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PROFILO LETTERARIO
CAPITOLO 5
PLAUTO
Plauto è il primo autore della letteratura latina di cui conserviamo opere intere. Egli
attuò una sintesi originalissima della commedia nuova greca (néa) e di elementi attinti
alla tradizione popolare della farsa italica: per questo, e per le sue straordinarie capacità fantastiche ed espressive, riconosciamo in lui uno dei più grandi geni comici di tutti
i tempi.
1.
Dati biografici e cronologia
delle commedie
Di Plauto come persona storica sappiamo ben poco. Gli stessi nomi che gli vengono attribuiti dalla tradizione, Tito Maccio Plauto (i tria nomina del cittadino romano: prenome, gentilizio, cognome), sono dubbi. Dai prologhi di alcune commedie si ricava infatti il nome Plautus, da altri Maccus, che corrisponde a una delle maschere dell’atellana
(˘ p. 00). Si è supposto perciò che il poeta abbia utilizzato in momenti diversi della sua
carriera nomi diversi: prima Macco, derivatogli dalla sua attività di attore di atellane, e
successivamente Plauto, forse anch’esso nome d’arte, se dobbiamo credere ai filologi antichi secondo cui sarebbe un soprannome scherzoso e significherebbe “dai piedi piatti”
oppure “dalle orecchie lunghe e penzoloni”, come quelle di certi cani.
Sappiamo che nacque qualche anno prima del 250 a.C. a Sàrsina, città compresa a quei
tempi nell’Umbria (che aveva un’estensione molto maggiore dell’attuale regione omonima), oggi in Romagna, quasi al confine con le Marche, e che morì nel 184 a.C.
I nomi
del poeta
Nasce
a Sàrsina
prima
del 250 a.C.
Scrive a partire
dalla 2a guerra
punica
Muore
nel 184 a.C.
Scrisse e portò sulle scene le sue commedie a partire almeno dagli anni della seconda
guerra punica (218-201 a.C.). Le sole commedie la cui datazione è sicura – poiché si ricava dalle “didascalie”, cioè dalle notizie relative alle prime rappresentazioni, conservateci in un codice antichissimo – sono lo Stichus, del 200 a.C., e lo Pseudŏlus, del 191. Altre
si datano in base a riferimenti interni: per esempio nella Cistellaria (vv. 197 ss.) il poeta
rivolge ai Romani un fervido augurio per la vittoria sui Cartaginesi; siamo evidentemente nel corso della seconda guerra punica.
Fra le commedie più tarde si collocano invece le Bacchı̆des e la Cası̆na, in cui troviamo allusioni ai riti bacchici: culti iniziatici e orgiastici che si erano diffusi a Roma per influsso
orientale e che furono severamente proibiti, per ragioni di ordine pubblico, da un decreto del senato del 186 a.C. Posteriore a tale decreto è certamente la Cası̆na, in cui si dice
che «ormai i giochi delle Baccanti sono finiti» (v. 979). Dobbiamo dunque ritenere tale
commedia una delle ultime di Plauto, morto, come abbiamo detto, nel 184 a.C.
2.
Le ventuno
commedie
“varroniane”
Solo
frammenti
(della
Vidularia)
o gravi lacune
Schemi
ricorrenti
delle trame
Il giovane
innamorato
Il corpus delle commedie: i titoli e le trame
La fama di Plauto fu talmente grande che, centocinquant’anni dopo la sua morte, Marco
Terenzio Varrone, occupandosi del problema dell’autenticità delle sue opere, contò ben
centrotrenta commedie che circolavano sotto il suo nome: evidentemente l’attribuzione
a Plauto era una garanzia di successo che spingeva commediografi e capocomici a false
attribuzioni.
Varrone individuò ventuno commedie sicuramente plautine, sulla cui autenticità tutti
gli studiosi erano d’accordo; proprio queste ventuno commedie continuarono a essere
lette e trascritte nel corso dei secoli, così da giungere fino a noi, salvandosi dal naufragio
in cui andò perduta la massima parte della produzione latina arcaica.
In realtà le commedie che possediamo sono venti e non ventuno: della Vidularia (“La
commedia del bauletto”), che occupava nei codici l’ultimo posto, restano solo esigui
frammenti. Inoltre, a causa di guasti e danneggiamenti subiti dai codici nel corso della
tradizione manoscritta, presentano gravi lacune le seguenti commedie: Amphitrŭo, Aulularia, Cası̆na e Cistellaria.
Le trame plautine sono quelle tipiche della commedia nuova greca, a cui appartenevano
i modelli utilizzati dal poeta latino: si tratta di intrecci complicati ma anche molto ripetitivi, in cui ricorrono costantemente situazioni e personaggi convenzionali.
Ben sedici commedie su venti presentano, sia pure con molte varianti, la medesima struttura fondamentale della trama: in posizione più o meno centrale all’interno dell’intreccio troviamo un giovane (l’adulescens) innamorato di una donna e ostacolato nel suo
amore. L’ostacolo è rappresentato, se la ragazza è una cortigiana (come avviene spesso),
dalla mancanza del denaro necessario per assicurarsi i suoi favori, oppure, se la ragazza è
onesta, da impedimenti di carattere familiare e sociale: l’opposizione della famiglia di lui
o di lei al matrimonio e/o la condizione troppo umile della fanciulla.
L’adulescens, svantaggiato dall’essere economicamente dipendente dal padre, lotta per
far valere i diritti della gioventù e dell’amore ed è validamente sostenuto da uno o più
CAPITOLO 5 Plauto
aiutanti: un giovane amico, un vecchio comprensivo, un parassita (cioè uno squattrinato che si mette al servizio di qualcuno chiedendo in cambio ospitalità alla sua mensa) o,
più spesso, un servo intelligente e audace.
In molti casi la trama consiste in una serie di espedienti, di trovate ingegnose, di finzioni e
d’inganni messi in opera dal servo per raggirare, truffare e turlupinare gli antagonisti del
giovane innamorato: il padre avaro e severo, il lenone (mercante e sfruttatore di cortigiane), caratterizzato come cinico e arrogante, il soldato (un mercenario al servizio di re orientali, figura tipica del mondo greco, che non aveva corrispondenti a Roma), ricco e borioso,
prepotente e stupido, e quindi bersaglio ideale del servus callidus (“servo scaltro, astuto”).
Nell’immancabile lieto fine (elemento strutturale del genere comico e quindi presente
senza eccezioni), il giovane e i suoi aiutanti hanno la meglio sugli antagonisti, e l’adulescens realizza i suoi desideri amorosi, talora conquistando semplicemente la cortigiana, in
altri casi coronando nel matrimonio il suo amore per una ragazza libera, o che alla fine
della commedia si rivela tale grazie al “riconoscimento”. È questo un tópos frequentissimo
nella commedia nuova (e che ricorre in sei commedie plautine), per cui una trovatella, o
una ragazza che è caduta nelle mani di un lenone e sta per diventare una cortigiana, o una
ragazza povera e senza dote, si scopre alla fine, inaspettatamente, libera e di buona famiglia, figlia di un rispettabile cittadino, perduta e rapita da bambina, e risulta quindi la fidanzata ideale per il giovane che la ama, gradita non solo a lui ma anche alla sua famiglia.
Ecco l’elenco delle venti commedie, con le linee essenziali della trama di ciascuna:
Amphitrŭo (“Anfitrione”): è definita nel prologo “tragicommedia” perché ha per protagonisti personaggi del mito; racconta di Giove che, innamorato di Alcmena, assume le sembianze di suo marito Anfitrione, condottiero tebano, per unirsi con lei (dall’unione nascerà Ercole). La comicità nasce dagli equivoci causati dagli scambi di persona non solo fra Giove e Anfitrione, ma anche fra Mercurio e Sosia: il primo, servo di Giove, ha preso l’aspetto del secondo, servo di Anfitrione (da Sosia è derivato per antonomasia il nome comune che designa
chi è perfettamente rassomigliante a un altro).
Gli aiutanti
Gli antagonisti
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Il lieto fine
Amphitrŭo
Asinaria (“La commedia degli asini”): un giovane innamorato di una cortigiana, riesce a possederla grazie al denaro (ricavato dalla vendita
di alcuni asini) procuratogli da due servi con la
complicità del padre, il quale vorrebbe approfittare anch’egli della ragazza; ma il vecchio immorale viene scoperto, svergognato e malmenato dalla temibile moglie, ricca e autoritaria.
Asinaria
Aulularia (“La commedia della pentola”): il
protagonista è il vecchio Euclione, magistrale
raffigurazione dell’avaro; egli ha trovato una
piccola pentola (aulŭla) piena d’oro e vive nella
Aulularia
Passaggio medioevale con dame e cavalieri, XV secolo d.C.,
miniatura (frontespizio) da: Amphitruo di Plauto, Parigi,
Bibliothèque Nationale, codice Lat. 16234
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PROFILO LETTERARIO
PROFILO LETTERARIO
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
paura ossessiva che gli venga sottratta; gliela ruba in effetti, facendolo piombare nella disperazione, il servo di un giovane innamorato della figlia del vecchio, promessa in moglie
dal padre a un vicino anziano e benestante, Megadoro, disposto a prenderla senza dote. La
restituzione del tesoro consentirà al giovane di sposare la ragazza (ma la commedia ci è pervenuta mutila della parte finale).
Bacchı̆des
Captivi
Cası̆na
Bacchı̆des (“Le Bàcchidi”): le due sorelle cortigiane che danno il titolo alla commedia diventano le amanti di due giovani amici grazie al denaro carpito al padre di uno dei due dallo scaltro e audace servo Crìsalo, che mette in opera una serie di brillanti inganni ed espedienti; nella scena finale, spiccatamente farsesca, i due padri si lasciano sedurre anch’essi
dalle Bàcchidi ed entrano nella loro casa per far baldoria insieme ai figli.
Captivi (“I prigionieri”): un padre, Egiòne, vuole ottenere la restituzione del figlio, prigioniero di guerra, scambiandolo con due nemici, servo e padrone, che ha comprato come schiavi;
ingannato dal servo, che si finge il padrone, lo trattiene come pegno presso di sé, lasciando
partire il vero padrone, Tìndaro, il quale però, per gratitudine verso il servo fedele, ritorna
portando con sé il figlio di Egione; viene infine riconosciuto nello stesso Tìndaro un altro figlio di Egione, rapito da bambino. È una commedia un po’ anomala, l’unica senza vicenda
amorosa; più moraleggiante che comica, esalta i buoni sentimenti: amicizia, lealtà, generosità.
Cası̆na (“Càsina”): la ragazza che dà il titolo alla commedia (ma che non compare mai in
scena) è una trovatella dei cui favori vorrebbero godere sia un vecchio sia il figlio di lui (anch’egli assente dalla scena); il vecchio tenta di farla sposare dal proprio fattore, che dovrebbe poi mettergliela a disposizione; ma la moglie, aiutata da un’amica, organizza una grottesca messa in scena facendo travestire da sposa un giovane scudiero; così il vecchio ridicolmente e vergognosamente innamorato finisce beffato e scornato, mentre Càsina sarà riconosciuta libera e potrà sposare il figlio. È la tipica commedia della beffa, caratterizzata da
una comicità farsesca e licenziosa.
Cistellaria
Cistellaria (“La commedia della cestella”): una giovane allevata da una cortigiana, e che rischia di seguire la sua stessa strada, viene riconosciuta in condizione libera grazie ai ninnoli lasciati presso di lei da chi l’aveva “esposta” neonata e conservati in una cestella, e può
sposare il giovane innamorato di lei, a cui il padre voleva far sposare un’altra ragazza.
Curculio
Curculio (“Gorgoglione” o “Pidocchio”: parassita del grano, “nome parlante”1 del protagonista): un giovane riesce, con l’aiuto di uno scaltro parassita che escogita una serie d’inganni, a sottrarre la ragazza di cui è innamorato al lenone che la possiede e al soldato a cui era
stata promessa; alla fine la ragazza è riconosciuta libera, nonché sorella del soldato, e i due
giovani possono sposarsi.
Epidı̆cus
Menaechmi
Epidı̆cus (“Epìdico”): la trama, intricatissima, è basata sugli espedienti e gli inganni messi
in atto dall’astutissimo servo Epìdico ai danni del vecchio padrone Perifane per ottenere i
denari di cui ha bisogno il figlio di Perifane per conquistare, disputandole a lenoni e a soldati, due diverse cortigiane di cui si è successivamente innamorato. Quando le menzogne di
Epídico stanno per essere smascherate, una delle due ragazze è riconosciuta come figlia di
Perifane e lo schiavo è premiato con il dono della libertà.
Menaechmi (“I Menecmi”): il giovane Menecmo, durante un viaggio alla ricerca del fratello gemello perdutosi da bambino, giunge nella città in cui questo abita; prima però che i
CAPITOLO 5 Plauto
due s’incontrino e si riconoscano, si ha una lunga e complicata serie di equivoci (con effetti esilaranti), perché i due fratelli, eguali di nome e di aspetto, vengono continuamente
scambiati l’uno con l’altro.
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Mercator (“Il mercante”): un padre diventa rivale del figlio per la conquista di una bella
cortigiana, comperata dal giovane durante un viaggio di affari; il vecchio è aiutato da un
amico compiacente che finge di voler comprare per sé la ragazza, ma, in seguito all’energico intervento della moglie dell’amico, il padre viene svergognato e il figlio (aiutato a sua
volta da un amico) rientra in possesso della cortigiana.
Mercator
Miles gloriosus (“Il soldato fanfarone”): un giovane, innamorato di una cortigiana, riesce a
sottrarla a un soldato con l’aiuto di un servo scaltro e di un simpatico vecchio scapolo, amico di famiglia; il soldato, smargiasso, tronfio e sciocco, viene ripetutamente ingannato e finisce beffato e bastonato.
Miles gloriosus
Mostellaria (“La commedia del fantasma”): l’arrivo improvviso del padre, di ritorno da un
viaggio d’affari, mette in difficoltà un giovane, che ha preso denaro a usura per comperare
la cortigiana Filemazio e sta gozzovigliando con lei e con gli amici; l’astutissimo servo Tranione non lascia entrare il vecchio facendogli credere che la casa è abitata da un fantasma;
inoltre gli fa promettere il pagamento del debito all’usuraio fingendo che il figlio abbia comperato un’altra casa; alla fine si scopre la verità, ma il giovane e il servo sono perdonati.
Mostellaria
Persa (“Il persiano”): anche qui troviamo un giovane che ama una cortigiana e che la sottrae con l’inganno a un lenone; ma in questo caso l’innamorato è un servo (per cui i due
ruoli del giovane amante e dello schiavo scaltro si sommano nello stesso personaggio), aiutato nei suoi raggiri da un altro servo; quest’ultimo si traveste da persiano per vendere al lenone, fingendo che sia una schiava, la figlia di un parassita, anch’egli complice della truffa.
Persa
Poenŭlus (“Il piccolo cartaginese”): un giovane ama una ragazza, rapita da bambina con la
sorella e venduta a un lenone; lo schiavo del giovane architetta una trappola giudiziaria ai
danni del lenone, che riceve un danno ancora maggiore quando le due ragazze sono riconosciute libere; arriva infatti il loro padre, un cartaginese, che si rivela per di più zio del
giovane innamorato.
Poenŭlus
Pseudŏlus (“Psèudolo”, cioè “Il bugiardo”, “nome parlante” dello schiavo protagonista): un
giovane ama una cortigiana che il lenone Ballione ha promesso a un soldato dietro versamento di una caparra; il servo Psèudolo, furbissimo e sfrontato, mette nel sacco con i suoi
imbrogli sia il lenone, sia il messo del soldato venuto per prendere la ragazza, sia il vecchio
padrone, padre del giovane innamorato; alla fine Ballione ha il danno e le beffe, mentre
Psèudolo fa baldoria con il padroncino e si riconcilia con il vecchio.
Pseudŏlus
Rudens (“La gòmena”): una ragazza, rapita quand’era bambina, è nelle mani di un lenone
che, dopo averla promessa a un giovane innamorato di lei ed essersi fatto versare un’ingente somma di denaro, si è imbarcato di nascosto per portarla via; ma una tempesta lo fa naufragare nei pressi del luogo in cui abita il padre della ragazza. Un bauletto, ripescato da un
servo con una gòmena e contenente i ninnoli della figlia bambina, propizia il riconoscimento; così i due giovani innamorati potranno sposarsi. È l’unica commedia che non si
svolge in una città, ma su una spiaggia presso Cirene, in un pittoresco ambiente marino.
Rudens
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PROFILO LETTERARIO
PROFILO LETTERARIO
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PROFILO LETTERARIO
Stichus
Trinummus
Truculentus
3.
Pseudŏlus,
Bacchı̆des,
Mostellaria,
Miles gloriosus
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Il servo scaltro
è l’eroe comico
Stichus (“Stico”, nome di uno schiavo): due sorelle hanno sposato due fratelli, da tre anni
lontani per affari; il padre delle due donne cerca invano di convincerle a lasciare i mariti,
ma questi ritornano sani e salvi, dopo aver fatto fortuna, e rendono felici le mogli e il suocero. La commedia, dall’intreccio molto semplice, dà largo spazio al personaggio comico di
un parassita e si conclude con una baldoria di servi.
Trinummus (“Le tre monete”): il vecchio Càllicle, per incarico di un amico partito per un
viaggio d’affari, ne sorveglia il figlio Lesbònico, un giovane scapestrato che dissipa le sostanze paterne vendendo perfino la casa del padre; essa è comprata dallo stesso Càllicle, che
vuole così conservare per l’amico un tesoro ivi nascosto all’insaputa del giovane. Dal tesoro preleva poi, fingendo che sia stato inviato dall’amico (e utilizzando per questo un finto
messo ingaggiato per tre monete), il denaro necessario per fornire di dote la sorella di Lesbònico, di cui è innamorato un giovane di ottima famiglia; la vicenda si conclude con il ritorno del padre e con un duplice matrimonio (Lesbònico sposerà la figlia di Càllicle).
Truculentus (“Il tanghero”, “nome parlante” di uno schiavo di campagna, che ha una parte
secondaria): una scaltra cortigiana tiene legati a sé e sfrutta contemporaneamente tre
amanti, facendo credere, tra l’altro, a uno di loro, un soldato, di aver avuto un figlio da lui;
il raggiro alla fine viene scoperto e uno degli altri due giovani sposerà la vera madre del
bambino, una ragazza libera che egli aveva sedotto.
Le commedie del servus callidus
Rientrano nello schema generale che abbiamo delineato (senza però la conclusione matrimoniale, dato che le donne amate sono meretrices) alcune fra le commedie plautine
più riuscite e più celebri, come lo Pseudŏlus, le Bacchı̆des, la Mostellaria, il Miles gloriosus.
In queste commedie la struttura fondamentale della trama è la stessa; gli antagonisti sono di volta in volta il padre, il lenone, il soldato (talora, come nello Pseudŏlus, sono presenti tutti e tre); immancabilmente i giovani, pur scapestrati e scialacquatori, raggiungono il loro scopo (la conquista della donna amata) e sono perdonati dai padri, che nel lieto fine si riconciliano anche con i servi bugiardi e imbroglioni, mentre i danni e le beffe
toccano agli antagonisti estranei alla famiglia: il soldato e specialmente il lenone, “l’antipatico” per eccellenza, su cui viene scaricata, senza remore o inibizioni, l’aggressività dei
protagonisti e, indirettamente, del pubblico.
Ma il vero protagonista delle commedie che abbiamo citato è il servo, il personaggio che
Plauto sente più congeniale e a cui affida più volentieri tutte le risorse della sua esuberante comicità: il servus callidus, che nella vicenda drammatica svolge il ruolo di aiutante del giovane innamorato, è in realtà l’eroe comico su cui si concentrano l’attenzione e la
simpatia dell’autore e del pubblico. Egli non è solo abilissimo orditore d’inganni; è anche
spavaldo, sfacciato, sicuro di sé fino all’insolenza e alla strafottenza, incline a narcisistiche
(ma anche scherzose) autoglorificazioni, sempre pronto a prendersi gioco di amici e di
avversari inventando pirotecnicamente battute, spiritosaggini, giochi di parole.
CAPITOLO 5 Plauto
Non meno divertenti risultano gli antagonisti. In particolare personaggi iperbolici come
il miles gloriosus della commedia omonima, prototipo dei vari Gradassi e Capitan Fracassa della tradizione comica successiva, o il Ballione dello Pseudŏlus, incarnazione della
ribalderia e della spudoratezza proprie dello stereotipo del lenone, sono veri e propri capolavori di esagerazione grottesca, dotati di travolgente e irresistibile comicità nonostante e anzi proprio in virtù dei loro eccessi.
4.
Personaggi
iperbolici
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La commedia di carattere, la beffa,
la commedia degli equivoci
Notevoli variazioni sullo schema consueto sono rappresentate da altre celebri commedie,
che esercitarono un forte influsso sulla tradizione comica successiva.
Nell’Aulularia è presente il consueto amore ostacolato che alla fine si realizza felicemente e non mancano gli inganni del servo. Tuttavia in questo caso lo spazio maggiore è occupato dalla figura del vecchio, magistrale raffigurazione dell’avaro (a lui si ispirerà Molière per il suo Arpagone nella commedia L’avaro, del 1668), tanto che l’Aulularia viene
indicata talora come il prototipo della “commedia di carattere”, incentrata sulla delineazione di un tipo psicologico.
Effettivamente Euclione, che nella sua morbosa sospettosità scorge dappertutto indizi
della presunta volontà di privarlo del suo tesoro, non è soltanto una caricatura, una maschera grottesca, né, tanto meno, una semplice macchietta: pur scaturendo la comicità,
anche in questo caso, dall’accentuazione iperbolica del difetto del personaggio, tuttavia
nei meccanismi psicologici che il poeta gli attribuisce il pubblico riconosce la rappresentazione ingrandita e comicamente deformata di atteggiamenti o spunti o tentazioni (l’attaccamento al denaro, la paura della povertà, la diffidenza verso gli estranei) presenti in
tutti gli uomini; per questo il personaggio dell’avaro, pur spingendosi oltre i confini della verosimiglianza, ci appare vivo e reale, reso credibile e persuasivo dall’arte del poeta.
Anche nella Cası̆na ritroviamo il solito schema di base, con il giovane ostacolato nel suo
amore e il lieto fine coincidente con il matrimonio, propiziato dal “riconoscimento”. Tuttavia la vicenda del giovane innamorato (che, come la stessa Càsina, non compare mai
sulla scena) resta sullo sfondo: il protagonista è il senex libidinosus, il vecchio ridicolmente e vergognosamente innamorato, che, venendo meno ai suoi doveri di padre di famiglia, si fa rivale del figlio per la conquista della stessa donna; egli merita dunque, da
parte della moglie offesa e dei suoi aiutanti, una punizione esemplare, commisurata all’entità della trasgressione: non solo il danno, ma anche le beffe.
La Cası̆na è infatti la tipica commedia della beffa, caratterizzata da una comicità spiccatamente farsesca e licenziosa soprattutto in connessione con il motivo scabroso delle
“nozze maschie” (variante del tema del travestimento, frequentissimo nella commedia
antica e moderna).
Tale motivo ebbe molta fortuna nel teatro moderno: fu ripreso in particolare in numerose commedie del Cinquecento, fra cui la più importante è la Clizia di Niccolò Machiavelli (1525).
Aulularia
Il vecchio
avaro
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Deformazione
comica
di un tipo
psicologico
Cası̆na
Il vecchio
innamorato
Una
commedia
della beffa
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TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
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Lo scambio
di persona
Menaechmi
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Il tema
dei simillimi
Amphitrŭo
Lo sdoppiamento
dell’io
Su una forma particolare di equivoco, lo scambio di persona, sono incentrate due altre
celeberrime commedie plautine: i Menaechmi e l’Amphitrŭo.
Nel caso dei Menaechmi (i fratelli gemelli eguali di nome e di aspetto), per un automatismo tipico di questa situazione comica, ciascuno dei due simillimi capita immancabilmente in scena al posto dell’altro e viceversa, trovandosi così ad agire in un contesto “predisposto” per l’altro: dagli equivoci che ne conseguono scaturisce il divertimento del
pubblico. Il tema dei simillimi fu ripreso infinite volte nel teatro comico rinascimentale e
moderno (˘ p. 00).
Nell’Amphitrŭo, invece, al tema dell’equivoco (che peraltro non coinvolge tutti i personaggi, perché Giove e Mercurio conoscono la verità) si accompagna quello (sfruttato in
chiave comica, ma al tempo stesso vagamente angoscioso) dello sdoppiamento dell’io,
della paura di aver perso la propria identità, paura suscitata, in Anfitrione e soprattutto
in Sosia, dallo sconcertante incontro con il proprio doppio.
Anche l’Amphitrŭo ebbe nella tradizione comica successiva un’enorme fortuna, attestata
da decine di rifacimenti e di imitazioni. In particolare al successo dell’Anfitrione di Molière (1668) si deve l’uso antonomastico, tuttora diffuso, dei nomi dei protagonisti: anfitrione (per indicare un padrone di casa ospitale e generoso) e sosia (per designare chi è
perfettamente rassomigliante a un’altra persona: ˘ p. 00).
5.
I modelli
sono i poeti
greci
della commedia
nuova
Ambientazione
greca
I rapporti con i modelli greci
Plauto, come sappiamo, traduce, o meglio adatta, riprende, rielabora commedie greche
che noi non possediamo nel testo originale, ad eccezione di qualche decina di versi di
una di Menandro, Dis exapatón (“Colui che inganna due volte”). Da sempre, quindi, la
critica plautina si è esercitata e affaticata sul problema dei rapporti con i modelli, cercando di ricostruire i testi perduti che Plauto utilizzò e di valutare in quale misura egli sia
stato fedele agli originali e quanto invece abbia innovato, modificato e ricreato liberamente.
Gli autori da cui Plauto ha attinto sono i principali rappresentanti della commedia nuova greca: Menandro (per Bacchı̆des, Cistellaria, Stichus), Filèmone (per Mercator e Trinummus), Dífilo (per Cası̆na e Rudens); a queste si aggiunge Demofilo (per l’Asinaria),
autore che non ci è altrimenti noto. Il poeta li cita in alcuni prologhi e usa, per indicare
il suo rapporto con essi, l’espressione vortere barbare, “volgere dal greco in latino” (assumendo il punto di vista dei Greci, per i quali “barbaro” equivaleva a “non greco”: e dunque il latino era una lingua “barbara”, straniera).
In realtà non si trattava di semplici traduzioni. È vero che Plauto si è mantenuto fedele
agli originali conservandone l’ambientazione greca (tutte le sue commedie si svolgono ad
Atene o in altre città del mondo ellenistico): essa gli offriva, tra l’altro, il vantaggio di poter attribuire comportamenti spesso moralmente discutibili o deplorevoli ai Greci e non
ai Romani. Possiamo anche ragionevolmente pensare che egli abbia mantenuto le linee
essenziali delle trame e che abbia reso in latino molte scene, o parti di scene, seguendo da
CAPITOLO 5 Plauto
vicino il testo dei modelli. Ma con altrettanta sicurezza possiamo affermare che non si è
fatto scrupolo di apportare modifiche, anche notevoli, ogni volta che ciò gli è sembrato
necessario o opportuno per raggiungere con maggior efficacia lo scopo di divertire il suo
pubblico, le cui esigenze e le cui attese erano sotto molti aspetti diverse da quelle del pubblico greco.
Innanzitutto sappiamo che Plauto (come già Nevio prima di lui) fece uso della “contaminazione”: termine tecnico moderno, ricavato dai prologhi di Terenzio (dove compare
il verbo contaminare), che indica l’inserzione in una commedia, derivata da un determinato originale greco, di una o più scene, talora anche di uno o più personaggi, tratti da
un’altra commedia, anch’essa greca (˘ p. 00). La contaminazione implicava evidentemente un trattamento piuttosto libero dei modelli, la cui struttura compositiva risultava
di certo più o meno profondamente mutata.
Un altro importante elemento che differenzia notevolmente le commedie plautine dalla
commedia nuova è lo spazio molto più ampio dato alla musica e al canto: mentre nei testi menandrei conservati le parti scritte in metri che comportavano l’accompagnamento
musicale sono scarsissime, in Plauto circa i due terzi del numero complessivo dei versi
prevedeva l’esecuzione al suono del flauto. Ciò significa che molte parti che nei modelli
corrispondevano a semplici dialoghi (o monologhi), senza musica, furono riscritte da
Plauto in metri diversi, in forma di “recitativi” o di veri e propri pezzi cantati (cantica).
