la quantità che resta nei vasi è trascurabile, é inefficace emodinamicamente e può causare edema interstiziale e intracellulare. L’infusione di soluzioni saline isotoniche (quali la soluzione fisiologica di NaCl 0.9% o il Ringer lattato) a causa dei meccanismi di pompa di membrana che regolano la distribuzione delle varie specie ioniche espande solo i compatimenti extracellulari ed il 25% (fluidi intravasali /ECW=2/12 l) resta nello spazio intravasale ( per ogni litro infuso solo 300-350 ml rimangono in circolo). L’infusione di macromolecole (colloidi) che si distribuiscono solo nello spazio intravascolare e non si allontanano dal circolo comporta almeno in teoria un’espansione del PV del 100% del volume infuso4. Per prescrivere razionalmente una terapia di reintegro dei fluidi è pertanto importante identificare quale comparto è depleto, in condizioni di emergenza la priorità è la ricostruzione di un adeguato PV ed in questo contesto sono indicati adeguati volumi di colloidi o cristalloidi5. Situazioni particolari di disidratazione semplice, come la chirurgia maggiore associata a significative perdite di liquidi anche per l’evaporazione, potranno richiedere l’aggiunta di acqua sotto forma di soluzione glucosata al 5%5, 6. Tipologia dei fluidi Le soluzioni per terapia endovenosa possono essere classificate in cristalloidi e colloidi, con differenti proprietà fisicochimiche. Cristalloidi. Sono soluzioni acquose di ioni inorganici e piccole molecole organiche: il soluto principale può essere il glucosio o il cloruro di sodio, e possono essere isotoniche, ipotoniche o ipertoniche rispetto al plasma. La soluzione salina isotonica (fisiologica) ha una concentrazione dello 0,9% (0,9 g/l). La soluzione fisiologica a bassa concentrazione (5%) presenta un pH di 4,0% inferiore a quello plasmatico (7,35-7,45) e un’osmolarità di 280 mOsm/ l, situata nel range fisiologico (275-295). La soluzione salina allo 0,9%, introdotta 100 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 nella pratica clinica nella seconda metà dell’Ottocento, viene comunemente definite “fisiologica”, ma presenta significative differenze con il plasma: la concentrazione di Na+ è di 154 mmol/l, superiore a quella plasmatica (135 – 145 mmol/l); quella di Cl- è pure di 154 mmo/l (range normale 95105 mmol/l). Si viene così a realizzare un rapporto equimolare con eccesso di Cl-, laddove il rapporto fisiologico è 1,28/1-1,45/1, sono assenti il glucosio e gli altri elettroliti presenti nel plasma(K+, Ca2+, HCO3-), ed il pH risulta basso (5,0-5,5). L’osmolarità è nettamente maggiore di quella plasmatica(308 mOsm/l vs. 275-295). Lo spazio di distribuzione della soluzione fisiologica è quello dell’ECW; in soggetti sani la somministrazione in bolo di soluzione glucosata al 5%, priva di Na+, è più efficiente nel promuovere una rapida diuresi ad un volume pari di soluzione salina allo 0,9%: con quest’ultima il volume di urine è circa il 50% di quello dopo soluzione glucosata: una soluzione con caratteristiche intermedie (NaCl 0,9% con glucosio 5%) induce una diuresi di entità intermedia7. In uno studio randomizzato condotto in cross-over su soggetti sani la somministrazione di 2 l di soluzione glucosata al 5% è stata eliminata totalmente entro 6 ore, mentre un pari volume di soluzione fisiologica è presente ancora per il 60% nello stesso periodo di tempo8. Queste osservazioni, condotte in condizioni normali, possono essere interpretate in chiave evoluzionistica: l’uomo si è trovato per millenni a fronteggiare condizioni di carenza relativa di sodio con la dieta, per cui ha sviluppato efficienti meccanismi di risparmio del sodio; al contrario non possiede sistemi di controllo altrettanto efficienti dell’eliminazione dell’eccesso: questa condizione è tipica degli attuali modelli alimentari occidentali, ed è uno dei principali fattori causali dell’alta prevalenza, in questi paesi, dell’ipertensione arteriosa9. Si può anche realizzare in caso di somministrazione eccessiva di NaCl per via venosa. Esistono soluzioni addizionate con potassio, calcio, lattato che riproducono più fedelmente la composizione ionica del plasma. I cristalloidi con composizione ionica simile a quella del plasma sono definiti anche “bilanciati”. Le soluzioni bilanciate sono più simili della soluzione fisiologica alla composizione ionica del plasma; le più diffuse sono la soluzione di Ringer e quella di Hartmann (Ringer lattato): contengono meno Na+ (147 mmol/l nella Ringer, 131 mmol/l nella Hartmann, versus 154 mmol/l della soluzione fisiologica). Nella Hartmann anche il Cl- è meno concentrato (111 mmol/l vs 154 mmol/l). Il pH (6,0 e 6,5 rispettivamente nella Ringer e nella Hartmann, contenente lattato in funzione tampone) è più vicino a quello plasmatico. L’osmolarità del Ringer è alta, come quella della soluzione fisiologica (309 vs 308 mOsm/l); la Hartmann è isotonica nei confronti del plasma (274 mOsm/l). La minore osmolarità e concentrazione di Na+ della Hartmann ne giustificano la più rapida eliminazione urinaria. In uno studio randomizzato in doppio cieco e cross over in soggetti sani il 56% di un carico di 2 l di soluzione fisiologica non era stato ancora eliminato dopo 6 ore a fronte del 30% di un uguale carico di Hartmann, a conferma dello scarso adattamento all’eccesso di sodio. La minore concentrazione di sodio comporta una ridotta secrezione di ADH10. Le soluzioni di glucosio possono essere isotoniche (5% -50 g/l) o ipertoniche (1020-33- 50%). La piccola quantità di glucosio presente in quella al 5% è rapidamente metabolizzata, rendendo disponibile acqua libera, che penetra rapidamente nello spazio intracellulare: queste soluzioni sono indicate nella disidratazione semplice. Le soluzioni ipertoniche forniscono glucosio come substrato metabolico; da sole nell’ipoglicemia o in combinazione all’insulina in caso di mantenimento dell’equilibrio metabolico- nutrizionale. Esse non esercitano pressione oncotica. Il loro volume di distribuzione è l’ECW, hanno limitata capacità di espansione volemica, vanno somministrate a volume elevato, non presentano nessun rischio allergico, sono a basso costo. Colloidi. I colloidi sono sostanze omogenee non cristallizzanti costituite da macromolecole o particelle submicroscopiche C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio di sostanze dispersa in un solvente. Le particelle non possono essere separate da filtri o centrifugate come il sangue. I colloidi usati nella pratica clinica sono semisintetici (gelatine, destrani, amidi idrossietilati HES) o naturali (emoderivati: albumina umana, frazioni plasmaproteiche, plasma fresco o congelato, immunoglobuline). La maggior parte delle formulazioni sono veicolate in soluzioni isotoniche, saline o glucosate. Quindi sono isotoniche isosmotiche con il plasma, diffondono debolmente nell’interstizio. Le dimensioni delle molecole sono altamente variabili e sono descritte come polidisperse: le formulazioni di albumina umana sono titolate al 95% e sono omogenee come dimensioni molecolari (monodisperse). Il peso molecolare di un colloide è riferito alla media: il pattern di distribuzione del peso può essere anche descritto dal rapporto dell’attività osmotica di una soluzione colloidale fra membrane con differenti dimensioni dei pori. Quando somministrate all’interno del torrente circolatorio le loro dimensioni le costringono a rimanere nello spazio intravascolare (non attraversano la membrana capillare) procurando un aumento della pressione oncotica che determina un riassorbimento dell’acqua dallo spazio interstiziale e quando non sufficiente da quello intracellulare. Queste soluzioni sono chiamate “plasmaespanders”. a) Gelatine: sono derivate dall’idrolisi del collageno bovino e sono stati i primi colloidi artificiali ad essere impiegati clinicamente per il reintegro volemico. Hanno un peso molecolare di 35000 dalton, sono attualmente disponibili in varie preparazioni commerciali (Poligelina 3,5% - EMAGEL Gelatina succinato 4% GELFUSIN). Passano agevolmente attraverso la membrana glomerulare. Il 20-30% passa nello spazio interstiziale da cui può poi rientrare nel compartimento intravasale. La capacità di spandere il volume plasmatici è transitoria e dopo 4 ore l’espansione di volume è la metà di quanto infuso. La presenza di calcio, al loro interno, potrebbe indurre l’attivazione della cascata coagulatoria in presenza di sangue negli stessi devices di infusione. Negli ultimi anni alcune preoccupazioni sono sorte in 101 seguito ai casi di base, ma nessuno dei casi descritti è stato correlato all’uso di derivati del collagene bovino11. b) Destrani: Sono polimeri di derivazione biosintetica e sono disponibili in commercio in varie forme. Le più comunemente usate sono il destrano 40 al 10% (PM 40.000 dalton) e destrano 70 al 6% (PM 70.000 dalton). Le molecole con PM < di 50.000 passano attraverso il filtro renale, quelle più grandi vengono eliminate attraverso l’intestino o metabolizzate dalle destranasi del sistema reticolo endoteliale. Come tutti i colloidi si distribuiscono nello spazio intravasale dove permangono per un tempo più o meno lungo in relazione alle dimensioni delle particelle. Il destano 40 produce maggiore espansione volumetrica rispetto al 70 (per 1 litro 1-1,5 vs 0,8). Il 50% del destano 40 è eliminato in due ore e l’80% in 6 ore. c) HES: gli acidi idrossietilati(HES) sono colloidi sintetici prodotti a partire dall’amilopectina di mais o sorgo con successiva sostituzione idrossietilica a partire dall’idrossietilene, sul C2 o meno frequentemente su C3 o C6 in presenza di catalizzatore alcalino. Questo trattamento li rende resistenti all’attacco delle alfa amilasi aspecifiche del sangue che li metabolizzerebbero rapidamente. Gli HES sono suddivisi in basso (70-130kDA) medio (200kDA) ed alto peso molecolare (450-480kDA). Esistono varie preparazioni commerciali fra le più diffuse Haes –Steril 6% e 10%. Recentemente in Italia è stato messo in commercio il Voluven 6% PM 130 Dalton. Proprieta dei colloidi. I colloidi semisintetici differiscono fra loro per durata di azione, effetti emoreologici, eventuali interferenze sull’emostasi, interazioni con le cellule endoteliali e infiammatorie, reazioni avverse e costi. La durata dell’effetto sull’espansione del PV è condizionata dalla velocità di eliminazione dal circolo e dal catabolismo delle macromolecole. Il tasso di perdita attraverso la barriera endoteliale e il glomerulo renale è determinato dalle dimensioni delle molecole e dalle cariche di superficie; la velocità di metabolizzazione è dettata dalle caratteristiche chimiche delle molecole. 102 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 HAES-STERIL 6% - 10% Poli (O-2 idrossietil) amido grado di sostituzione 0,5 (0,40-0,55) (peso molecolare medio: 200.000) g 60 g 100 Sodio cloruro g 9,0 g 9,0 Na = 154 mmol/l 154 mmol/l 154 mmol/l Cl = 154 mmol/l 154 mmol/l 154 mmol/l 308 308 < 1,0 mmol NaOH/l < 1,0 mmol NaOH/l 3,5 - 6,0 3,5 - 6,0 + - Osmolarità teorica (mOsm/l) Acidità pH Il tasso di perdita attraverso la barriera endoteliale ed il glomerulo renale è determinato dalle dimensioni delle molecole e dalle cariche di superficie, teoricamente il miglio HES dovrebbe essere quello con il più basso peso molecolare in vivo al di sopra dell’eliminazione renale che è di circa 70-80 dalton, il voluven è 70-80, l’ Haes Steril 110-120 dalton. La velocità di metabolizzazione è dettata dalle caratteristiche chimiche delle molecole ad esempio rapporto c2/c6 negli HES e resistenza all’idrolisi. Possono determinare nefrosi osmotica ed un recente studio ha evidenziato la loro responsabilità diretta in danni istologici renali di pazienti trapiantati che necessitavano di depurazione extrarenale i cui donatori avevano ricevuto HES ad alto dosaggio come rianimazione di volume. Viscosità. I collodi riducono la viscosità del sangue con un meccanismo di emodiluizione migliorando così il flusso ematico. Questo effetto è proporzionale al grado di espansione del PV ed è pertanto maggiore con i prodotti a più basso peso molecolare che producono una maggiore espansione della volemia e riducono l’aggregazione dei globuli rossi. I colloidi a più alto peso molecolare (70.000 dalton) sono meno attivi su viscosità plasmatica e aggregazione eritrocitaria12 anche se l’emodiluizione indotta è comunque rilevante, e sussistono dubbi sulla possibile riduzione dell’ossigenazione tissutale12,13. Emostasi. Tutti i colloidi semisintetici influenzano l’emostasi, sia per la diluizione dei fattori della coagulazione, sia per effetti specifici sui singoli componenti dell’emostasi: al contrario l’emodiluizione indotta dai cristalloidi induce uno stato di ipercoagulabilità, di significato clinico comunque modesto14 . Le gelatine sembrano essere quelli con minori effetti sulla coagulazione, anche se è stata osservata una riduzione dei livelli dei fattori di von Willebrand (vWF), e VIIIc, e studi sul tromboelastoramma (TEG) e sonosclot suggeriscono che la forza della coagulo si riduce dopo grosse infusioni di questo tipo di colloidi, anche se ci sono poche evidenze che ciò si possa tradurre in un aumento del numero degli eventi emorragici15. Gli effetti degli HES sui