Malacca e le altre - Ecologiadellanutrizione.it

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DIARIO
di Vincenzino Siani
MALACCA E LE ALTRE
Prima ancora che il termine “globalizzazione” divenisse familiare in gran
parte del mondo postindustriale, l’umanità varie volte ha avuto esperienza di
atteggiamenti totalizzanti, progressivamente estesi a tutti gli aspetti della
vita sociale, da parte dei potenti di turno sulla scena dell’ordine mondiale.
Le potenze imperiali che, nel tempo storico, si sono succedute nei vari
continenti hanno tratteggiato civiltà che hanno avuto nell’organizzazione
della vita sociale, nella produzione (o nel procacciamento) dei beni materiali
e nella loro distribuzione e fruibilità da parte di classi e singoli, i caratteri
distintivi.
La presenza degli alimenti sulla tavola dell’uomo e il loro consumo sono
stati e continuano ad essere il volano degli interessi economici mondiali,
essendo i cibi la necessità primaria per l’uomo.
Gli sforzi delle attuali aziende multinazionali per indurre bisogni e rendere
omogenei i gusti delle comunità mondiali trovano nei cibi una chiave
universale per condizionare consumi individuali e di massa con tecniche di
persuasione messe a punto dagli esperti del marketing.
L’adozione, il consumo e il commercio di cibi non autoctoni hanno fatto la
storia dell’uomo: l’entità di tali fenomeni ha avuto il suo limite nella natura
e nell’estensione dei mezzi di comunicazione propri delle varie epoche.
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Nel tardo medioevo, le flotte portoghesi e spagnole, prima di altre,
cominciarono ad esplorare coste, mari, oceani alla ricerca di oro e spezie,
entrambe monete di scambio per l’epoca.
Malacca, Macao, Goa, Malabar, Hormuz: esotiche e misteriose alle nostre
orecchie, intriganti e romanzesche, fascinosamente torbide, paoloconteane,
furono le città teatro dei primi commerci transoceanici fra Europa e altri
continenti. Epifanie della globalizzazione dei nostri giorni.
In quell’epoca, erano le spezie indiane (il pepe innanzitutto) e l’oro le
ragioni che spinsero i Portoghesi ad esplorare le coste dell’Africa
occidentale; cercavano vie d’acqua che, tagliando il continente da ovest ad
est, abbreviassero le rotte marine verso le Indie. Bartolomeo Diaz e Vasco
de Gama, eroi della nostra infanzia, doppiarono il Capo di Buona Speranza
e, in pochi anni, fondarono colonie che, estese fra l’Oceano Indiano e il
Pacifico, permettevano il controllo del commercio diretto verso l’Occidente.
Nei secoli successivi, a Portoghesi e Spagnoli si aggiunsero Olandesi,
Inglesi e, con minor successo, Francesi, Tedeschi e Italiani.
La Casa da India, prima impresa commerciale con sede a Lisbona, aveva,
nel Cinquecento, il monopolio sulle principali importazioni dall’Asia: pepe
dal Malabar, cannella da Ceylon, chiodi di garofano, noce moscata e macis
dalle Molucche. Nel 1600 nacque la English East India Company, nel 1602
la Compagnia Olandese delle Indie Orientali che ebbe nell’isola di Giava, a
Giacarta, il suo potente caposaldo asiatico.
In Europa arrivarono il caffé dall’Africa, il cacao e il tabacco dalle
Americhe, il tè dall’Asia, lo zucchero di canna dall’India (dove era
autoctono), poi dall’Asia e successivamente dal continente americano. Sulle
tavole europee comparvero pomodori, riso, granturco, patate, noci, frutta
tropicale, zucche, fagiolini, meloni, peperoncini, arance, tacchini.
Al semplice commercio seguì l’esportazione di colture economicamente
redditizie verso luoghi i cui caratteri ambientali e climatici permettessero
l’attecchimento delle piante: alterando gli equilibri ecologici naturali, vaste
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piantagioni presero il posto di foreste pluviali millenarie; i prodotti ottenuti
viaggiavano verso l’Europa, capace di assorbirne il flusso, assicurando
ricche rendite.