L’analisi accurata dei testi ha portato inoltre gli studiosi a individuare una serie di procedimenti ricorrenti che appaiono tipicamente e originalmente plautini. Ricordiamo innanzitutto i frequenti riferimenti a usi e costumi romani, con voluti effetti di “spaesamento”: i personaggi, che nella finzione scenica sono greci, citano edìli, dittatori e pretori, alludono a leggi, istituzioni e costumi romani, menzionano tranquillamente il
Campidoglio e altri luoghi di Roma, accennano a Preneste come se fosse nei dintorni di
Atene ecc. Troviamo inoltre numerosissime battute di spirito basate su giochi di parole
che non hanno corrispondenti in greco.
Non mancano neppure veri e propri interventi sulla struttura
drammatica, con ampliamenti motivati dall’inserzione di
motivi comici particolarmente cari a Plauto, e che infatti ritornano puntualmente in commedie tratte da autori diversi. Si rileva in particolare la tendenza a dare
spazio a momenti di puro divertimento e gioco, mirando più all’efficacia comica che alla funzionalità
drammatica.
Rispetto a Menandro (il principale esponente della
commedia nuova, che fu più volte modello del poeta latino), notiamo un interesse e una cura molto
minori per la coerenza e l’organicità della trama. A
differenza del commediografo greco, Plauto è dispo-
Ritratto di Menandro, marmo, II sec. a.C., Cambridge
(Mass.), Arthur M. Sackler Museum
Libera
rielaborazione
La
“contaminazione”
Ampio spazio
dato
alla musica
e al canto
Elementi
tipicamente
plautini
Scarso
interesse per
la coerenza
e la verosimiglianza
PROFILO LETTERARIO
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
■t 2
Comicità
buffonesca
I personaggi
sono tipi
caricaturali
■t 10
Originalità
dello stile
SG2
sto a sacrificare alla comicità immediata della singola scena sia gli equilibri della struttura compositiva sia le esigenze della logica e della verosimiglianza: la singola scena è trattata in certi casi quasi come un’entità a sé stante, come uno sketch da rivista, con aggiunte farsesche fini a se stesse (per esempio sfilze d’ingiurie, scambi di minacce e di smargiassate, scene clownesche con improperi e bastonature).
Il ricorso a questi motivi di comicità bassa e buffonesca era certamente una concessione
ai gusti del vasto pubblico, andava incontro alle preferenze degli spettatori meno colti e
raffinati e si ricollegava alla tradizione delle forme italiche di teatro popolare, come l’atellana (˘ p. 00), improntate a una comicità farsesca e grossolana.
Per quanto riguarda i personaggi, non vi è nel poeta latino la tendenza, propria di Menandro, a sfumarne la psicologia per renderla più verosimile; al contrario Plauto accentua i
tratti caricaturali dei “tipi” della commedia nuova, per sfruttarne fino in fondo le potenzialità comiche. Abbiamo già parlato dei servi, del soldato, del lenone. Non meno ridicoli
risultano altri personaggi, come le mogli dei senes, bisbetiche, brontolone, intrattabili, o i
parassiti, ossessivamente affamati e voraci, o i cuochi, invariabilmente prepotenti e vanagloriosi. Quanto ai giovani innamorati, sono languidi e sospirosi fino al ridicolo, e si esprimono secondo i moduli stilistici della poesia erotica apertamente parodiati dal poeta.
Ma l’apporto più originale di Plauto rispetto ai modelli è costituito dallo stile. Pur attingendo come Menandro al linguaggio parlato (in accordo con la teoria greca della commedia come «imitazione della vita quotidiana»), egli non mira come il poeta greco (e come poi farà Terenzio) alla verosimiglianza realistica, alla riproduzione, stilizzata ma fedele, dei modi colloquiali correnti, ma crea uno stile straordinariamente artefatto (in
senso etimologico), ricchissimo di figure retoriche e di “effetti speciali” degni di un vero
e proprio virtuoso della lingua.
Il sermo familiaris costituisce beninteso il punto di partenza, il serbatoio a cui il poeta attinge; esso viene riprodotto molto liberamente, con le sue ridondanze, con l’espressività
dei diminutivi e delle locuzioni idiomatiche, con la ricchezza lussureggiante del lessico
(che accoglie numerosi grecismi, entrati nell’uso parlato, ma anche molti neologismi, coniati a fini comici), con una morfologia e una sintassi ancora fluide e multiformi (anteriori a quel processo di normalizzazione che avrebbe successivamente regolarizzato ma
anche impoverito il latino letterario); ma esso viene anche investito e trasformato profondamente dalla potente creatività del poeta, deformato ad arte, caricato, accentuato ed enfatizzato nei suoi tratti espressivi più energici e vigorosi: ne risulta uno stile vario, mosso,
brillantissimo, frutto di una fantasia che non arretra di fronte alle innovazioni più audaci, alle invenzioni più bizzarre, alle trovate più paradossali, fino all’assurdo e al surreale.
6.
Il teatro come gioco
CAPITOLO 5 Plauto
do preda di quella che siamo soliti chiamare “illusione scenica” – Plauto ama svelare
esplicitamente e quasi smascherare la finzione teatrale in quanto tale, come per richiamare gli spettatori alla consapevolezza di star partecipando insieme all’autore, gioiosamente complici, a un gioco che li diverte entrambi.
Si vedano per esempio gli inviti rivolti scherzosamente al pubblico a intervenire nell’azione drammatica, come nel celebre monologo dell’Aulularia in cui Euclione implora gli
spettatori perché lo aiutino a ritrovare la pentola del suo tesoro (vv. 715 ss.); o nella Cistellaria, dove una serva che ha perduto una cesta si rivolge al pubblico così:
Rottura
dell’illusione
scenica
■t 1
Miei signori, cari spettatori, avvertitemi se qualcuno ha visto chi l’ha portata via, chi l’ha presa: se è andato da questa parte o da quest’altra. Ma che stupida sono a interrogare ed importunare questi qui, che sono sempre contenti quando vedono soffrire una donna!
(Cistellaria, vv. 678-681)
Una forma di rottura dell’illusione scenica molto sfruttata da Plauto è costituita dai procedimenti riconducibili al cosiddetto “metateatro”, cioè al teatro nel teatro, al teatro che
rappresenta se stesso o parla di se stesso (˘ Intersezioni, p. 00).
Nel finale della Cası̆na, al marito, che le chiede di perdonarlo, la moglie risponde:
“Metateatro”:
il teatro
nel teatro
Farò come vuoi. Sai perché ti concedo il perdono accontentandoti senza tante storie? Per non
allungare ancora di più questa commedia che è già lunga.
(Cası̆na, vv. 1004-1006)
Nel Mercator un personaggio, sollecitando il suo interlocutore a raccontare ciò che sa
senza troppi indugi, gli domanda:
Hai paura di svegliare gli spettatori che si sono addormentati?
(Mercator, v. 160)
Altrove il pubblico viene messo a parte dei segreti e dei trucchi del retroscena, come
quando, nel Poenŭlus, un personaggio spiega agli spettatori che i trecento filippi contenuti in una borsa non sono vere monete d’oro, ma “oro da commedia”, cioè lupini (semi
che venivano utilizzati anche come foraggio):
Questo qui veramente, o spettatori, è oro da commedia; in Italia quest’oro qui lo fanno macerare e ci ingrassano i buoi; ma per rappresentare questa scena sono filippi: faremo finta che lo
siano.
(Poenŭlus, vv. 597-599)
In altri casi si ride del carattere stereotipato e ripetitivo dei luoghi comuni della commedia, come per esempio gli insulti al lenone: nello Pseudŏlus Ballione così risponde a chi gli
chiede che cosa gli abbia detto un altro personaggio:
Si ride
dei tópoi
della
commedia
Sciocchezze da teatro, le solite cose che si dicono nelle commedie al lenone; le sanno anche i
bambini: mi ha dato del malvagio, dello scellerato, dello spergiuro.
(Pseudŏlus, vv. 1081-1083)
Plauto
sottolinea
il carattere
fittizio
dell’evento
teatrale
Uno degli aspetti più tipici del teatro plautino è la tendenza a sottolineare, per trarne effetti comici, il carattere fittizio e ludico dell’evento teatrale. Lungi dal proporsi come
obiettivo l’immedesimazione del pubblico nell’azione drammatica – cioè l’impressione
di entrare in un mondo diverso, chiuso in se stesso, in cui lo spettatore si oblia divenen-
Altro procedimento di rottura dell’illusione scenica molto frequente – e che conferma la
ricerca di effetti comici, a scapito di ogni verosimiglianza – è l’inserzione, o intrusione (a
cui abbiamo già accennato), di riferimenti romani in commedie di ambientazione greca.
Inserzione
di elementi
romani
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Attacchi
ai Greci
Ma Plauto
non è un
“catoniano”
L’ambiguità
comica
Il
rovesciamento
burlesco
della realtà
■t 13
■t 3
Lo schiavo
trionfa
nel mondo
alla rovescia
del gioco
comico
Il caso più clamoroso è costituito da un passo del Curculio, in cui il protagonista si scaglia
contro i Greci fannulloni, ubriaconi e profittatori (vv. 288 ss.): questo attacco, pieno di
disprezzo e di scherno, suona incredibile in bocca a un personaggio greco (che per giunta è un parassita); esso riflette i pregiudizi diffusi a Roma contro i Greci immigrati: quei
pregiudizi e quell’ostilità a cui dava espressione, sul piano politico, la parte tradizionalista capeggiata da Catone, fiero avversario dell’ellenizzazione della cultura romana.
La presa di distanza dal modo greco di pensare e di vivere è netta ed esplicita anche in altri passi. Plauto conia perfino vocaboli come congraecari, “scialacquare” e pergraecari,
“gozzovigliare, darsi a vita dissoluta”, per esprimere la sua disapprovazione per la condotta immorale attribuita ai Greci.
Sarebbe tuttavia un errore identificare senz’altro le sue posizioni con quelle dei moralisti,
dei difensori della tradizione, dei sostenitori a spada tratta di posizioni catoniane; così
come sarebbe un errore ancora più grave considerarlo, all’opposto, il convinto assertore
(come qualcuno l’ha presentato) delle nuove esigenze di quei Romani che aspiravano a
uscire, grazie anche all’accresciuto benessere economico, dagli angusti limiti del mos
maiorum, per adottare uno stile di vita, come quello greco, più libero, più aperto e spregiudicato. Si possono trovare nel testo plautino innumerevoli spunti a sostegno sia dell’una sia dell’altra tesi, ma proprio questo dimostra che l’atteggiamento del poeta non è
univoco.
Non si tratta soltanto dell’ambiguità intrinseca all’opera drammatica, in cui l’autore non
parla mai direttamente in prima persona, ma sempre per bocca dei suoi personaggi.
Mentre ad esempio nel caso di Menandro o di Terenzio il lettore e lo spettatore capiscono benissimo da che parte sta il poeta, quali fra i suoi personaggi esprimono le sue posizioni, Plauto non ha da comunicare un messaggio preciso, di tipo morale o politico, non
intende ammaestrare il suo pubblico, non pretende di dimostrargli qualcosa; vuole semplicemente rallegrarlo, divertirlo. A questo scopo si fa di volta in volta portavoce di posizioni, opinioni, giudizi diversi e anche contrastanti, spesso espressi, per di più, in modo
scherzoso o caricaturale, per cui egli sembra deriderli e negarli nel momento stesso in
cui li propone, coerentemente con la scelta di fondo di non precludersi mai alcuna occasione di divertimento e di gioco.
Così sarebbe errato interpretare l’insistenza e il compiacimento con cui Plauto mette in
rilievo lo scontro dei figli con i padri e soprattutto la vittoria dei servi sui padroni come
la manifestazione di un atteggiamento critico o polemico nei confronti dei rapporti familiari e sociali vigenti. Essi rientrano invece in un aspetto caratteristico della commedia
in generale e del comico plautino in particolare: la tendenza al rovesciamento burlesco
della realtà.
In una specie di mondo alla rovescia, in cui i sogni più audaci si possono avverare e le gerarchie di potere si possono capovolgere, quelli che erano i reali rapporti di forze all’interno della famiglia appaiono ribaltati: i giovani soddisfano i loro desideri in barba all’autorità paterna, gli schiavi umiliano i padroni, le mogli spadroneggiano sui mariti. In
particolare la situazione ricorrente del servo che presenta se stesso come un generale impegnato in scontri vittoriosi con il proprio padrone, su cui celebra grandiosi trionfi (in
Plauto sono frequentissime le similitudini e le metafore militari), è un tipico e clamoro-
CAPITOLO 5 Plauto
so esempio di rovesciamento comico: lo schiavo, che occupa l’ultimo posto nella scala
sociale, balza inopinatamente al gradino più alto, autoidentificandosi con il supremo
condottiero insignito dell’onore del trionfo.
Ma ciò può avvenire solo grazie alla magia della finzione teatrale, in un contesto dichiaratamente ludico e scherzoso, senza che sia messa seriamente in discussione la normalità
dei rapporti familiari e sociali, ristabilita, anzi, e riaffermata nella riconciliazione finale,
dopo la temporanea, illusoria, giocosa sospensione propria dell’evento comico. Gli
straordinari e ben poco verosimili successi degli schiavi non si caricano d’implicazioni
politiche, non sono la protesta degli umili contro i potenti, ma costituiscono l’affermazione strepitosa e paradossale di una vitalità esplosiva, che nella commedia, il genere in
cui istituzionalmente il principio di piacere prevale sul principio di realtà, può dispiegarsi senza impedimenti e celebrare festosamente i suoi immaginari ed effimeri trionfi.
Intersezioni / Letteratura
Il metateatro, ovvero la rottura dell’illusione scenica
Con “metateatro” (dal greco metá “dopo, oltre, al di là”) s’intende “il teatro nel teatro”, cioè una serie di procedimenti presenti in testi drammatici (tragedia, commedia, melodramma ecc.), grazie
ai quali il teatro “si mette in scena”, rappresenta se stesso o parla di se stesso.
La forma più completa di teatro nel teatro è l’inserzione, all’interno di un’opera drammatica, di
una rappresentazione teatrale, che viene a costituire, rispetto al dramma primario, una sorta di
dramma di secondo grado. Fra gli esempi più celebri
possiamo ricordare un capolavoro di William Shakespeare, la tragedia Amleto (1600): il protagonista fa
mettere in scena da una compagnia di attori, ospiti alla reggia di Danimarca, il tradimento e l’uccisione del
re suo padre, così da smascherare l’assassino grazie alle sue reazioni durante lo spettacolo.
Un’altra forma di metateatro è costituita dai procedimenti di rottura dell’illusione scenica, per cui il teatro,
invece di presentarsi come imitazione immediata e verosimile della realtà, mette apertamente in luce il suo
carattere fittizio e convenzionale, svelandosi, di solito
con intenti scherzosi, come finzione e come gioco.
Procedimenti di questo tipo sono connaturati con l’origine stessa della commedia greca, rito collettivo inserito all’interno di feste religiose e celebrato insieme dagli attori e dal pubblico, senza alcuna frattura fra pal- Riproduzione di un fondale scenico, terracotta,
coscenico e platea. In Aristofane (il massimo esponen- Napoli, Museo Archeologico Nazionale
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SG2
te della commedia greca antica, V secolo a.C.) non solo gli spettatori partecipano all’azione scenica attraverso l’intermediario costituito dal coro, ma sono frequentemente apostrofati dal coro o
dagli attori, e vengono interpellati e chiamati in causa, in particolare, in un’apposita sezione della
commedia, la “paràbasi” (propriamente “marcia, sfilata” del coro, con ogni probabilità l’antichissimo nucleo originario da cui si sviluppò il genere comico).
Con la commedia nuova greca (IV-III secolo a.C.) ebbe inizio una lenta evoluzione verso il cosiddetto “dramma assoluto”, in cui l’attore e il personaggio s’identificano e si fondono, l’autore si nasconde dietro le vicende rappresentate, e queste sono messe in scena realisticamente, così da indurre quella immedesimazione degli spettatori nell’azione drammatica, a cui diamo il nome di
“illusione scenica”.
Plauto, pur traendo le sue opere da modelli greci della commedia nuova, interrompe questo processo di trasformazione della commedia in forma chiusa (processo che sarà poi ripreso e condotto molto innanzi dall’altro grande commediografo latino, Terenzio), accogliendo ogni specie di
intrusione metateatrale, per ricavarne effetti comici. Egli attinge per questo aspetto anche e soprattutto a una tradizione italica di spettacoli teatrali preletterari, di tipo farsesco e buffonesco,
che comportavano da parte degli attori la ricerca di un contatto diretto con il pubblico, fatto di
ammiccamenti, strizzatine d’occhi, lazzi e motteggi, anche improvvisati. Abbiamo dato sopra
(˘ p. 00) numerosi esempi di simili procedimenti metateatrali in Plauto: accenni scherzosi ai trucchi della scena e del retroscena, derisione dei luoghi comuni e delle convenzioni del genere comico,
allusioni giocose ai commediografi greci autori dei modelli, incongrui riferimenti a luoghi e
costumi romani in commedie ambientate in Grecia.
Vi è però anche un’altra forma di metateatro presente in Plauto, su cui ha richiamato l’attenzione
in tempi relativamente recenti un importante studio di Marino Barchiesi1: l’assimilazione, più o
meno esplicita, degli inganni e delle beffe, tramati dal servo ai danni degli antagonisti, alle “trame”
della commedia, con la conseguente identificazione del servo stesso con il poeta comico. Il servus
callidus viene infatti rappresentato mentre medita, escogita e “mette in scena” i suoi intrighi, proprio come l’autore e il capocomico creano e realizzano lo spettacolo teatrale. Spunti di questo tipo trovano la loro più brillante espressione nello Pseudŏlus, dove lo schiavo che dà il titolo alla
commedia, preparandosi ad invenire (“trovare”, ma anche “inventare”) la somma di denaro necessaria per sciogliere i nodi della vicenda, paragona espressamente se stesso al poeta, il quale,
«quando prende in mano le tavolette, cerca ciò che non esiste da nessuna parte, e purtuttavia lo
trova, e rende verosimile quella che è un’invenzione (mendacium)» (vv. 401-403).
Il Barchiesi ha segnalato in Pseudolo il lontano precursore di personaggi del teatro moderno come il Prospero della Tempesta di Shakespeare (1611), che preordina e guida, con l’aiuto della magia, le vicende del dramma, conducendole agli esiti da lui voluti e identificandosi, implicitamente
ma inequivocabilmente, con l’autore.
Nel teatro novecentesco il metateatro celebra i suoi trionfi, com’è noto, con Luigi Pirandello, soprattutto (ma non soltanto) nella trilogia, detta appunto metateatrale, costituita da Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel
primo e più importante di questi drammi, a un capocomico sconcertato si presentano sul palcoscenico, durante le prove di uno spettacolo, sei personaggi creati e poi abbandonati dal loro autore: essi, mossi dall’esigenza che sia data forma ed espressione al loro dramma, si propongono e
s’impongono al capocomico e agli attori con l’urgenza dei loro conflitti dolorosi e delle loro tragiche contraddizioni.
1. Marino Barchiesi, Plauto e il “metateatro” antico, “Il Verri”, 31, 1969, ripubblicato in I moderni alla ricerca di
Enea, Bulzoni, Roma 1981, pp. 147-174.
CAPITOLO 5 Plauto
Viene qui sviluppata e portata alle sue estreme e paradossali conseguenze la visione del teatro come il luogo dello scambio e della sovrapposizione fra realtà e illusione, fra verità e finzione, fra la
vita e l’arte che la rappresenta (una simile visione era del resto già adombrata in capolavori come
la stessa Tempesta shakespeariana o come il dramma La vita è sogno del 1635, opera dello spagnolo Calderón de la Barca).
Dal metateatro antico, che consiste fondamentalmente nello svelare, per lo più con intento scherzoso, il carattere fittizio dell’evento scenico e del mondo creato dalla fantasia del poeta, attraverso
una lunga evoluzione si è giunti, con Pirandello e poi con gli sviluppi successivi del teatro contemporaneo, a mescolare e confondere scena e vita reale, accomunate dalla precarietà e dalla labilità di apparenze egualmente ingannevoli. Non si tratta più semplicemente della rottura dell’illusione scenica: l’illusione stessa, con un gioco molto più sottile, viene messa in discussione in quanto tale, postulando (è ciò che fa Pirandello) che i personaggi esistano di per se stessi al di fuori della finzione, e insinuando il dubbio che non esista una realtà oggettiva (di cui il teatro sarebbe
“mimèsi”, imitazione), ma che la vita reale sia non meno illusoria, inafferrabile, inconsistente ed
evanescente del mondo fittizio inventato dall’arte.
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PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
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PLAUTO
Delle commedie di Plauto vengono proposti passi suddivisi in quattro gruppi principali:
personaggi plautini
l’equivoco e lo scambio di persona
scene di vita quotidiana
plauto in scena: il miles gloriosus
Tale criterio di presentazione ci sembra efficace, seppure nei limiti legati all’impostazione antologica, al fine di cogliere i temi fondamentali della poetica plautina e di conoscere in modo più approfondito, ma anche più immediato, l’opera di Plauto attraverso alcune delle sue scene più divertenti e significative.
A
B
C
D
T1
L’avaro (Aulularia, vv. 79-119; 178-267; 713-726)
T2
Il lenone (Pseudŏlus, vv. 340-369)
T3
Il servo-generale (Pseudŏlus, vv. 574-594)
T4
L’equivoco (Aulularia, vv. 727-777)
italiano
T5
Lo scambio di persona (Menaechmi, vv. 701-752; 910-956)
italiano
T6
Euclione al mercato (Aulularia, vv. 371-387)
italiano
T7
Arti e mestieri a Roma (Aulularia, vv. 505-522)
italiano
T8
La toilette di Filemazio (Mostellaria, vv. 248-281)
T9
Il primo argumentum
T 10
Il soldato sbruffone e il parassita adulatore (Miles gloriosus, atto I, vv. 1-78)
italiano
T 11
È di scena il servo! (Miles gloriosus, atto II, vv. 272-353)
italiano
T 12
La prima beffa (Miles gloriosus, atto II, vv. 481-595)
italiano
T 13
La seconda beffa (Miles gloriosus, atto IV, vv. 947-990)
latino/italiano
T 14
Il servo regista (Miles gloriosus, atto IV, vv. 1137-1195)
latino/italiano
T 15
Lo sbruffone punito (Miles gloriosus, atto V, vv.1411-1422)
latino/italiano
latino/italiano
italiano
latino/italiano
italiano
latino/italiano
personaggi plautini
Grande genio comico, dotato di un’inesauribile fantasia e di un’eccezionale capacità
espressiva, Plauto ha saputo rappresentare sulla scena un’ampia e variegata galleria di
personaggi riuscitissimi. Sulla scia della commedia nuova greca, i protagonisti delle commedie plautine si muovono in un intreccio di vicende spesso ripetitivo, con situazioni e
figure convenzionali, ma che Plauto ha saputo rielaborare e arricchire con aspetti straordinariamente vivaci, accentuandone gli aspetti comici e facendone delle vere e proprie
caricature: il servus callidus, artefice di raggiri e beffe, fantasioso ideatore di ingegnose
trovate, l’adulescens, il giovane innamorato, che spesso incontra ostacoli al proprio amore (la donna amata è una cortigiana oppure è onesta ma di condizione umile e così via),
il lenone, ossia il mercante di cortigiane, il senex, il vecchio padre di famiglia, avaro e rigido o ridicolmente libidinoso, la moglie bisbetica e autoritaria, spesso gelosa e opprimente, il soldato fanfarone, il parassita adulatore, la cortigiana, la ragazza virtuosa ma
povera. Accanto a queste figure principali ci sono poi tutta una serie di personaggi minori, cuochi, mezzane, ancelle, servi e molti altri, che, sapientemente orchestrati, contribuiscono a dar vita a gustose e comiche scenette.
t1
L’avaro (Aulularia, vv. 79-119; 178-267; 713-726)
Il vecchio Euclione ha trovato in casa una pentola piena d’oro (sotterrata, per avarizia, da suo
nonno all’insaputa di tutti) ed è ossessionato dalla paura che qualcuno scopra il suo segreto e gli
rubi il suo tesoro. Nella sua monomania, nella sua morbosa sospettosità, che lo porta a scorgere
dappertutto indizi della presunta volontà di derubarlo, l’avaro vive in una sorta di delirio lucido
e intrattiene con gli altri personaggi rapporti difficili, più o meno gravemente disturbati dall’ossessione di cui è vittima. Nella scena che segue, il senex, uscito di casa dopo aver controllato per
l’ennesima volta che il tesoro sia intatto, raccomanda alla vecchia serva Stàfila di far buona guardia per il breve tempo in cui egli dovrà allontanarsi.
EUCLIONE, STÀFILA
(serva)
EUCLIONE Ora finalmente esco di casa con l’animo sollevato, dopo aver controllato che dentro tutto è salvo. (a Stàfila) Torna dentro adesso e fa’ la guardia
all’interno.
STÀFILA Ma naturalmente! Io dovrei far la guardia all’interno? Hai paura che
qualcuno porti via la casa? Perché qui da noi non c’è nient’altro che possa interessare ai ladri, tanto è piena di vuoto e di ragnatele.
EUCLIONE Strano che, per far piacere a te, Giove non mi faccia diventare il re
Filippo o Dario1, brutta strega! Quelle ragnatele io voglio che tu me le custodisca. Sono povero, lo ammetto; lo sopporto; accetto quello che gli dèi mi mandano. Va’ dentro, chiudi la porta; io torno subito. Bada di non lasciar entrare in
1. Filippo, re di Macedonia, e Dario, re di Persia, erano noti per la loro ricchezza e per le monete che avevano
fatto coniare, il filippo e il darico o dario.
PERCORSI TESTUALI
A
PERCORSI TESTUALI
A
B
C
D
CAPITOLO 5 Plauto
casa nessun estraneo. Dato che qualcuno potrebbe venire a chiedere del fuoco,
voglio che tu lo spenga, perché non ci sia un motivo per cui qualcuno ti venga
a cercare. Guarda che se il fuoco resterà in vita, sarai spenta tu all’istante. Poi, se
qualcuno vorrà dell’acqua, digli che è scappata via tutta. Il coltello, l’accetta, il
pestello, il mortaio, i recipienti che i vicini vengono sempre a chiedere in prestito, di’ che sono venuti i ladri e li hanno rubati. Insomma in casa mia, quando io non ci sono, non voglio che entri nessuno. Anzi, senti che cosa ti dico:
quand’anche venisse la buona Fortuna, non devi farla entrare.
STÀFILA Sta’ tranquillo: ci pensa già da sola a non entrare. Tant’è vero che non
è mai venuta a casa nostra, pur abitando qui vicino2.
EUCLIONE Sta’ zitta e va’ dentro. Sta. Sto zitta e vado.
EUCLIONE Mi raccomando, chiudi la porta con tutti e due i chiavistelli. Io torno subito. (la serva entra in casa) È un tormento per me dover uscire di casa.
Vado davvero malvolentieri, per Ercole. Ma so quello che faccio. Infatti il presidente della nostra curia ha comunicato che distribuirà un denaro d’argento a
testa. Se rinuncio e non vado a prenderlo, tutti subito sospetterebbero sicuramente che ho dell’oro in casa. Non è credibile che un povero non si curi di andare a prendere del denaro, per quanto poco sia. Gli è che, pur facendo io del
mio meglio per tenere la cosa nascosta a tutti, mi sembra che tutti lo sappiano,
e infatti tutti mi salutano più gentilmente di come facevano prima; si avvicinano, mi fermano, mi stringono la mano, continuano a chiedermi come sto, che
cosa faccio, come mi vanno gli affari. Adesso andrò dove ho deciso; poi mi ritirerò di nuovo in casa il più presto possibile. (esce)
CAPITOLO 5 Plauto
Intersezioni / Letteratura
L’avaro da Plauto a Molière
L’Aulularia si può considerare il prototipo della commedia di carattere e, come tale, esercitò un
grandissimo influsso sulla tradizione comica successiva.