meccanismi dell’emostasi dipendono dal loro peso molecolare16: sebbene gli indici coagulatori convenzionali non siano alterati dagli HES ad alto peso molecolare, è stata segnalata una coagulopatia con aumento del rischio di sanguinamento dopo intervento chirurgico17, associata a ridotta funzionalità piastrinica, sindrome tipo von Willebrand con riduzione di vWF, di fattore VIIIc e del TEG. Gli HES a basso e medio peso molecolare inducono effetti simili ma di minore entità18. I destrani, specie quelli a basso peso molecolare, provocano alterazioni significative della coagulazione tanto da essere considerati degli efficaci agenti antitrombotici19: oltre a diluire i fattori, aumentano il flusso nel microcircolo per inibizione dell’adesività piastrinica, riducono l’attivazione del fattore VII e promuovono la fibrinolisi (ed hanno specifici effetti sui singoli componenti della cascata emosta- 103 C. Tubili et al.: Fluidoterapia: obiettivi, strumenti e monitoraggio tica: riducono la concentrazione dei fattori VIIIc e vWF, così come l’attività dello stesso VIIIc e l’aggregazione delle emazie). I destrani ricoprono la superficie dei globuli rossi e possono così interferire con la possibilità di eseguire test di compatibilità ematica. Nei pazienti senza precedenti alterazioni della coagulazione viene raccomandata una dose masima di 1,5–2,0 g/kg di destrani per evitare complicanze emorragiche. Destrani ed HES avrebbero pure effetti antinfiammatori, quali la riduzione dell’adesione dei leucociti e delle piastrine all’endotelio. Fenomeni anafilattici: sono stati descritti con tutti i colloidi semisintetici e con l’albumina: l’incidenza di manifestazioni gravi è maggiore con le gelatine (<0,35%) e i destrani (<0,28%) rispetto all’albumina (<0,1%) e agli HES (<0,06)20. Effetti dei colloidi sulla funzionalità renale. Le gelatine non influenzano la funzione renale21 mentre i destrani possono dare insufficienza renale acuta per stato iperoncotico con ridotta pressione di filtrazione o per danno tubulare da diuresi osmotica. Gli effetti contrastanti degli HES su coagulazione, per fusione d’organo e funzione renale risentono dei diversi HES utilizzati, dei diversi pazienti selezionati e delle modalità di somministrazione. Alcuni studi hanno dimostrato che pazienti trattati con HES possono avere disfunzioni renali, e studi istologici su reni trapiantati mostrano alterazioni tubulari(nefrosi osmotica)22 , anche se una adeguata idratazione con cristalloidi previene questi effetti avversi sulla funzionalità renale. Uno studio recente controlla l’effetto di HES 130/04 nella rianimazione dei donatori, concludendo che l’utilizzo degli HES di terza generazione sembra essere associato ad un migliore effetto sulla funzione renale dei pazienti trapiantati23. A seguito di una singola somministrazione endovenosa di Voluven(500 ml) in pazienti con vari gradi di disfunzione renale, l’emivita terminale e la concentrazione plasmatica massima(di picco) non sono modificate dall’insufficienza renale, e i livelli plasmatici tornano al livello basale 24 h dopo l’infusione24. Uno studio multicentrico europeo su 3143 pazienti non mostra alterazioni sulla funzionalità renale25, ma al contrario l’utilizzo di HES 130/04 al 6% era stato associato a minori alterazioni della funzione renale e a minore marcata risposta infiammatoria endoteliale rispetto alle gelatine al 4%26. Gli HES non vengono rimossi dalla dialisi e sono stati utilizzati nell’ipotensione intradialitica, riuscendo a mantenere la pressione arteriosa similmente alla somministrazione con albumina e con effetti superiori all’uso di soluzione salina ipertonica27. Bibliografia 1. Tatara T, Tsuzaki K. Measurements of extracellular water volume by bioelectrical impedance analysis during perioperative period of esophageal resection. Masui 1999; 48: 1194-201 2. Chan ST, Kapadia CR, Johnson AW et al. Extracellular fluid volume and third space sequestration at the site of small bowel anastomosis. Br J Surg 1983; 70: 36-9 3. Allison S. Fluid, electrolyte and nutrition. Clinical Medicine 2004; 4: 573-8 4. 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Hydroxyethylstarch solutions versus saline for the treatment of intradialytic hypotension. J Ren Care 2007; 33(3): 30-3 Corrispondenza e richiesta estratti: Dott. Claudio Tubili Via Madonna di Fatima, 2 00147 - Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 CELLULE STAMINALI CANCEROSE DEI TUMORI SOLIDI MALIGNI CANCER STEM CELLS OF MALIGNANT SOLID TUMORS CONCETTA LAURENTACI1, GAETANO LAURENTACI* 1 U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione, ASL MT4, Matera Parole chiave: Cellule staminali cancerose. Tumori solidi Key words: Cancerous stem cells. Solid tumors Riassunto – I tumori solidi contengono una piccola percentuale (3-5%) di cellule iniziali del cancro (CICs), che sono capaci di rigenerare il tumore dopo la rimozione chirurgica o dopo un trattamento di chemioterapia. Le CICs, inoltre, sono alquanto resistenti alla radio-terapia. Le CICS, che si possono identificare in vitro usando marcatori cellulari specifici (CD133 o CD44), sono conosciute anche come cellule staminali cancerose (CSCs) e sono state dimostrate in diversi organi (encefalo, colon, pancreas, fegato, polmone, ovaio, prostata, testa e collo), nel melanoma e nelle linee cellulari isolate dall’osteosarcoma e da altri tumori. I metodi per identificare dette cellule staminali sono limitati. Una ricerca sulle CSCs, che esprimono una proteina fluorescente considerata il bersaglio del 26S proteasoma, ha suggerito la possibilità di identificare queste cellule in vitro ed i vivo. Numerose strategie terapeutiche (molecole microRNA, virus oncolitici, inibitori Akt, temozolomide, imatinib mesilato e altri agenti) sono stati individuati per colpire ed eliminare le CSCs dei tumori solidi maligni. Abstract – The solid tumors contain a small proportion (3-5%) of cancer initiating cells (CICs), that are capable of regenerating a tumor that has been surgical removed or treated with chemioterapic agents. The CICs are also particularly resistant to ionizing radiation. The CICs can be identified in vitro using specific cell markers (CD133 or CD44). The CICs are also known as cancer stem cells (CSCs) and have been demonstrated in different organs (brain, colon, pancreas, liver, lung, ovary, prostate, head and neck), melanoma and cell lines isolated from osteosarcoma or other tumors. Methods to identify stem cells in vivo are lacking. A research, targeting CSCs to express a fluorescent protein that is target of 26S proteasome, suggested the feasibility to identify and track these cells in vitro and in vivo. Many treatment strategies (microRNA molecules, oncolytic viruses, Akt inhibitors, temozolomide, imatinib mesylate and other agents) have been designed or are approaching to kill the CSCs of human solid tumors. Introduzione I tumori solidi maligni, che si sviluppano per gli effetti di mutazioni genetiche sequenziali del DNA, sono il risultato di una significativa instabilità genetica1. Questi tumori, inoltre, contengono una piccola sottopopolazione di cellule staminali (CS), che si rinnova mediante divisione asimmetrica e differenziazione multilineare2, mentre viene esclusa la colorazione fluorescente del DNA (3). Queste cellule iniziali dei tumori (CIT), identificate in diverse neoplasie maligne *già Prof. Stabilizzato di Chirurgia Sperimentale Università degli Studi di Bari 106 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 (leucemie, mieloma multiplo, tumori cerebrali, carcinomi colorettali, prostatici, epatocellulari e mammari), sono presenti anche in altri organi e tessuti suscettibili all’oncogenesi. Gli studi di diversi ricercatori4-6, che hanno riconosciuto alle CIT e alle cellule staminali cancerose (CSC) la capacità del tumore a recidivare dopo una remissione terapeu-tica, si sono orientati a definire le proprietà delle CIT e delle CSC, identificando i marcatori specifici di queste cellule ed i meccanismi molecolari della resistenza alla terapia, nell’inten-to di prevenire la recidiva neoplastica o potenziare il trattamento primario. Le osservazioni scientifiche di diversi ricercatori7-10, in particolare, hanno rilevato che le CIT specifiche di diversi tessuti, nonostante la variabilità del loro fenotipo, possono condividere l’elevata espressione di alcune glicoproteine di superficie (prominin 1 e 2) sulle cellule CD133. Queste glicoproteine, isolate per la prima volta dalle cellule staminali emopoietiche11, sono espresse sulle membrane cellulari e sono costituite da cinque domini transmembranari e da due ampie anse extracellulari glicosilate. La molecola CD133, pertanto, è il più importante marcatore dei numerosi tipi di CIT/CSC identificati negli ultimi cinque anni. Lo studio di tre linee cellulari dell’osteosarcoma umano (SAOS2, MG63, U2OS), isolate da giovani pazienti caucasici, ha valutato l’espressione dell’antigene CD133+, la positività del Ki67 e la presenza dei trasportatori ABCG212. Questa indagine, che ha accertato nel 3-5% delle cellule esaminate la positività della glicoproteina di membrana CD133, ha confermato anche per l’osteosarcoma le proprietà di questa proteina come marcatore biologico delle cellule staminali cancerose (CSC) comuni a diversi tumori solidi maligni. Proprietà delle cellule staminali cancerose La notevole importanza delle ricerche sulle CIT, che possono rigenerare un tumore solido dopo la rimozione chirurgica o in seguito agli effetti della resistenza alla chemiotera-pia ed alla radioterapia, ha sollecitato ulteriori ricerche sulle proprietà biologiche delle CSC, dotate dei marcatori di membrana (CD133, CD44), che identificano in vitro queste cellule. Un’indagine sperimentale sulle cellule di due tumori umani (glioma, carcinoma della mammella femminile), ha accertato la sensibile riduzione del 26S proteasoma, che è il principale regolatore dei processi proliferativi cellulari13, nella fase di remissione del tumore innestato in topi nudi. L’elevata incidenza della bassa attività del 26S proteasoma, espressa dalle cellule dei due tumori (26,6% e 52,9%), ha indotto i ricercatori a riconoscere l’idoneità della riduzione di attività del proteasoma come un fattore specifico dell’identità delle CIT, da utilizzare in vivo come bersaglio per l’eliminazione in vivo del tumore. Lo studio dei marcatori cellulari, che caratterizzano le cellule (CIT/CSC) favorenti la diffusione o la recidiva dei tumori solidi maligni, ha descritto un particolare aspetto della DNA metilazione dell’antigene CD133 (Prominin-1). Questa ricerca, eseguita sulle linee cellulari dei carcinomi del colon e dei glioblastomi14, ha evidenziato la DNA metilazione primaria del promoter CpG del CD133 nelle cellule con espressione ridotta o assente della proteina, mentre nelle cellule CD133+ pure il processo di metilazione è risultato assente. Si è riconosciuto, pertanto, che la DNA metilazione del CD133 è un evento anormale del promoter, che non si verifica nel colon e nel cervello normali, ma soltanto nelle colture cellulari dei tumori primari. Questa osservazione ha confermato che il meccanismo della DNA metilazione aberrante è associato nei tumori umani all’anomalia del silenziamento genico. Le ricerche degli ultimi cinque anni hanno dimostrato l’esistenza delle CSC, che danno origine ai tumori solidi maligni e sono in grado di sostenere la resistenza del tumore alla terapia (chirurgica, radiante e farmacologica) o di riattivare la proliferazione neoplastica dopo qualsiasi trattamento15-18. Si è rilevato, tuttavia, che la presenza delle CSC può risultare limitata e caratterizzata dalla mancanza C. Laurentaci et al.: Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni di metodi per preservare queste cellule. Un gruppo di ricercatori, pertanto, si è proposto di valutare una procedura di preservazione criogenica per le CIT dei tumori cerebrali19, dimostrando che la metodica è idonea a preservare il fenotipo biologico ed il profilo genetico delle CIT. Questa procedura tecnica , che ha consentito di disporre di una riserva di CIT per eseguire altre ricerche sperimentali, è stata usata anche per studi sulle CSC di altri tumori (cr. mammella, prostata, polmone, testa e collo), per valutare la resistenza alla terapia e le modalità di espansione progressiva dei tumori. La tecnica di conservazione criogenica è stata utilizzata anche per identificare e carat-terizzare le CSC dei carcinomi ovarici20. In particolare, si è accertato che le cellule dei carcinomi ovarici derivano da una sottopopolazione di cellule CD44+CD17+, che sostengono la chemioresistenza di questi tumori maligni e possono rappresentare il bersaglio di una eventuale indicazione terapeutica. Le ricerche sulle CSC della mammella hanno sostenuto l’importanza dell’identificazione dei marcatori biologici specifici21-23, che sono coin-volti nella cancerogenesi della ghiandola, risultando i bersagli della terapia rappresentati dal marcatore Ki67 della proliferazione cellulare e dal recettore estrogeno (ER) positivo o negativo24. Il numero limitato delle CSC rispetto al volume del carcinoma mammario, tuttavia, ha reso problematico il riscontro di queste