Piantagioni di canna da zucchero furono create a Madeira e nelle Americhe,
la coltura del caffé, pianta originaria della città yemenita di Moca, si estese
alla costa orientale africana, al Centro e Sud America, in particolare al
Brasile; la coltura del tè, assai estesa in Cina, fu introdotta con successo
dagli Inglesi in India e a Ceylon.
Tali processi non furono pacifici: il potere delle flotte sosteneva l’impresa
commerciale, la corruzione alimentava il favore dei potentati locali,
l’assenza di scrupoli etici consentiva stermini di massa (Amerindi, Indios
messicani, ecc.) e deportazioni di schiavi.
Gli europei armavano navi, le caricavano di ferro, acquavite e inutili
cianfrusaglie che cedevano in Africa in cambio di schiavi; traversato
l’Atlantico, arrivati nelle Americhe, vendevano gli schiavi sopravvissuti ai
proprietari delle piantagioni e tornavano in Europa con le navi cariche di
zucchero, cacao, caffé, rum, cotone. Tra il XVI e il XIX secolo furono
deportati circa 11 milioni di schiavi dall’Africa alle Americhe: 1,5 milioni
morirono durante il trasporto.
Spinti dai forti interessi economici imprenditoriali e commerciali tesi in vari
modi a sostenerne le virtù, zucchero, tè, caffé, cacao, spezie, e tutti i cibi
esotici introdotti in Europa ebbero, alla lunga, un notevole successo,
testimoniato
dall’incremento
progressivo
e
costante
dei
consumi.
Inizialmente portatori di un etichetta di status sociale e di distinzione
elitaria, i cibi d’oltre oceano, calati i prezzi, entrarono fra i consumi di
massa: in Inghilterra “vi è gente che non ha pane ma beve il tè... La miseria
stessa non riesce a bandire il tè” (J. Hanway, 1765).
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Cambiarono anche abitudini inveterate: in Inghilterra una tazza di tè
zuccherato e pane scalzarono dalla colazione del mattino i tradizionali
consumi di zuppa di cereali e birra.
Allo zucchero vennero ben presto riconosciute proprietà energetiche e
nutritive: giudicato, sulle prime, una spezia alla stessa stregua di altre, fu
successivamente utilizzato, molto estesamente, come dolcificante di quelle
stesse bevande esotiche (caffé, tè, cacao) dal gusto naturale piuttosto amaro.
Di caffé, tè e cacao il consumatore avvertiva l’effetto benefico dei loro
alcaloidi sulla fatica e sull’attenzione e ciò fu un ulteriore motivo di
adozione.
A partire dal Settecento, in vari paesi europei, intorno al consumo del caffé
nascono esercizi commerciali che, ben presto, assumono distinti caratteri
sociali: i Caffé diventano luoghi d’incontro per discussioni politiche,
artistiche, musicali, letterarie; alla vita dei Caffé, oggi storici, si legano
personaggi, eventi, idee, aneddoti, nascite di movimenti artistici e politici
che avranno il loro peso nella storia recente.
Oggi è tangibile il successo mondiale di alcune specie animali e vegetali
esotiche: inizialmente introdotte per l’immediato consumo e poi coltivate
per averne raccolti, con il tempo, sono state adottate nell’immaginario
sociale come cibi autoctoni, e trionfalmente presentati come tradizionali
componenti dei piatti tipicamente etnici. E’ il caso della patata per la cucina
irlandese, di arance e limoni per le specialità siciliane, del peperoncino per
la Calabria, del pomodoro per la dieta mediterranea, del tè per Ceylon e
India, del caffé per Brasile e Costarica. Il nome di Moca, culla naturale della
pianta del caffé, indica per noi italiani il piccolo utensile, esportato e
adottato nel mondo intero, con cui preparare il caffé: invenzione di nomi e
storia continuano a tessere il linguaggio.
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I cibi e l’economia mondiale che intorno ad essi ruota sembrano
decisamente avviati verso un processo di globalizzazione; si spera che ci si
preoccupi di conservare la diversità delle specie naturali, le varietà, l’ampia
numerosità, privilegiando la diversità dei sapori, dei colori, della
consistenza, dei caratteri nutrizionali che fanno la differenza qualitativa al
momento del consumo e sostengono, con tali proprietà sensoriali, la psiche e
la salute dell’uomo.