Il personaggio di Euclione porta alle estreme conseguenze un vizio tipico dei senes, l’avarizia, funzionale alle trame consuete della commedia nuova greca, imperniate sul contrasto generazionale:
i padri ostacolano i progetti amorosi dei figli anche e soprattutto per ragioni d’interesse, negando
loro il denaro necessario per ottenere i favori di una cortigiana o opponendosi al loro matrimonio
con una ragazza povera. L’avarizia di Euclione, tuttavia, è talmente enfatizzata da assumere i tratti patologici dell’ossessione, della monomania, del delirio, e da mettere in ombra gli altri personaggi e lo stesso intreccio amoroso, conferendo alla figura del vecchio il risalto del protagonista
assoluto.
Da questo punto di vista, molto simile ad Euclione è il suo più celebre “discendente”, Arpagone
(Harpagon), nell’Avaro di Molière (1668), la commedia che s’impone con l’autorevolezza del capolavoro sulle numerosissime rielaborazioni e imitazioni dell’Aulularia in età moderna. Il testo di
Plauto e quello del commediografo francese (che ha attinto anche ad altri modelli, più recenti e
meno prestigiosi) presentano molte analogie, ma anche importanti differenze.
Molière ha ripreso e sviluppato ulteriormente nelle loro potenzialità comiche le scene più divertenti dell’Aulularia: lo scontro con il servo (che il vecchio teme voglia derubarlo e che successivamente lo deruberà davvero), il furto del tesoro e la conseguente scena di disperazione (ricalcata da
vicino anche nelle tragicomiche apostrofi rivolte al pubblico); il dialogo fra l’avaro e l’aspirante
genero incentrato sull’equivoco (per cui il giovane confessa il suo amore per la figlia di Arpagone,
mentre Arpagone crede che stia ammettendo di avergli rubato la cassetta con il tesoro).
2. Si riferisce probabilmente a un tempio della dea Fortuna sito nelle vicinanze.
Segue (vv. 120-177) un dialogo fra Megadoro, vicino di casa di Euclione, anziano e benestante, e
la sorella, che lo esorta a prendere moglie. Megadoro vuole una donna giovane e povera, per non
dover subire l’arroganza di una uxor dotata (cioè di una moglie fornita di ricca dote), e ha deciso
perciò di chiedere a Euclione la mano di sua figlia. Al ritorno del vecchio avaro dalla piazza, ecco
l’incontro fra i due senes (vv. 178-267).
EUCLIONE, MEGADORO
EUCLIONE Me lo sentivo, quando uscivo di casa, che avrei fatto il giro a vuoto;
perciò andavo così malvolentieri. Non è venuto nessuno della curia e neppure il
presidente che doveva distribuire il denaro. Adesso mi affretto a rientrare subito in casa; perché io sono qui, ma il mio cuore è là dentro.
MEGADORO Che tu possa avere sempre salute e buona fortuna, o Euclione!
EUCLIONE Gli dèi ti proteggano, Megadoro.
MEGADORO E allora? Stai bene? Tutto come desíderi?
EUCLIONE (a parte) Non è certo un caso quando un ricco si rivolge a un povero con gentilezza. Quest’uomo sa che possiedo dell’oro; perciò mi saluta più
gentilmente del solito.
Maschere teatrali, mosaico, II sec. d.C., Roma, Musei Capitolini
PERCORSI TESTUALI
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TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
CAPITOLO 5 Plauto
Che mi dici? Che stai bene?
EUCLIONE Non va troppo bene, in verità, quanto a denaro.
MEGADORO Se il tuo animo è sereno, in verità, hai abbastanza per vivere bene.
EUCLIONE (a parte) Per Ercole, la vecchia lo ha avvertito dell’oro; è chiaro come il sole. Appena arrivo a casa, le taglierò la lingua e le caverò gli occhi.
MEGADORO Cos’hai che parli da solo?
EUCLIONE Mi lamento della mia povertà. Ho una figlia già adulta, senza dote e
quindi impossibile da sposare; non so come fare a trovarle un marito.
MEGADORO Non dirlo; fatti coraggio, Euclione. Si sposerà; ti aiuterò io; dimmi
se hai bisogno di qualcosa, comanda!
EUCLIONE (a parte) Ora chiede, dato che promette; è lì a bocca aperta, pronto
a inghiottire l’oro. Con una mano tiene un sasso, con l’altra mostra il pane. Non
mi fido affatto di un ricco che è così gentile con un povero. Proprio mentre ti
stringe amichevolmente la mano, ti appioppa qualche malanno. Li conosco bene io questi polipi che, se toccano qualcosa, non la mollano più.
MEGADORO Dammi retta un momento, Euclione; voglio dirti due parole su un
argomento che è nell’interesse sia mio sia tuo.
EUCLIONE (a parte) Ahi me infelice! Mi hanno sgraffignato l’oro là dentro.
Adesso questo qui, l’ho capito, vuole venire a un accomodamento con me. Ma
vado subito a vedere in casa.
MEGADORO Dove vai?
EUCLIONE Torno subito da te; devo vedere una cosa in casa. (entra in casa)
MEGADORO Sono sicuro che, quando gli accennerò al fatto che voglio sposare
sua figlia, crederà che lo prenda in giro. Non c’è nessuno al mondo che, a causa
della povertà, sia più spilorcio di lui.
EUCLIONE (uscendo di casa, a parte) Gli dèi mi proteggono, la roba è salva; è
salvo ciò che non ho perduto. Che paura ho avuto! Prima di rientrare in casa,
mi mancava il respiro. (a Megadoro) Torno da te, Megadoro. Che cosa volevi?
MEGADORO Ti ringrazio. Fammi un piacere; non farti scrupolo di rispondere a
quello che ti chiederò.
EUCLIONE Purché tu non mi chieda qualcosa a cui non mi piaccia rispondere.
MEGADORO Dimmi, che cosa pensi della famiglia a cui appartengo?
EUCLIONE È buona. MEGADORO E del mio credito? EUCLIONE È buono.
MEGADORO E del mio modo di comportarmi? EUCLIONE Non è certo cattivo
o disonesto.
MEGADORO Sai quanti anni ho?
EUCLIONE So che ne hai parecchi, come hai parecchi soldi.
MEGADORO Io per parte mia ti posso assicurare che ti ho sempre considerato
un cittadino senza colpe o difetti, e così ti considero tuttora.
EUCLIONE (a parte) Questo qui ha sentito l’odore del mio oro. (a Megadoro)
Ma insomma, che cosa vuoi da me?
MEGADORO Poiché tu conosci me e io conosco te, con l’augurio che porti fortuna a me, a te e a tua figlia, ti chiedo in moglie tua figlia. Prometti che me la
darai.
La commedia francese è però molto più ampia e complessa di quella latina (pervenutaci, tra l’altro, mutila della parte finale). Uno spazio di gran lunga maggiore vi è infatti assegnato, come avviene sempre nella commedia di età rinascimentale e moderna, all’intreccio amoroso: una prima
coppia d’innamorati è costituita (come in Plauto) dalla figlia dell’avaro e dal giovane che la ama,
riamato, ma che è sgradito al padre il quale vorrebbe maritare la figlia a un anziano benestante disposto a prenderla senza dote; si aggiunge inoltre una seconda coppia formata dal figlio di Arpagone e da una ragazza di cui si è invaghito Arpagone stesso: ciò consente a Molière l’inserzione di
un altro tema comico tradizionale, quello del padre rivale in amore del figlio. Si può notare che la
figlia dell’avaro, che in Plauto non compare mai in scena, in Molière ha una parte rilevante, così
come l’altra giovane innamorata: nella commedia moderna le ragazze da marito vengono disinvoltamente alla ribalta e sono spesso protagoniste, mentre nel teatro antico restavano pudicamente dietro le quinte.
La trama è inoltre arricchita da una serie di personaggi minori (che si alternano nel ruolo di “spalla” dell’avaro) e dal convenzionale riconoscimento che, insieme al ritrovamento del tesoro, propizia il lieto fine, con il doppio matrimonio dei giovani innamorati.
Un’altra differenza ancora più importante riguarda proprio la figura del protagonista: l’avarizia di
Arpagone non si manifesta soltanto in paradossali dimostrazioni di spilorceria (come quando raccomanda ai servi di spolverare i mobili con delicatezza perché non si consumino), ma si estrinseca anche, a livello sociale, nell’esercizio dell’usura. Il tesoro che Arpagone nasconde in casa non è
infatti, come per Euclione, tutto ciò che l’avaro possiede, ma soltanto una cospicua somma di denaro provvisoriamente inutilizzata, che egli si propone d’impegnare quanto prima prestandola
ad altissimo interesse.
A differenza di Plauto, che ha delineato in Euclione una sorta di avaro allo stato puro, Molière ha
inquadrato il suo personaggio in un preciso ambiente storico-culturale, quello di una ricca famiglia borghese del Seicento: «Arpagone è un antico avaro che si va trasformando in un moderno finanziere; mentre l’avarizia tradizionale si configura come una deformazione maniacale di un’economia tesaurizzatrice, l’avarizia dell’usuraio Arpagone (come del resto quella di Shylock nel
Mercante di Venezia di Shakespeare) ha caratteristiche decisamente più moderne, e si inquadra
più propriamente in una civiltà e un’economia mercantilista o addirittura capitalistica»1. In questo modo Molière ha dato al personaggio dell’avaro un sapore di attualità satirica introducendo
nella sua opera precisi riferimenti alla società e al costume contemporanei.
Comune ai due capolavori è invece, come si è già accennato, la centralità assoluta della figura del
protagonista. Il ruolo di Arpagone, come e più di quello di Euclione, è stato ed è tuttora il cavallo
di battaglia di grandi attori, i quali, nel corso di una ricchissima tradizione interpretativa, ne hanno di volta in volta sottolineato e accentuato gli aspetti farseschi e buffoneschi oppure le note di
serietà e di amarezza, e anche di pateticità e di drammaticità (specialmente nel celebre monologo
di “disperazione” per il furto del tesoro); del resto la straordinaria vitalità di questa figura nasce
proprio dalla sua complessità e dalla capacità di esprimere, mediante la potenza della deformazione grottesca, profondissime verità psicologiche.
1. Luigi Lunari, L’avaro di Molière fra teatro e realtà, introd. a Molière, L’avaro, introduzione, traduzione e note di L. Lunari, testo francese a fronte, BUR Teatro, Milano 1981, pp. 22-23.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
MEGADORO
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
Ma assolutamente no, Megadoro; né lo faccio, né potrei farlo, anche
se lo volessi.
MEGADORO E allora? Mi prometti o no tua figlia in moglie?
EUCLIONE A quelle condizioni e con quella dote che ti ho detto.
MEGADORO Lo prometti? EUCLIONE Lo prometto. MEGADORO Gli dèi ci assistano.
EUCLIONE E così sia. Ricòrdati bene: abbiamo convenuto che mia figlia non ti
porta in dote un bel nulla.
MEGADORO Me lo ricordo.
EUCLIONE Ma io so come avete l’abitudine di cambiare le carte in tavola: quello che è stato pattuito non è stato pattuito, e si è pattuito quello che non si è
pattuito... come piace a voi.
MEGADORO Non ci saranno contrasti fra te e me. Ma c’è qualche ragione per
non celebrare le nozze oggi stesso?
EUCLIONE No, anzi, va benissimo.
MEGADORO Allora vado a fare i preparativi. Ti serve altro da me?
EUCLIONE No, arrivederci.
MEGADORO (rivolto a un servo) Ehi tu, Stròbilo, svelto, vieni con me al mercato, coraggio! (esce)
EUCLIONE Se n’è andato. Chiamo a testimoni gli dèi immortali, che potenza
ha l’oro! Sono convinto che quello lì ha sentito dire che ho un tesoro in casa; è
questo che gli fa gola, e perciò ha insistito tanto per imparentarsi con me.
PERCORSI TESTUALI
EUCLIONE
EUCLIONE
Ciò che Euclione tanto paventava, puntualmente si verifica: i suoi continui maneggi per tener nascosta la pentola attirano l’attenzione di un servo astuto che assiste, non visto, all’ennesimo trasferimento del tesoro e, quando il vecchio si allontana, glielo ruba. Nel monologo che segue Euclione, che ha appena scoperto il furto, dà sfogo alla sua disperazione. Si tratta di un canticum in
metri lirici, cioè di un pezzo che veniva cantato con l’accompagnamento del flauto.
Metro: ottonari anapestici (vv. 713-719); settenario anapestico (v. 720); ottonari anapestici (vv. 721726).
EUCLIO
715a
Perii, interii, occı̆di. Quo curram? Quo non curram? Tene, tene. Quem? Quis?
Nescio, nil video, caecus eo atque equidem quo eam aut ubi sim aut qui sim
nequeo cum animo certum investigare. Obsĕcro ego vos, mi auxilio,
oro, obtestor, sitis et hominem demonstretis, quis eam abstulerit.
Quid ais tu? Tibi credere certum est, nam esse bonum ex voltu cognosco.
EUCLIONE
715
Sono rovinato, sono finito, sono morto! Dove devo correre? Dove non devo correre? Fermalo,
fermalo! Chi si deve fermare? Chi lo deve fermare? Non so, non vedo nulla, vado alla cieca e
non riesco a rendermi conto con certezza di dove vado, o dove sono o chi sono. (al pubblico) Vi
scongiuro, vi prego, vi imploro, venitemi in aiuto e indicatemi l’uomo che me l’ha rubata. Tu,
che cosa dici? Ho deciso di crederti, perché dalla tua faccia capisco che sei una persona perbe-
PERCORSI TESTUALI
Ohibò, Megadoro, stai facendo un’azione che non è conforme alla
tua condotta abituale, prendendo in giro me, che sono un poveraccio e che non
ho mai fatto del male né a te né ai tuoi. Non ho proprio meritato né con i fatti
né con le parole che tu mi trattassi così.
MEGADORO Ma io non vengo affatto a prenderti in giro, non ti prendo in giro
e non credo che tu lo meriti.
EUCLIONE E allora perché chiedi in moglie mia figlia?
MEGADORO Perché grazie a me migliori la tua situazione e grazie a te e ai tuoi
migliori la mia.
EUCLIONE Ma io sto pensando, Megadoro, che tu sei ricco, influente, mentre io
sono il più povero fra i poveri. Ora se io ti dessi in sposa mia figlia, sto pensando che tu saresti il bue e io l’asinello: una volta che fossi aggiogato insieme a te,
quando non riuscissi a portare il carico alla pari con te, io, l’asino, finirei a terra, nel fango, mentre tu, il bue, non mi degneresti di uno sguardo, come se io
non fossi mai nato.
Tu mi tratteresti male e i miei pari riderebbero di me. Non avrei più né da una
parte né dall’altra una stalla in cui rifugiarmi, se ci separassimo; gli asini mi lacererebbero a morsi, i buoi mi assalirebbero a cornate. È un gran brutto rischio
salire dal livello degli asini a quello dei buoi.
MEGADORO Quanto più strettamente ti unisci in parentela con persone perbene, tanto meglio è. Accetta questa proposta, dammi retta e promettimela in
sposa.
EUCLIONE Ma non ho un soldo da darle in dote!
MEGADORO Non dargliela! Purché sia una ragazza ben costumata, è dotata abbastanza.
EUCLIONE Te lo dico perché tu non pensi che io abbia trovato un tesoro.
MEGADORO Lo so! Non hai bisogno di dirmelo! Promettimela.
EUCLIONE E va bene. Ma per Giove, è arrivata la mia fine?
MEGADORO Che ti succede?
EUCLIONE Che cos’è ’sto rumore come di ferraglie... (entra precipitosamente in
casa)
MEGADORO Ho dato ordine di zappare il mio orto, qui vicino. Ma dov’è andato quell’uomo? È sparito senza avermi dato una risposta sicura. Mi disprezza
perché vede che ci tengo alla sua amicizia: fa come fanno tutti. Infatti se un ricco va a chiedere un favore a un povero, il povero ha paura di incontrarsi con lui;
per paura fa andare a monte la cosa. Poi, dopo che quell’occasione è sfumata, la
rimpiange quando è troppo tardi.
EUCLIONE (uscendo di casa, rivolto alla serva, all’interno) Se io, per Ercole, non
ti farò strappare la lingua fin dalle radici, ti ordino e ti autorizzo a farmi castrare da chi tu vuoi.
MEGADORO Per Ercole, vedo che tu, Euclione, a causa della mia età avanzata
mi consideri il tipo adatto per divertirti alle mie spalle. Ma io non me lo merito!
CAPITOLO 5 Plauto
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CAPITOLO 5 Plauto
Quid est? Quid ridetis? Novi omnis, scio fures esse hic complures,
qui vestitu et creta1 occultant sese atque sedent quasi sint frugi.
Hem, nemo habet horum? Occidisti. Dic igitur, quis habet? Nescis?
Heu me miserum, misere perii,
male perditus, pessime ornatus eo:
tantum gemiti et mali maestitiaeque
hic dies mi obtulit, famem et pauperiem.
Perditissimus ego sum omnium in terra;
nam quid mi opust vita, tantum auri
perdidi, quod concustodivi
sedulo? Egomet me defrudavi
animumque meum geniumque meum;
nunc eo alii laetificantur
meo malo et damno. Pati nequeo.
˘
stor, con allitterazione), il tríkolon con climax (nescio, nil video, caecus eo), le triplici anafore (quo eam aut ubi
sim aut qui sim; quid ais tu?... quid est? quid ridetis?).
Concorrono in misura determinante all’effetto comicamente patetico le figure di suono; le allitterazioni si
addensano soprattutto ai vv. 721 ss., quando, in coincidenza con il mutamento di metro (cioè di ritmo), ha inizio il lamento vero e proprio (tópos tragico per eccellenza); è significativa l’insistenza sulle allitterazioni in
/m/ e in /p/ che erano sentite (lo deduciamo dall’uso dei poeti tragici romani) come particolarmente patetiche (me miserum, misere, con figura etimologica, male; poi mali maestitiaeque... mi ecc.; perii..., perditus, pessime; poi pauperiem, perditissimus... perdidi ecc.).
Da rilevare, infine, un altro procedimento comico tipicamente plautino: la rottura dell’illusione scenica, con il
coinvolgimento diretto del pubblico, chiamato a partecipare all’azione (vv. 715-720): si noti che il personaggio
si rivolge agli spettatori anche singolarmente (vv. 717, 720), sollecitandone la collaborazione nella ricerca del
colpevole, e arriva al punto – in una totale fusione o confusione tra palcoscenico e platea – di sospettare che
il ladro sia proprio uno di loro, anzi più precisamente uno dei Romani d’alto rango e impegnati in politica, che
indossano la toga bianca e siedono nelle prime file (vv. 718 s.), molti dei quali, dice Euclione (cioè il poeta,
strizzando l’occhio agli spettatori), sono notoriamente dei ladri. Anche la battuta Quid ridetis? (v. 718), è indicativa del rapporto fra Plauto e il suo pubblico, di cui presuppone le immancabili risate.
ne. Che cosa c’è? Perché ridete? Vi conosco tutti: so che qui ci sono parecchi ladri che si nascondono sotto la toga bianca1, e stanno lì seduti come se fossero persone oneste. Cosa? Nessuno di loro ce l’ha? Mi hai ucciso! Dimmi dunque, chi ce l’ha? Non lo sai? Ahi, me povero disgraziato, sono finito, rovinato, ridotto in uno stato disastroso; tanti gemiti mi ha portato questo giorno, e dolore e sconforto, la fame e la povertà. Sono l’uomo più disgraziato che ci sia al
mondo. Infatti a che cosa mi serve la vita, ora che ho perduto tutto quell’oro a cui facevo la
guardia con tanto zelo? Mi sono imposto ogni sorta di rinunce e di privazioni, e adesso altri si
rallegrano per la mia disgrazia e il mio danno. Non posso sopportarlo!
1. La toga imbiancata con l’argilla era indossata dai cittadini di rango più elevato economicamente e socialmente.
Analisi del testo ]■t 1 (Aulularia, vv. 713-726)
L’impostazione del brano è spiccatamente paratragica: Plauto riprende infatti, parodiandoli, i moduli stilistici, intensamente patetici, delle scene di disperazione frequenti nelle tragedie. La comicità nasce dal confronto implicito con le situazioni tragiche e quindi dalla sproporzione tra il fatto (la sottrazione della pentola) e la
reazione del personaggio, che appare eccessiva e perciò ridicola (Euclione arriva addirittura ad affermare che,
privato del suo tesoro, non sa più cosa farsene della vita: v. 723). Naturalmente l’intenzione parodistica, e
quindi comica, poteva essere più o meno sottolineata dall’attore che interpretava Euclione, così da mettere
più o meno in ridicolo il personaggio.
Il lenone (Pseudŏlus, vv. 340-369)
Il lenone, consueto antagonista del giovane innamorato, è il personaggio odioso per eccellenza,
vittima predestinata degli inganni e delle beffe. L’ostilità del pubblico nei suoi confronti e la compiaciuta solidarietà verso chi lo danneggia sono rilevate espressamente da Plauto nella Rudens,
dove al lenone Làbrace è attribuita questa battuta: «Credo proprio che i lenoni siano nati dalla
Gioia, tanta è la gioia che tutti provano se a un lenone càpita una disgrazia» (vv. 1284 s.). Dobbiamo dunque supporre che il pubblico romano assistesse con grande spasso alla scena seguente,
in cui Ballione, il lenone più cinico, più disonesto e più sfrontato che si possa immaginare, viene
coperto d’improperi dall’adulescens Calidoro e dal suo servo Psèudolo. L’aspetto più divertente è
il fatto che lo sfacciatissimo Ballione, lungi dall’offendersi, si dichiara perfettamente d’accordo
con il giudizio che danno di lui i suoi denigratori e partecipa allegramente al coro d’ingiurie: ne
risulta «un concerto d’insulti al suo indirizzo da lui stesso, Ballione, magistralmente diretto e
commentato» (Chiarini).
CALIDORO, BALLIONE, PSÈUDOLO
Dimmi, ti scongiuro per Ercole, ma rispondi seriamente a quello
che ti chiedo: non hai più in vendita la mia amante Fenicio?
BALLIONE No davvero, in fede mia; perché l’ho già venduta da tempo.
CALIDORO Come? BALLIONE Senza vestiti, ma con tutte le budella.
CALIDORO Tu hai venduto la mia amante? BALLIONE Certo; per venti mine.
CALIDORO Per venti mine? BALLIONE Se preferisci, per quattro volte cinque
mine; l’ho venduta a un soldato macedone. E ho già in mano quindici mine.
CALIDORO Ma che cosa ti sento dire? BALLIONE Che la tua amante si è trasformata in denaro sonante.
CALIDORO Come hai potuto far questo? BALLIONE Così mi è piaciuto; era
mia.
CALIDORO
La parodia tragica è presente nel teatro comico greco fin dalle sue origini: Plauto tuttavia la adatta al suo
pubblico rifacendo il verso alla contemporanea tragedia romana (di Ennio in primo luogo), di cui riproduce,
caricandolo, il tono e lo stile, fortemente connotati (rispetto ai modelli greci) dall’accentuazione dell’espressività e del páthos e dall’abbondanza delle figure foniche.
Il páthos è espresso, a livello formale, dalla concitazione delle interrogative e delle esclamative (rafforzata
dalle anafore e dalle iterazioni: Quo curram? Quo non curram? Tene, tene! Quem? Quis?... Quid ais tu?... Quid
est? Quid ridetis?). Si nota in particolare il ricorso a nessi trimembri (un procedimento consigliato dalla retorica antica ai fini dell’amplificatio, cioè intensificare gli effetti espressivi nella direzione sia della solennità
sia del patetismo): si hanno dunque l’accumulazione di tre sinonimi (perii, interii, occidi; obsecro..., oro, obte-
t2
˘
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
Ehi, Pseudolo, va’ a prendermi una spada. PSÈUDOLO Che bisogno
hai di una spada? CALIDORO Per uccidere lui e me.
PSÈUDOLO Perché non uccidi solo te stesso? Tanto questo qui morirà di fame
quanto prima.
CALIDORO Dimmi un po’, sommo spergiuro fra tutti gli uomini che hanno mai
camminato sulla terra, mi avevi giurato sì o no che non l’avresti venduta a nessun altro all’infuori di me?
BALLIONE Lo ammetto. CALIDORO E con la formula fissata? BALLIONE Sì, e
anche cucita.
CALIDORO Hai spergiurato, canaglia! BALLIONE Sì, ma ho intascato il denaro!
Io, la canaglia, ora posso attingere denaro qui da casa mia; mentre tu, che sei
pio e nato da una stirpe pia, non hai un soldo.
CALIDORO Pseudolo, mettiti dall’altra parte e caricalo d’improperi!
PSÈUDOLO Volentieri! Non andrei così di corsa neppure dal pretore per farmi
affrancare.
CALIDORO Coprilo d’insulti! PSÈUDOLO (a Ballione) Adesso ti farò a pezzi
con le mie parole. Svergognato!
BALLIONE È così! PSÈUDOLO Canaglia! BALLIONE Dici il vero! PSÈUDOLO
Pezzo da frusta!
BALLIONE E come no? PSÈUDOLO Ladro di tombe! BALLIONE Certamente!
PSÈUDOLO Pendaglio da forca! BALLIONE Benone!
CALIDORO Traditore dei compagni! BALLIONE In effetti è una mia caratteristica. PSÈUDOLO Parricida! BALLIONE (a Calidoro) Continua tu!
CALIDORO Sacrilego! BALLIONE Lo ammetto. CALIDORO Spergiuro! BALLIONE Cantate una vecchia canzone.
CALIDORO Delinquente! BALLIONE Senz’altro! PSÈUDOLO Rovina della gioventù! BALLIONE Precisamente!
CALIDORO Ladro! BALLIONE Càspita! PSÈUDOLO Schiavo fuggitivo! BALLIONE Splendido! CALIDORO Traditore del popolo! BALLIONE Ma naturalmente!
PSÈUDOLO Imbroglione! CALIDORO Sporcaccione! PSÈUDOLO Ruffiano!
CALIDORO Sozzone! BALLIONE Ma che bravi cantanti!
CALIDORO Hai frustato tuo padre e tua madre! BALLIONE E li ho anche ammazzati, per non doverli mantenere. Ho forse fatto qualcosa di male?
PSÈUDOLO (a Calidoro) Stiamo versando le nostre parole in una botte forata;
perdiamo solo tempo.
PERCORSI TESTUALI
CALIDORO
t3
Il servo-generale (Pseudŏlus, vv. 574-594)
La figura del servo svolge senz’altro un ruolo centrale nelle commedie plautine: è il personaggio
più vivace e interessante creato da Plauto, che attira sempre la simpatia e suscita il divertimento
del pubblico e che meglio incarna le capacità inventive e lo spirito beffardo propri dell’autore stesso. Dotato di un’inesauribile fantasia nell’escogitare imbrogli e nell’inventare astute trovate e pia-
CAPITOLO 5 Plauto
ni strategici per risolvere le più diverse situazioni, è il vero deus ex machina della commedia, intorno al quale spesso ruota l’intera vicenda. Nelle trame che organizza sa assegnare sapientemente i ruoli agli altri personaggi e agisce con spavalderia, sfacciataggine, astuzia e ironia, spesso accompagnate da un divertito autocompiacimento.
In particolare nella scena seguente il servo Pseudolo, nel vantarsi della propria intelligenza e abilità, si identifica con un valoroso generale di nobile stirpe (vv. 581, 590), le cui prodezze gli assicureranno gloria duratura (v. 591). Si fa qui ricorso a un tema molto frequente nella poetica plautina, cioè la metafora militare.
Metri vari: anapestici, trocaici, giambici, edici.
PSEUDOLUS
575a
580a
585a
585a
590
Pro Iuppiter, ut mihi quilquid ago lepide omnia prospereque eveniunt!
Neque quod dubitem neque quod timeam meo in pectore conditumst consilium.
Nam ea stultitiast, facinus magnum timido cordi credere;
nam omnes res perinde sunt
ut agas, ut eas magni facias; nam ego in meo pectore prius
ita paravi copias,
duplicis, triplicis dolos, perfidias, ut, ubiquomque hostibus congrediar
(maiorum meum fretus virtute dicam,
mea industria et malitia fraudulenta),
facile ut vincam, facile ut spoliem meos perduellis meis perfidiis.
Nunc inimicum ego hunc communem meum atque vostrorum omnium
Ballionem exballistabo lepide: date operam modo;
hoc ego oppidum admoenire ut hodie capiatur volo;
atque hoc meas legiones adducam; si hoc expugno
(facilem hanc rem meis civibus faciam)
post ad oppidum hoc vetus continuo meum exercitum protinus obducam:
inde me et simul participes omnis meos praeda onerabo atque opplebo,
metum et fugam perduellibus meis me ut sciant natum.