cellule e la definizione del meccanismo molecolare dell’attivazione proliferativa. Lo studio delle CSC del carcinoma pancreatico, a sua volta, ha evidenziato che queste cellule esprimono i marcatori di superficie CD44 e CD24 in proporzioni limitate (0,5% e 1,0%) rispetto a tutte le cellule cancerose25. Le CSC pancreatiche, inoltre, manifestano una regolazione eccessiva dei geni del rinnovamento delle cellule staminali normali (Sonic hedgehog o SHH e BMI-1) ed un’azione di supporto alla diffusione delle metastasi neopla-stiche. L’indagine, eseguita su una serie di linee cellulari positive per il recettore androgeno (RA+) dei carcinomi della pro- 107 stata umana26, ha rilevato la presenza e la bassa frequenza dell’antigene di membrana CD133+, sostenendo che queste cellule sono dotate di una capacità proliferativa illimitata tipica delle CIT. Secondo queste indicazioni, pertanto, le CIT della prostata che esprimono il recettore RA+ possono acquisire l’attività di cellule stami-nali, risultando un bersaglio terapeutico per le cellule cancerose della prostata. I melanomi possono contenere in bassa frequenza le cellule oncogeniche (CIT/ CSC), che esprimono i marcatori di membrana CD133+ e ABCG2+27,28. Queste cellule sono state osservate nei melanomi prodotti dagli innesti cellulari xenogenici nei topi e da una linea cellulare melanomatosa (WM115), che esprime i più importanti fattori angiogenici (notch 4) e linfoangiogenici (prox 1 e podoplanin), cooperanti alla genesi del tumore. Alcuni studi hanno identificato la presenza di cellule staminali adulte (CSA) nella tiroide umana29,30. Queste cellule esprimono diversi marcatori specifici: il fattore nucleare di trascrizione OCT-4 (noto come OCT-3 o OCT-3/4) ed i marcatori endodermici GATA-4 e HNF4-alfa. In alcune linee cellulari (ARO, KAT-4, KAT18, FRO) del carcinoma anaplastico della tiroide31, che è un tumore ad elevata malignità e con prognosi scadente, si è rilevata una piccola sottopopolazione di CSC (CD133+). Queste cellule, che esprimevano anche il fattore specifico di trascrizione dei tiroblasti (TTF-1) ed il marcatore cellulare staminale OCT-4, sono risultate negative per altri marcatori (c-KiT e THY1) di cellule staminali. Tra le quattro linee cellulari in esame, tuttavia, soltanto le linee ARO e KAT-4 hanno evidenziato una frequenza elevata (64 + 9 % e 57 + 12%) di cellule CD133+. In analogia ad altri tumori epiteliali, i carcinomi spinocellulari della testa e del collo (CSTC) contengono una popolazione eterogenea di cellule cancerose, documentata da varie osservazioni scientifiche32- 34. Le cellule dei CSTC, inoltre, contengono anche una piccola frazione (<10%) di CSC che, dopo un arricchimento selettivo, esprimono il marcato-re cellulare di membrana CD44+. Queste cellule CD44+ sono 108 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 caratterizzate dal gene BMI1, che agisce come fattore di trascrizione del rinnovamento cellulare. Cellule staminali dei tumori cerebrali Le ricerche, che hanno riconosciuto l’esistenza delle cellule staminali oncogene (CIT/CSC) dei glioblastomi, hanno evidenziato che esprimono il gene CD133 e altri geni neurogenici, dotati di un significativo potenziale rigenerativo35. Le CSC dei glioblastomi, infatti, possono ripresentare le proprietà policlonali dei tumori primari dopo l’innesto nei topi nudi. Nell’esaminare la possibilità di una terapia genica di inibizione delle CSC glioma- tose 35 , si sono valutati gli effetti della proteina morfogenetica dell’osso (BMP4) su que-ste cellule. La BMP4, che si comporta come un agente inibitore/regolatore delle cellule iniziali del processo neoplastico, ha dimostrato la sua utilità come agente terapeutico non citotossico in combinazione alla terapia cellulare specifica. L’analisi comparativa delle CSC del glioblastoma multiforme di 44 pazienti, con i relativi decorsi clinici, ha previsto le possibilità di sopravvivenza di questi pazienti36. L’espressione combinata dei marcatori CD133+/Ki67 nelle colture in vitro delle CSC, infatti, ha sostenuto l’importanza di questi prodotti genici per la prognosi del tumore, derivante dalla progressione neoplastica e dallo scadente esito clinico. L’esame, di una linea cellulare di glioblastoma umano (U-87 MG), ha confermato la presenza di una piccola sottopopolazione di CSC, che esprimeva il marcatore di membrana CD13337. Queste cellule sono risultate resistenti all’apoptosi indotta dall’attivazione del recettore Fas. Si è riconosciuta, pertanto, l’esigenza di un trattamento idoneo a modificare l’anomalia. La scoperta delle cellule staminali dei gliomi maligni (CSGM) ha contribuito a chiarire i meccanismi di sviluppo e progressione della gliomagenesi38. Le analisi delle CSGM criopreservate e scongelate periodicamente ha contribuito a confron- tare le proprietà biologiche delle CS dei gliomi primari (SU-1) e secondari (SU-2). Le CS primarie (SU-1), che sono rimaste stabili anche dopo una serie di episodi alterni di congelamento e scongelamento, dopo l’innesto intracranico in topi nudi (atimici) hanno prodotto una massa neoplastica con bassa capacità invasiva. Le CS secondarie (SU-2), invece, hanno dimostrato una proprietà alquanto aggressiva ed invasiva, rispetto alle proprietà cellulari dei tumori primari. I due tipi di CS (SU1, SU-2), tuttavia, non hanno raggiunto mai la differenziazione terminale, manifestando uno stadio primitivo di differenziazione con bassa attività autofagica. Le cellule staminali dei gliomi maligni (CSGM) esprimono livelli elevati del gene e del-l’oncoproteina c-Myc, che sono necessari allo sviluppo ed alla progressione del tumore39. La perdita del gene c-Myc, infatti, abolisce la produzione delle CSGM, sostenendo l’impor-tanza del gene nella biologia delle CS gliomatose. La Nestin è una proteina filamentosa che è implicata nelle fasi precoci di attività delle linee cellulari neuronali. L’espressione della proteina Nestin, pertanto, è un marcatore di differenziazione del fenotipo più aggressivo dei glioblastomi, che si può utilizzare per la prognosi di questi tumori maligni. L’indagine in 156 pazienti affetti da glioblastomi, che ha valutato l’espressione della proteina mediante una metodica seriale40, non ha rilevato alcuna differenza significativa durante il decorso clinico successivo alla radioterapia. L’inda-gine, che ha studiato la correlazione tra l’espressione dei marcatori biologici Nestin e CD133 ed il grado di malignità dei gliomi41, ha contribuito a valutare la prognosi di questi tumori. Il riscontro combinato dei due marcatori, infatti, ha sostenuto la previsione della natura aggressiva del glioblastoma. Inibizione delle cellule staminali dei tumori solidi. Le ricerche che hanno identificato le cellule staminali dei tumori cerebrali (CSTC) hanno aperto nuove prospettive per la terapia di questi tumori42, riconoscendo l’utilità e l’efficacia di diversi agenti terapeutici. Le microRNA (miRNA) C. Laurentaci et al.: Cellule staminali cancerose dei tumori solidi maligni sono piccole molecole di RNA, che regolano l’espressione genica e partecipano a varie funzioni cellulari, influenzando l’evoluzione di diverse infermità43-46. Le miRNA sono molecole di RNA non codificanti costituite da 19-24 molecole, che regolano geni cruciali per alcune funzioni cellulari (apoptosi, differenziazione e sviluppo). Le miRNA, inoltre, sono coinvolte nella fase iniziale e nella progressione dei tumori maligni, agendo come oncogeni o geni tumore-soppressori47,48. Altre osservazioni hanno confermato che le miRNA agiscono come regolatori della0 apoptosi49, evidenziando anche significativi effetti sulle metastasi come attivatori o soppressori50. Altre indagini51,52, a loro volta, hanno segnalato che alcune miRNA (micro-7 e micro-21) sono coinvolte nella genesi dei glioblastomi. Uno studio con le miRNA, specialmente con la miRNA-451 a concentrazioni nanomo-lecolari, ha inibito la formazione e lo sviluppo delle neurosfere delle cellule A172, agendo in sinergia con l’imanitib-mesilato e potenziando il suo effetto biologico53. Analoghi risultati sono stati ottenuti con le cellule CD133 derivate dai glioblastomi primari. Queste osserva- zioni hanno sostenuto che alcune miRNA possono agire come prodotti capaci di influenzare la differenziazione delle CSC in modo da inibire la proliferazione neoplastica. Un’altra indagine, basata sulla transfezione del miRNA-124 e del miRNA-137, ha accertato la differenziazione delle CS neurali murine, delle CS derivanti dall’oligodendro-glioma murino e dalle CS del GBM umano54. L’arresto del ciclo cellulare del GBM, in particolare, ha riconosciuto l’efficacia dei due miRNA verso il tumore maligno. Le indagini basate su alcune linee cellulari di neuroblastomi, che esprimevano i marcatori cellulari CD133 e ABCG2 e risultavano resistenti alla doxorubicina, hanno suggerito l’efficace inibizione delle CSC ad opera di un virus oncolitico (herpes simplex virus: HSV), privato dell’azione patogena da una mutazione genetica55. La proteina Nestin, espressa dalle CSC, ha rappresentato il bersaglio dell’azione oncolitica del HSV. 109 Lo sviluppo delle terapie, che considerano le CSC come un bersaglio sensibile per la sopravvivenza dei pazienti neoplastici, hanno accertato che una popolazione arricchita di CSC dei tumori cerebrali e suscettibile all’azione citolesiva di un inibitore dell’Akt56. Il meccanismo d’azione dell’inibitore-Akt è stato attribuito in prevalenza all’induzione della apoptosi ed alla soppressione della formazione di neurosfere. Si è evidenziato, inoltre, che l’azione dell’inibitore-Akt riduceva la motilità e la capacità invasiva delle cellule neopla-stiche. L’inibizione dell’Akt verso le CSC ha migliorato la sopravvivenza dei topi immuno-compromessi riceventi l’innesto xenogenico di cellule del glioma umano. La chemioterapia dei glioblastomi (GBM), basata sulla Temozolomide (TMZ), può contenere la crescita di questi tumori, fino alla recidiva favorita dalla persistenza delle CSC57. L’analisi degli effetti della TMZ sulle cellule CD133+ e CD133- delle linee dei GBM, tuttavia, ha evidenziato la resistenza all’azione citotossica del chemioterapico, mentre si verificava la deplezione delle cellule CD133+ e non delle CD133-. Un esperimento in vitro con dosi sub-letali di TMZ per 2 giorni, invece, ha accertato la possibilità di una completa eliminazione delle CSC (CD133+). Questa indicazione, in prospettiva, ha suggerito la possibi-lità di un analogo effetto anche in vivo, previa definizione di un adeguato protocollo tera-peutico. Bibliografia 1. Neuzil J, Stantic M, Zobalova R, et al. 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Laurentaci U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione ASL MT, 75100 - Matera ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 TUBERCOLOSI E FUMO DI TABACCO: UNA ASSOCIAZIONE ANCORA “TRASCURATA” TOBACCO AND TUBERCULOSIS: AN ASSOCIATION STILL “OVELOOKED” ALFONSO MARIA ALTIERI1, MAURO SIGNORA2, GIORGETTA GENCARELLI3, FRANCO SALVATI4 1 UOC Broncopneumologia e Tisiologia, 2 UOC Pneumologia oncologica II, Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini Roma; 3UOC Malattie Apparato Respiratorio, Azienda Ospedaliera S. Andrea, Roma; 4Società Italiana di Tabaccologia, SITAB Parole chiave: Fumo di tabacco. Tubercolosi polmonare. Correlazioni Key words: Smoking. Respiratory tuberculosis. Relationship Riassunto – Oggetto della Rassegna è la correlazione tra fumo di tabacco e rischio di tubercolosi polmonare in bambini, giovani adulti ed anziani. Abstract – Objet of this review is the risk of respiratory tuberculosis from exposure to tobacco smoke in children, adults and elderly. L’impatto negativo del fumo di tabacco sulle vie respiratorie ed in particolare sulle capacità difensive della mucosa nei confronti degli agenti infettivi è noto da tempo. In particolare da anni si indaga sul ruolo del fumo nello sviluppo della tubercolosi e da tutti gli studi a disposizione è emersa una significativa correlazione tra fumo attivo, fumo passivo, inquinamento degli ambienti chiusi e insorgenza di tubercolosi (TB). Si calcola che ogni anno muoiano nel mondo per TB due milioni di persone, la maggior parte nei Paesi in via di sviluppo. In questi Paesi vivono 900 milioni degli 1,1 miliardi di fumatori dei vari continenti e la circostanza non è casuale, stando a quanto affermato nel 2007 dalla Harvard School of Public Health sulla rivista PloS Biology: i dati raccolti hanno messo in evidenza che i soggetti fumatori hanno un rischio maggiore rispetto ai non fumatori e che la TB incide maggiormente nei Paesi dove si fuma di più con conse- guente enorme impatto sociale e sanitario1. Recentemente Bates et al.2 e Chang et 3 al. hanno affrontato di nuovo, attraverso sistematiche rassegne integrate da metanalisi, la problematica già sollevata più di 50 anni addietro (precisamente nel 1956) da Lowe4 relativa all’eventuale rapporto tra abitudine tossico-tabagica e TB polmonare nei suoi numerosi aspetti: sulla scorta dei risultati di queste ricerche l’International Union Against TB and Lung Diseases e la World Health Organization hanno predisposto un piano per ulteriori approfondimenti al fine di una più precisa