Eo sum genere gnatus: magna me facinora decet efficere
Per Giove, come tutto mi riesce bene e felicemente, qualunque cosa io faccia! Nella mia mente sta riposto un piano che non lascia adito né a dubbi né a timori. Perché è stoltezza affidare una grande impresa a un animo timoroso, dato che ogni iniziativa ti riesce a seconda di come tu ti ci impegni, di quanta importanza le dai. Io ho preparato in anticipo nella
mia mente le schiere, in duplice, in triplice fila, gli inganni, le perfidie, cosicché, dovunque mi
scontrerò con i nemici – lo dirò fidando nel valore dei miei antenati, nella mia abilità e nella
malizia delle mie frodi – io possa vincere facilmente, io possa spogliare facilmente i miei nemici
con le mie perfidie. Adesso questo nemico comune mio e di tutti voi, Ballione, io lo sbalestrerò
bellamente. Voi fate solo attenzione. Io voglio assediare questa fortezza (indica la casa di Ballione), perché oggi sia conquistata, e qui condurrò le mie legioni; se la espugno – facile io renderò questa impresa per i miei concittadini – subito dopo muoverò prontamente il mio esercito contro questa antica fortezza (indica la casa del vecchio Simone). Quindi caricherò e riempirò di bottino me stesso e insieme tutti i miei compagni, perché si sappia che sono nato per il
PSÈUDOLUS
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PERCORSI TESTUALI
quae post mihi clara et diu clueant.
Sed hunc quem video quis hic est qui oculis meis obviam ignobilis obicitur?
Lubet scire quid hic velit cum machaera et huic quam rem agat hine
[dabo insiadis.
terrore e la disfatta dei miei nemici. Da una tale stirpe io sono nato: a me si addice compiere
grandi imprese, che mi diano lustro e rinomanza per lungo tempo in futuro. Ma chi è costui
che vedo? Chi è costui che si presenta ai miei occhi, a me ignoto? Mi piacerebbe sapere che cosa vuole con quella spada. Da quest’angolo starò in agguato per vedere che cosa fa.
Analisi del testo ]■t 3 (Pseudŏlus, vv. 574-594)
È notevole in questo passo l’abbondanza di termini ed espressioni propri del linguaggio militare romano, con
riecheggiamenti parodistici di formule ufficiali e di procedimenti dello stile alto: i cola paralleli e anaforici (cfr.
per esempio i versi 575: Neque quod dubitem neque quod timeam; 578: ut agas, ut eas magni facias; 583: facile ut vincam, facile ut spoliem), i nessi sinonimici (v. 574 lepide... prospereque; 588 onerabo atque oppledo ecc.);
le allitterazioni (v. 575 conditumst consilium; 576 cordi credere; 583 perduellis... perfidiis; 588 s. participes... praeda... perduellibus; 591 clara... clueant ecc.). Al v. 585 Plauto crea una (falsa) figura etimologica giocando sulla
rassomiglianza fonica tra il nome del lenone e il termine ballista, che indicava una grossa macchina da guerra lanciaproiettili. Il verbo exballistare (“distruggere a colpi di balestra”) è attestato solo qui: molto probabilmente si tratta di un conio scherzoso dovuto alla fantasia del poeta. Già in precedenza Psèudolo aveva presentato se stesso come un comandante impegnato in un’azione guerresca (cfr. i vv. 884; 426; 524 s.); il tema
verrà ripreso poi in un altro monologo del servo (ai vv. 761-766) e in alcuni accenni successivi (vv. 1027; 1037;
1316).
Come e più ancora che nello Pseudŏlus, nelle Bacchı̆des – la cui vicenda è anch’essa incentrata sulle imprese
mirabolanti di un servus callidus – la caratterizzazione militare del protagonista costituisce un vero e proprio
motivo conduttore che percorre la commedia dal principio alla fine: lo schiavo Crìsalo commenta di volta in
volta i suoi inganni e le sue macchinazioni presentandole come le diverse fasi di una guerra abilmente condotta e felicemente conclusa, e assimila gli antagonisti ora a un esercito nemico sconfitto in battaglia, opra
a una città assediata, conquistata e saccheggiata. Temi analoghi sono sviluppati, in misura minore ma pur
sempre rilevante, nel Miles gloriousus, nella Mostellaria e in altre commedie; più in generale, le similitudini e
le metafore miligari ricorrono ovunque in Plauto con notevole frequenza.
B
l’equivoco e lo scambio di persona
Uno dei temi più cari a Plauto e dagli effetti comicamente più riusciti è senza dubbio
quello dell’equivoco, su cui sono incentrate molte delle più note commedie plautine: esso può derivare da un fraintendimento dovuto all’ambiguità di dialogo e di comportamento dei protagonisti (l’esempio più eclatante è nell’Aulularia), dall’inganno consistente nel far credere a qualcuno ciò che non è (come nel Miles gloriosus), ma spesso l’equivoco nasce dalla presenza sulla scena di due persone identiche, situazione questa che
crea una notevole confusione, da cui scaturiscono gli inevitabili effetti comici: si tratta
dello scambio di persona, uno dei tópos tra i più diffusi nel teatro comico sia antico sia
CAPITOLO 5 Plauto
moderno. La forma in cui si presenta nella maggior parte dei casi è quella della finzione
d’identità (farsi passare per un altro) operata mediante un travestimento ai fini di ingannare qualcuno (così nell’Anphitrŭo).
Un caso particolare di scambio di persona è quello causato dalla presenza di due simillimi (tema centrale dei Menaechmi) cioè di due persone d’aspetto perfettamente uguale,
che vengono confuse e scambiate fra loro dagli altri personaggi, ignari dell’esistenza di
una delle due.
t4
L’equivoco (Aulularia, vv. 727-777)
È la scena immediatamente successiva al monologo. Il giovane Licònide, innamorato della figlia
di Euclione, ha sentito i lamenti disperati dell’avaro e crede che il vecchio abbia scoperto che la
figlia ha appena dato alla luce un bambino, di cui Licònide è il padre; decide dunque di confessare
la sua colpa e di offrirsi come marito per la ragazza. Ma, per una sorta di pudore psicologicamente ben comprensibile, non parla apertamente della cosa e allude alla ragazza con il dimostrativo
illa (v. 737), che Euclione, tutto assorbito dal pensiero della sua pentola, riferisce alla pentola stessa, convinto che il misfatto di cui il giovane si dichiara colpevole sia il furto del tesoro. Ne scaturisce la tipica situazione comica dell’equivoco: il comico nasce dall’ambiguità delle battute, che
possono essere, e sono effettivamente, interpretate in modo diverso dai due interlocutori, a seconda di ciò che ciascuno dei due sottintende, mentre il vero destinatario, cioè il pubblico, è in
grado di cogliere contemporaneamente i due significati e ride dell’inganno di cui sono vittime i
personaggi, provando nei loro confronti un gratificante sentimento di superiorità da cui scaturisce, appunto, il divertimento.
LICÒNIDE, EUCLIONE
LICÒNIDE (a parte) Chi è costui che qui, davanti a casa nostra, si lamenta piangendo e gridando? Ma è Euclione, a quanto pare. Sono completamente rovinato: la cosa è scoperta. Egli sa, a quanto mi sembra, che sua figlia ha partorito.
Ora non so bene che cosa fare, se andarmene o restare, se avvicinarmi o fuggire. Accidenti, davvero non so cosa fare.
EUCLIONE Chi parla qui vicino? LICÒNIDE Sono io, un disgraziato.
EUCLIONE Io piuttosto sono un disgraziato, e disgraziatamente sventurato, io a
cui sono toccati così grandi mali e una simile afflizione.
LICÒNIDE Fatti coraggio. EUCLIONE Ma come potrei, di grazia?
LICÒNIDE Perché questo misfatto che ti fa tanto soffrire sono stato io che l’ho
compiuto: lo confesso.
EUCLIONE Che cosa mai ti sento dire? LICÒNIDE La verità.
EUCLIONE Che cosa ti ho fatto di male, o ragazzo, per cui tu facessi questo e
causassi la rovina mia e dei miei figli?
LICÒNIDE Un dio mi ha spinto, egli mi ha attratto verso di lei1. EUCLIONE Come?
1. Il giovane si riferisce al dio dell’amore, ma la battuta suona assurda e provocatoria a Euclione, come, più
avanti, la menzione del vino e dell’amore, circostanze attenuanti per una colpa amorosa, ma non certo per un
furto.
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
2. Licònide esprime la sua intenzione di sposare la ragazza.
PERCORSI TESTUALI
Quella che avevi portato via dal bosco di Silvano, ecco quale. Va’, riportamela; piuttosto farò a metà con te. Anche se mi hai derubato, non ti darò
noie. Suvvia va’, riportamela.
LICÒNIDE Tu non sei sano di mente a darmi del ladro. Io credevo che tu fossi
venuto a sapere un’altra cosa, Euclione, che mi riguarda. È una faccenda importante, di cui vorrei parlarti con calma, se hai tempo.
EUCLIONE Dammi la tua parola: non sei stato tu a rubarmi l’oro?
LICÒNIDE Ti do la mia parola. EUCLIONE E non sai chi è stato a rubarmelo?
LICÒNIDE Anche su questo hai la mia parola.
EUCLIONE E se verrai a sapere chi me l’ha rubato, me lo dirai?
LICÒNIDE Sì, lo farò.
EUCLIONE E non ti farai dare una parte da colui che ce l’ha, né darai man forte al ladro?
LICÒNIDE Ma no. EUCLIONE E se m’inganni?
LICÒNIDE Allora il grande Giove faccia di me ciò che vuole.
EUCLIONE Mi basta. Suvvia, ora dimmi tutto ciò che vuoi.
EUCLIONE
t5
Lo scambio di persona (Menaechmi, vv. 701-752; 910-956)
Una forma particolare di equivoco è costituita dallo scambio di persona, situazione centrale in
tre commedie plautine, Amphitrŭo, Menaechmi e Bacchı̆des, ma che celebra i suoi trionfi comici
proprio nei Menaechmi (˘ Intersezioni, p. 00): il titolo indica due fratelli gemelli perfettamente
eguali, anche nel nome (simillini), che lungo tutto il corso della commedia vengono continuamente e immancabilmente scambiati l’uno per l’altro, fino alla conclusione, quando, incontrandosi per la prima volta a faccia a faccia, chiariscono finalmente la situazione.
Menecmo II è giunto nella città di Epidamno durante un viaggio alla ricerca del fratello gemello,
smarritosi da bambino e mai più ritrovato. Proprio a Epidamno vive Menecmo I (ma Menecmo
II non lo sa), sposato e in pessimi rapporti con la moglie perché ha una relazione con una cortigiana, Erozio. Menecmo II, scambiato dalla cortigiana per il fratello, ha beneficiato di un lauto
convito e di un incontro d’amore con Erozio, la quale gli ha affidato un prezioso mantello e un
braccialetto d’oro perché li porti a riparare: il mantello e il braccialetto le erano stati regalati da
Menecmo I, che li aveva sottratti alla moglie per darli all’amante. Menecmo II è stato al gioco,
pensando di rivendere gli oggetti e di andarsene al più presto. Nella scena che segue, mentre cerca il suo schiavo Messenione per ripartire con lui, s’imbatte nella moglie di Menecmo I, che naturalmente lo scambia per suo marito.
MENECMO II, MOGLIE DI MENECMO I
(arrivando dal porto) Che sciocchezza ho fatto poco fa, ad affidare a Messenione la borsa con il denaro! Sarà andato sicuramente a cacciarsi in
qualche osteria.
MOGLIE DI MENECMO I (uscendo di casa, a parte) Voglio vedere quanto tempo
impiega mio marito a tornare a casa. Ma eccolo là. Meno male, riporta il vestito.
MENECMO II Vorrei proprio sapere dove se ne sta andando a spasso Messenione in questo momento.
MENECMO II
PERCORSI TESTUALI
Ammetto di aver sbagliato e di avere commesso una colpa; vengo a
pregarti per questo, perché tu benevolmente mi perdoni.
EUCLIONE Ma perché hai osato fare un’azione come questa, toccare ciò che
non era tuo?
LICÒNIDE Che cosa ci vuoi fare? Ormai è fatto; non si può far sì che non sia avvenuto. Io penso che l’abbiano voluto gli dèi; perché se loro non l’avessero voluto, non sarebbe accaduto, ne sono convinto.
EUCLIONE E io invece credo che gli dèi abbiano voluto che io ti facessi morire
lentamente, in ceppi, a casa mia. LICÒNIDE Non parlare così!
EUCLIONE E perché dunque hai messo le mani addosso a quella che era mia,
contro la mia volontà?
LICÒNIDE L’ho fatto per colpa del vino e dell’amore.
EUCLIONE Razza di sfrontato! E hai avuto il coraggio di venirmi a fare questo
discorso, spudorato! Se c’è un diritto in base al quale tu possa giustificare la tua
azione, allora andiamo a rubare i gioielli alle matrone apertamente, alla luce del
sole; e se poi ci arrestano, giustifichiamoci dicendo che eravamo ubriachi e che
l’abbiamo fatto per amore. Sarebbero ben spregevoli il vino e l’amore se a chi è
ubriaco e innamorato fosse lecito fare impunemente tutto ciò che gli salta per la
testa!
LICÒNIDE Ma io vengo spontaneamente da te a implorare il perdono per la
mia follia.
EUCLIONE Non mi piacciono gli uomini che si scusano dopo che hanno fatto
del male. Tu sapevi che non era tua: non dovevi toccarla.
LICÒNIDE Ma dato che ho osato toccarla, non cerco pretesti; sono dispostissimo a tenermela2.
EUCLIONE Vorresti tenertela contro la mia volontà?
LICÒNIDE Non la pretendo contro la tua volontà, ma ritengo che sia giusto che
sia mia. E tu stesso ora dovrai ammettere, ti dico, che è giusto che sia mia, o Euclione.
EUCLIONE Se non mi restituisci... LICÒNIDE Che cosa dovrei restituirti?
EUCLIONE Quello che mi hai rubato: io ora, per Ercole, ti trascinerò davanti al
pretore e ti farò causa.
LICÒNIDE Io ho rubato a te? Di dove? E che cosa?
EUCLIONE Che Giove ti benedica quant’è vero che non lo sai!
LICÒNIDE A meno che tu non mi dica che cos’è che cerchi.
EUCLIONE La pentola dell’oro, dico, ti chiedo di restituirmi, quella che tu stesso mi hai confessato di avermi rubata.
LICÒNIDE Non mi sono mai sognato di dire o di fare una cosa simile.
EUCLIONE Lo neghi?
LICÒNIDE Nel modo più reciso e assoluto; io non so e non ho mai saputo nulla né dell’oro né di quale pentola stai parlando.
LICÒNIDE
CAPITOLO 5 Plauto
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
1. Si riferisce al mantello femminile che Menecmo porta sul braccio.
2. Menecmo prende in giro la donna paragonandola alla regina troiana che “latrava” disperatamente il proprio dolore per aver perso il marito, i figli, il regno e la libertà. Si tratta probabilmente di un’inserzione di
Plauto; egli ama infatti questo tipo di allusioni parodistiche a personaggi mitologici che il pubblico romano
conosceva attraverso le tragedie. Della trasformazione di Ècuba in cagna si parla nell’Ecuba di Euripide, portata sulle scene romane da Ennio.
PERCORSI TESTUALI
Ti prego, o donna, per Ercole, se lo sai, indicami che cosa posso
bere per riuscire a sopportare la tua petulanza3. Non so chi tu pensi che io sia;
ma io ti conosco come conosco Portaone4.
MOGLIE Se ti prendi gioco di me, non puoi certo farlo con mio padre, perdiana, che sta arrivando. Vòltati e guarda! Lo conosci, lui?
MENECMO II Esattamente come conosco Calcante5. Prima d’ora l’ho visto nello stesso giorno in cui ho visto te.
MOGLIE Affermi di non conoscermi e di non conoscere mio padre?
MENECMO II E direi la stessa cosa, per Ercole, nel caso tu volessi far venire qui
tuo nonno.
MOGLIE Per Castore, sei proprio sempre lo stesso!
MENECMO II
3. Intende una pozione calmante: Menecmo, pur stupefatto, non perde il suo sangue freddo e continua a prendere in giro la donna, facendola infuriare.
4. Personaggio mitologico poco noto, nonno di Deianíra, moglie di Ercole. Naturalmente Menecmo vuol dire che non conosce affatto la donna.
5. È l’indovino che accompagnava l’esercito greco durante la guerra di Troia rivelandogli il volere degli dèi; la
battuta forse allude all’età del vecchio, paragonato appunto a Calcante…
Più avanti il padre della moglie di Menecmo I, convinto che il genero (che in realtà è Menecmo
II) sia impazzito, va a cercare un medico, ma quando ritorna in scena con lui, Menecmo II se n’è
andato ed è rientrato in scena Menecmo I. Questo, seccatissimo, reagisce con una sorta di umorismo tipicamente plautino, cioè insultando e al tempo stesso facendosi beffe del suocero e del
medico. Troviamo qui un altro tipo comico destinato a grande fortuna nel teatro moderno: il
medico ciarlatano, saccente e incapace. Ecco la singolare visita a cui viene sottoposto il presunto
malato.
MEDICO, MENECMO I, SUOCERO DI MENECMO I
Ti saluto, o Menecmo. Di grazia, perché allarghi le braccia? Non sai
che ti può far molto male, con la malattia che hai?
MENECMO I Va’ ad impiccarti!
SUOCERO (al medico) Capisci che cos’ha?
MEDICO Come no? È un caso che non si può risolvere neppure con un intero
campo di ellèboro1. Dunque, Menecmo, che cosa mi dici?
MENECMO I Che cosa vuoi?
MEDICO Rispondi alle mie domande: bevi vino bianco o rosso?
MENECMO I Ma va’ in malora!
MEDICO (al vecchio) Per Ercole, ecco che comincia già a dar segni di follia.
MENECMO I Perché non mi chiedi se ho l’abitudine di mangiare pane rosso
scuro, rosso chiaro o giallo? Se ho l’abitudine di mangiare uccelli con le squame
e pesci con le piume?
MEDICO
1. L’ellèboro era l’erba medicinale usata dagli antichi per curare le malattie mentali.
PERCORSI TESTUALI
(a parte) Adesso mi avvicino e gli faccio l’accoglienza che si merita. (a
Menecmo) Non ti vergogni a comparirmi davanti conciato così1, spudorato che
non sei altro?
MENECMO II Che c’è? Che ti piglia, o donna?
MOGLIE E hai ancora il coraggio di parlare, svergognato, e di rivolgermi la parola?
MENECMO II Perché? Cosa ho fatto di male perché non debba avere il coraggio
di parlare?
MOGLIE E me lo chiedi? Ma guarda la sfacciataggine e l’impudenza di quest’uomo!
MENECMO II Lo sai, o donna, per quale motivo i Greci dicevano di Ècuba che
era una cagna? MOGLIE Io no.
MENECMO II Perché Ecuba faceva esattamente come fai tu adesso. Chiunque
vedeva, lo copriva d’insulti. Perciò, giustamente, cominciarono a chiamarla cagna2.
MOGLIE Non posso più sopportare questi oltraggi. Preferirei rimanere senza
marito per il resto della mia vita, piuttosto che tollerare questa tua condotta oltraggiosa.
MENECMO II Cosa vuoi che importi a me che tu riesca a sopportare di esser
sposata, oppure che tu voglia piantare tuo marito? O forse qui avete l’abitudine
di raccontare le vostre storie al primo forestiero che arriva?
MOGLIE Quali storie? No, ti dico, ne ho proprio abbastanza; preferisco vivere
senza marito piuttosto che sopportare il tuo modo di comportarti.
MENECMO II Per Èrcole, per quanto mi riguarda, vivi pure senza marito per
tutto il tempo in cui Giove sarà re!
MOGLIE Ma insomma, poco fa dicevi di non avermi rubato il mantello, e adesso ce l’hai lì, proprio davanti ai miei occhi. Non ti vergogni?
MENECMO II Ah, ma per Ercole, o donna, sei veramente sfacciata e disonesta.
Tu osi dire che io ti ho rubato questo mantello, mentre mi è stato dato da un’altra donna perché lo portassi ad accomodare?
MOGLIE Davvero, per Castore! Adesso manderò a chiamare mio padre e gli
racconterò le tue infamie. (ad un servo) Ehi, Decione, cerca mio padre, digli di
venire subito qui con te; spiegagli la situazione. (a Menecmo) Ora io gli rivelerò
le tue turpitudini.
MENECMO II Ma sei pazza? Quali turpitudini?
MOGLIE Che rubi a tua moglie, a casa tua, i mantelli e i gioielli e li porti alla tua
amante. Non è forse vero quello che dico?
MOGLIE
CAPITOLO 5 Plauto
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
(al medico) Accidenti! Senti come sta delirando? Che cosa aspetti a
dargli una pozione prima che la pazzia s’impossessi di lui?
MEDICO (al vecchio) Aspetta un momento. Devo ancora fargli altre domande.
SUOCERO Mi fai morire con le tue chiacchiere.
MEDICO (a Menecmo) Dimmi questo: non ti capita mai che gli occhi ti diventino duri?
MENECMO I Che cosa? Credi che io sia una cavalletta, razza di poltrone?
MEDICO Dimmi, non senti mai gli intestini che borbottano?
MENECMO I Quando sono sazio, non borbottano per niente; quando ho fame,
allora sì che borbottano.
MEDICO (al vecchio) Almeno su questo punto, in fede mia, non ha dato una
risposta da pazzo. (a Menecmo) Dormi un sonno continuo fino al mattino? Ti
addormenti facilmente quando vai a letto?
MENECMO I Faccio un sonno continuo se ho pagato tutti i debiti. Ma che Giove e tutti gli dèi ti stramaledicano, con le tue domande!
MEDICO (al vecchio) Adesso ricomincia a farneticare; fa’ attenzione, quando
parla così.
SUOCERO Ma adesso parla come Nèstore2, rispetto a poco fa! Poco fa diceva
che sua moglie è una cagna arrabbiata.
MENECMO I Che cosa ho detto io? SUOCERO Quand’eri fuori di te, ti dico.
MENECMO I Io?
SUOCERO Sì, proprio tu, che hai anche minacciato di schiacciarmi sotto una
quadriga. Sono io che ti ho visto fare queste cose, e sono io che ti accuso.
MENECMO I E io invece so che tu hai rubato la sacra corona di Giove e per questo motivo sei stato sbattuto in prigione; e, dopo che sei stato scarcerato, so che
ti hanno battuto con le verghe e messo alla gogna; e so anche che hai ucciso tuo
padre e venduto tua madre. Non ti sembra che io sia sano di mente a rispondere ai tuoi insulti con questi insulti?
SUOCERO Ti scongiuro, o medico, per Ercole, fa’ in fretta a fare quello che devi
fare. Non vedi che è pazzo?
MEDICO Sai qual è la soluzione migliore? Fallo portare a casa mia.
SUOCERO Tu credi? MEDICO E come no? Là potrò curarlo a modo mio.
SUOCERO Fa’ come preferisci.
MEDICO (a Menecmo) Ti farò bere ellèboro per una ventina di giorni.
MENECMO I E io ti farò appendere e ti sforacchierò con delle punte di ferro per
trenta giorni.
MEDICO (al vecchio) Va’, fa’ venire degli uomini che lo portino a casa mia.
SUOCERO Quanti ce ne vogliono?
MEDICO In base al grado di pazzia che dimostra, non meno di quattro.
SUOCERO Saranno qui subito; tu intanto sorveglialo, o medico.
MEDICO No, andrò a casa mia a fare i preparativi necessari. Tu ordina ai servi
che lo portino da me.
CAPITOLO 5 Plauto
2. Personaggio mitologico dotato di saggezza proverbiale.
Intersezioni / Letteratura
I simillini, il sosia, il doppio
Il tópos dei simillimi compare in Plauto in diverse commedie con alcune varianti, non prive d’importanti conseguenze sugli svolgimenti dell’intreccio e sulle situazioni comiche che ne scaturiscono.
Nei Menaechmi i simillimi sono due fratelli gemelli, eguali d’aspetto e di nome, e lo scambio di
persona è basato su un inganno involontario, che coinvolge gli stessi protagonisti. La commedia è
tutta impostata sugli equivoci generati dal continuo alternarsi sulla scena dei due gemelli, i quali,
secondo un automatismo farsesco, càpitano sempre nel momento sbagliato e si trovano immancabilmente ad agire in una situazione “predisposta” per l’altro, divenendo vittime, non meno degli altri personaggi, di una serie di sconcertanti qui pro quo. Dominano la commedia i temi del sogno, dell’ubriachezza e della follia: il gemello che non riconosce la moglie e non ricorda le azioni
compiute e le parole pronunciate poco prima (perché in realtà si trattava dell’altro gemello) crede di sognare e viene considerato un mentitore o un ubriaco o un pazzo.
Anche nelle Bacchı̆des troviamo due gemelle omonime, le cortigiane del titolo, e anche qui l’inganno che ne deriva è involontario. Qui però le potenzialità comiche del tema vengono sviluppate in misura molto minore rispetto ai Menaechmi: cade infatti nell’equivoco soltanto uno dei personaggi, un adulescens innamorato di Bàcchide, il quale, venuto a sapere che l’amico è l’amante di
Bàcchide, non sapendo che le Bàcchidi sono due, crede di essere stato tradito; un dialogo fra i due
giovani sarà sufficiente per dissipare l’equivoco.
Un caso diverso è quello in cui lo scambio di persona indotto dai simillimi è funzionale a un inganno volontario, e dunque il tópos della perfetta somiglianza s’intreccia con quello della finzione d’identità. Un esempio di questa variante si trova nel
Miles gloriosus, dove, fra gli inganni escogitati dal
servo dell’adulescens a danno del soldato millantatore, vi è quello di fargli credere che la ragazza che
vive in casa sua, e di cui l’adulescens è innamorato,
abbia una sorella gemella, e che questa sia l’amante del giovane: così quest’ultimo può godersi la
donna amata senza che il soldato capisca di essere
raggirato. Qui dunque non si hanno propriamente
simillimi: la persona è una sola, che si raddoppia
soltanto agli occhi del credulo miles e dell’ancor
più credulo suo schiavo, con effetti illusionistici
espressamente sottolineati dal servo astuto.
Un inganno volontario sta al centro anche della
più celebre commedia plautina imperniata sullo
scambio di persona, l’Amphitrŭo. Qui non si hanno gemelli, né veri né finti, ma, grazie alla presenza delle divinità, due personaggi si sdoppiano: Pinax fittile con la raffigurazione dei Dioscuri, ultimi
Giove assume le sembianze di Anfitrione per so- decenni del IV sec. a.C., Taranto, Museo Nazionale
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
SUOCERO
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
CAPITOLO 5 Plauto
stituirlo nel letto della moglie Alcmena; Mercurio prende l’aspetto del servo Sosia, che accompagna ed assiste il padrone. Ovviamente l’equivoco non coinvolge tutti i personaggi (come nei Menaechmi), perché Giove e Mercurio si servono della finzione d’identità per ingannare i mortali.
Ai temi del delirio, dell’ubriachezza e della follia si aggiunge nell’Amphitrŭo un altro motivo, sviluppato in chiave comica ma non senza risvolti inquietanti: quello del dubbio sulla propria identità, suscitato in Anfitrione, ma soprattutto nel pavido Sosia, dalla sconvolgente visione del proprio doppio; la crisi d’identità che l’incontro con Mercurio scatena nel servo è tale da indurlo a
dubitare della sua stessa esistenza e a supporre di essere morto senza accorgersene (vv. 455-457).
Il tema dei simillimi godette di grandissima fortuna in età rinascimentale e moderna. Fra i testi
ispirati, direttamente o indirettamente, ai Menaechmi, i più celebri sono due commedie di William Shakespeare: la Commedia degli errori (o degli equivoci) (1594) e La dodicesima notte (1602).
Nella prima le coppie di gemelli con lo stesso nome sono due: due padroni e due servi; nella seconda i due gemelli sono maschio e femmina (quest’ultima travestita da uomo), il che ingarbuglia
ulteriormente la situazione. Sugli equivoci causati dall’esistenza, ignota alla maggior parte dei personaggi, di due fratelli identici è basata anche la commedia I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni (1747). Sia in Shakespeare sia in Goldoni la trama è stata arricchita e complicata, ed è stato
ampliato notevolmente lo spazio dato alle vicende amorose.