valutazione del rischio soprattutto in chiave di Prevenzione sia primaria che secondaria5. Zellweger6 ha individuato tre diversi tipi di rischio inerenti l’influenza del fumo di tabacco sulla TB: • rischio di infezione allorchè si è esposti al contagio, specialmente per quanto A. M. Altieri et al.: Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora “trascurata” riguarda i bambini esposti al fumo passivo e gli adulti fumatori; • rischio di malattia conclamata nei soggetti con infezione tubercolare latente; • rischio di morte per TB. In particolare il RR di infezione nei bambini esposti al fumo passivo è proporzionale all’intensità e alla durata dell’esposizione al pari, del resto, di quanto si osserva negli adulti fumatori attivi. Per quel che concerne il rischio di malattia nei soggetti con pregressa infezione è da sottolineare che la malattia si sviluppa soltanto nel 10% degli adulti mentre tra i bambini si verifica nel 50% di quelli di età non superiore ad un anno. Circa la mortalità per TB attribuibile al fumo attivo Lin et al.7 stimano, in base ai dati di metanalisi, che la OR sia pari a 2,2. Prendendo in considerazione le tre fasce di popolazione rappresentate rispettivamente da bambini, adulti e anziani i relativi contributi della letteratura (per altro numericamente assai scarsi) evidenziano situazioni infettivo-epidemiologiche diversificate e quindi di particolare interesse come qui di seguito riferito. Nell’ambito della popolazione infantile risaltano i dati relativi al rilievo che può assumere il fumo passivo sia nei Paesi europei che in paesi di altri Continenti. Per quanto concerne l’Europa è significativo quel che è emerso dallo studio spagnolo condotto da Altet et al.8 del Dipartimento di Sanità di Barcellona: l’esposizione passiva al fumo di tabacco dei familiari, sia in ambito domestico sia al di fuori di esso, è risultata correlata con un aumento del rischio che la malattia tubercolare insorga immediatamente dopo la fase di infezione. Inoltre nei bambini di età 0-9 anni tale rischio è risultato più elevato rispetto a quello in cui incorrono i bambini di 10 o più anni di età; è inoltre emerso che la correlazione dose-risposta con il numero di sigarette fumate dagli adulti in ambito domestico è statisticamente assai significativa (p<0,001). Nell’ambito extraeuropeo è da segnalare il ponderoso studio multicentrico sudafricano del TB Center della Faculty of Health Science dell’Università di Cape Town coordinato da den Boon et al.9 con la collaborazione franco-olandese, sotto l’egida del UIATLD. Da questo studio che 113 ha coinvolto 1344 bambini di età inferiore a 15 anni è emerso che - benchè in generale per il fumo passivo non vi sia chiara evidenza di associazione con l’infezione da Micobatterio Tubercolare - l’analisi stratificata relativa a famiglie in cui fosse presente un paziente con malattia tubercolare ha evidenziato che tale associazione è risultata significativamente presente, come documentato correttamente dal test cutaneo alla tubercolina. A conclusioni pressoché analoghe approda lo studio condotto in India da Sing et al10: del Dipartimento di Malattie Polmonari di Chandgarh che peraltro si caratterizza per l’età dei bambini oggetto della ricerca, tutti di età inferiore ai 5 anni. Ne è risultato che: 1) la prevalenza sia dell’infezione che della malattia tubercolare nei bambini contagiati in casa da familiari adulti è più elevata rispetto a quella rilevata tra la popolazione generale e 2) il rischio è significativamente maggiore a seguito del contatto con adulti bacilliferi. Quanto ai fattori di rischio, i più rilevanti per la trasmissione del contagio sono stati: l’età minore di 2 anni (p<0,0001), lo stato di grave malnutrizione (p<0,0001), la mancata vaccinazione con BCG e l’esposizione al fumo passivo (p<0,0003). È da sottolineare peraltro, che il rischio (ovviamente più elevato a seguito di contatti con familiari bacilliferi) è risultato comunque significativo anche a seguito di contatti con familiari malati non bacilliferi. In letteratura i riferimenti relativi al fumo di sigaretta nella popolazione di adulti non anziani sono parimenti piuttosto scarsi sia per quanto riguarda i Paesi europei sia per quelli degli altri Continenti. Tra i più interessanti è da citare quello dovuto a Ariyothai et al.11 del Takin Hospital in cui su iniziativa del Ministero tailandese della Sanità ci si è proposti di valutare gli eventuali effetti del fumo di sigaretta, attivo e passivo sull’insorgenza della TB nell’adulto. Sulla base dei dati raccolti in ambito tisiologico ospedaliero è risultata una significativa associazione con la precoce età di iniziazione al tabagismo nonchè con la durata dell’abitudine tabagica: il rischio più elevato di contrarre la malattia è stato riscontrato rispetto al rischio dei non fumatori negli adulti 114 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 che avevano iniziato all’età di 15 anni, in quelli che avevano fumato per più di 10 anni e nei fumatori di oltre 10 sigarette/die. Anche per il fumo passivo con esposizione oltre 3 volte la settimana, la stima ha comportato un significativo aumento del rischio rispetto alla popolazione adulta non esposta. Peraltro, in tema di rapporti tra tabagismo e TB nell’adulto sono riportati in letteratura contributi relativi ad eventuale ritardo della negativizzazione dell’espettorato dei malati fumatori rispetto a quelli non fumatori: viene segnalato in particolare da Abal et al.12 che nei malati fumatori attivi la negativizzazione dell’espettorato avviene meno precocemente. Infine per quanto attiene la correlazione tra tabagismo e rischio di TB nella popolazione anziana sono da segnalare le conclusioni dell’ampio studio di Leung et al.13: in confronto a soggetti mai fumatori il rischio di ammalare di TB polmonare è risultato in rilevante eccesso tra i fumatori abituali (il che, peraltro non è stato osservato per quanto concerne la TB extrapolmonare). Inoltre anche tra i fumatori anziani abituali si è dimostrato che la cessazione dal fumo è in grado di ridurre almeno della metà il rischio di contrarre la malattia tubercolare. Questi contributi provengono sia da Paesi extraeuropei (come nel caso del precedente riferimento) sia da Paesi europei. In particolare per quanto riguarda la Spagna Gullòn Blanco et al.14 a conclusione della loro ricerca su pazienti tubercolari che non presentavano immunodeficienza alcuna né erano affetti da infezione da HIV hanno segnalato che l’abitudine tossico-voluttuaria tabagica ritardava la negativizzazione dell’espettorato. Gli stessi AA in un successivo studio15 su più ampia casistica hanno rilevato che il tempo di negativizzazione dell’esame colturale dell’espettorato correlava significativamente con la variabile “gender”: alla fine del secondo mese di terapia infatti la percentuale di persistente positività è risultata nettamente superiore nelle donne rispetto agli uomini (44% vs 23,3%: p=0,03). Anche lo studio realizzato in Turchia da Güler et al.16 ha dimostrato che i pazienti fumatori affetti da TB si sono negativizza- ti più tardivamente rispetto a quelli non fumatori: in particolare tra i fattori che hanno favorito significativamente questo ritardo è da annoverare la coesistenza del diabete mellito che ha inciso in maniera più rilevante nel gruppo dei fumatori. L’importanza del fattore “diabete mellito” nel determinare un ritardo della negativizzazione dell’espettorato all’esame colturale è stata confermata dallo studio lituano di Holtz et al.17 eseguito in collaborazione con i ricercatori di Atlanta in soggetti affetti da TB multiresistente (MDR). Inoltre da una studio effettuato da autori russi18 su 405 pazienti fumatori (di cui 84 fumatori di tabacco inveterati) e 193 pazienti non fumatori (gruppo di controllo) al momento della diagnosi di tubercolosi polmonare, il fumo è stato correlato con un significativo aumento dei casi di resistenza (anche MDR) del Mycobacterium tuberculosis ai farmaci: i ceppi resistenti sono stati 42,9% nei fumatori (54,4% nei fumatori di tabacco “incalliti”) versus 31,9% nel gruppo di controllo (p<0,01). Commento Vari AA tra cui Casali et al.19 e più recentemente Pai et al.20 (questi ultimi esprimendosi addirittura in termini di “interazione letale”) hanno illustrato il rapporto negativo tra fumo di tabacco e vie respiratorie che si può manifestare con l’incremento della secrezione bronchiale o la ridotta clearance muco-ciliare. I meccanismi chiamati in causa sono vari21 tra essi l’apoptosi dei macrofagi alveolari, la ridotta espressione delle proteine di superficie correlate alla presentazione dell’antigene (al che sembra concorrere anche la nicotina che è in grado d’interferire negativamente sul segnale di trasduzione) e la stessa interleuchina-18 della quale nell’espettorato indotto dei fumatori sono stati rilevati livelli ridotti. È da segnalare il danno che viene inferto alla funzione macrofagica, fondamentale nella difesa contro il Micobatterio tubercolare, sia in termini di ridotta aderenza batterica e di capacità fagocitaria sia in termini di minor rilascio di citochine pro infiammatorie con contestuale danno di capacità di killing sia infine, per la ridotta produzione A. M. Altieri et al.: Tubercolosi e fumo di tabacco: una associazione ancora “trascurata” di TNF-α e di NO. Inoltre il fumo di tabacco è uno dei più potenti ossidanti a cui un individuo possa esporsi, la sua azione viene svolta in maniera diretta attraverso gli ossidanti in esso contenuti ed indiretta attraverso la stimolazione di cellule infiammatorie residenti e reclutate, le quali una volta attivate producono sostanze reattive dell’O2 (ROS). È più che plausibile che molti di questi meccanismi possano concorrere negativamente nell’influenzare le svariate ripercussioni che il tabagismo sembra avere sulla TB alla luce delle sia pur scarse esperienze riportate dalla letteratura e che comunque sembrano giustificare l’allarme espresso a riguardo nel 2002 da Maurya et al.22. Da qui l’ulteriore impegno “a non trascurare” questo campo di studio alla luce sia del rilievo che in questi ultimi anni viene dato all’infezione tubercolare latente sia alla TB attiva: si profila quanto meno opportuno, a giudizio degli Autori di questa Rassegna, l’inserimento del controllo del fumo di tabacco nei programmi di prevenzione della TB. Bibliografia 1. Harvard School of Public Health. Smoking increase risk of TB infections: study finds. PloS Biology 2007 2. Bates MN, Khalakdina A, Pai M, et al. Risk of tuberculosis from exposure to tobacco smoke: a systematic review and meta-analysis. Arch Intern Med 2007; 167: 335-42 3. Chiang CY, Slama K, Enarson D. Associations between tobacco and tuberculosis. Int J Tuberc Lung Dis 2007; 11: 258-62 4. Lowe CR. An association between smoking and respiratory tuberculosis. Br Med J 1956; 2: 1081-86 5. Grans A, Ottmani SE, Lonnroth K, et al. Replay “Addressing smoking cessation in tuberculosis control”. World Health Org 2007; 85: 647-8 6. Zellweger JP. Tobacco and tuberculosis. Monaldi Arch Chest Dis 2008; 2: 43-5 7. Lin HH, Ezzati M, Murray M, Tobacco smoke. Indoor air pollution and tuberculosis. A systematic rewiev and Meta-Analisys PloS Med 2007; 4(1):e20 8. Altet Mn, Alcade J, Tabermer JL, et al. Passive smoking and risk of pulmonary tuberculosis in children immediately following infection. A case control study. Tubercle and Lung Disease. 1986; 6: 536-44 115 9. den Boon S, Verver S, Marais BY, et al. Association between passive smoking and infection with Mycobacterium tuberculosis in children. Pediatrics 2007; 4: 734-49 10. Sing M, Mynak ML, Kumar L, et al. Prevalence and risk factors for transmission of infection among children in house contact with adults having pulmonary tuberculosis. Arch Dis Child 2005; 90: 624-8 11. Ariyothai N, Podhipak A, Akarasewi P, et al. Cigarette smoking and its relation to pulmonary tuberculosis in adults. Southest Asian J Trop Med Public Health 2004; 35: 219-27 12. Abal AT, Jayakrishnan B, Parwer S, et al. Effect of cigarette smoking on sputum smear conversion in adults with active pulmonary tuberculosis. Respir Med 2005; 99: 415-20 13. Leung CC, Li T, Lam TH, et al. Smoking and tuberculosis among the elderly in Hong Kong. American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine 2004; 170: 1027 14. Gullón Blanco JA, Suarez Toste I, Fernandez ML, et al. Tabaquismo y negativization bacteriologica del esputo en la tuberculosis pulmonar. Med Clin (Barc) 2007; 128: 565-8 15. Gullón JA, Suárez I, Lecuona M, et al. Time to culture conversion in smokers with pulmonary tuberculosis. Monaldi Arch Chest Dis 2009;71(3):127-31. 16. Güler M, Unsal E, Dursun B, Aydln O, Capan N. Factors influencing sputum smear and culture conversion time among patients with new case pulmonary tuberculosis. Int J Clin Pract 2007; 61(2): 231-5 17. Holtz TH, Sternberg M, Kammerer S, et al. 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Altieri, Via Vegezio, 15 00136 - - Roma ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Gestione e organizzazione sanitaria DISUGUAGLIANZE NEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE INEQUALITIES IN NATIONAL HEALTH SERVICE BRUNO NOTARGIACOMO U.O. Sistema Informativo Aziendale, Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Servizio Sanitario Nazionale. Disuguaglianza Key words: National Health Service. Inequality La legislazione vigente affida al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) il compito di attuare i principi costituzionali di tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività, uguaglianza e universalità dell’accesso ai servizi, globalità dell’assistenza preventiva, curativa e riabilitativa, inviolabilità della libertà individuale nel consenso al trattamento sanitario, rispetto della dignità personale nell’erogare le prestazioni, solidarietà politica, economica e sociale, sussidiarietà verticale tra i livelli istituzionali del servizio pubblico ed orizzontale tra il servizio pubblico e l’autonoma iniziativa di cittadini singoli o associati nel processo assistenziale. Le politiche sanitarie degli anni ’90, fondate sul paradigma della “limitazione delle risorse”, hanno trasformato la Riforma Sanitaria 833/78 condizionando i livelli di prestazioni sanitarie alla disponibilità di risorse finanziarie e convertendo le Unità Sanitarie Locali in Aziende Sanitarie Locali (ASL). Al fine di conciliare il diritto alla salute con le risorse finanziarie lo Stato determina nello stesso tempo i Livelli Essenziali ed Uniformi di Assistenza (LEA) ed il fabbisogno finanziario per realizzarli. I LEA costituiscono un vincolo per l’autonomia dei Servizi Sanitari Regionali, che ne assicurano l’erogazione attraverso le ASL e le Aziende Ospedaliere (AO); essi vanno garantiti a tutti i cittadini a prescindere da età, sesso, condizione personale e socio-economica, residenza, cultura, religione e colore della pelle. Le ASL erogano i LEA con servizi propri o privati accreditati dalle Regioni, mentre i cittadini sono liberi di scegliere i medici curanti ed i luoghi di cura. Le ASL e le AO sono governate da un Direttore Generale (DG), che risponde dei risultati raggiunti alla Regione, che lo nomina. I Direttori delle Unità Operative (DUO) sono incaricati dal DG e la loro attività è sottoposta a verifiche periodiche. Stato, Regioni ed ASL concorrono all’attuazione del SSN con funzioni rispettivamente di indirizzo-coordinamento, di legislazione e di erogazione e pianificano le attività attraverso il Piano Sanitario Nazionale, il Piano Sanitario Regionale ed il Piano Attuativo Locale; questi devono essere coerenti in modo tale che il livello superiore vincoli quello immediatamente inferiore. Al contempo le Regioni hanno l’autonomia di erogare prestazioni non comprese nei LEA e di reperire le risorse finanziarie necessarie per soddisfarli. I LEA sono erogati gratuitamente, ma lo Stato può prevedere forme di compartecipazione degli utenti; anche le Regioni possono prevedere ulteriori forme di compartecipazione per risanare eventuali disavanzi nel bilancio economico. Infine è prevista la partecipazione degli Enti Locali, delle Organizzazioni Sindacali, delle Associazioni sociali non profit e di comunità di cittadini a tutti i livelli di programmazione. In definitiva la legislazione garantisce l’universalità e l’uguaglianza dei cittadini nell’usufruire di livelli di assistenza predefiniti per quantità e qualità. Nella realtà, come documentato da numerosi studi, esistono significative disuguaglianze, a sfavore delle classi socio-economiche svantaggiate e delle popolazioni meridionali, nell’accesso ai servizi, negli esiti delle cure ricevute, nei comportamenti rischiosi per la salute, nella mortalità e nella morbosità. All’origine delle disuguaglianze tra cittadini vi sono ragioni diverse, in grande parte indipendenti dall’organizzazione del servizio sanitario e correlate al contesto socio-economico, ambientale, politico, valoriale, culturale, religioso, oltre che alle caratteristiche biologiche individuali, come dimostrato dal fatto che B. Notargiacomo: Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale i grandi progressi dell’ultimo secolo nelle condizioni sanitarie siano stati determinati innanzitutto dal progresso politico, sociale ed economico e che la mortalità e morbosità per molte malattie infettive siano diminuite prima della disponibilità di vaccini ed antibiotici. Al contempo il modello consumistico dominante, riducendo la rilevanza della socialità e della partecipazione a favore della individualizzazione nell’esprimere bisogni e domanda, ha reso più ardua l’individuazione dei bisogni primari e delle strategie prioritarie per risolverli. Non va sottovalutata, infine, la portata delle politiche neoliberiste dell’ultimo trentennio, che hanno ridimensionato il welfare state, diminuendo la sicurezza delle condizioni socio-economiche delle popolazioni più svantaggiate. Tutto ciò, però, non giustifica le disfunzioni del SSN, che sono all’origine di ulteriori disequità e discriminazioni tra utenti e vanno approfondite in modo rigoroso per superare l’ambiguità di riflessioni generiche e gattopardesche, cui ci ha abituato la dialettica interna alle principali forze politiche del paese. Solo a fini esplicativi si possono individuare tre gruppi di fattori interni al SSN: l’evoluzione rapida della ricerca, della tecnologia e dei trattamenti disponibili; l’appropriatezza, l’efficacia e l’efficienza delle prestazioni e dei percorsi assistenziali; gli aspetti giuridici, istituzionali ed organizzativi del SSN. Sui primi due gruppi è disponibile una letteratura ampia ed esauriente, che ne evidenzia la complessità, le implicazioni logistiche ed organizzative, i limiti intrinseci di incertezza legati al livello delle acquisizioni scientifiche raggiunto, la conseguente provvisorietà. A tale proposito basti citare il dibattito e le elaborazioni sui LEA, sul governo clinico, sul governo del rischio e delle tecnologie biomediche. Oltre a ciò esistono molti studi ed esperienze sul miglioramento dei sistemi di informazione, sulla presa in carico e l’integrazione tra servizi, finalizzati a facilitare l’accesso alle persone più svantaggiate. Il terzo gruppo di fattori, invece, è quasi del tutto assente nella letteratura scientifica, verosimilmente per il suo carattere più direttamente politico; esso merita un approfondimento particolare sia perché condiziona l’operatività dei primi due gruppi sia perché è suscettibile di cambiamenti a breve termine. Di seguito indico i fattori che mi sembrano più rilevanti. Aziendalizzazione La creazione delle ASL ha introdotto nel SSN alcune contraddizioni sistemiche, 117 che ne pregiudicano la capacità di assicurare a tutti i cittadini servizi appropriati ed adeguati per qualità e quantità. Dal punto di vista logico-concettuale si tratta di un’aziendalizzazione del tutto virtuale sia perché manca la conditio sine qua del rischio imprenditoriale sia perché le ASL non hanno piena autonomia, essendo la programmazione sanitaria appannaggio della Regione. Dal punto di vista organizzativo la discrezionalità della scelta dei DG da parte della Regione e DUO da parte dei DG ha reso ancora più pervasiva la presenza dei partiti nella gestione delle ASL e determinato condizioni aggiuntive di inefficienza del SSN per le seguenti ragioni: le valutazioni preliminari alle nomine e le verifiche dei risultati raggiunti, previste dal legislatore, sono vanificate ab origine, come dimostra l’esperienza reale, dal prevalente criterio dell’appartenenza partitica; il DG, non investendo risorse sue personali, non ha un interesse “vitale” alla gestione sana ed efficiente, mentre è portato a far prevalere gli interessi del committente politico, al quale deve la sua nomina; la nomina discrezionale dei DUO da parte di DG senza competenze cliniche ne mina l’autonomia e l’autorevolezza necessarie per salvaguardare i servizi sanitari dall’invadenza partitica ed amministrativa e per coordinare e dirigere i medici ed il restante personale; DG e DUO molto difficilmente possono essere rimossi, i primi perché, nella logica della spartizione, il movimento di una singola posizione rischia di mettere in crisi l’equilibrio complessivo tra i partiti, i secondi perché la verifica viene effettuata con modalità sostanzialmente sindacali; le ASL vengono stimolate ad un’astratta competizione piuttosto che a collaborare per integrarsi, evitando particolarismi, duplicazioni e sprechi di risorse; i cambiamenti delle direzioni aziendali conseguenti ai cambiamenti politici introducono nella vita dei presidi discontinuità inaccettabili, che spesso sono motivate solo dall’esigenza di dare un segno della nuova presenza; le rimozioni per “cattiva gestione” frequentemente vengono contrattate e scambiate con incarichi alternativi, sempre e comunque a danno dei cittadini, del SSN e della democrazia, mentre sono rari i casi nei quali vengono presi opportuni provvedimenti di natura amministrativa e/o giudiziaria. È inconfutabile che gli interessi clientelari dei partiti politici prevalgano su ogni altra considerazione; non si comprenderebbe altrimenti come non ci si renda conto che l’aziendalizzazione sia un bluff, che la direzione sanitaria ed amministrativa, 118 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 per la loro natura tecnica, debbano essere stabili e che il DG debba essere individuato tra clinici di riconosciuto prestigio culturale e professionale, per rendere accettabile un potere sovraordinato di governo delle attività cliniche ed assistenziali e di scelta dei medici più competenti per dirigere i servizi. In definitiva, pur non mancando esperienze gestionali virtuose soprattutto nelle Regioni centro-settentrionali, è il modello aziendalistico che non può funzionare e non è appropriato ad una realtà, che si distingue storicamente per l’occupazione partitica dei servizi pubblici, l’evasione ed omissione delle regole scritte, l’impunità e, ultima ma non per importanza, la mancanza di controllo sociale, che consegue al coinvolgimento dei sindacati nella gestione clientelare del personale. La catena clientelare condiziona negativamente la responsabilizzazione dei dirigenti, l’organizzazione razionale dei servizi, l’utilizzazione ottimale delle attrezzature e la qualità dei percorsi assistenziali, perché fa venir meno le funzioni di controllo e valutazione. Accreditamento e valutazione Sono strumenti fondamentali per garantire la sicurezza, l’affidabilità e la qualità dei servizi sanitari e sociali. Per l’accreditamento esistono criteri e requisiti facilmente standardizzabili, mentre la valutazione è oggettivamente difficile, soprattutto quando si debba effettuare su singoli operatori o servizi. La legislazione definisce le diverse attribuzioni statali, regionali e locali in materia di accreditamento ed obbliga alla valutazione. Un accettabile sistema dovrebbe assicurare l’accreditamento rapido e rigoroso dei servizi, la valutazione dei medesimi attraverso un set minimo di indicatori validi, la revoca dell’accreditamento quando non vengano raggiunti i risultati minimi attesi, la pubblicazione ufficiale dei risultati relativi ad ospedali e servizi su siti istituzionali statali e regionali. Nella realtà, in molte Regioni l’accreditamento non viene effettuato per evidenti ragioni clientelari e, di conseguenza, non vi è alcuna garanzia per gli utenti di essere affidati a servizi in possesso dei minimi requisiti strutturali, funzionali e qualitativi. Per quanto riguarda la valutazione, le poche iniziative dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e di alcune Regioni, che hanno iniziato a produrre confronti basati sull’esito “mortalità” di un numero ristretto di DRG già sperimentati e validati nel mondo anglosassone nei decenni trascorsi, hanno scatenato reazioni durissime di Istituti di ricovero privati e pubblici, denunce, ricorsi alla magistratura amministrativa, polemiche giornalistiche. Ovviamente, a causa delle difficoltà intrinseche alla valutazione della qualità effettuata sulla base di informazioni limitate quantitativamente e caratterizzate da un’ampia variabilità nella compilazione e codifica, anche i risultati di studi epidemiologici ben condotti mantengono una quota non riducibile di incertezza, che consiglia prudenza nell’interpretarli e disponibilità a recepire osservazioni metodologiche e di merito e ad effettuare ulteriori approfondimenti; tale margine di incertezza, però, non giustifica la confutazione pregiudiziale della loro validità. In verità anche tale vicenda dimostra una diffusa insofferenza per le regole, alimentata dalla mancanza di autorevolezza e credibilità delle istituzioni, che per prime ne omettono il rispetto quando non stabiliscono percorsi certi, trasparenti, sistematici e rigorosi per accreditare, valutare e decidere conseguentemente; in tale contesto le valutazioni ed i confronti possono essere recepiti come arbitrarie iniziative di qualche ricercatore viziato di “protagonismo eccessivo”, mentre gli erogatori valutati sanno che la denuncia di manipolazione dei dati otterrà almeno l’effetto di creare confusione e ritardare sine die eventuali decisioni regionali. Libera professione (LP) Essa costituisce una sorta di privilegio di casta, sul quale il legislatore è intervenuto tante volte, sempre dandone per scontata l’intoccabilità e con l’intento, nel