Nel nostro secolo non solo il teatro ma anche il cinema ha sviluppato largamente il tema dei gemelli somigliantissimi o del sosia, sfruttando anche gli effetti speciali consentiti dai mezzi tecnici
propri di quest’arte. Ci limiteremo a ricordare un capolavoro: Il grande dittatore (1940), diretto e
interpretato da Charlie Chaplin, ambientato durante la Seconda guerra mondiale e incentrato sulla perfetta rassomiglianza fra un umile barbiere ebreo e il terribile dittatore Hynkel (identificabile con Hitler).
Ancora superiore a quella dei Menaechmi fu la fortuna dell’Amphitrŭo: Jean Giraudoux nel 1929
intitolò Amphitryon 38 un suo rifacimento della commedia plautina, riferendosi al numero dei testi precedenti, che egli conosceva, a essa ispirati. Il più celebre è l’Amphitryon di Molière (1668, derivato, oltre che direttamente da Plauto, dalla commedia I Sosia, di J. Rotrou, 1638); la modifica
più rilevante rispetto a Plauto è l’aggiunta di un altro personaggio femminile, la moglie di Sosia,
che consente di moltiplicare gli equivoci e i litigi fra i coniugi. Proprio il successo dei personaggi
di Molière fece acquisire ai nomi di Anfitrione e di Sosia i valori antonomastici che conservano
tuttora (il primo per indicare un padrone di casa molto ospitale, il secondo per designare chi è
perfettamente rassomigliante a un’altra persona).
Quanto al tema del doppio, esso ha avuto grande sviluppo in età romantica e post-romantica.
Maurizio Bettini, nell’introduzione a un’edizione dell’Amphitrŭo1, rileva il rapporto che lega, fin
da Plauto, l’idea del doppio con quella del fantasma e quindi della morte, e mette a confronto il testo antico con testi moderni in cui il “raddoppiamento speculare” è vissuto come incubo e ossessione (per esempio il racconto William Wilson di Edgar Allan Poe e il romanzo breve Il sosia di Fëdor Dostoevskij). Lo studioso osserva come l’incontro assurdo e pauroso con il proprio doppio –
e il conseguente dubbio di aver perso la propria identità, che viene sottratta all’individuo da uno
sconosciuto in cui egli scopre con orrore un altro se stesso – siano interpretati nella letteratura
moderna (nel nostro secolo anche per influsso della psicoanalisi) in chiave di nevrosi e di sdoppiamento patologico della personalità: ciò che la cultura antica attribuiva alla magia, cioè all’intervento di forze esterne, si trasforma in malattia psichica, scissione dell’io, proiezione di inconsci
e angosciosi conflitti interiori.
1. M. Bettini, Sosia e il suo sosia: pensare il “doppio” a Roma, introduzione all’edizione dell’Amphitrŭo a cura
di Renato Oniga, Marsilio, Venezia 19922, pp. 9-51.
SCENE DI VITA QUOTIDIANA
La commedia costituisce lo spazio letterario privilegiato in cui l’attenzione dell’autore è
concentrata sulla realtà quotidiana: ambienti, oggetti, azioni rappresentati nella finzione
scenica sono quelli che ogni individuo incontra nella sua vita di ogni giorno. In questo
senso, tra l’altro, la commedia costituisce uno straordinario documento storico di costume: ci consente di gettare uno sguardo all’interno della società romana, nelle case, nelle
piazze, al mercato o alle cerimonie e alle feste e fa giungere fino a noi anche l’eco – seppur attenuata – della situazione socio-economica del momento: l’aumento dei prezzi, le
nuove mode e i nuovi gusti, l’affacciarsi del lusso e della raffinatezza, o di nuovi beni voluttuari. Verso la metà del II secolo a.C., in effetti, con le vittorie romane sui Cartaginesi
e sui Macedoni e con le conseguenti ricchezze affluite a Roma, il quadro della società romana muta fortemente: s’introducono e si affermano costumi più raffinati, esigenze di
vita più costose, e ne deriva anche una rilevante lievitazione dei prezzi.
t6
Euclione al mercato (Aulularia, vv. 371-387)
Euclione, il vecchio avaro protagonista della commedia, si reca al mercato per acquistare i viveri
per il banchetto di nozze della figlia. L’animata scenetta che si svolge tra le bancarelle del mercato
offre la possibilità di gettare uno sguardo sulla realtà del momento: la merce è varia e abbondante, ma i prezzi sono alti, probabilmente non solo agli occhi preoccupati e prevenuti di Euclione.
Dunque l’episodio – così vivace di per sé – consente di far emergere ancora una volta il carattere
dell’avaro protagonista (˘ T1).
(giungendo dalla via della piazza)
Oggi avrei voluto, una volta tanto, farmi coraggio, e trattarmi bene per le nozze di mia figlia. Giungo al mercato, chiedo dei pesci; me ne mostrano di cari;
l’agnello, caro; il bue, caro; il vitello, il tonno, il maiale, tutto caro1. Tanto più
caro, in quanto non avevo denaro. Me ne vado furioso, perché non ho il mezzo
di comperare. E così gliel’ho fatta a tutti quegli sporchi individui! Poi, strada
facendo, cominciai a riflettere tra di me: «Se avrai fatto degli sperperi nei giorni di festa, ti toccherà stare a stecchetto nei giorni di lavoro, per non aver risparmiato». Dopo aver fatto questo ragionamento al ventre e al cuore, anche
l’animo entrò nel mio ordine d’idee2; maritare mia figlia, spendendo il meno
possibile. E così ho comprato questo pizzico d’incenso e queste corone di fiori:
metterò queste offerte sul focolare3, in onore del dio della nostra casa, perché
renda felici le nozze di mia figlia.
EUCLIONE
(trad. M. Scàndola)
1. Sono elencati vari tipi di carni e di pesce. Anche se la commedia è ambientata ad Atene, la scena descritta è
tipicamente romana, sia per le specialità gastronomiche che Euclione avrebbe desiderato acquistare per il
banchetto di nozze, sia per l’insistita considerazione sull’aumento dei prezzi, che è un dato effettivo della
realtà del momento (fine III - inizio II secolo a.C.).
2. Il ventre e il cuore sono considerati la sede dei desideri, mentre nell’animo risiede il pensiero. Il tono ha assunto qui un altro registro stilistico, quello solenne del linguaggio ufficiale delle deliberazioni del senato, il che
produce un indubbio effetto comico.
3. I Lari sono i protettori del focolare domestico.
SG2
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
C
t7
Arti e mestieri a Roma (Aulularia, vv. 505-522)
Sempre nell’Aulularia, Plauto ci presenta un altro spaccato di vita: Megadoro, il vicino di casa a
cui Euclione ha promesso in sposa la figlia, dà sfogo alle sue rimostranze contro il lusso dei costumi femminili. Il lungo elenco dei mestieri e degli artigiani che producono beni di lusso o comunque voluttuari è testimonianza dell’intensa e varia attività commerciale e artigianale del tempo, che trova riscontro anche in numerose iscrizioni, nelle arti figurative e nei reperti archeologici (gioielli, calzature, arredi, oggetti di vetro ecc.).
MEGADORO
Oggi, dovunque tu vada, vedi più vetture nei palazzi che in campagna quando
arrivi a una masseria. Ma questa è ancora una sciocchezza, a paragone di quel
che ci vuole per le altre spese. C’è il lavandaio, il ricamatore, l’orefice, il linaiolo; ci sono i mercanti di frange e di camicie, i tintori in arancione, in violetto, in
giallo; oppure i tagliatori di vesti a maniche, o i profumieri; i rivenditori di
biancheria, i calzolai, i fabbricanti di sandali che lavorano seduti; ci sono i fabbricanti di pianelle, ci sono i tintori in color di malva. I lavandai chiedono d’essere pagati, chiedono d’essere pagati i rammendatori; e poi ci sono i fabbricanti di fasce, ci sono i fabbricanti di cinture. Credi d’averli liquidati; se ne vanno;
ne arrivano altri mille, ed ecco che nell’atrio fan la guardia gli orlatori, i cassettai. Vengono fatti entrare, si pagano; credi d’averli liquidati; ed ecco che si fanno avanti i tintori in zafferano, o qualche altro accidente che lo spacchi... Insomma, c’è sempre qualcuno che viene a chiederti denaro.
(trad. M. Scàndola)
t8
La Toilette di Filemazio (Mostellaria, vv. 248-281)
Nell’interno di una casa, nel momento di una delle occupazioni femminili per eccellenza, si svolge la scena della toilette di Filemazio, nella Mostellaria. La bella cortigiana Filemazio, preparandosi a un incontro con il suo innamorato, Filolachete, dialoga con Scafa, la vecchia e astuta schiava,
mentre ad ascoltare la loro conversazione c’è, non visto, Filolachete. Scafa esprime pareri sulla bellezza delle donne e sui cosmetici, condivisi anche dalla giovane, non senza una strizzatina d’occhi
al pubblico, chiamato esplicitamente in causa con una frecciata misogina, che senz’altro riscuote
il consenso degli spettatori maschi (˘ vv. 280 s.):
FILEMAZIO, SCAFA, FILOLACHETE
FILEMAZIO Dammi subito lo specchio e il cofanetto con i gioielli, Scafa; voglio
essere a posto quando arriverà Filolachete, il mio amore.
SCAFA Ha bisogno dello specchio la donna che diffida di se stessa e della sua
giovinezza. Che bisogno hai dello specchio tu, che sei lo specchio più bello in
cui ci si possa specchiare?
FILOLACHETE (a parte) Per queste tue parole, o Scafa, perché tu non abbia detto invano una cosa tanto spiritosa, oggi regalerò una sommetta... a te, Filemazio
mia cara.
CAPITOLO 5 Plauto
Guarda un po’, i miei capelli sono tutti in ordine, stanno bene?
SCAFA Se tu sei ben disposta, sono ben disposti anche i capelli, sta’ tranquilla.
FILOLACHETE (a parte) Puah! Che cosa ci si può immaginare di peggio di quella donna? Ora la sta adulando, quella canaglia, mentre poco fa la contrariava.
FILEMAZIO Dammi il bianchetto1.
SCAFA E che bisogno hai del bianchetto?
FILEMAZIO Per spalmarlo sulle guance.
SCAFA Tanto varrebbe, padrona, che tu pretendessi di imbiancare l’avorio con
l’inchiostro.
FILOLACHETE (a parte) Spiritosa questa battuta sull’inchiostro e sull’avorio.
Brava, Scafa, meriti un applauso!
FILEMAZIO Allora dammi il rossetto.
SCAFA No, non te lo do. Ah, sei proprio furba! Vuoi guastare un bellissimo capolavoro dipingendoci sopra qualcos’altro? Alla tua età non bisogna toccare
nessun cosmetico, né il bianchetto né il colore di Melo né alcun altro belletto.
FILEMAZIO Allora eccoti lo specchio (prima di restituirlo a Scafa, lo bacia)
FILOLACHETE (a parte) Ah, povero me! Ha dato un bacio allo specchio. Vorrei
proprio avere una pietra per fracassare la testa a quello specchio.
SCAFA Prendi un fazzoletto e pulisciti le mani.
FILEMAZIO E perché mai, di grazia?
SCAFA Perché hai tenuto lo specchio e ho paura che le tue mani abbiano odore d’argento: non vorrei che Filolachete dovesse mai sospettare che hai ricevuto del denaro2.
FILOLACHETE (a parte) Non credo di aver mai visto una mezzana più scaltra di
questa. Che idea carina e astuta le è venuta in mente a proposito dello specchio,
a quella malandrina!
FILEMAZIO Pensi che mi debba anche spalmare con unguenti profumati?
SCAFA Assolutamente no.
FILEMAZIO E perché?
SCAFA Perché, ricordati, la donna ha un buon odore quando non ha nessun
odore. Guarda queste vecchie che si impiastricciano con unguenti, la faccia
rifatta, decrepite, sdentate, cercano di nascondere col belletto i difetti del loro
corpo; quando il sudore si mescola con i profumi, subito mandano un odore
più o meno come quando un cuoco fa un intruglio di molte salse diverse. Non
sapresti dire che odore hanno; capisci solo una cosa: che hanno cattivo odore.
FILOLACHETE (a parte) Come sa tutto alla perfezione! È un pozzo di scienza costei. Ha proprio ragione. (rivolto agli spettatori) E la maggior parte di voi lo sa
bene, voi che avete a casa delle mogli vecchie, che vi hanno catturati con la dote.
FILEMAZIO
1. Si tratta di una specie di fondotinta (in latino cerussa) a base di carbonato di piombo, che serviva a schiarire la pelle: la carnagione chiara era infatti considerata un pregio. La cosmetica femminile ci è nota – oltre che
grazie ai numerosi accenni in molte opere letterarie – soprattutto dall’esposizione sistematica di Ovidio, poeta di età augustea, autore di un’operetta sui Medicamina faciei femineae (“I cosmetici delle donne”).
2. Da altri amanti.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PERCORSI TESTUALI
D
Ambientazione
e personaggi
plauto in scena: il miles gloriosus
La vicenda è ambientata a Efeso, in Asia Minore; la scena presenta, in tutta semplicità,
due case – di Periplectòmeno e di Pirgopolinice – l’una attigua all’altra, che danno su
una strada.
I nomi dei personaggi, in conformità con le regole e l’ambientazione della fabula palliata (˘ p. 00) sono naturalmente greci, fatta salva la desinenza grammaticale, che è latina.
DRAMATIS PERSONAE
PERSONAGGI
PYRGOPOLIN ĪCES, miles
Pirgopolinice, soldato
ARTOTR ŌGUS, parasitus
Artotrogo, parassita
PALAESTRIO, servos (= servus) Palestrione, servo (del soldato, già di Plèusicle)
PERIPLECTOM ĔNUS, senex
Periplectòmeno, vecchio
SCELEDRUS, servos
Scèledro, servo (del soldato)
PHILOCOMASĬUM, mulier
Filocomasio, cortigiana (amante di Plèusicle)
PLEUSĬCLES, adulescens
Plèusicle, giovane
LUCRIO, puer
Lucrione, schiavetto
MILPHIDIPPA, ancilla
Milfidippa, ancella (di Acrotelèuzio)
SERVI PYRGOPOLINICIS
Schiavi di Pirgopolinice
ACROTELEUT ĬUM, meretrix
Acrotelèuzio, cortigiana
PUER PERIPLECTOM ĔNI
Schiavetto di Periplectòmeno
CARIO, coquos (= coquus)
Carione, cuoco
LORARII
Schiavi fustigatori
Attori e ruoli
Come accade in tante altre commedie plautine, anche qui la scelta dei nomi non è improntata a mero realismo; in altre parole, i nomi propri non sono attinti tout court alla
realtà quotidiana dei Greci del IV o III secolo a.C. Da consumato scrittore e uomo di teatro qual è, Plauto per un verso riprende, per un altro innova o riplasma o inventa di sana pianta nomi che recano in sé il “carattere”, ossia il tratto originale e dinamico del personaggio che agirà sulla scena.
Nel Miles tale impulso creativo si evidenzia subito nell’iperbole del protagonista: PIRGOPOLINICE (da púrgos, pólis, níke), ossia “conquistatore di forte e di città” o più letteralmente, “vincitore di città”, dove già la lunghezza del vocabolo esotico basterebbe a suscitare l’effetto comico.
ARTOTROGO, il parassita che per campare si prodiga nelle lodi più sperticate e nelle più
servili lusinghe del soldato, significa (da ártos e trógo) “roditore di pane”.
PALESTRIONE, il servitore di Pirgopolinice che, architettando e dirigendo l’intero gioco delle beffe, in realtà si rivela abile doppiogiochista, è nome rifatto su paláistra, “palestra” (di
lotta), nomen loci dal verbo palaide “lotto”, “combatto”.
PERIPLECTÒMENO – o, come altri corregge, Periplectòmeno, facendolo derivare dal gr. pléko
anziché dal corrispondente lat. plecto – è propriamente participio pres. medio di periplékomai e significa “colui che si avvolge”, “che si attorciglia” o, anche meglio, “che abbraccia”, vista la bonomìa e la generosa cordialità dì questo senex lepidus nei riguardi di
Plèusicle.
CAPITOLO 5 Plauto
Quanto a SCÈLEDRO, pare più probabile intenderlo come un ibrido grecolatino: fusione
del sostantivo lat. scelus (“delitto”) e del verbo gr. drán (“fare”), e pertanto “artefice di
delitti”. Ma si tratta di un’antifrasi, facendo egli piuttosto la parte dello sciocco, per l’appunto beffato da Palestrione.
FILOCOMASIO, da phílos e kómoi, è “colei che ama brigate e bagordi”, lei che, già regolarmente fidanzata, divenuta poi amante di Pirgopolinice, torna infine tra le braccia del giovane Plèusicle.
Il nome di PLÈUSICLE è una scoperta allusione al suo navigare (pléin) da Atene a Efeso per
riprendersi, nei panni di un timoniere, l’amata perduta.
LUCRIONE, il vice di Scèledro, è uno schiavo forse avido di guadagno (lat. lucrum), sempreché non sia valida la forma manoscritta Lurcio. In tal caso, giocando sull’equivoco lessicale col lat. lurco, Plauto vorrebbe dire “ingordo”, “ghiottone”.
MILFIDIPPA, ancella di Acrotelèuzio, è nome d’incerta etimologia, contraddistinto dal suffisso terminale -íppe, frequente in parecchi antroponimi.
ACROTELÈUZIO viene da ákron (“cima”) e teleuté (“fine”), e sarebbe “colei che sta proprio
in cima, sull’estremità”; ossia, sciogliendo la metafora, che “ne sa una più del diavolo”
(E. Paratore). Non per niente svolge un ruolo decisivo nella beffa ai danni del miles, spacciandosi per la moglie di Periplectòmeno invaghitasi di lui.
Da ultimo, CARIONE, il cuoco del senex, è generico nome servile che già s’incontra nel Pluto di Aristofane (Karíon) e che allude all’abbondanza di schiavi provenienti appunto dalla Caria, zona costiera dell’Asia Minore.
Resta solo da dire dei lorarii, schiavi anch’essi ma aguzzini. Sono infatti dotati di lora (pl.
neutro: sorta di sferza fatta di più strisce di cuoio legate insieme per un capo) per punire altri servi colpevoli.
t9
Il primo Argumentum
Il lettore della commedia ha modo d’incontrare il testo vero e proprio solo dopo essere stato
informato del contenuto o, meglio, dell’intreccio della vicenda rappresentata, tramite un “sommario” introduttivo, appunto l’argumentum fabulae.
Nel nostro caso, di sommari la tradizione manoscritta ne ha conservati due, che brevemente riassumono l’antefatto per l’ignaro spettatore. Sono di lunghezza quasi identica e sono senz’altro di
mano posteriore: un dotto copista? Un impresario teatrale? O forse un grammatico, ossia letterato, del II-I sec. a.C.? Chiunque sia stato, era tuttavia un notevole conoscitore della tecnica linguistica e versificatoria di Plauto che egli riesce a imitare egregiamente.
L’argumentum qui riprodotto, come quelli di quasi tutte le ventuno commedie, è artificiosamente elaborato in forma di acròstico, in maniera tale cioè che le singole lettere che compongono il titolo della commedia possano leggersi dall’alto in basso all’inizio di ciascun verso. Può essere utile ricordare che questo schema metrico-retorico si trova largamente adoperato anche dai poeti
italiani, specialmente a partire dal Quattrocento: a titolo d’esempio, è celebre il sonetto acròstico
dedicato da Boiardo ad Antonia Caprara: le 14 lettere del nome della donna aprono i 14 versi endecasillabi del componimento.
In questi 14 versi troviamo riassunti per sommi capi l’antefatto (vv. 1-4) e la materia comica che
si sta per rappresentare e che si articola in due grandi beffe: la prima, quella della cosiddetta “pa-
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rete forata” (vv. 5-9), ai danni di un servo di Pirgopolinice, il guardiano Scèledro, e quella ai danni dello stesso Pirgopolinice (vv. 10-14). Entrambe sono progettate e condotte a effetto grazie alla sagacia, piena d’arguzie e di colpi di scena, di Palestrione, il servo del iuvenis innamorato
(Plèusicle) che, venuto a Efeso per recuperargli l’amata (Filocomasio), è passato al servizio del
miles.
Metro: senari giambici.
5
10
Mere tricem Athenis Ephesum miles avehit;
id dum ero amanti servos nuntiare volt
legato peregre, ipsus captust in mari
et eidem illi militi dono datust.
Suom arcessit erum Athenis et forat
geminis communem clam pariĕtem in aedibus,
licere ut quiret convenire amantibus.
Obhaerentis custos hos videt de tegulis:
ridiculis autem, quasi sit alia, luditur.
Itemque impellit militem Palaestrio
omissam faciat concubinam, quando ei
senis vicini cupiat uxor nubere.
Ultro abeat orat, donat multa. Ipse in domo
senis prehensus poenas pro moecho luit.
CAPITOLO 5 Plauto
Plauto lo ritrae qui, con comica ironia, mentre davanti al suo corteggio di schiavi e armigeri si pavoneggia come un divo e si lascia lusingare dall’interessato tirapiedi di turno, il parassita (dal greco parásitos, “colui che sta presso il cibo”) Artotrogo (che fa la sua prima e unica comparsa sulla
ribalta) il quale, per guadagnarsi da vivere, lo copre di lodi sperticate inventando di sana pianta,
per compiacerlo, gesta belliche e donnesche che del resto il suo vanesio protettore nemmeno ha
intrapreso.
Affiora qua e là la parodia dello stile solenne dell’epica, il genere letterario che celebra le valorose
imprese militari; si notino in particolare le neoformazioni scherzose dei vv. 14 e 15, che fanno il
verso ai nomi altisonanti dei grandi condottieri.
(soldato), ARTOTROGO (parassita)
(uscendo di casa, rivolto ai servi, nell’interno) Mi raccomando,
fate sì che il mio scudo sia rifulgente di una luce più viva di quella dei raggi del
sole quando il cielo è sereno; cosicché, quando venga il momento, ingaggiata la
battaglia, abbagli la vista dei nemici sul campo1. Quanto a questa spada2, io voglio consolarla, perché non si lamenti e non si perda d’animo per il fatto che da
tempo ormai la porto in giro lasciandola in ozio, mentre lei, poverina, smania
dal desiderio di far polpette dei nemici. Ma dov’è Artotrogo?
ARTOTROGO È qui, accanto a un uomo forte e fortunato e di bellezza regale.
Un guerriero, poi... Marte non oserebbe parlare né paragonare le sue prodezze
alle tue.
PIRGOPOLINICE Non è a lui che ho salvato la vita nelle pianure gorgoglionee, là
dove comandante in capo era Bumbomàchide Clutomestoridisàrchide3, nipote
di Nettuno?
ARTOTROGO Me ne ricordo; vuoi dire quello con le armi d’oro, le cui legioni tu
disperdesti con un soffio, come il vento fa con le foglie o con la paglia dei tetti.
PIRGOPOLINICE Una cosa da niente, in fede mia.
ARTOTROGO Niente davvero, per Ercole, in confronto alle altre imprese che
dirò (a parte) e che tu non hai mai compiuto. (al pubblico) Se qualcuno ha mai
visto un uomo più bugiardo o più vanaglorioso di questo, mi abbia pure in sua
proprietà, mi impegno a diventare suo schiavo. C’è una cosa però: a casa sua si
mangia un pasticcio d’olive buono da matti.
PIRGOPOLINICE Dove sei4?
ARTOTROGO Eccomi. Perdinci, come per esempio in India a quell’elefante, come gli hai rotto un braccio con un pugno!
PIRGOPOLINICE Come? Un braccio? ARTOTROGO Volevo dire la coscia.
PIRGOPOLINICE E dire che l’avevo colpito sbadatamente.
PIRGOPOLINICE
PIRGOPOLINICE
Un militare porta via da Atene una cortigiana e la conduce a Efeso. Il servo dell’amante di costei vorrebbe portare la notizia al padrone, che è in missione all’estero, ma, catturato durante la
5 traversata, viene a sua volta dato in dono a quel militare. In seguito fa venire il suo padrone da
Atene, e di nascosto pratica un foro nella parete che divide la sua casa da quella del militare, per
consentire agli amanti d’incontrarsi. Mentre sono stretti in un abbraccio, un guardiano li scopre dall’alto di un tetto; ma viene mirabilmente giocato, e gli vien fatto credere che si tratta di
un’altra donna.
10 Nello stesso tempo Palestrione induce il militare a lasciar libera la sua concubina, dicendogli
che la moglie di un vecchio suo vicino desidera sposarlo. È lui stesso a pregarla di andarsene e,
oltre tutto, le fa un monte di regali. Quanto a lui, sorpreso nella casa del vecchio, viene punito
come adultero.
(trad. M. Scàndola)
t 10 Il soldato sbruffone e il parassita adulatore
(Miles gloriosus, atto I, vv.1-78)
Il primo atto è costituito da un’unica scena, fissa, priva di azione, ma non per questo priva di vivacità verbale e d’ilarità. La scena ha lo scopo anzitutto di presentare il personaggio, il tipo d’uomo – il militare di carriera, borioso e spaccone, dal nome “parlante” (˘ p. 00) –, che sarà quindi
fatto bersaglio della ben congegnata beffa volta a smascherare la sua vanagloria.
1. In latino, gioco di parole tra acies, “schiera”, “battaglia”, e acies, “capacità visiva”, “vista”.
2. Che il soldato porta appesa al fianco.
3. Parole inventate da Plauto. Il gorgoglione (curculio) è un parassita del grano. Gli altri due nomi sono costruiti con il suffisso dei patronimici solenni dell’epica. Alcuni traduttori cercano di renderne il senso e il tono parodistici: «Bombardon degli Arciminchiofànfani» (Augello); «Pugnastrombazzide Redelleschiappestrategiche» (Paratore).
4. Artotrogo si è allontanato dal soldato per venire al proscenio e rivolgersi al pubblico.
SG3
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
5. La Scilatronia è la Scizia, terra da cui provenivano molti mercenari (latrones). Sardi era la capitale della Lidia.
PERCORSI TESTUALI
Dicevano proprio così?
ARTOTROGO Certo; e figurati che entrambe mi hanno scongiurato di farti passare oggi da quella parte, come in processione6!
PIRGOPOLINICE È una gran disgrazia essere troppo bello!
ARTOTROGO Eh, sì; sono così noiose; pregano, sollecitano, supplicano di poterti vedere; chiedono che io ti presenti a loro, tanto che non riesco più a occuparmi dei tuoi affari.
PIRGOPOLINICE Adesso è ora di andare in piazza, perché io paghi il salario ai
soldati che ho arruolato ieri. Il re Seleuco7 mi ha pregato con grande insistenza
perché gli trovassi e gli arruolassi dei soldati. Ho deciso di dedicare al re questa
giornata.
ARTOTROGO Su, allora andiamo. PIRGOPOLINICE Guardie, seguitemi. (escono)
PIRGOPOLINICE
6. Durante le feste religiose venivano portate in processione le immagini degli dèi.
7. È il nome di sei diversi re della Siria; forse qui indica genericamente un nome di re.
PER APPROFONDIRE…
• Il “parassita”
Già si è detto, nella presentazione dei personaggi, dell’adulatore Artotrògo, il parassita. Il termine è ricalcato sul greco
parásitos (alla lettera, in latino conviva) e designa il convitato ai banchetti, il più delle volte scroccone perché spiantato.
Ma prima di diventare figura proverbiale e tipizzata del
commensale, un po’ giullare e un po’ galoppino del suo dispensatore, il parasitus fu in antico la qualifica di qualunque
aiutante di un magistratus o di un pontı̆fex che beneficiava
del vitto a spese dello Stato. Il suo apporto infatti si vedeva
nell’allestimento delle epŭlae, i sontuosi banchetti pubblici
dati in occasione delle solennità religiose e civili della repubblica, quali l’entrata in carica dei magistrati curuli e sacerdotali, i trionfi, le esequie. È interessante ricordare che
I L L E S S I CO
quasi sempre a tali imbandigioni si accompagnavano giochi e spettacoli (ludi).
Col tempo venne fissandosi anche un ulteriore significato
scenico e morale del vocabolo: alla primitiva accezione funzionale appena descritta si sovrappose quella derivata dalla
commedia greca di mezzo e nuova, che possedeva (basti l’esempio dell’omonima commedia di Menandro) il ruolo del
kólax (“adulatore”) – in latino adulator ovvero adsentator –,
un “carattere” poi ereditato dalla commedia palliata romana1, la quale conservò la memoria delle ghiotte tavolate, appioppando alle varie figure di parassita famelico che popolano sia le farse romano-italiche dell’Atellana sia i drammi
comici regolari, specie plautini, il calzante attributo di
edāces (“vorace”).
1. Terenzio, nel prologo dell’Eunuchus (v. 30), ricorda una palliata di Nevio dal titolo greco Colax, in seguito rimaneggiata
da Plauto in un’opera omonima, per non dire dello stesso Eunuchus, dichiaratamente ispirato, in parte, alla commedia menandrea.
PERCORSI TESTUALI
Perdinci, se ce l’avessi messa tutta, il braccio sarebbe passato attraverso la pelle, le viscere e la bocca di quell’elefante!
PIRGOPOLINICE Ma non ho voglia adesso di parlare di queste cose.
ARTOTROGO Per Ercole, non vale certo la pena che tu mi racconti le tue prodezze, dato che le conosco bene. (a parte) È la pancia che mi procura tutte queste disgrazie: perché i denti non mi crescano, devo sorbirmi con le orecchie e
devo assecondare tutte le frottole che costui s’inventerà.
PIRGOPOLINICE Che cosa volevo dire?
ARTOTROGO Ah sì, io lo so già che cosa vuoi dire: certo per Ercole, così è stato,
me lo ricordo benissimo.
PIRGOPOLINICE Che cosa? ARTOTROGO Qualsiasi cosa. PIRGOPOLINICE Hai...
ARTOTROGO. Vuoi chiedermi le tavolette. Eccole, e anche lo stilo.
PIRGOPOLINICE Fa piacere come tu sai cogliere al volo le mie intenzioni.
ARTOTROGO È mio dovere conoscere a fondo il tuo carattere e preoccuparmi di
fiutare in anticipo i tuoi desideri.
PIRGOPOLINICE Ti ricordi qualcosa?
ARTOTROGO Mi ricordo sì: centocinquanta in Cilicia, cento in Scitolatronia,
trenta di Sardi5, sessanta Macedoni: sono gli uomini che tu hai ucciso in un solo giorno.
PIRGOPOLINICE Quanto fa in tutto? ARTOTROGO Settemila.
PIRGOPOLINICE Sì, così dev’essere: sei bravo tu a fare i conti.
ARTOTROGO Eppure non li ho messi per iscritto; ma me li ricordo lo stesso.
PIRGOPOLINICE Perdiana, hai una memoria eccellente.
ARTOTROGO Sono i buoni bocconi a rafforzarmela.
PIRGOPOLINICE Finché continuerai a comportarti così, avrai da mangiare tutti
i giorni: ti farò sempre partecipare alla mia mensa.
ARTOTROGO E allora, in Cappadocia, quella volta che tu, se non avessi avuto la
spada smussata, avresti ucciso con un solo colpo cinquecento uomini tutti insieme?
PIRGOPOLINICE Ma erano dei fantaccini da quattro soldi; perciò li ho lasciati in
vita.
ARTOTROGO Perché dovrei ripeterti quello che sanno tutti i mortali, e cioè che
tu, Pirgopoliníce, sei unico al mondo per valore, prestanza e imprese invincibilissime? Tutte le donne sono innamorate di te, e non hanno torto, visto che sei
così bello. Come per esempio quelle che ieri mi hanno tirato per il mantello.
PIRGOPOLINICE Che cosa ti hanno detto?
ARTOTROGO Continuavano a farmi domande: «Ma è Achille quell’uomo?», mi
dice una. «No, dico io, è suo fratello». Allora l’altra mi fa: «Perciò è così bello,
per Castore, e così distinto! Guarda come gli sta bene quella pettinatura! Ah,
sono davvero fortunate le donne che vanno a letto con lui!».
ARTOTROGO
CAPITOLO 5 Plauto
CAPITOLO 5 Plauto
Intersezioni / Letteratura
[...]
Echi del Miles plautino in Shakespeare
FALSTAFF
William Shakespeare, affrontato il tema dell’ascesa al trono e dello stato mentale di Enrico IV già
nel Riccardo II, opera in cui emergono anche le insoddisfazioni del re verso il figlio Principe
Harry, il futuro Enrico V, segue il travagliato regno di Henry Bolingbroke e le ribellioni che lo insidiano in Enrico IV (prima parte, 1598), dove per la prima volta applica in modo esteso al dramma storico le strutture della commedia. Nel brano scelto Sir John Falstaff attacca duramente Poins
e il Principe Harry per avere abbandonato lui e i tre compagni durante l’imboscata, senza riconoscere in essi i suoi assalitori mascherati, e con Peto addirittura racconta loro di essere stato vittima
di un gruppo numeroso di briganti e di averli fieramente contrastati. La millanteria di Falstaff è
qui tutta racchiusa nel suo sfogo di fantasticherie mendaci, corrispondenti al vanaglorioso enumerare i nemici abbattuti da Pirgopolinice nel Miles gloriosus. Non tragga tuttavia in inganno l’aspetto comico della citazione, poiché essa è inserita in un amaro contesto di prevaricazioni violente. Falstaff non raccoglie il gioco di parole di Poins e sottostà alla sprezzante derisione del Principe, da cui, usato come figura paterna surrettizia, verrà inevitabilmente abbandonato: come in
Plauto, all’effetto comico spesso contribuisce la serietà del protagonista nel suo ruolo, e viceversa,
alla drammatica serietà della figura di Sir John Falstaff contribuisce in modo sostanziale la cruda
comicità a cui le circostanze lo sottopongono.
Pray God you have not murd’red some of them.
Nay, that’s past praying for: I have pepper’d two of them; two I am sure I have paid
– two rogues in buckram suits. I tell thee what, Hal, if I tell thee a lie, spit in my face, call me a
horse... here I lay, and thus I bore my point. Four rogues in buckram let drive at me.
PRINCE What, four? Thou saidst but two even now.
FALSTAFF Four, Hal; I told thee four.
POINS Ay, ay, he said four.
PRINCE
[...]
Pregate Iddio di non averne ucciso qualcuno.
FALSTAFF Che! Oramai le preghiere non giovan più. Ne ho cucinati due... due bricconi in
abito di bucherame1. Io ti dico il vero, Rigo; se ti dico una bugia, sputami in faccia, chiamami rozza... io stavo così, e tenevo la punta in questo modo: quattro bricconi in bucherame
mi piombarono addosso.
PRINCE Come, quattro? Tu hai detto or ora soltanto due!
FALSTAFF Quattro, Rigo; ti ho detto quattro.
POINS Sì, sì, ha detto quattro.
PRINCE
Enrico IV (atto II, scena IV)
GADSHILL
FALSTAFF
GADSHILL
We four set upon some dozen.
Sixteen at least, my lord.
And bound them.
1. Tessuto pregiato, traforato, in uso nel Medioevo.
[...]
As we were sharing, some six or seven fresh men set upon us.
And unbound the rest, and then came in the other.
PRINCE What, fought you with them all?
FALSTAFF All? I know not what you call all, but if I fought not with fifty of them, I am a
bunch of radish.
GADSHILL
FALSTAFF
GADSHILL
FALSTAFF
GADSHILL
Noi quattro piombammo addosso a circa una dozzina...
Sedici almeno, signor mio.
E li legammo.
[...]
GADSHILL
Mentre stavamo dividendo, un sette o otto uomini freschi ci piombarono ad-
dosso.
Slegarono gli altri, e poi ne vennero ancora.
PRINCE E che, avete combattuto contro tutti?
FALSTAFF Tutti? Non so cosa vogliate dir con tutti, ma se io non ho combattuto con cinquanta di loro, sono un mazzo di radici.
FALSTAFF
Scena dall’atto primo del Miles gloriosus da: Lazaro Soardo, Plauti Comoediae, Venezia, 1511. Cortesia
Biblioteca Teatrale Livia Simoni presso il Museo della Scala di Milano
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
CAPITOLO 5 Plauto
PERCORSI TESTUALI
RIASSUNTO VV. 79-271
These four came all afront, and mainly trust at me. I made me no more ado but
took all their seven points in my targets, thus.
PRINCE Seven? Why, there were but four even now.
FALSTAFF In buckram.
POINS Ay, four in buckram suits.
FALSTAFF Seven, by these hilts, or I am a villain else.
PRINCE (aside to Poins) – Prithee, let him alone; we shall have more anon.
FALSTAFF Dost thou hear me, Hal?
PRINCE – Ay, and mark thee too, Jack.
FALSTAFF Do so, for it is worth the list’ning to. These nine in buckram that I told thee of...
PRINCE So, two more already.
FALSTAFF Their points being broken...
POINS Down fell I their hose.
FALSTAFF Began to give me ground; but I followed me close, came in foot and hand, and with
a thought seven of the eleven I paid.
PRINCE O monstrous! Eleven buckram men grown out of two!
FALSTAFF
Questi quattro venivano di fronte e puntavano con gran vigore contro di me. Io
non mi scomposi per questo, ma presi le loro sette punte sul mio scudo, così.
PRINCE Sette? Ma se or ora non ce n’erano che quattro?
FALSTAFF In bucherame.
POINS Sì, quattro in abiti di bucherame.
FALSTAFF Sette, per quest’elsa! o io sono uno scellerato.
PRINCE (a Poins) Ti prego, lascialo dire... Tra poco ce ne saranno di più.
FALSTAFF Mi stai a sentire, Rigo?
PRINCE Sì, e sono anche tutto orecchi, Gianni.
FALSTAFF Fai bene... Questi nove in bucherame, dei quali ti parlavo...
PRINCE Bene, già due di più.
FALSTAFF Essendosi spezzate le loro punte...
POINS Giù caddero le loro brache2.
FALSTAFF Cominciarono a cedermi terreno; ma io li incalzai da presso, li attaccai a corpo e,
rapido come il pensiero, sette degli undici ne servii.
PRINCE
O mostruoso! Undici uomini in bucherame scaturiti fuori da due!
FALSTAFF
(trad. M. Praz)
2. Gioco di parole: point significa tanto “punta di spada” che “puntale”, ossia fibbia con ganci che serviva ad
allacciare le brache al giustacuore.
Col secondo atto entra finalmente in gioco il vero protagonista della commedia, il servo Palestrione, l’inventore e
l’organizzatore delle due beffe.
La prima burla, quella di cui è fatto bersaglio il custode
Scelèdro e che chiameremo “della parete forata”, occupa
per intero questo atto; tuttavia essa non costituisce un
quadro a sé stante o un episodio indipendente, scorporato
dal tema e dall’economia generale della fabula, giacché
Plauto sa metterla in connessione con il clou della vicenda
rappresentata, che è poi il dileggio e lo sberleffo del soldato
fanfarone, e ne fa quasi lo stadio preparatorio della farsa
finale.
t 11
Il secondo atto si apre con un lungo prologo, autenticamente plautino però collocato ad azione scenica già avviata, in cui Palestrione racconta in modo ampio l’antefatto
della commedia e soprattutto quanto ha fatto e quanto intende fare per salvare la giovane innamorata del suo padrone Plèusicle, Filocomasio, rapita ad Atene dal miles Pirgopolinice e portata a Efeso, dove viene fatta sorvegliare dal
custode Scèledro.
Palestrione, chiamato a Efeso il suo padrone che, guarda
caso, è ospitato nella casa attigua a quella del miles, d’accordo con il proprietario, il senex Periplectòmeno (o Periplecòmeno), ha praticato un foro nella parete che divide la
camera della ragazza dall’abitazione del vecchio, per permettere ai due giovani innamorati di incontrarsi.
È di scena il servo! (Miles, atto II, vv. 272-353)
Il custode Scèledro coglie i due giovani in flagrante e, scandalizzato ma timoroso sul da farsi per
le eventuali ripercussioni della sua inefficiente sorveglianza, denuncia l’accaduto a Palestrione.
Nella scena che segue l’abile servo cerca di confondere Scèledro ubriacandolo di parole e sfruttando la sua paura di essere punito, mentre escogita un piano per risolvere la situazione.
SCÈLEDRO, PALESTRIONE
(Se io oggi non mi sono sognato d’essere andato sul tetto, certo,
perbacco, ho visto Filocomasio, l’amica del padrone, andar cercando rogna in
casa del vicino).
PALESTRIONE Allora è lui che l’ha vista abbracciata, se ho inteso bene quello
che ha detto.
SCELEDRO Chi c’è qui?
PALESTRIONE Il tuo compagno. Come va, Sceledro?
SCELEDRO Oh, Palestrione! Godo d’incontrarti.
PALESTRIONE Perché? Che c’è di nuovo? Dimmelo.
SCELEDRO Ho paura…
PALESTRIONE Di che cosa?
SCELEDRO … che oggi tutti noi, quanto c’è di servitù qui dentro, non dobbiamo fare il ballo della tortura.
PALESTRIONE Balla da solo, se vuoi: che io a questo saltar su e giù non ci tengo.
SCELEDRO … Ma forse non sai il fattaccio nuovo.
PALESTRIONE Che fattaccio?
SCELEDRO È un’azionaccia sporca.
PALESTRIONE E allora tientela per te; non mi dire nulla; non la voglio sapere.
SCELEDRO Ma io non posso fare a meno che tu la sappia. Oggi stavo inseguendo una scimmia sul tetto di questa gente.
PALESTRIONE E che c’è di straordinario. Sceledro? Un uomo da nulla inseguiva
una bestia da nulla!
SCELEDRO
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PERCORSI TESTUALI
Come, che non c’è?
PALESTRIONE Non comprerei la tua vita per una noce bucata.
SCELEDRO Che c’è di nuovo?
PALESTRIONE E me lo chiedi?
SCELEDRO Perché non dovrei chiedertelo?
PALESTRIONE Perché non ti fai tagliare codesta lingua lunga?
SCELEDRO E perché dovrei farlo?
PALESTRIONE Filocomasio, che, tu dicevi d’aver vista baciarsi e abbracciarsi con
uno sconosciuto in casa del vicino, è qui dentro! [Accenna alla casa di Pirgopolinice, dond’è uscito].
SCELEDRO Mi meraviglio che tu ti cibi di loglio, quando il frumento è così a
buon mercato.
PALESTRIONE Come sarebbe a dire?
SCELEDRO Perché hai la vista appannata1.
PALESTRIONE Carne da frusta, tu piuttosto sei cieco; altro che vista appannata!
Perché lei, sì, proprio lei è in casa!
SCELEDRO Come? In casa?
PALESTRIONE Sì, proprio in casa.
SCELEDRO Ma va’, Palestrione, tu vuoi lisciarmi il pelo per burla.
PALESTRIONE Allora debbo avere le mani sporche.
SCELEDRO Perché?
PALESTRIONE Perché liscio il… piscio2.
SCELEDRO Il canchero che ti pigli!
PALESTRIONE Ma t’assicuro che verrà piuttosto a te, Sceledro, se non cambi gli
occhi e la lingua. Ma la porta di casa cigola.
SCELEDRO Ma io invece mi metto di fazione alla porta di là: perché non c’è per
lei altro modo di passare di lì a qui se non per questa porta maestra.
[Si pone di guardia dinanzi alla porta della casa di Periplecomeno].
PALESTRIONE Ma lei è qui in casa! Non so quali scelleraggini, Sceledro, ti scempiano.
SCELEDRO Io vedo con gli occhi miei, ragiono col cervello mio, e se debbo credere a qualcuno, credo a me stesso: nessuno mi toglierà dalla testa ch’essa è in
questa casa. L’attenderò qui di piè fermo per evitare che mi sgusci via in un momento di distrazione.
PALESTRIONE (L’uomo è nelle mie mani: ormai è tempo di sloggiarlo dalla trincea). Vuoi proprio che ti faccia confessare d’aver le traveggole?
SCELEDRO Fa’, fa’.
PALESTRIONE Che sei dissennato e non sai neppure servirti degli occhi?
SCELEDRO Sì, lo voglio.
PALESTRIONE Perciò insisti a dire che l’amica del padrone è lì?
SCELEDRO
1. Anticamente si credeva che il loglio rovinasse la vista.
2. Paratore rende così il gioco di parole tra ludo (“gioco”) e luto (“fango”).
PERCORSI TESTUALI
Crepa!
PALESTRIONE Tu piuttosto… poiché hai cominciato, continua.
SCELEDRO Proprio per caso ho gettato lo sguardo là dentro [accenna alla casa
di Periplecomeno], attraverso l’impluvio: e che ti vedo? Filocomasio che si baciava con un giovanotto, mai visto e conosciuto.
PALESTRIONE Che… scelleraggine, Sceledro, mi tocca udire da te!
SCELEDRO Ma l’ho vista di sicuro.
PALESTRIONE Proprio tu?
SCELEDRO Proprio io, con questi due occhi.
PALESTRIONE Va’ là, ma è inverosimile! non hai visto nulla!
SCELEDRO E che ti sembro orbo?
PALESTRIONE Quanto a questo, è meglio che tu consulti un medico. Ma questa
favola, se gli dèi si curassero del tuo cervello, tu non la faresti circolare così alla
leggera. Tu stai creando un pericolo mortale alle tue gambe e alla tua testa: in
una maniera o nell’altra ti prepari il precipizio, se non turi l’uscita alle scemenze che dici.
SCELEDRO Come sarebbe a dire, in una maniera o nell’altra?
PALESTRIONE Te lo dirò. Nella prima maniera, se accusi Filocomasio a torto, ti
rovinerai per questo; nella seconda maniera, se l’accusa è fondata, tu, essendo il
guardiano, ti rovinerai per questo.
SCELEDRO Quello che sarà di me, non lo so… Ma che ho visto, lo so di certo.
PALESTRIONE E insisti, sciagurato?
SCELEDRO Che vuoi che ti dica se non che ho visto? Anzi, anche adesso lei è
dentro dal vicino.
PALESTRIONE Eh, non è in casa?
SCELEDRO Vedilo tu stesso, va’ dentro: io ormai non pretendo che mi si creda
ad occhi chiusi.
PALESTRIONE Ho già deciso di farlo.
SCELEDRO Io ti aspetterò qui: così intanto le farò la posta, quando la giumenta
tornerà qua alla stalla dal pascolo.
[Palestrione entra in casa].
E ora che debbo fare? Il soldato mi ha messo a guardia di quella donna; ora, se
la denuncio, sono rovinato; se sto zitto e lo scandalo si scopre, sono rovinato lo
stesso. Che danno, che demonio peggiore c’è di una donna? Mentre sono sul
tetto, lei schizza fuori dalla sua stanza. Perdio, è un’azionaccia da sgualdrina. Se
il soldato venisse a saperlo, credo, salvo ognuno, che appenderebbe alla croce
tutta la casa e… il sottoscritto. Perciò, comunque vada a finire, mi morderò la
lingua, piuttosto che andare a finir male io. Io non posso montare la guardia ad
una donna che si prostituisce.
PALESTRIONE [uscendo di casa]: Sceledro, Sceledro, chi sulla terra è più… scellerato di te? Chi, più di te, nato in avversione, in odio agli dèi?
SCELEDRO Che c’è?
PALESTRIONE Perché non ti fai cavare quegli occhi coi quali vedi quello che non
c’è?
SCELEDRO
CAPITOLO 5 Plauto
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
(trad. E. Paratore)
t 12
La prima beffa (Miles gloriosus, atto II, vv. 481-595)
Il servo Palestrione e il vecchio Periplectòmeno, proprietario della casa contigua a quella del miles, hanno architettato un piano per convincere il servo Scèledro, messo da Pirgopolinice a guardia della giovane, che la donna vista da lui amoreggiare con un estraneo non è Filocomasio, ma la
sua gemella, giunta improvvisamente da Atene.
Fiumi di parole di Palestrione e la complicità di Filocomasio, che con disinvoltura passa svelta da
una casa all’altra grazie alla parete forata (˘ T11), stordiscono Scèledro al punto da farlo ritrattare la sua versione dei fatti.
Nella scena che segue, di fronte al vecchio Periplectòmeno che lo minaccia, Scèledro capitola per
timore di incorrere in severe punizioni, non senza rivelarci però di aver capito di essere stato abilmente ingannato.
SCÈLEDRO, PERIPLECÒMENO
Perciò se n’è andato e non si prende cura degli affari del padrone,
come se non fosse il suo schiavo! Certo lei è qui in casa: perché io poco fa l’ho
incontrata in casa, che stava sdraiata sul letto. Ora c’è da stare scrupolosamente di sentinella.
SCELEDRO
PERCORSI TESTUALI
PERIPLECOMENO [uscendo da casa sua]:
Perdio, i servi del soldato qui vicino mi
pigliano per una donna, non per un uomo, se credono di farsi beffe di me in
questa maniera! Bistrattare e beffeggiare così una giovane mia ospite, libera di
nascita e di condizione, che è arrivata qua ieri da Atene insieme con un mio
ospite!
SCELEDRO Oh Dio, sono morto! Costui ce l’ha proprio con me. A sentire le parole del vecchio, credo d’essermi attirata addosso una dura disgrazia.
PERIPLECOMENO (Ora gli vado incontro). Tu dunque, Sceledro, scellerata creatura, qui, poco fa, sulla soglia di casa, ti sei prese delle libertà con una mia ospite?
SCELEDRO Vicino, ascoltami, ti prego.
PERIPLECOMENO Io ascoltarti?
SCELEDRO Mi voglio scusare.
PERIPLECOMENO Tu scusarti con me, dopo avermi fatto un azionaccia così
grossa e così schifosa? Perché praticate il nobile mestiere dei guerriglieri, credete di poter fare tutto quello che vi pare, mascalzone?
SCELEDRO Posso parlare?
PERIPLECOMENO Ma, quant’è vero che esiste Dio, se non ti s’infliggerà la pena
dello staffile, lunga, ininterrotta, da mane a sera, perché mi hai rotto gli embrici e le tegole, per inseguire una scimmia degna pari tua, perché hai origliato gli
amplessi del mio ospite con la sua amica, perché hai osato accusare di scostumatezza quella rispettabilissima donna ch’è l’amica del tuo padrone e quindi
hai osato accusare me della più immorale delle azioni, e infine perché hai messo le mani addosso alla mia ospite dinanzi a casa mia, se per tutto questo non
mi si dà la soddisfazione di vederti fustigare con lo staffile a punta, io colmerò
il tuo padrone d’ignominia più di quanto non sia colmo di cavalloni il mare,
quando infuria il vento!
SCELEDRO Sono ridotto in un tale pasticcio, Periplecomeno, che non so se sia
più giusto chiarire con te… oppure, se quella di lì non è questa di qui e non è
questa quella che io ho veduto, se non è più giusto ch’io ti chieda scusa: oh Dio,
ma anche ora non so che diavolo ho veduto: quella tua è così simile alla nostra
di casa, se non è addirittura la stessa persona.
PERIPLECOMENO Va’ a vedere lì da me e lo saprai.
SCELEDRO Me lo permetti?
PERIPLECOMENO Anzi te l’ordino: guarda con comodo.
SCELEDRO Lo farò di certo [Entra in casa di Periplecomeno].
PERIPLECOMENO [accostandosi alla casa di Pirgopolinice]: Su, Filocomasio, corri subito da me: urge che tu ci sia. Poi, quando Sceledro sarà uscito da casa
mia, ripassa subito, di corsa, a casa tua. [Tra sé:] Proprio ho paura che ora ci
combini un bell’imbroglio. Se quello lì non trova la donna… Ma si apre la
porta.
SCELEDRO [uscendo dalla casa di Periplecomeno]: Santi numi, non credo che
gli dèi possano fare una donna più simile, anzi identica, e che intanto non è la
stessa!
PERCORSI TESTUALI
E proclamo di averla vista baciarsi lì dentro con uno sconosciuto.
PALESTRIONE Sai che non c’è nessun passaggio da noi a lì?
SCELEDRO Lo so.
PALESTRIONE Che non c’è né terrazza né giardino dove passare, a meno che
non ci si voglia calare attraverso l’impluvio?
SCELEDRO Lo so.
PALESTRIONE E allora? Se lei è in casa, se te la faccio vedere mentre esce di casa,
non sei degno d’un sacco di legnate?
SCELEDRO Degnissimo.
PALESTRIONE E allora non perdere d’occhio codesta porta, perché lei non possa sgusciar via di lì alla chetichella e passare di qua.
SCELEDRO Proprio questo intendo fare.
PALESTRIONE Io te la farò spuntare qui sulla strada coi suoi piedi.
SCELEDRO Fallo, dunque.
[Palestrione entra in casa]
Son curioso di sapere se ho visto veramente quello che ho visto o se lui riuscirà
a fare quello che ha promesso di fare, cioè di far trovare lei in casa. Perché i miei
occhi ce li ho e non debbo andare a chiederli in prestito. Ma lui invece se la vagheggia sempre, le sta sempre appiccicato; è il primo ad esser chiamato a mangiare; è il primo a cui si dà la pappa. Eppure appartiene alla famiglia sì e no da
tre mesi; ma non c’è servo trattato meglio di lui, in famiglia. Però io ci ho da fare questo bel da fare, debbo puntare questa porta. Se starò bene in vedetta, da
questa parte, perbacco, non avranno da ridermi dietro.
SCELEDRO
CAPITOLO 5 Plauto
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PERCORSI TESTUALI
Se io a partire da oggi dirà una sillaba anche di quello che so con
certezza, tu fammi porre alla tortura: io stesso mi consegnerà nelle tue mani.
Ma per ora, ti supplico, perdonami.
PERIPLECOMENO Be’, soffocherò il mio sdegno, perché voglio credere che non
l’hai fatto per cattiveria. Per questa volta ti perdono.
SCELEDRO Dio te ne renda merito.
PERIPLECOMENO Tu piuttosto, se vuoi che Dio ti assista, tieni la lingua a freno:
d’ora in poi non devi sapere neanche quello che sai, né vedere quello che vedi.
SCELEDRO Ben detto: farò proprio così. Ma tu non sei più in collera?
PERIPLECOMENO Vattene.
SCELEDRO Vuoi qualche altra cosa da me?
PERIPLECOMENO Che tu faccia come se non mi conoscessi.
SCELEDRO (Costui mi ha incantato con quattro parole, ma vuoi fregarmi. Come s’è degnato graziosamente di moderare la sua collera! Ma io so che intenzione ha: non appena il soldato sarà tornato dalla piazza, mi faranno la forca
dentro casa. Lui e Palestrione d’accordo mi vogliono… fare la festa: l’ho capita
da un pezzo e non ne dubito. Ma io oggi non abboccherà all’amo: mi rifugerò
da qualche parte e mi terrà nascosto parecchi giorni, finché il turbine non si sarà
acquetato e non saranno sbollite le ire. Eh diamine! mi sono guadagnato un castigo che sarebbe sufficiente per un’intera nazione di delinquenti. Ma per ora,
qualunque cosa mi aspetti, mi ritiro in casa). [Entra in casa di Pirgopolinice].
PERIPLECOMENO Questo tonto s’è levato dai piedi. Perdio, sono certo che una
scrofa scannata di fresco ne sa sicuramente molto più di lui, che s’è fatto infinocchiare fino ad ammettere di non aver visto quello che ha visto. Difatti ora i
suoi occhi, i suoi orecchi, il suo raziocinio sono passati armi e bagagli dalla parte nostra. Finora tutto è stato fatto a meraviglia: la donnina ci ha aiutati con
una furberia adorabile. Ora torno in… seduta, perché Palestrione è in casa mia,
mentre Sceledro è fuori: ora si potrà tenere seduta plenaria. Be’, ora d’entrare,
perché non voglio che si tirino a sorte gl’incarichi in mia assenza1.
SCELEDRO
(trad. E. Paratore)
1. Il testo in questo punto è incerto: per Paratore si tratta del linguaggio proprio delle sedute senatorie per
l’amministrazione dello stato.
RIASSUNTO VV. 596-946
A questo punto della fabula, a Pirgopolinice viene fatta intravvedere la possibilità di una relazione amorosa con una
bella e giovane signora insoddisfatta del marito e follemente innamorata di lui.
Allettato dalla nuova conquista, il vanesio miles vuole disfarsi della donna che ha in casa e il servo Palestrione, con
nonchalance, gliene suggerisce il modo consigliandolo di
farla partire immediatamente per Atene.