migliore dei casi, di renderlo compatibile con le esigenze del servizio pubblico. Il nodo non è stato sciolto nemmeno dalla legislazione degli ultimi anni, che trasforma tutti i medici in dirigenti e “privatizza” la contrattazione individuale degli incarichi, degli obiettivi di attività e della remunerazione ad essi collegata. Senza entrare nel merito di una discussione giuridica e di opportunità, va considerato che la LP costituisce, nella realtà di tutti i giorni, lo strumento per ottenere in anticipo, superando gli ostacoli delle liste di attesa, prestazioni di ogni tipo, dalla semplice visita specialistica all’intervento chirurgico più complesso. Ciò diventa tanto più eticamente e socialmente inaccettabile, in quanto i tempi di attesa in regime istitu- B. Notargiacomo: Disuguaglianze nel Servizio Sanitario Nazionale zionale sono lunghi ed assolutamente fuori controllo. Anche se non si può stabilire una relazione causale tra LP e lunghezza dei tempi di attesa per le prestazioni in regime istituzionale, non si può negare che l’evidente conflitto di interesse possa influenzare il grado di utilizzazione delle attrezzature e degli spazi pubblici in diversi modi: inducendo l’aumento della domanda inappropriata di prestazioni in LP e, conseguentemente, l’aumento i tempi di attesa per il percorso istituzionale; non pretendendo il miglioramento dei percorsi e del comfort delle attività istituzionali; facendo diminuire la disponibilità per le attività istituzionali dei medici più impegnati nella libera professione; creando conflitti tra operatori a scapito dell’armonia interna, che è necessaria per pianificare le attività in modo razionale ed efficiente. La contraddizione tra l’obiettivo dichiarato dell’equità e la reale disequità è palesemente testimoniata dalla mancanza di una semplice informazione quantitativa sul rapporto tra attività libero professionale ed istituzionale articolato per prestazione. Sarebbe auspicabile per evidenti motivi etici e facile tecnicamente eliminare la LP, fissare un tetto massimo di remunerazione e definirne la gradualità attraverso diverse possibili forme di riconoscimento della qualità e di incentivazione, fondate sulla valutazione regionale e locale degli esiti, sull’utilizzazione delle strutture disponibili e sulla libera scelta del medico da parte degli utenti, che potrebbe essere realizzata attraverso un contributo aggiuntivo al ticket attuale. Responsabilizzazione dei duo sull’appropriatezza dei trattamenti Costituisce la contraddizione di più complessa soluzione, perché è strettamente correlata alla qualità, alla correttezza professionale ed alle capacità di direzione e coordinamento tecnico scientifico dei DUO. Senza entrare nel merito delle riforme necessarie nella formazione universitaria e post universitaria, nella ridefinizione dello stato giuridico e nei criteri di selezione ed assunzione, va considerato che sarebbe necessario ristabilire un ruolo di effettiva direzione e responsabilizzazione, oltre che di generico coordinamento, dei DUO, i quali dovrebbero essere garanti dell’appropriatezza del trattamento globale (medico, infermieristico e tecnico) a tutte le persone ricoverate, a prescindere dalle modalità del 119 ricovero. Per poter esercitare tale funzione, i DUO, nel rispetto di regole e criteri predefiniti e concordati, dovrebbero rispondere della formazione dei medici giovani loro affidati, della qualità di tutti i medici coordinati, della presa in carico delle persone, che non può prescindere dall’affidarle ai medici più indicati per i trattamenti necessari. Conclusioni La complessità dei determinanti delle disuguaglianze nella salute esterni al SSN non può continuare a costituire il pretesto per non affrontare e ridurre le contraddizioni interne all’organizzazione del SSN, che sono all’origine di ulteriori fattori di discriminazione e disuguaglianza. Le forze professionali, sindacali, politiche e culturali, che sono realmente interessate alla difesa ed alla realizzazione dei principi costituzionali, dovrebbero impegnarsi molto più fattivamente nella scelta di politiche sanitarie adeguate e capaci di risolvere concretamente tali contraddizioni, che, oltre a produrre disuguaglianza, sono all’origine del clientelismo, dei conflitti di interesse e della deresponsabilizzazione ampiamente diffusi nella sanità pubblica e nelle istituzioni che la governano. Bibliografia essenziale Costa G, Perucci CA, Dirindin N. Le disuguaglianze nella salute e il Piano Sanitario. Epidemiologia e Prevenzione 1999; 23: 133-40 Materia E, Spadea T. Disuguaglianze nell’assistenza sanitaria:ospedalizzazione e posizione socioeconomica a Roma. Epidemiologia e Prevenzione 1999; 23: 197-206 Costa G, Spadea T, Cardano M. Diseguaglianze di salute in Italia. Epidemiologia e Prevenzione, Anno 28, supplemento 3, maggio-giugno 2004 Commission on social determinants of health (2008) Closing the gap in one generation: health equity through action on the social determinants of health. Sito: www.who.int/social_determinants/ final_report/en Costa G, Cislaghi C, Caranci N, et al. Le disuguaglianze sociali di salute, problemi di definizione e di misura. Scienza e salute, Anno VIII 1/2009 Iseppato I, Rimondini S. Le reti dell’accesso per la sanità e l’assistenza. Scienza e salute, Anno VIII Supplemento al n° 1/2009 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 COMUNICAZIONE E CURA: DALL’INFORMAZIONE ALLA CONTROINFORMAZIONE IN ONCOLOGIA COMMUNICATION AND THERAPY: FROM INFORMATION TO MISINFORMATION IN ONCOLOGY LUCIA MITELLO Dipartimento Infermieristico, Tecnico, Riabilitativo, Ostetrico, (DITRO) Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Comunicazione. Informazione. Oncologia. Etica Key words: Communication. Information. Oncology. Ethic Introduzione La ridefinizione, nell’ambito del dibattito sui concetti di salute e malattia, del modello biomedico, fondato sulla malattia e di quello psicosociale fondato sulla persona ha determinato nuovi e necessari interrogativi ai quali è obbligatorio dare alcune risposte in linea con la nuova prospettiva che pone il malato e non più l’operatore e il sistema al centro dell’interesse dell’organizzazione sanitaria. Questa visione si configura come un modello accettabile e condivisibile all’interno del quale tutte le figure sanitarie si riconoscono nell’interazione con “l’altro”. Questa circostanza ha contribuito a far si che le questioni inerenti la comunicazione potessero subire un notevole approfondimento tendente a munire l’operatore sanitario di strumenti, informazioni, tecniche, metodologie mutuate da differenti discipline scientifiche: counseling, PNL (Programmazione Neuro Linguistica), psicologia dinamica, pedagogia, tecniche di improvvisazione, di comunicazione di massa. È necessario prendere coscienza che il processo terapeutico, che porterà la persona malata verso la guarigione o la stabilizzazione della sua malattia, ha inizio quando gli si offre realmente la possibilità di partecipare, tenuto conto delle sue reali competenze, alla gestione del proprio percorso terapeutico; questo implica che gli operatori della salute, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali debbano porsi nei confronti del malato non in modo autoritario. Mettere in discussione la prospettiva autoritaria, nel significato che ne offre Rogers (1997), capovolge i termini nei quali si inscrive la relazione comunicativa tradizionale centrata sulla malattia. L’enfasi si sposta dunque dalla malattia alla persona. Nella sua prospettiva Rogers, infatti, assume, come carattere peculiare, l’abilità dei sanitari di predisporre un intervento comunicativo efficace il cui scopo dovrebbe tendere sia a incoraggiare la libera e piena espressione del malato sia a farlo partecipe attivamente. Questo nuovo approccio contribuisce, a chiarire dubbi e superare difficoltà connesse al “vivere” la malattia. Questo presuppone che gli operatori della salute debbano possedere delle conoscenze specifiche di natura medica, tecnica, psicologica, scientifica, per una relazione comunicativa intesa come momento informativo, conoscitivo e terapeutico. Comunicazione e relazione I due soggetti della relazione vivono una asimmetria comunicativa attribuibile alla naturale soggezione che il malato sviluppa nei confronti degli addetti ai lavori per la diversa competenza rispetto alla malattia e per i disagi connessi ad essa che gli impediscono una gestione razionale del rapporto, L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica quali: la malattia in sé, la presenza di dolore fisico, la provenienza socio-culturale, fattori emotivi, preconcetti e pregiudizi sulla sanità e sulla malattia, le modalità tipiche della sua personalità, la percezione reale o distorta della malattia, le aspettative che chi soffre si crea; inoltre contingenze ambientali come: la presenza di rumori e fattori di disturbo del setting comunicativo rappresentati dal luogo fisico e il tempo a disposizione. Questa condizione di asimmetria non è riconducibile unicamente a una diversità di conoscenze scientifiche ma nel tempo si è tradotta in una vera e propria asimmetria nello status morale dei due interpreti della relazione. Questa condizione di asimmetria si realizza con la ipotesi che il malato sprovvisto di conoscenze mediche sia in una condizione di incapacità morale, ovvero della possibilità di decidere autonomamente (Gracia 1993). In tempi non lontani questa forma di giustificazione è stata usata come giustificazione morale alla totale subordinazione del paziente alla volontà dei sanitari e del sistema sanitario. Le riflessioni etiche su queste questioni tendono oggi a giustificare forme alternative di tale relazione che tengano in considerazione l’autonomia del paziente e l’inderogabilità del dovere del medico di informare il paziente e ottenere il consenso per le cure a cui dovrà essere sottoposto. La relazione in questo caso si configura come un patto sottoscritto liberamente da due individui autonomi (Engelhardt 1999). In tale modello la relazione si rappresenta come il risultato di un contratto in cui le parti assumono lo stesso potere di trattativa. Se da una parte alle ragioni del modello contrattualista bisogna riconoscergli il merito di aver contribuito a mettere definitivamente in discussione il modello paternalistico-medico-centrico a favore dei diritti del malato, dall’altra presenta dei limiti legati al contratto in quanto tale. Il contratto, infatti, sottodimensiona alcuni aspetti della relazione che sono riscontrabili in un rapporto comunque asimmetrico per la reale vulnerabilità del paziente e per la differenza di conoscenze. Ma l’asimmetria sicuramente non giustifica la premessa per una riesumazione del modello paternalistico. Il contrattualismo sostenuto da Engelhardt dunque pone qualche problema di ordine morale. Non tiene conto della componente emozionale della relazione e dell’investimento in fiducia, come sostiene Ca- 121 terina Botti, che contraddistingue le attese del paziente nei confronti degli operatori. Le relazioni di fiducia non si stabiliscono solitamente per contratto ma nascono attraverso prassi consolidate nel tempo (Botti 2000). Se consideriamo uno dei principi del modello contrattualista che è quello del dovere del medico di “dire sempre la verità” al paziente” (Beauchamp e Childress 1999) vediamo che nella pratica quotidiana questo si realizza attraverso il coinvolgimento di altre qualità non rubricabili nelle regole che disciplinano un rapporto contrattuale. Il dire la verità dovrebbe essere legato alla sensibilità psicologica del terapeuta che deve farsi carico di una grande responsabilità che è quella di saper comprendere qual è il limite di comprensione della verità da parte del paziente. Le diverse variabili che contraddistinguono queste pratiche hanno portato a immaginare un tipo di relazione medico-paziente-infermiere, che può superare tutti i limiti legati sia al paternalismo che al contrattualismo. Il sapere medico deve tracciare delle linee in cui, operatori della salute da una parte e malati dall’altra possono sostenere posizioni diverse e riconoscersi nei diversi punti di vista morali, sperimentando una sorta di etica della fiducia. L’attitudine del prendersi cura delle persone però, rinvia necessariamente a un insieme di competenze intellettuali, affettive, morali che ogni operatore della salute deve possedere per entrare in relazione alle persone. Questo consente, di dare una risposta emozionale positiva alle condizioni delle persone malate, una risposta il cui fine è di affermare la nostra disponibilità nei confronti del loro benessere; identificarci con le loro sofferenze e il nostro desiderio di fare il possibile per alleviare il loro stato (Callahn 1990). In parole semplici non considerare il corpo del malato come qualcosa solo da esplorare scientificamente, come organi separabili dalla “persona” che le ospita. Pellegrino e Thomasma hanno ipotizzato un modello medico-paziente incentrato sull’amicizia e sull’obbiettivo comune della ricerca della salute. Pur ritenendo tale relazione sempre auspicabile nel corso della vita non si configura in questo tipo di relazione, dettato dallo stato di