In realtà sta sortendo l’effetto la beffa da lui architettata
per dare una lezione a un uomo “gloriosus, inpudens,
stercoreus, plenus peiiuri atque adulteri” (così lo ha definito ai vv. 89-90), spingendolo a un incontro amoroso che,
come vedremo nel T15, si svolgerà con modalità inaspettate.
PERCORSI TESTUALI
Be’?
SCELEDRO Mi son meritato il malanno.
PERIPLECOMENO Dunque? È lei?
SCELEDRO È lei e non è lei.
PERIPLECOMENO Ma l’hai vista questa di qui?
SCELEDRO Ho visto lei e l’ospite che s’abbracciavano e si baciavano.
PERIPLECOMENO Dunque è lei?
SCELEDRO Non lo so.
PERIPLECOMENO Vuoi assicurarti?
SCELEDRO Figùrati se lo voglio!
PERIPLECOMENO E allora entra subito in casa vostra: vedi se lei, quella di casa
vostra, è dentro.
SCELEDRO Giusto, m’hai dato un buon consiglio. Fra un minuto torno da te.
[Entra in casa di Pirgopolinice].
PERIPLECOMENO Non ho mai visto, perbacco, burlare un uomo con più gusto e
con più destrezza. Ma ecco che esce.
SCELEDRO [uscendo dalla casa]: Periplecomeno, ti scongiuro per gli dèi e per gli
uomini e per la mia scemenza e per le tue ginocchia…
PERIPLECOMENO Perché mi scongiuri?
SCELEDRO … di perdonare alla mia ignoranza e alla mia cretineria. Ora finalmente so d’essere stato senza cervello, cieco, irragionevole: perché Filocomasio
è qui dentro!
PERIPLECOMENO E ora, pendaglio da forca? le hai viste tutt’e due?
SCELEDRO Sì.
PERIPLECOMENO Fammi venire il tuo padrone.
SCELEDRO Certo, confesso di aver meritato la peggiore punizione e riconosco
di aver fatto ingiuria alla tua ospite; ma credetti che fosse l’amica del mio padrone, quella a cui egli stesso m’aveva ordinato di montare la guardia. Ché non
si possono attingere da un pozzo due gocce d’acqua più uguali fra loro di quanto non siano lei e la tua ospite. Confesso anche di aver guardato giù da te attraverso l’impluvio.
PERIPLECOMENO E come potresti non confessarlo, se l’ho visto anch’io? E hai
visto lì i miei due ospiti abbracciati insieme?
SCELEDRO Sì. Perché negare quello che ho visto? Ma ho creduto d’aver visto
Filocomasio.
PERIPLECOMENO Così m’hai ritenuto il più vile degli uomini, capace di soffrire
che in casa mia, col mio consenso, fosse fatto al mio vicino un oltraggio così
sanguinoso?
SCELEDRO Ora che so come stanno le cose, riconosco di aver agito da perfetto
imbecille. Ma non l’ho fatto per cattiveria.
PERIPLECOMENO No, no, è stata un’azionaccia: ché uno schiavo deve tenere a
posto gli occhi, le mani e la lingua.
PERIPLECOMENO
CAPITOLO 5 Plauto
t 13
La seconda beffa (Miles gloriosus, atto IV, vv. 947-990)
I versi che seguono rappresentano il riscatto dell’intelligenza del servus sulla forza del dominus e
sulle sue angherie; ma, dal momento che si attua per via burlesca, di farsa, tale riscatto non ha
tanto il sapore della rivalsa, della rivolta o della vendetta, bensì l’intento di ristabilire finalmente il
senso della realtà, alterato dalle fandonie e dai miraggi contrabbandati dal miles. Siamo cioè nell’atmosfera del carnevale, nell’ambito della licentia tipica dei fescennini, il contenuto dei quali è
per l’appunto la burla e la risata liberatoria: semel in anno insanire licet (“una volte all’anno è lecito fare follie”).
Tale licentia, sia chiaro, non dev’essere equivocata in questa sede con la banale volgarità, con l’oscenità crassa e gratuita; è piuttosto da intendersi come il rovesciamento dei rapporti ordinari fra
gli uomini e fra i ceti (qui c’è lo schiavo che ha la meglio sul padrone). E in teatro, lo sappiamo,
l’ordine rovesciato, pur sensibile alla comicità verbale immediata e scoppiettante – in ciò Plauto è
insuperabile –, quella che, come nel cabaret o nel varietà odierni, ti fa ridere a crepapelle, quell’ordine rovesciato insomma resta pur sempre indizio certo di ironia. E dove c’è ironia autentica,
si dà comicità raffinata, attenta alla profondità dell’anima umana, e dunque, in ultima istanza,
benevola, partecipe, come solo il nostro poeta sa comunicare.
Metro: settenari trocaici.
PYRGOPOLINICES, PALAESTRIO
PY.
950
PA.
PY.
Volup est, quod agas si id procedit lepide at<que ex> sententia.
Nam ego hodie ad Seleucum regem misi parasitum meum,
ut latrones quos conduxi hinc ad Seleucum duceret,
qui eius regnum tutarentur, mihi dum fieret otium.
Quin tu tuam rem cura potius quam Seleuci, quae tibi
condicio nova et luculenta fertur per me interpretem.
Immo omnis res posteriores pono atque operam do tibi.
Loquĕre; auris meas profecto dedo in dicionem tuam.
947-973a. Ci troviamo, con questi versi, davanti a una
scena memorabile: Palestrione riesce a convincere Pirgopolinice che una giovane, bellissima signora, insoddisfatta del
proprio marito, è folle d’amore per lui; e in lui s’accende il
desiderio di averla. – Volup ... sententia: “È un piacere se ciò
che si fa procede a meraviglia (lepide) come ti auguravi”. La
battuta, di sapore proverbiale, ovviamente prelude ai versi
che seguono, in cui il nostro eroe esprime la sua tronfia soddisfazione per le solite, millantate brighe guerresche. L’avverbio volup è forma apocopata (o tronca) per volŭpe, da cui
voluptas. Ex sententia è locuzione idiomatica col sostantivo
preceduto dalla preposizione ex, qui con valore relazionale:
“secondo”, “conformemente a”. – Nam ... otium: i versi servono a stabilire un nesso tra il IV atto e il I, incentrato sul
lungo botta e risposta col parassita Artotrogo, al quale infatti si accenna: il riferimento è ai vv. 72-77, conclusivi del I atto, dove appunto Pirgopolinice taglia corto perché si è ricordato di dover correre al Foro a reclutare mercenari (latrones)
per re Seleuco. Ha quindi (hinc) spedito il parassita col com-
pito di condurre la truppa (ut ... duceret) al re: lo scopo di
averli assoldati (quos conduxi) è quello di assicurare la difesa del suo regno (qui eius regnum tutarentur) per tutto il
tempo che lui, Pirgopolinice, se ne starà in ozio (mihi dum
fieret otium): un otium tutto dedito ai bagordi più spensierati. Il Terzaghi osserva poi come l’insistenza sul nome del
gran re Seleuco sia un ennesimo segno della sua vanagloria:
il miles ci tiene a far sapere di essere amico di grandi personalità! – Quin ... interpretem: “Macché! cura gli affari tuoi
(tuam rem: ‘i tuoi interessi privati’) anziché quelli di Seleuco: ecco qua per te (tibi ... fertur: ‘ti si presenta’) un’occasione inattesa (nova: ‘insolita’) e radiosa (luculenta: ‘luminosa’,
‘splendida’) grazie alla mia intermediazione”. Nella traduzione proposta la battuta del servus si è risolta in due membri articolati dai due punti, mentre il testo offre una proposizione relativa con marcata valenza causale: “giacché…”. –
Immo tuam: “D’accordo, ogni altro affare lo metto da parte
(posteriores pono) per ascoltarti (operam do tibi). Parla: consegno senz’altro i miei orecchi in tuo potere in una resa sen-
CAPITOLO 5 Plauto
955 PA.
PY.
<PA.>
PY.
PA.
960
PY.
962-63 PA.
965 PY.
Circumspicedum, nequis nostro hic auceps sermoni siet;
nam hoc negoti clandestino ut agerem mandatumst mihi.
Nemo adest.
Hunc arrabonem amoris primum a me accipe.
Quid hic? unde est?
A luculenta atque festiva femina,
quae te amat tuamque expetessit pulchram pulchritudinem.
Eius nunc mi anulum ad te ancilla porro ut deferrem dedit.
Quid ea? ingenuan an festuca facta e serva liberast?
Vah, egone ut ad te ab libertina esse auderem internuntius,
qui ingenuis sati’ responsare nequeas quae cupiunt tui?
Nuptanest an vidua?
za condizioni”. Nel pubblico di Roma la battuta doveva suscitare una risata immediata, visto l’uso iperbolico del gergo
militare, per di più ribaltato: (se) dedĕre in dicionem è formula giuridica che sigla la resa incondizionata al nemico che
è sul punto di annientarti, e significa “rimettersi nelle mani”
ovvero “sotto la giurisdizione” di uno più potente che può
far di te ciò che vuole. Qui dunque assistiamo al paradosso
(scenico) di un dominus, vanesio e inebetito, pronto a capitolare davanti al proprio servus, che sa porgergli astutamente vani allettamenti. – Circumspicedum ... mihi: “Guardati
un po’ in giro, che non vi sia uno che (ne-quis) capti la nostra conversazione”: al messaggero infatti è stato dato l’ordine preciso (mandatumst = mandatum est) di trattare la faccenda con scrupoloso riserbo (clandestino). Come si conviene a un negotium importante, anche questa missione deve
restare occulta da un’aura di segretezza che ne alimenti la
curiosità. Ma il segreto è tutto per il miles, l’unico ignaro del
complotto beffardo che si trama alle sue spalle (˘ Analisi
del testo, p. 00). Hoc negotı̄, col genitivo partitivo del nome
dipendente da un pronome o un avverbio, equivale a hoc negotium. Sul piano del lessico merita attenzione il sostantivo
auceps, -ŭpis (“uccellatore”, da avis + capio, qui determinato
da un dativo): il termine designa chi sta in agguato a spiare
la preda, ed evoca l’ambito venatorio (˘ v. 990). – Hunc ...
accipe: assicuratosi che non lo spiino occhi indiscreti, Pirgopolinice si vede offrire da Palestrione un anello, oggetto
tipico del rituale amoroso adulterino, appunto come “pegno
d’amore”. Arrăbo, voce maschile presa a prestito dal greco
arrabón, si trova semplificata in arra, femminile, che in italiano prosegue pari pari ovvero come “caparra”. – unde est?
... pulchritudinem: la tecnica suasiva, lusinghiera, dello
schiavo ingegnoso è davvero avvolgente, tanto da suscitare
l’avida meraviglia del bellimbusto: “Da dove arriva?”. Ma
l’altro lo tiene sulla corda: “Da una donna splendida e piena
di fascino che ti ama e brama con tutta l’anima la tua superba bellezza”. Le esagerazioni si sprecano: la femina, manco a
dirlo, dev’essere una specie di diamante dalla luce abbagliante (luculenta: lo stesso aggettivo speciale – combinato
in endiadi – di pochi versi prima), e nutre un desiderio
sconfinato (expetessit: il suffisso -esso, che è ottativo, è ulteriormente accentuato dal proverbio ex-) per la sua pulchra
pulchritudo. – Eius ... dedit: or ora una servetta ha consegnato a Palestrione “l’anello di lei (eius ... anulum) perché a
sua volta (porro) lo recapitasse” a lui. – Quid ... liberast?:
non deve sfuggire che il soldato, per sincerarsi della prelibatezza della “vivanda” offertagli, chieda prima notizie sulla
condizione sociale della donna, e che pertanto, nel dubbio,
usi il neutro del pronome interrogativo: “Che razza di donna è? Libera di nascita (ingenuan = ingenua-ne) oppure da
schiava è stata resa libera con la bacchetta?”. Col cenno alla
fest ūca si allude all’atto di affrancazione di uno schiavo
compiuto con un rituale colpo di bacchetta dal padrone innanzi al pretore; il servus veniva così elevato alla condizione
di uomo libero, ma non al rango di ingenuus, da questi infatti distinto per il titolo di libertus o libertı̄nus. Questo è un
tipico squarcio di costume romano, inserito senza spiegazioni né adattamenti, all’interno dello scenario greco della
fabula palliata. – Vah ... tui?: “Vuoi scherzare? (Vah) Come
avrei osato far da latore di messaggi (internuntius) da parte
di una liberta a te che già non riesci a dar udienza (responsare) alle donne libere, pazze di te?”. A ben guardare, Palestrione non dà una risposta al pur preciso quesito di Pirgopolinice, anzi se la cava con una nuova domanda che mira a
confondere l’interlocutore, blandito ancora una volta, come
già fece Artotrogo nel I atto (˘ T10), col mito (presunto)
della propria bellezza fascinosa. Con internuntius siamo in
presenza di uno dei tanti, e fini, rimandi allusivi di Plauto: è
la figura, spesso citata in Cesare, del “messaggero” che fa la
spola tra un campo militare e un altro, da cui riceve i responsa; senza contare che è pure variante dell’interpretem di
poc’anzi (v. 952). L’ut che introduce auderem, congiuntivo
potenziale, è avverbio interrogativo/esclamativo. Il genitivo
tui si spiega intendendo il verbo cupiunt come equivalente
di cupidae sunt. – Nuptanest ... Eugae!: aumenta la curiosità
del nostro eroe, che vuol sapere se la persona ha marito
(nupta[-ne est]) o non ce l’ha più. Immediata la replica sibil-
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PA.
PERCORSI TESTUALI
PY.
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Et nupta et vidua.
Quo pacto potis
nupta et vidua esse eadem?
Quia adulescens nuptast cum sene.
Eugae!
Lepida et liberali formast.
Cave mendacium.
Ad tuam formam illa una dignast.
Hercle pulchram praedicas.
Sed quis east?
Senis huius uxor Periplectomeni e proxumo.
lina: ce l’ha e non ce l’ha. Pirgopolinice freme: “Com’è possibile (quo pacto potis<est>) che sia nello stesso tempo sposa e vedova?”. Visto che il padrone si sta irritando, Palestrione mette fine agl’indugi e scioglie l’enigma: “Perché è una
sposina maritata a un vecchio. – Siamo a posto!”. Come a dire: “una così, nel fiore dell’età, è l’ideale, perché di sicuro è
trascurata e non vede l’ora di farsi consolare da chi, come
me, sa darle il calore necessario”; insomma, un benefattore.
– Lepida ... praedicas: “Ha un figurino delizioso e distinto. –
Guarda di non contarmi storie!”. Mentre dunque Palestrione ne fomenta le fantasie, il miles, con la battuta che segue, si
dichiara definitivamente vinto dall’argomentazione del servus: “Lei sola è degna di stare a paragone (ad) della tua bellezza. – Ma allora stai parlando (praedicas) di una bella donna davvero!”. – Sed ... proxumo: finalmente se ne rivela l’identità: “È la moglie del vecchio Periplectòmeno della casa
CAPITOLO 5 Plauto
970
PY.
PA.
accanto (e proxumo)”. È per lo meno curioso che Palestrione
senta la necessità di specificare l’ubicazione, quasi che il padrone non sappia chi è il suo vicino; in realtà, non fa meraviglia. Primo, perché per gli antichi la stretta verosimiglianza non era un requisito dell’opera teatrale; secondo, perché,
nella fattispecie, l’ignoranza del miles viceversa è condizione
necessaria per far progredire la vicenda; terzo, perché la
noncuranza di “dettagli” come questo del vicino quadra con
l’indole vanesia di un personaggio tutto preso dalla sua
grandeur. Quis, interrogativo generico per gli esseri animati,
sta in luogo del più classico quae. – Ea ... cupit?: “Si strugge
d’amore per te (demoritur te; cfr. l’italiano corrente: ‘ti muore dietro’) e vuole divorziare: non sopporta più (odit) il vecchio. Adesso mi ha comandato (iussit <me> di pregarti e
scongiurarti che tu le offra [sibi ... facias] il mezzo e l’oppor-
● TRADUZIONE D’AUTORE
PIRGOPOLINICE, PALESTRIONE
È un piacere se quello che hai preparato procede allegramente come volevi. Io infatti oggi ho spedito a re Seleuco il mio parassita, a condurgli i mercenari che ho arruolati qui a difesa del suo regno, nel tempo che
starò in riposo.
PALESTRIONE Ma cura le faccende tue piuttosto che quelle di Seleuco: ti si presenta un’occasione nuova, stupenda,
per mezzo mio.
PIRGOPOLINICE Ma sì, è il caso di piantare in asso ogni altra faccenda e dare ascolto a te. Parla: i miei orecchi s’arrendono a discrezione alle tue parole.
PALESTRIONE Guàrdati attorno, che non ci sia nessuno che uccelli i nostri discorsi; ché mi è stato prescritto di trattare questa faccenda con te in segreto.
PIRGOPOLINICE Non c’è nessuno.
PALESTRIONE Prima di tutto ricevi dalle mie mani questo pegno d’amore.
PIRGOPOLINICE Cos’è? Donde viene?
PALESTRIONE Da una donna meravigliosa, vezzosa, che ti ama e brama la tua beatifica beltà; poco fa una schiava
m’ha portato il suo anello perché te lo consegnassi.
PIRGOPOLINICE E che roba è? È libera o lo è diventata per mezzo della bacchetta, da schiava che era?
PALESTRIONE Euh, io oserei fare con te il ruffiano di una liberta, se tu non hai neanche il tempo di badare alle donne libere, che vanno pazze per te?
PIRGOPOLINICE È sposata o è vedova?
PALESTRIONE È sposata e vedova.
PIRGOPOLINICE Come può essere che sia sposata e vedova insieme?
PALESTRIONE Perché è una giovane sposata ad un vecchio.
PIRGOPOLINICE A posto!
PALESTRIONE È un bocconcino squisito, piena dì distinzione.
PIRGOPOLINICE Bada di non contarmi fandonie.
PALESTRIONE Lei sola è degna della bellezza tua.
PIRGOPOLINICE Ah, ma allora mi stai parlando proprio di una bella donna! Ma chi è?
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PIRGOPOLINICE
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Ea demoritur te atque ab illo cupit abire; odit senem.
Nunc te orare atque opsecrare iussit, ut eam copiam
sibi potestatemque facias.
Cupio hercle equidem, si illa volt.
Quae cupit?
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tunità di farlo”. Dunque, la mogliettina annoiata si metterebbe spontaneamente sotto la protezione del capitano, il
quale, come appresso dichiara, è ben contento di darle il suo
aiuto (cupio hercle equidem), purché lei lo voglia. Su questo
lo rassicura Palestrione: “altroché, se lo desidera!” (quae cupit?). Ecco la più classica delle armi di persuasione: il suscitare il sentimento di protezione verso un essere delicato e indifeso nelle grinfie di un bruto insensibile. Abire è il verbo
con cui, tecnicamente, si designa l’atto del “divorzio”. Si noti come la struttura sintattica, un po’ più articolata del solito,
costituita da due subordinate in successione (l’infinitiva
<me> ... opsecrare e la completiva, di secondo grado, ut ... facias), faccia perno sul verbo principale iussit, che non ha
grande peso: la mitica dama infatti è il puro soggetto grammaticale (sottinteso) e ha incaricato Palestrione – un sem-
PALESTRIONE È la moglie di questo vecchio tuo vicino, Periplecomeno. Lei spasima per te e brama di divorziare dal
vecchio, che odia. Ora mi ha ordinato di pregarti e scongiurarti di darle questa possibilità, di offrirgliene l’occasione.
PIRGOPOLINICE Perdio, lei con le mani ed io con le mani e coi piedi, se lei proprio lo desidera!
PALESTRIONE Ma lei non desidera altro!
PIRGOPOLINICE Ma che faremo di quella concubina che ho in casa?
PALESTRIONE Eh!, non c’è che da dirle di andarsene dove vuole: giust’appunto la sua sorella gemella e sua madre sono arrivate qua ad Efeso e la vanno cercando.
PIRGOPOLINICE Come? È arrivata ad Efeso sua madre?
PALESTRIONE C’è gente che lo sa e lo va dicendo.
PIRGOPOLINICE Perdio, una bella occasione per sbolognare quella donna!
PALESTRIONE Senti, vuoi fare una cosa proprio a modo?
PIRGOPOLINICE Parla, consigliami pure.
PALESTRIONE Che ne diresti di metterla subito alla porta, ma in modo che se ne vada via senza smorfie?
PIRGOPOLINICE Non desidero di meglio.
PALESTRIONE E allora senti che devi fare: tu di ricchezze ce n’hai a più non posso; lasciale in regalo le gioie e tutte le
altre cianfrusaglie di cui l’hai abbellita, che se ne vada e se le porti pure dove le pare.
PIRGOPOLINICE Mi piace il consiglio. Ma rifletti un po’: se poi io perdo l’una, e l’altra cambia intenzione?
PALESTRIONE Ih, non fare il cavilloso! Ma se quella ti ama più degli occhi suoi.
PIRGOPOLINICE Venere mi ama!
PALESTRIONE Ss, zitto! S’apre quella porta [accenna alla casa di Periplecomeno]; ritìrati da questa parte e nasconditi. È il caccia veloce della bella, che salpa di lì in avanscoperta, per stabilire i collegamenti.
PIRGOPOLINICE Come? il caccia?
PALESTRIONE È la servetta di lei che vien qua fuori: quella che ha recato quest’anello, che poi io ho dato a te.
PIRGOPOLINICE Per i gemelli! è belloccia anche lei!
PALESTRIONE Peuh, a confronto della padrona è uno scimmiottino, un barbagianni. Non vedi che sta andando a
caccia con gli occhi e facendo la posta con gli orecchi?
(trad. E. Paratore)
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
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plice mediatore: interpres, internuntius –; ma in effetti, come
indicato dalle proposizioni dipendenti marcate da te in
apertura e in chiusura da facias, il vero “soggetto” della scena
è Pirgopolinice, nel duplice senso di “personaggio sceneggiato” e di “persona in balia”... del proprio schiavo. Si noti infine il sintagma facere copiam (qui nell’accezione di “facoltà”,
“occasione”, in sostanza duplicato di potestatem), che è di
norma seguito dal genitivo o da ut e il congiuntivo: eam
rappresenta così l’equivalente anaforico, riassuntivo, di un
enunciato complementare del tipo ut abeat ovvero abeundi.
973b-990. Con questa sequenza di versi si completa la
prima scena, nella quale Palestrione, che ha ormai in pugno
il fanfarone rapito dai suoi vagheggiamenti, provvede ora a
preparare il terreno per favorire la liberazione di Filocomasio, concubina del miles ma ancora innamorata del giovane
Plèusicle. – Quid ... domist?: Pirgopolinice, d’un tratto, scopre un grave problema d’incompatibilità che viene a crearsi
tra la nuova spasimante e l’amante che si trova in casa (domi
est), Filocomasio: “Che ne faremo (adesso)?”. Si colga la fine
comicità sottesa dalla prima persona plurale del verbo: il
miles ha già smorzato tutta la iattanza della sua figura, non
pare più in grado di decidere alcunché in proprio e chiede
soccorso al suo servo. – Quin ... eam: “Ma via (quin), dille di
andarsene dove le pare (lubet = libet)!”. Soprattutto vista
l’opportunità (sicut: “giust’appunto”) dell’arrivo a Efeso
della madre e della gemella, venute apposta per cercarla (accersunt... eam). – Eho ... foras!: “Ma senti un po’! (Eho tu)”.
Pirgopolinice è insieme sorpreso e raggiante, non crede alle
sue orecchie, le cose sembrano mettersi fin troppo lepide
(cfr. v. 947). Il servo lo tranquillizza con sentenza laconica
(e persuasiva): “Lo dicono i bene informati”. Non mette
conto d’insistere sulla più totale vaghezza del detto, che invece è più che sufficiente per il miles, che infatti esulta:
“Questa sì è l’occasione buona (lepidam) per mettere alla
porta (excludam foras) la donna!”. – Immo ... cupio: “Anzi,
vuoi (vin = vis-ne) fare una cosa per bene? – Parla, tira fuori (cĕdo: ‘mostra’, ‘dimmi’) la tua idea”. Si noti subito l’insi-
stenza martellante, del termine lepidus/lepide, con cui Palestrione riaccende la fantasia della sua vittima, cui non dà
tregua: appena la mente del soldato si è posata su un traguardo che pare raggiunto – l’ultimo è il (presunto) arrivo
della madre e della sorella della concubina –, l’altro lo incalza con un’idea nuova. La strategia ottiene il doppio effetto di
accrescerne la credulità e di fargli compiere tutte quelle
mosse necessarie all’attuazione del piano beffardo, che, beffa nella beffa, lui stesso, Pirgopolinice, contribuisce a mettere in opera. Altro elemento che rientra nella medesima strategia è l’anafora di vin in due interrogative molto suggestive,
delle quali la prima, più breve, punta a saggiare il terreno e,
trovatolo ben disposto, la seconda mira a “seminarlo”: “vuoi
metterla fuori di casa all’istante (actūtum), in modo che se
ne vada via senza scenate (per gratiam: ‘con le buone’)?”. La
proposta non è priva di vantaggi per l’impaziente miles, che
intravede la via per sbarazzarsi elegantemente della ragazza.
È quasi superfluo rilevare, di simili domande, l’astuzia tipicamente popolare, ma non perciò “ingenua” o primitiva:
non è a caso infatti che l’ultima domanda sia formulata con
attenta cura dell’effetto sonoro; si badi alla fitta sequenza allitterante: tu ill-a-m a-ctutum a-movere a te ut a-be-at. –
Tum ... sibi: visto che accetta il consiglio (tum: “allora”), dovrà tenere questo comportamento: “ricchezze ne hai in abbondanza (ad-fatim: ‘a sazietà’); lascia (iube) dunque che si
tenga (dono habere; lett. ‘abbia in dono’) gli ori e i bei vestiti
di cui l’hai coperta, che se ne vada e se li porti dove le pare
(lubeat = libeat)”. Instruxti è perfetto sincopato per instruxisti, che altri traduce: “che le hai regalato”, fondendolo con
dono del verso seguente; al v. 982, l’infinitiva aurum atque
ornamenta ... dono habere ha per sogg. sott. illam mulierem,
che si ricava dalla relativa e che rende ragione del precedente sibi (v. 981). In questo giro di versi la sintassi, già normalmente colloquiale, si fa concitata, dominata com’è dall’ansia
di far presto più che non da calmo raziocinio, con intreccio
di proposizioni subordinate, culminanti in un triplice infinito, e che ricalcano l’incalzare dei dettami dello schiavo. –
PY.
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990
Placet ut dicis. Sed ne <et> istanc amittam et haec mutet fidem
vide modo.
PA.
Vah! delicatu’s, quae te tamquam oculos amet.
PY.
Venu’ me amat.
PA.
St, tace, aperiuntur fores; concede huc clanc^lum.
Haec celox illiust, quae hinc egreditur, internuntia.
<PY.> Quae haec celox?
PA.
Ancillula illiust, quae hinc egreditur foras;
quae anulum istunc attulit, quem tibi dedi.
PY.
Edepol haec quidem
bellŭlast.
PA.
Pithecium haec est prae illa et spinturnicium.
Viden tu illam oculis venaturam facere atque aucupium auribus?
Placet ... amat: “Approvo (placet, sott. mihi) la tua proposta
(ut dicis: ‘come parli’). Ma non vorrei trovarmi a mandar via
l’una e che l’altra manchi di parola: mi raccomando (vide
modo: (‘vedi un po’, ‘sta’ attento’). – Ih, come sei difficile!