necessità, quell’intimità necessaria per una relazione di tipo amicale. Ma quale senso dare al principio dell’autonomia? I criteri comuni cui molte scuole 122 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 fanno capo sono che il paziente deve essere informato per scegliere liberamente tra le diverse possibilità di cura, attraverso le informazioni ricevute diventare competente per identificare la possibilità adatta a lui. Ma quando un paziente diventa veramente competente? La genericità dei criteri finora analizzati non tengono adeguatamente conto del vissuto delle persone, delle narrazioni, delle rappresentazioni sociali e dell’apparato simbolico che mettono in gioco nella fase della malattia. Senza contare che spesso i pazienti chiedono di diventare competenti non sulle implicazioni delle terapie o sulle percentuali di guarigioni, ma sulla sofferenza e i dolori che seguiranno le terapie, sulle indagini diagnostiche e sulla qualità di vita, che dovranno affrontare. Nella relazione di cura, quindi, l’uso della categoria dell’autonomia tout court (considerando che non in tutte le fasi della propria vita si mantiene lo stesso grado di competenza, e che l’autonomia non è un valore assoluto, ma un ideale che si costruisce attraverso un processo relazionale), non sembra sufficiente per risolvere i problemi sollevati. Inoltre, vi è anche la possibilità che alcuni malati non desiderino avvalersi del diritto all’autoderminazione e si avvalgano del diritto di non essere informati e di affidarsi completamente ai propri curanti, il medico, infatti, non è necessariamente obbligato a informare, ma deve offrire l’informazione, che può essere rifiutata. È necessario ripensare ai criteri per un efficace consenso informato, tenendo conto della soggezione a cui il paziente è sottoposto, nei confronti dei propri curanti. La competenza o più semplicemente, la capacità di intendere e di volere, in questo caso è sottoposta alla differenza emotiva delle due parti: quale autonomia è possibile riconoscere in questo caso? E quanto la soggezione nei confronti dei medici o infermieri influisce sul giudizio di scelta competente? Informazione e autonomia Le persone malate a causa della perdita di ruolo e della differenza di posizione che occupano in quel contesto, non sono abituate ad agire in modo autonomo e troveranno enormi difficoltà nel prendere decisioni sulla propria salute e a districarsi in situazioni sanitarie molto complesse, quali le cure in oncologia. Il problema è che i malati non diventano competenti per aver ricevuto alcune infor- mazioni sulle neoplasie o sugli effetti collaterali delle chemioterapie. Le persone malate entrano negli ospedali con la loro storia personale, con le loro paure, con la loro incompetenza che tale, spesso, resterà per tutto il percorso della terapia e che inciderà prepotentemente sulla scelta della cura. Il ruolo che gioca la scarsa considerazione di sé, nel contesto della malattia, e la sopravvalutazione del personale sanitario, quello che Engelhardt definisce le asimmetrie di potere (Engelhardt 1999) tra medici, infermieri e malati, devono indurci a considerare tali fattori meritevoli di considerazione per la risoluzione di dilemmi bioetici. Sarà necessario, infatti, che le persone abbiano la possibilità di opporsi a tali sentimenti che li rendono vulnerabili, senza dover fare scelte che danneggerebbero ulteriormente la propria condizione per esempio scegliendo di non curarsi. La situazione che si auspica è che i pazienti siano in grado di sottrarsi ai sentimenti oppressivi quali la soggezione, nei confronti dei sanitari, per scegliere in modo autonomo secondo i propri valori e conoscenze, anche se questa visione appare poco realistica se non astratta, rispetto alle categorie che abbiamo contribuito a definire prima. La “migliore” cura e assistenza che un medico o un infermiere sceglie per il proprio paziente è la migliore perché è la cura negoziata con il paziente, ma questo deve valere anche per la scelta di non curarsi. Il malato ha, infatti, il diritto di rifiutare un trattamento ritenuto indispensabile per la sua salute, pur nella diversità dei valori e delle motivazioni che vi si riconoscono alla base. È proprio nella relazione che lega operatori della salute, malati e persone vicine al malato che si può individuare il tratto dirimente su cui fondare la nostra riflessione. È attraverso un processo di “attenzione” che arriviamo a una risposta che abbia una rilevanza morale. Dworkin (1998) definisce precisamente cosa si deve intendere per dignità umana: il diritto che gli operatori sanitari sappiano riconoscere i veri interessi critici di chi soffre e sappiano vedere in lui una creatura che possiede un proprio genere e un proprio status morale che sono intrinsecamente e oggettivamente importanti per il modo in cui vivrà. La dignità umana è, dunque, collocabile nei valori individuali delle persone ed è importante venga loro riconosciuta una piena autonomia morale e la libertà di dare il proprio significato agli eventi della vita compresa la malattia. L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica Susan Sherwin (1992) propone una concezione dell’autonomia che poggia su una visione relazionale della persona. Intendere la persona in un senso relazionale significa tener conto del fatto che essa è il prodotto delle relazioni interpersonali e politiche di cui fa esperienza. Significa che le persone non nascono già formate, ma emergono da un insieme complesso di interazioni con i loro simili. Se l’individuo è posto in una fitta rete di relazioni, sarà in grado di esprimere la propria autonomia mediandola con i consigli del proprio infermiere o del proprio medico. Sceglierà così liberamente di curarsi o di abbandonare la cura dopo una negoziazione accurata, obiettiva e partecipe. In tal modo in ordine a una scelta di cura o a una non scelta diventa proporzionalmente più importante la comunicazione tra infermieri, medici e pazienti sul senso della vita e sul suo valore. Non si tratta di un semplice scambio di informazioni sugli interventi terapeutici, consistenti in semplici prestazioni cliniche o farmacologiche, ma di un consenso a proposito del senso della cura iscrivendola in un universo culturale il più possibile condiviso. Sarebbe interessante, in merito alla scelta della cura, contrapporre al modello paternalistico, la nozione di potere trasformativo (Kuhse 2000) con un uso positivo del potere a vantaggio di chi la cura la deve ricevere e a volte (suo malgrado) subire. Si ravvisa nell’attenzione verso l’altro, uno dei segni più caratteristici della condotta morale. È importante superare l’ostacolo del volere attribuire autonomia a “tutti i costi”, e del “ragionamento prudenziale” che spesso contraddistingue le professioni sanitarie, rimettendo ogni decisione del paziente alla compilazione del modulo di consenso informato. Il solo consenso informato, espressione (come si sostiene) dell’autonomia del paziente, non chiarisce quali devono essere i comportamenti da adottare e i giudizi da esprimere in quel determinato contesto, se non quelli formali. Se il consenso informato esprime l’autodeterminazione dell’individuo alla cura, i nostri consigli, al di là dell’atto formale, ci impegnano a uno sforzo superiore di immaginazione che ci aiuti a interrogarci sulla strada migliore da intraprendere, offrendo una visione più ricca e complessa di quella attuale e di valutare i bisogni del malato come se fossero i nostri (Mitello 2004). 123 Una variante del paternalismo classico è rappresentata dal paternalismo fiduciario (Engelhardt 1999), dove i malati delegano volontariamente le proprie scelte a qualcun altro, spesso al medico o all’infermiere o ai parenti e amici. Se tutti questi soggetti coinvolti rispondessero direttamente si configurerebbe una sorta di paternalismo indotto con manipolazione della volontà del paziente. L’alternativa è quella di informare il paziente e aiutarlo nella comprensione senza pilotare la scelta in alcuna direzione. A una considerazione omeostatica della malattia in cui prevale un atteggiamento passivo si contrappone un modello dinamico in cui le persone considerano lo stato di malattia come una continua crescita delle proprie capacità personali e della propria possibilità di autodeterminarsi. Nonostante i limiti e le riserve che si possono avanzare al modello contrattualista restano tuttavia validi i principi a cui fa riferimento: i diritti inalienabili del paziente e i doveri del medico anche se ottenere il consenso informato del paziente non esaurisce gli obblighi morali del medico. Comunicare una diagnosi di cancro senza considerare la sensibilità del paziente e le conseguenze che tale comunicazione può determinare non pone il medico in una posizione di violazione di obblighi legali ma lo pone in una posizione moralmente disapprovabile. Quello che si auspica è che nella relazione tra operatori della salute e malati si assolvano oltre agli obblighi giuridici anche quelli riconducibili a virtù che ogni operatore della salute dovrebbe possedere nell’esercizio quotidiano del proprio lavoro. L’attitudine del prendersi cura delle persone rinvia a un insieme di competenze intellettuali, affettive, morali che ogni operatore della salute deve possedere per entrare in relazione con le persone malate. Questo consente, al di là dell’autonomia che rimane un principio morale fondamentale, di dare una risposta emozionale positiva e di sostegno alle condizioni e alla situazione di altre persone, una risposta il cui proposito è di affermare la disponibilità a identificarsi con loro, coi loro problemi e, il desiderio di fare il possibile per alleviare le loro sofferenze. Se l’individuo è posto in una fitta rete di relazioni, è in grado di esprimere la propria autonomia mediandola con i consigli del proprio infermiere o del proprio medico. Sceglierà così liberamente di curarsi o di 124 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 abbandonare la cura dopo una negoziazione responsabile e consapevole. La buona informazione Michael Taussing nel suo lavoro sulla reificazione delle relazioni umane affronta il problema della capacità di mascheramento della medicina. Egli sostiene che i segni e i sintomi di una malattia e la tecnologia che le accompagna non sono “cose in se stesse”. Non sono neanche fatti unicamente biologici ma segni delle relazioni sociali dissimulati come realtà naturali. In definitiva i professionisti della medicina interpretano segni e sintomi come realtà significative e le costruiscono come realtà individualizzate, destoricizzate e desocializzate. Queste componenti entrano in gioco nel momento della trasmissione dell’informazione al malato. Negando la componente sociale dei segni e dei sintomi la medicina, nella prassi quotidiana degli operatori sanitari, introduce una reificazione delle relazioni umane che Lukàcs definiva “oggettività fantasmatica”, una sorta di mistificazione per cui il mondo viene convertito in una serie di oggetti aprioristici che rispondono unicamente alla propria legge naturale. Quello che si vuole sottolineare è la strumentalizzazione politica della medicina. La relazione medico-paziente mostra in tale contesto la gerarchia di sapere e potere che caratterizza generalmente la comunicazione terapeutica. Gli operatori sanitari spesso adottano una comunicazione opposta a quella che Lacan (1989) definisce del soggetto al quale si attribuisce un sapere: il paziente “non sa” e insegue negli addetti ai lavori un’azione che riduca il suo malessere e l’angoscia che questo provoca. Il malato narra, descrive segni e sensazioni e di tutto questo gli operatori recuperano spesso solo alcuni sintomi che gli consentono di fare una diagnosi: la versione biografica non entra nella brevità di una definizione di realtà oggettiva: “lei ha il cancro!”. Il problema è che il cancro provoca paure, disperazione, orrore e per ogni individuo queste espressioni si manifestano in modo diverso. Ecco come la comunicazione non può che essere differente e ricondotta alla esperienza personale e al vissuto della persona e come l’universalizzazione dei fenomeni in un’ottica di medicina globale non può essere un modello accettabile. La stessa Evidence based medicine sta spingendo, forse troppo, verso il privilegio di “fatti provati” piuttosto che verso l’incontro tra due persone: chi cura e chi è curato. È sempre più evidente e urgente la necessità di un cambiamento della struttura della comunicazione tra operatori e utenti. Si va delineando un nuovo modello che si può sintetizzare con il termine inglese di empowerment. Con questo neologismo sanitario non facilmente traducibile in lingua italiana si intende sintetizzare il processo di spostamento del “potere” dal curante al curato e alla variazione della relazione dei due soggetti coinvolti. Nella Carta di Ottawa del 1986 è stato descritto come: un processo che rende le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Il concetto di empowerment mette in discussione quello di compliance che presuppone dipendenza a favore dell’autodeterminazione del paziente. Non significa che nella relazione il paziente posizionato in one up trasferisce l’operatore in one down. Questo non gioverebbe al paziente che comunque ha bisogno di un professionista competente che tiene conto della persona e non di un esecutore di ordini, anche se queste indicazioni provengono dal malato. L’empowermet rappresenta una diversificazione complessa dei rapporti su differenti piani: sociali, culturali, clinici ed etici. L’empowermet acquista senso solo attraverso un processo comunicativo sistematico. Il processo per essere completo deve includere il coinvolgimento della famiglia e dei soggetti significativi per il malato. Comunicazione e controinformazione Nell’ era che in molti definiscono della globalizzazione anche l’informazione medica ha subito delle trasformazioni e reinterpretazioni. Chi deve comunicare e informare oltre agli aspetti squisitamente relazionali deve fare i conti con le nuove tecnologie che hanno subito una diffusione capillare in tutti gli angoli del mondo. Internet è entrato nelle case e le informazioni che vi circolano sono incontrollabili. Il malato moderno oltre all’aspetto culturale, sociale e etico presta attenzione alle informazioni scientifiche che riceve dopo averle in maniera autonoma cercate nei numerosi motori di ricerca di tutto il pianeta. Ma l’informazione via cavo, attraverso cui si ha la presunzione di auto curarsi dopo aver ipotizzato e formulato una auto-diagnosi, presenta molti limiti riconducibili alla qualità delle informazioni che si acquisiscono L. Mitello: Comunicazione e cura: dall’informazione alla controinformazione oncologica e alla competenza che deve possedere chi è deputato a fare diagnosi. Ziman, fisico teorico, nell’analizzare il modo in cui lavorano gli scienziati nel nostro tempo ritiene che siamo entrati in un’era che definisce postaccademica. Nella società odierna le scelte rilevanti sull’utilizzo della ricerca non sono prese esclusivamente dagli esperti ma da una moltitudine di figure che a vario titolo si sentono coinvolti: burocrati, politici, bioeticisti, manager, imprenditori cittadini. Questo ha determinato che il tipo di comunicazione della scoperte scientifiche ha modificato il suo statuto ontologico, ma mentre nel passato non era determinante, in era post accademica è imprescindibile. Non c’è scienza senza informazione. La comunicazione pubblica della scienza con ogni mezzo mediatico sembra un elemento fondamentale della società organizzata e della civiltà attuale. È importante però distinguere l’informazione tra pari, ovvero nel gruppo di esperti e la divulgazione. Questo tipo di comunicazione/informazione crea dei problemi: i soggetti del cambiamento non sempre riescono ad adeguarsi. Gli scienziati non hanno ancora imparato a dialogare con linguaggio semplice accessibile al pubblico dei non esperti. Altri agenti informano diffondendo notizie a volte poco attendibili che non consentono ai fruitori di districarsi tra migliaia di file qualche volta contraddittori. Internet, quotidiani, televisioni i maggiori diffusori di notizie sulle nuove scoperte per curare le neoplasie versano in una profonda crisi culturale che confonde chi da profano accede alle informazioni. L’etica che serpeggia alla base di questo tipo di informazioni è prevalentemente quella del mercato. Lo sviluppo esponenziale degli istituti informativi ha fatto inoltre abbassare la soglia critica dei soggetti autorevoli un tempo designati istituzionalmente a dare informazioni. La diffusione della scienza attraverso i media ha danneggiato la qualità dell’informazione. La disinformazione spesso non consente una buona comunicazione che nel caso di una patologia quale quella neoplastica determina spesso allarmismi, perdita di tempo, ricerche affannose di cure miracolose. La cattiva informazione ha determinato comportamenti individuali e di massa che, lungi dall’essere deprecabili perché hanno consentito una maggiore presa di coscienza e consapevolezza delle cure, spesso ostacolano il rapporto di fiducia tra pazienti e operatori. Anche il British Medical Journal ha affrontato nel 2003 125 l’argomento, sostenendo che nei mezzi di informazione si affrontano i problemi della medicina presentando le scoperte di nuovi farmaci. E questo in campo oncologico gioca un ruolo predominante, data l’attualità e la diffusione della patologia. La divulgazione sistematica e priva di regole, non gestisce le incertezze e le complessità e non si pone il problema di creare aspettative dannose che possono mettere in discussione le cure che oggi vengono usate quotidianamente negli ospedali. Se da una parte è aumentato il bisogno della scienza di comunicare con la stampa, dall’altra è aumentato anche l’interesse delle persone per i temi che riguardano la medicina e i modo particolare per le malattie che continuano a mietere vittime. Questo ha indotto i media a disattendere scrupolosità, neutralità e oggettività. Complici a volte gli scienziati sempre più spesso anche imprenditori, che attraverso la divulgazione raggiungono la notorietà e così operando non alimentano più bisogni legati alla buona informazione, alle scelte consapevoli, alla valutazione dei rischi. Le notizie clamorose giocano sull’emotività delle persone e non aiutano ad entrare nel problema. Gli operatori fanno fatica a comunicare incertezze e complessità della medicina. Temi come le ultime scoperte per il cancro sono affrontati dai media senza la dovuta tutela di chi il cancro lo ha contratto veramente e di chi con grande fatica dovrà farsene carico: medici, infermieri, familiari e amici. Non c’è, credo, un momento ben definito in cui la scienza può diventare notizia ma è necessario incamminarsi verso un’etica dell’informazione. Conclusioni Ho tentato di delineare diversi argomenti per indicare come la diffusione di temi concernenti la salute è spesso inadeguata e richiede un perfezionamento. La posta in gioca è notevole e coinvolge tutti i paesi del mondo. Sia i professionisti della salute che i professionisti dell’informazione, in quanto entrambi comunicatori, hanno la responsabilità morale e professionale di sviluppare il dibattito pubblico su queste questioni così cogenti per la salute degli individui. Probabilmente il successo sarà legato all’impegno che tutti prodigheranno nei confronti del bene pubblico e dalla capacità di tutti i soggetti coinvolti, medici, infermieri, pazienti, eticisti, nel produrre relazioni cooperative 126 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 12, 2, 2010 all’interno dei vincoli delle relative professioni/associazioni. Bibliografia essenziale Baier A. Moral prejudices. Harvard University Press, Cambridge, Mass 1995 Beaucham TL, Childress JF. Principi di etica biomedica. Firenze, Le lettere 1999; 387-441 Botti C. Bioetica ed etica delle donne, Relazioni, affetti, potere. Milano. Zadig 2000; 300-12 Callahan D, What kind of life. The limits of medical progress. New York-London. Touchstone Books 1990 Cattorini P, D’Orazio E. Bioetiche in dialogo. Milano. Zadig 1999 Danon M. Counseling-una nuova professione d’aiuto. Como. Red Ed 2000 Duxbury J. Il paziente difficile modalità di comunicazione, Milano. McGraw-Hill Libri Italia: 2001 Engelhardt HT Jr. Manuale di bioetica. Milano. il Saggiatore 1999; 304-51 Gracia D. Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, Cinisello Balsamo. Ed San Paolo 1989; 89-126 Lacan J. Le quatre principes fondamentaux de la psychanalyse, Paris. Editions du Seuil: 1989. Lecaldano E. Bioetica. Le scelte morali. Roma-Bari. Laterza 1999 Leininger M. Caring: the essence and central focus of nursing, in “The Phenomenon of Caring, Part V”, American Nurses’ Foundation, Nursing Research Report 12, 1 Washington, DC, 1977; 12: 37-56 Mitello L. Quando il paziente chiede consiglio, quando il paziente non chiede consiglio, quando il paziente rifiuta la terapia. Professioni Infermieristiche, 2004; 57: 4 Orem DE. Nursing concetti di pratica professionale, Padova. Summa 1992 Pellegrino ED, Thomasma A. A Philosophical Basic of Medical Practice. New York. Oxford University Press 1981 Kuhse H.Prendersi cura.Torino.Ed. Comunità: 2000 Rogers CR. Terapia centrata sul cliente. Firenze. La Nuova Italia 1997 Sherwin S. No Longer Patient. Feminism Ethics and Health Care. Philadelphia. Temple University Press 1992 Succhielli R. Apprendere il counselling. Trento. Erickson 2000 Taussing M. Reification and the consciousness of the patient. Social science and medicine, 1980; 14: 3-13 Corrispondenza e richiesta estratti Dott. Mitello Lucia Via Cavizzana, 84 00124 - Roma e-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 Recensioni “LOPEZ ONCOLOGIA MEDICA PRATICA” La III^ edizione del Manuale “Lopez Oncologia Medica Pratica” (Società Editrice Universo, 2010, pagg. 3716, Euro 280,00), che fa seguito a quelle del 2000 e 2005 e che, accanto a Massimo Lopez curatore delle precedenti, vede associati tre altri autorevoli Oncologi quali Nicola Gebbia, Stefano Cascinu e Paolo Marchetti, nasce sia dall’esigenza di “tener dietro” alla grande mole di informazioni che in questi ultimi anni sono state acquisite nell’ambito dei percorsi molecolari delle neoplasie sia dall’acquisizione di tecniche di analisi genetica e molecolare grazie alle quali è ormai possibile esaminare in tempi ragionevolmente brevi anche migliaia di geni e proteine che sono implicati nelle genesi dei tumori. I quattro Co-Autori sottolineano nella Prefazione del “Manuale” (che peraltro sarebbe stato più appropriato definire “Trattato”), il fatto che il “cancro - lungi dall’essere una unica unità clinica - risulta costituito da un gran numero di malattie ognuna delle quali può avere una peculiare caratterizzazione molecolare”: è una considerazione che ha portato gli AA. ad ampliare notevolmente la parte relativa alla Biologia delle neoplasie mantenendo peraltro sostanzialmente immutata la complessiva impostazione dell’Opera. Uno dei pregi di questa III^ Edizione è soprattutto quello di aver selezionato alcuni aspetti che si delineano maggiormente utilizzabili nella pratica clinica in quanto più idonei a fornire un reale contributo a coloro che di fatto operano sul campo, nelle corsie, e di conseguire in tal modo una personalizzata impostazione dei trattamenti terapeutici e, conseguentemente, un miglioramento dei risultai potenzialmente ottenibili. Dopo le parti dedicate agli aspetti biologico-molecolari il Manuale si snoda in altri quindici capitoli all’inizio dei quali viene proposta una “Sintesi”, avendo gli AA. ritenuto utile facilitare in tal modo la chiara, ma rapida visione di quel che di maggiormente rilevante attiene ai singoli argomenti trattati. Di notevole interesse pratico i capitoli dedicati, nelle ultime parti del Manuale, all’Informatica in Oncologia, agli Schemi di chemioterapia ed al Repertorio di farmaci usati in ambito oncologico, nonché la consistente serie di Appendici di agevole consultazione e chiaramente di grande utilità pratica. Il fatto che la trattazione dei numerosi argomenti si caratterizzi per essere presentata con criteri didattici costituisce un valore aggiunto di cui potrà certamente avvalersi una vasta gamma di lettori, compresi gli specialisti delle varie patologie neoplastiche d’organo ed anche gli studenti nel momento in cui affrontano lo studio di tali patologie. Franco Salvati ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 12, Numero 2, Aprile - Giugno 2010 “PSICOLOGIA CLINICA APPLICATA ALLE PROFESSIONI SANITARIE” Il libro “Psicologia clinica applicata alle professioni sanitarie” (219 pagine), Edizioni Kappa 2009, euro 17,00), di Raffaella Gorio e Coll., che ho avuto il piacere e l’onore di leggere in anteprima, illustra in modo semplice e facilmente comprensibile gli aspetti salienti della psicologia generale clinica e della psicologia applicata alla professione. Vengono trattati le origini e gli orientamenti della Psicologia e le più frequenti e rilevanti problematiche dell’adolescenza e dell’età adulta (i disturbi del comportamento alimentare, tra cui l’anoressia, la bulimia e l’alcolismo, i disturbi della sessualità, i disturbi d’ansia, i disturbi correlati alle malattie croniche, i disturbi correlati all’attività lavorativa etc.). Di particolare interesse sono, soprattutto per che esercita una professione sanitaria, i capitoli relativi alla comunicazione, alla relazione d’aiuto, allo stress professionale e al burn-out. La facile comprensione del testo è una evidente dimostrazione della competenza e dell’esperienza degli Autori, specialisti del settore ma soprattutto “esperti sul campo”, che hanno avuto il merito di esplicitare in forma sintetica ed efficace la loro pratica quotidiana. Questo testo pertanto consente di ampliare in modo significativo le conoscenze professionali in ambito psicologico, di migliorare i comportamenti e le dinamiche interpersonali e quindi di svolgere con maggiore consapevolezza e competenza il proprio ruolo in ambito lavorativo e sociale. Il libro fa parte della Collana “Psicologia e Ospedale”, nata con l’intento degli Autori di trasmettere e far condividere i contenuti esperienziali di una attività prestata in Ospedale “empaticamente “ e “a fianco” delle persone in un momento particolarmente delicato della loro esistenza: “la condizione di malattia”. Giovanni Minardi