(Ma se ti ho detto che) quella ti ama come le pupille dei suoi
occhi!”. Ecco riproposta, variata, la solita tecnica elusiva di
Palestrione, che alla legittima esitazione, non tanto obiezione, di Pirgopolinice, reagisce alla sua maniera, come già visto
di sopra ai vv. 962-963, ossia sfuggendo alla res del quesito,
occultando la verità e rovesciando sull’interlocutore la larvata accusa di malfidenza: delicatus infatti ha qui l’accezione
di “schifiltoso”,“incontentabile”, detto di chi cerca il pelo nell’uovo, e, in generale, è aggettivo che connota un’indole leziosa, effeminata, frivola addirittura. Circa i dimostrativi
istanc (forma rafforzata per istam) e haec, vanno senz’altro
intesi in senso spaziale, come indicatori scenici delle rispettive case delle due donne – Filocomasio e la moglie di Periplectòmeno –, come confermato dall’avverbio di luogo deittico huc, sotto al v. 986, riferito proprio alla casa del senex. –
St, tace ... internuntia: finora Palestrione ha esibito la sua
arte consumata di attore, adesso vien fuori il regista che comanda il gioco e muove le sue pedine sulla scena. A un cenno d’intesa sta per entrare sul palco Milfidippa, che lo schiavo annuncia contemporaneamente al miles e al pubblico,
creando l’atmosfera di circostanza (“St, zitto!”), molto “teatrale”, scenografica (“si apre la porta”), di segretezza (“ritírati qua un po’ in disparte”: clancŭlum, diminutivo dell’avverbio clam, è vocabolo espressivo – fa pensare a una nicchia
riparata – che troviamo soltanto nei poeti comici). A quest’aura silente ben si confà la metafora marinara che segue;
la riportiamo nella versione del Paratore: “È il caccia veloce
della bella, che salpa (egreditur) di lì in avanscoperta, per stabilire i collegamenti”. La celox (o celes) era uno scafo leggero
da diporto o per la trasmissione di dispacci. La battuta non
fa che continuare, introducendo la variante navale, l’allusivo
linguaggio militare più volte notato e reso esplicito dal predicativo internuntia: si confronti, al v. 962, il medesimo termine, nella medesima sede del verso, applicato da Palestrione a se stesso, che è del medesimo rango servile dell’ancillula. – Quae ... dedi: “Che? il caccia? – È la servetta di lei che se
ne vien qua fuori, quella che mi ha fatto avere quest’anello
che poi ti ho dato”. La spiegazione che tira fuori rafforza la
sua credibilità agli occhi del padrone, che se la beve avendo
letteralmente in mano la prova: l’anello della dama. – Edepol ... auribus?: “Caspita, è belloccia pure questa!”. A una simile uscita, che rivela l’occhio lubrico del dongiovanni incallito, l’altro replica con una stroncatura: “Al suo confronto
(prae illa) questa è una bertuccia, un gufo. Ma la vedi (viden
= vides-ne) come fa con gli occhi e con le orecchie? (Sembra
vada a) caccia (venaturam) o ad uccellare (aucupium)”. Entrambe le espressioni venatorie sono governate dal verbo facere, che fa al contempo da perno del chiasmo che ha per
estremi oculis/auribus e per medi venaturam/aucupium, a significare poi la stessa cosa, cioè “spiare” con la vista e l’udito
(“scrutare/origliare”). Questo fare circospetto della schiava,
come di un cacciatore che s’apposta per puntare la preda
(cfr. la nota al v. 955), fa da contrappunto all’analogo invito
fatto a Pirgopolinice ai vv. 955-956: là era una condotta raccomandata come saggia, qui invece è messa in ridicolo; una
riprova che Palestrione lo sta menando per il naso a suo piacimento, quantunque non cessi di esser convincente, proprio e soltanto per lo scrupolo di segretezza che egli coerentemente mostra nei due momenti. Pithecium e spinturnicium sono ambedue diminutivi: il primo è adattamento dal
greco píthekos, “scimmia”, il secondo, derivato da spinturnix,
indica genericamente un volatile (notturno?) che già gli antichi (per es. Plinio, Naturalis historia, X, 36) non sapevano
più identificare.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
PY.
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Quid illa faciemus concubina, quae domist?
PA.
Quin tu illam iube aps te abire quo lubet: sicut soror
eius huc gemina venit Ephesum et mater, accersuntque eam.
PY.
Eho tu, advenit Ephesum mater eius?
PA.
Aiunt qui sciunt.
PY.
Hercle occasionem lepidam ut mulierem excludam foras!
PA.
Immo vin tu lepide facere?
PY.
Loquĕre et consilium cedo.
PA.
Vin tu illam actūtum amovere, a te ut abeat per gratiam?
PY.
Cupio.
Tum te hoc facere oportet. Tibi divitiarum adfatimst;
<PA.>
iube sibi aurum atque ornamenta, quae illi instruxti mulieri,
dono habere, <abire>, auferre aps te quo lubeat sibi.
CAPITOLO 5 Plauto
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
CAPITOLO 5 Plauto
˘
Quella di Palestrione è una figura riuscita perché, agli occhi del pubblico, egli dimostra di possedere effettivamente un’intima conoscenza del padrone, di saperne leggere i segreti pensieri. Se Artotrogo, il parassita,
sapeva conformarsi all’animo del militare facete, cioè “con arguzia e prontezza”, lo schiavo fa di meglio: lo fa
addirittura sognare. Egli sa come corrispondere alla sua sententia (cfr. v. 947), cioè alle sue “attese”, e vi riesce
mirabilmente (lepide), facendo vibrare le corde più sensibili del suo cuore per “cucinarlo” a fuoco lento e condurlo dalla sua. Non a caso lo esorta a badare ai propri interessi (quin tu tuam rem cura) toccandolo sull’onore; mentre lo accende di desiderio, lo tiene sulle spine, dicendo e non dicendo che una gran donna spasima
per lui; circa poi la condizione di questa, rimane nel vago e nell’incerto, per dargli alla fine una risposta giocata sulla lusinga (ad tuam formam illa una dignast) all’apparenza plausibile e, così, dimostrarsi degno di fede. Soprattutto, egli dimostra di aver appreso e di dominare quell’arte oratoria che ai verba – scelti, ordinati,
combinati e trattenuti dalla memoria – accoppia la actio1, cioè l’azione scenica, e questa, come sappiamo dal
Cicerone del De oratore e da una lunga tradizione di pensiero retorico, rappresenta il vertice, il compimento
e il finale dispiegamento della sapienza dell’orator.
Un brano così intenso, vivace, fitto di botta e risposta come si conviene a una scena a due – che per di più sono i poli dell’azione della commedia –, non si presta a un’analisi che si accontenti di un’aderenza – necessaria ma insufficiente – alla lettera del dettato. È questo, infatti, un testo dal forte carattere evocativo. Rivediamone qualche passaggio.
vv. 955-956: Circuspicedum, nequis nostro hic auceps sermoni siet;
nam hoc negoti clandestino ut agerem mandatumst mihi.
L’invito alla circospezione è senza equivoci indirizzato a Pirgopolinice, per acclimatarlo, per così dire, all’alone
di segretezza che si confà alla circostanza della proposta che Palestrione sta per rivelargli, così da disporlo alla credulità. Ma, a ben vedere, è nello stesso tempo una cautela che l’accorto schiavo ha per se stesso: che non
vi sia nei dintorni un qualche amico o conoscente del padrone che lo possa avvisare del raggiro, giacché, se
venisse scoperto l’imbroglio, non avrebbe scampo: la punizione prevista sarebbe la forca o la croce. È lo stesso Pirgopolinice a rammentarglielo, quando, sospettando per un attimo della malfidenza del servitore, al v.
967, lo avverte: cave mendacium. Palestrione dunque corre un rischio altissimo e, rischiando, investe tutto
quanto possiede: non denaro né forza né, tanto meno, potere, bensì la risorsa dell’intelligenza.
1. Il corrispondente vocabolo greco ci aiuta a riconoscere il rapporto qui istituito fra tecnica retorica e tecnica scenica: come actio sta ad actor, così hypókrisis, che è nomen actionis, sta a hypokrités, l’“attore” di teatro che recita coperto
da una maschera.
vv. 962-963: Vah, egone ut ad te ab libertina esse auderem internuntius,
qui ingenuis sati’ responsare nequeas quae cupiunt tui?
La formulazione retorica della domanda è indice di matura competenza degli strumenti del comunicare –
una competenza che proviene dalla condizione stessa di servus e dall’esperienza viva della sofferenza, quando non della minaccia incombente della tortura: la necessità, si dice, aguzza l’ingegno. Ma non si tratta solo di questo. C’è la gran conoscenza degli uomini, dei loro punti di forza come delle loro debolezze e dei loro bisogni, anch’essa scaturita dall’esperienza, precisamente dall’atavica abitudine a ubbidire, a eseguire
comandi, anche se dispotici e capricciosi, senza fiatare. Con Palestrione emerge allora lo schiavo che, abituato al silenzio, per sopravvivere ha dovuto aguzzare anche la vista, studiando a fondo l’indole vanagloriosa del padrone. Nella scena in questione, come del resto in tutta quanta la commedia, assistiamo dunque
alla prova matura di chi, esperto per lungo tirocinio, squaderna la sua arte ricca di astuti inganni. È vera e
propria arte della parola, eloquente, al servizio di un opus, anzi di un negotium, un affare in grande, che, entro la logica paradossale della farsa, ovviamente, risulta rovesciato in beffa. Tale dicendi peritia risente dell’ideale oratorio romano, sempre applicato alla prassi, all’utile; una retorica della quale si gioverà Machiavelli, non per nulla appassionato lettore di Plauto, in memorabili pagine del Principe e soprattutto della
Mandragola.
t 14 Il servo regista (Miles gloriosus, atto IV, vv. 1173-1195)
L’atto IV, a eccezione dell’ultima scena, vede il servo Palestrione muoversi sul palcoscenico e far
muovere in qualità di regista gli altri personaggi, impartendo loro precise istruzioni per la perfetta riuscita della beffa ai danni di Pirgopolinice.
È la celebrazione della sua intelligenza, la stessa che gli fa rifiutare, con la modestia che non appartiene al miles gloriosus, l’appellativo di “architetto” a lui dato dall’ancella Milfidippa (˘ v. 1138).
Palestrione, anzi, va oltre e, come già aveva fatto in altra occasione a proposito della giovane Filocomasio, loda la destrezza della donna, mettendone in risalto l’indubbia superiorità.
Nella scena che segue Palestrione impartisce ordini ad Acrotelèuzio (o Acrotelèuzia), la donna che
deve fingere di essere innamorata del miles, alla sua ancella Milfidippa, messaggera d’amore, e al
suo padrone ateniese Plèusicle; lo fa in modo talmente concitato da essere chiamato «imperator»
(v. 1160).
vv. 974-975: Quin tu illam iube aps te abire quo lubet: sicut soror
eius huc gemina venit Ephesum et mater, accersuntque eam.
Da esempi come questi si evince la magistrale capacità plautina di “costruire” certi personaggi: il suggerimento fornito nell’ultima battuta costituisce infatti il preambolo al complesso piano volto, prima, a liberare
Filocomasio, e, poi, a sbugiardare il miles con una sonora lezione. Ma il punto è: come farglielo accettare? Buttandolo lì come per caso, senza dar l’impressione di averci pensato prima. Qui sta il difficile, e qui sta la grandezza dell’arte di Plauto, che sa restituire con realismo la scaltrezza e la furberia insite in un mondo, quello dei
servi, che, per essere spesso duramente, atrocemente provato da angherie praticate su larga scala, aveva escogitato le sue brave contromisure: menzogne, inganni, delazioni... Un mondo che aveva appreso, per esperienza, oltre le parole più adatte per difendersi, anche i gesti delle mani, gli atti del volto, le posture del corpo,
le tonalità della voce: uno strumentario – i linguisti lo chiamano “prossemico” – non meno importante del linguaggio strettamente verbale, se è vero che, per fare un esempio calzante e facilmente verificabile, a chi vuol
dire una bugia non basta “raccontare” una storia inventata – ché sarebbe appunto una favola, una fictio –; occorre, per farla passare per vera e così renderla credibile, che mani, gambe, voce, palpebre, pelle, non tradiscano esitazioni, cedimenti, rossori, tremori. Tutto ciò gli attori lo sanno bene e perciò cercano con lungo,
quotidiano allenamento d’immedesimarsi, di “entrare” nella parte, così che il pubblico non veda in quella
l’interprete ma il personaggio interpretato.
Metro: settenari trocaici.
ACROTELEUTIUM, MILPHIDIPPA, PLEUSICHES, PALAESTRIO
AC.
MI.
PA.
Sequimini, simul circumspicı̆te nequis adsit arbiter.
Neminem pol video, nisi hunc quem volumus conventum.
Et ego vos.
ACROTELÈUZIA, MILFIDIPPA, PLÈUSICLE, PALESTRIONE
ACROTELEUZIA (a Pleusicle e a Milfidippa)
˘
Seguitemi, e guardatevi d’attorno, che non ci sia
qualche indiscreto.
MILFIDIPPA Non vedo nessuno – per Polluce! – tranne colui che vogliamo incontrare.
PALESTRIONE E io voglio incontrar voi.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
Analisi del testo ]■t 13 (Miles gloriosus, atto IV, vv. 947-990)
1140
1145
1150
<MI.> Quid agis, noster architecte?
PA.
Egone architectus? vah!
MI.
Quid est?
<PA.> Qui<a> enim non sum dignus prae te palum ut figam in pariĕtem1.
<AC.> Heia vero!
Nimi’ facete nimi’que facunde malast;
<PA.>
ut lepide deruncinavit militem!
MI.
At etiam parum.
<PA.> Bono animo es; negotium omne iam succedit sub manus;
vos modo porro, ut occepistic, date operam adiutabilem.
Nam ipse miles concubinam intro abiit oratum suam
ab se ut abeat cum sorore et matre Athenas.
PL.
Eu, probe!
<PA.> Quin etiam aurum atque ornamenta quae ipse instruxit mulieri
omnia dat dono, a se ut abeat: ita ego consilium dedi.
<PL.> Facile istuc quidemst, si et illa voit et ille autem cupit.
<PA.> Non tu scis, quom ex alto puteo sursum ad a summum esenderis,
maxumum periclum inde esse ab summo ne rusum cadas?
Nunc haec res apud summum puteum geritur: si prosenserit
miles, nihil ecferri poterit huiius: nunc cum maxume opust doilis.
Come va il nostro architetto?
PALESTRIONE Io, architetto? Va’ là!
MILFIDIPPA Che?
1140 PALESTRIONE Al tuo confronto, non son degno nemmeno di ficcare un cavicchio nel muro1!
ACROTELEUZIA Eh, là!
PALESTRIONE Che spirito, che chiacchiera ha la furbona? Come l’ha imbrogliato per bene, il
militare!
MILFIDIPPA Ma è ancora poco.
PALESTRIONE (a Pleusicle) Sta’ tranquillo, ormai questa faccenda fila ch’è un piacere; e voi
continuate a prestarmi aiuto, come già avete fatto. Il militare è andato personalmente a pre1145 gare la concubina di lasciarlo, di tornare ad Atene con la sorella e la madre.
PLEUSICLE Evviva! bene!
PALESTRIONE E v’è di più: i gioielli e gli abiti di cui l’ha provveduta, le regala tutto, purché lo
lasci. Sono stato io a consigliarglielo.
PLEUSICLE Non esistono difficoltà, dal momento che lei lo vuole e lui lo desidera.
1150 PALESTRIONE Non sai dunque che è proprio quando, dal fondo d’un pozzo, si è risaliti alla
sommità, che si corre maggiormente il rischio di ricadere in basso? In questo momento ci
troviamo sulla sommità d’un pozzo: se il militare dovesse avere qualche sospetto, non riusciremo a cavare un ragno dal buco. Ora più che mai c’è bisogno d’astuzia.
MILFIDIPPA
1. Svolgendo l’immagine dell’architetto, Palestrione si dichiara immeritevole anche della qualifica di carpentiere, paragonato a Milfidippa.
CAPITOLO 5 Plauto
PL.
1155
1160
<PA.>
AC.
<PA.>
<AC.>
<PA.>
AC.
PA.
AC.
<PA.>
AC.
1165
PA.
Domi esse ad eam rem video silvai satis:
mulieres tres, quartus tute’s, quintus ego, extus senex.
Quod apud nos fallaciarum sex situmst, certo scio
oppidum quodvis videtur posse expugnari dolis.
Date modo operam.
Id nos ad te, si quid velles, venimus.
Lepide facitis. Nunc hanc tibi ego impero provinciam.
Impetrabis, imperator, quod ego potero, quod voles2.
Militem lepide et facete <et> laute ludificarter
volo.
Voluptatem mecastor mi imperas.
Scin quem ad modum?
Nempe ut adsim˘ulem me amore istius differi.
Tenes.
Quasique istius caussa amoris ex hoc matrimonio
abierim, cupiens istius nuptiarum.
Omne ordine.
Nisi modo unum hoc: hasce esse aedis dicas dotalis tuas,
hinc senem aps te abiisse, postquam feceris divortium:
ne ille mox vereatur intro tre in alienam domum3.
Ne abbiamo una buona provvista, a quanto vedo: tre donne, tu quattro, io cin1155 que, e il vecchio sei. Con tutti gl’inganni di cui disponiamo noi sei, ne sono sicuro, si potrebbe espugnare con l’astuzia qualsiasi fortezza,
PALESTRIONE Fate attenzione, adesso.
ACROTELEUZIA Veniamo giusto da te, per sentire se hai istruzioni da darci.
PALESTRIONE Bravi! (Ad Acroteleuzia) Ecco dunque l’incarico che ti affido.
1160 ACROTELEUZIA Generale, per quanto sta in me, farò ciò che vorrai2.
PALESTRIONE Che si prenda in giro il militare con grazia, con garbo, con eleganza: questo
voglio.
ACROTELEUZIA Per Càstore! il tuo ordine è uno spasso per me.
PALESTRIONE Sai in che modo?…
ACROTELEUZIA Ma certo! Devo fingere di struggermi d’amore per lui…
PALESTRIONE Hai afferrato perfettamente.
ACROTELEUZIA … e che codesto amore m’ha indotta a divorziare dal vecchio, perché desi1165 dero sposar lui.
PALESTRIONE Perfettamente. C’è solo un particolare: gli dirai che questa casa (indica la casa
di Periplectomeno) fa parte della tua dote, e che il vecchio se n’è andato dopo che hai divorziato: ciò perché tra poco non esiti a varcare la soglia d’altri3.
PLEUSICLE
2. Ritorna qui la ben nota metafora militare (˘ T3).
3. Il miles, per quanto smanioso di consumare l’adulterio, non si azzarderebbe a varcare la soglia di una casa
di proprietà del vecchio, commettendo il reato di violazione di domicilio e rischiando la comprensibile ritorsione di un marito disonorato.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
1170
1175
1180
1181-82
1185
<AC.> Bene mones.
PA.
Sed ubi ille exierit intus, istinc te procul
ita volo adsimulare, prae ilius forma quasi spernas tuam
quasique eis opulentitatem reverearis; et simul
formam, amoenitatem ilius, factem, faciem, pulchritudinem
conlaudato. Satin praeceptumst?
AC.
Teneo. Satinest, si tibi
meum opus ita dabo expolitum, ut inprobare non queas?
<PA.> Sat habeo. Nunc tibi vicissim quae imperabo ea discito.
Quom extemplo hoc erit factum, ubi intro haec abierit, ibi tu ilı̆co
facitio uti venias ornatu huc ad nos nauclerico.
Causeam habeas ferrugineam, scrutŭlam ob oculos laneam;
palli˘olum habeas ferrugineum (nam is colos thalassı̆cust)
id conexum in umero laevo, exfafillato bracchio.
praecinctus aliqui4; adsimulato quasi gubernator sies.
Atque apud hunc senem omnia haec sunt, nam is piscatores habet.
<PL.> Quid? ubi ero exornatus, quin tu dicis quid facturu’ sim?
PA.
Huc venito et matris verbis Philocomasium arcessito,
ut, si itura sit Athenas, eat tecum ad portum cito,
atque ut iubeat ferri in navim siquid inponi velit;
nisi eat, te soluturum esse navim: ventum operam dare.
Il consiglio è buono.
E quando uscirà, dovrai fingere, qui da lontano, di disprezzare la tua bellezza
a paragone della sua, e d’aver soggezione della sua magnificenza; e intanto vanterai il suo fisico, il suo brio, i suoi lineamenti, la sua bellezza. Sono sufficienti queste istruzioni?
ACROTELEUZIA Ho afferrato perfettamente. Ti basta se ti faccio un lavoretto coi fiocchi, tale
che tu non ci possa trovar nulla a ridire?
PALESTRIONE Mi basta. (A Pleusicle) Ora ascolta tu le mie istruzioni. Non appena costei avrà
recitato la sua parte, come sarà rientrata in casa, senza por tempo in mezzo vedi di presentarti qua da noi travestito da marinaio, mettiti un cappellaccio color ruggine e una pezzuola di lana che ti scenda sugli occhi; indossa una mantellina pure color ruggine – che è quello
della gente di mare – annodata sulla spalla sinistra, col braccio tutto scoperto e la tunica succinta4: fingi d’essere un pilota. Troverai tutta questa roba in casa del vecchio: ha qualche pescatore al suo servizio.
PLEUSICLE Ebbene? Vuoi dirmi cosa dovrò fare, dopo che mi sarò travestito?
PALESTRIONE Verrai qua e chiamerai Filocomasia a nome della madre; le dirai che, se intende partire per Atene, s’affretti a raggiungere assieme a te il porto e che faccia portare alla nave tutto quel che intende imbarcare; e, se non viene, tu salperai, perché il vento è favorevole.
CAPITOLO 5 Plauto
PL.
PA.
1190
PL.
PA.
PL.
1195
PA.
Sati’ placet pictura; perge.
Ille extemplo illam hortabitur
ut eat, ut properet, ne sit matri morae.
Multimŏdis sapis.
Ego illi dicam ut me adiutorem, qui onu’ feram ad portum, roget;
ille iubebit me ire cum illa ad portum. Ego adeo ut tu scias,
prorsum Athenas protinam abibo tecum.
Atque ubi illo veneris,
triduom servire numquam te quin liber sis sinam.
Abi cito atque orna te.
PERCORSI TESTUALI
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TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
Il quadro mi piace davvero; continua.
PALESTRIONE Sùbito lui la esorterà a partire, ad affrettarsi, a non far aspettare la madre.
1190 PLEUSICLE La sai lunga, tu!
PALESTRIONE Io le dirò di richiedermi per aiutarla a portare i bagagli al porto; e lui mi ordinerà di accompagnarla. S’intende, perché tu lo sappia, che partirò di filato per Atene assieme
a te.
PLEUSICLE E quando sarai arrivato là, non passeranno tre giorni che t’avrò affrancato.
1195 PALESTRIONE Va’, svelto, travèstiti.
PLEUSICLE
(trad. M. Scàndola)
ACROTELEUZIA
1170 PALESTRIONE
1175
1180
1181-82
1185
4. Si ironizza su usi e costumi stranieri che alla fine del III sec. stavano prendendo piede: la causea era d’importazione macedonica, il palliolum (diminutivo di pallium) era usato dai filosofi greci a Roma ed è l’abito che
dà il nome alla palliata.
PER APPROFONDIRE…
Le nozze
Il matrimonio era una delle prerogative degli uomini liberi
(cives) ed era riconosciuto dalla legge, il cosiddetto ius conubii, che sanciva la regolarità del contratto matrimoniale. Come si ricorderà, tale diritto, dapprima esclusivo appannaggio del ceto patriziale, venne esteso alla plebe con la lex Canuleia del 445 a.C. Il rito era preceduto dal tempo del “fidanzamento”, il tempo dello scambio delle “promesse”, in latino
de-spondēre: su questo verbo, in particolare sul participio
sostantivato sponsus/sponsa,“promesso/a sposo/a”, si è coniato l’italiano “sposare”.
Il termine italiano “nozze” è un plurale tantum che prosegue direttamente, e nel genere e nel numero, il latino nuptiae, un vocabolo che, al pari di matrimonium, designa l’unione sponsale tra uomo e donna su base rituale e giuridica, e trae il significato non dallo sposo, ma dalla sposa. Ma-
L A C U LT U R A
trimonium infatti viene da mater, come nuptiae da nubo, il
verbo che si attaglia a colei che “prende il velo” – il flammeum, dal fiammeggiante color dell’arancia, benaugurale
come sono sempre i fiori d’arancio – per l’uomo (viro). Per lui
la formula di rito era invece aliquam uxorem (oppure in matrimonium) ducere, sottintendendo domum: l’espressione
allude infatti alla processione di un folto corteo nuziale, cui
si accodavano parenti, amici, conoscenti e finanche curiosi e
scioperati, che verso sera, al suono del flauto che modulava
l’hymenaeus1, scortava la casta sposa fino alla casa del marito. Qui giunta, ella compiva certi gesti rituali apotropaici
agli stipiti della porta, prima di varcare la soglia in braccio
al marito, per ricevere finalmente la chiave della casa. A
questo punto avevano inizio i festeggiamenti veri e propri,
col banchetto (la coena nuptialis) allietato dai canti di rito,
allegri e scherzosi, culminanti nell’epithalamium, che, come
1. In greco hyménaios, un genere lirico di solito strutturato a strofe cantate da voce solista, alternate da un ritornello responsoriale.
˘
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
insegna il vocabolo greco epithalámion, ragazzini e ragazzine intonavano davanti al “talamo”, la camera degli sposi.
Dopo altri gesti sacrali e scaramantici – come quello della
matrona che incarna luno pronuba, la dea “protettrice delle
nozze”, e accompagna la fresca sposa al letto nuziale; o, ancora, il lancio di noci del marito ai giovani amici –, gli sposi
novelli consumavano il matrimonio, col gradito sottofondo
di... canzoni oscene dei burloni rimasti fuori. Come si vede, il
matrimonio, fin dalle origini circonfuso da un alone di santità, era per i Romani tutt’altro che un affare privato, al contrario aveva grande rilevanza pubblica, tanto che le cerimonie terminavano soltanto il giorno dopo, allorché il marito
dava un secondo banchetto, parenti e invitati tutti offrivano
regali alla coppia e la giovane moglie sacrificava per la prima volta nella nuova dimora. Un simbolismo assai articolato contrassegnava dunque il matrimonio solenne, fatto con
tutti i crismi (matrimonium iustum, ossia conforme a ius): in
tal caso la donna usciva dalla patria potestas per passare in
manum mariti e assurgere a mater familias. La mulier diventava così matrona, ossia donna degna di ogni rispetto
perché maritata, femina gravis (e non levis come una qualunque concubina o, peggio ancora, una meretrix), custode
della virtù non soltanto propria, ma di tutta la famiglia. Certo, non avrebbe mai potuto aspirare a uno stato giuridico di
piena libertà civile; ma è il caso di ricordare che una simile
aspirazione neppure si concepiva, prevalendo nella mentalità romana – in qualunque settore della vita associata: dalla famiglia al lavoro della terra all’esercito – l’idea della compagine unitaria fatta di parti fra loro solidali e tenuta insieme dal culto delle virtutes avite. Perciò la donna dava il suo
insostituibile apporto – primo fra tutti quello di dare alla luce e allevare prolem legitimam, e poi quello di attendere all’amministrazione domestica – e riceveva garanzia e tutela
soggiacendo alla potestà del marito: tanto la sua persona
quanto i beni recati in dote (dos) si accumulavano alle proprietà del marito, di modo che la figura giuridica della mo-
glie non era diversa da quella di una figlia, alla quale però
veniva imposto il nome della gens di lui: un esempio illustre
è quello di Terentia, consorte di Marco Tuillio Cicerone, e della figlia Tulliŏla (cioè la “piccola Tullia”).
Stante quel che finora si è detto, il matrimonio era cosa stimata talmente sacra da rasentare l’indissolubilità; pertanto, da parte del capofamiglia, la decisione del divortium (collegato al verbo di-verto/-vorto, “prendere un’altra strada”,
“separarsi”), per buona parte almeno dell’età repubblicana,
doveva essere motivata da una colpa o una necessità gravi,
prima di venir presa con quella leggerezza con cui ormai nel
I secolo a.C. si era giunti a contrarre matrimonio: basti dire
che persino il severo Cicerone divorziò due volte senza motivi particolarmente seri o impellenti. Per lungo tempo fu il
marito soltanto ad aver diritto di sciogliere l’unione e di risposarsi, ma dal II sec. a.C. tale diritto si estese alla moglie:
nel primo caso era d’uso la formula uxorem dimittere, nel
secondo a viro discedere, e anche in queste espressioni è riposto un giudizio di subalternità della donna all’uomo. È interessante comunque notare che, mentre a una uxor legitima ripudiata spettava la restituzione della dote, non altrettanto avveniva per la concubina, la quale non era protetta
da alcuno scudo legale. Risulta dunque oltremodo beffardo
il consiglio (accettato!) di Palestrione al miles di licenziare la
concubina Filocomasio lasciandole in dono aurum atque ornamenta (˘ v. 982) e così trattandola più che alla stregua di
una donna sposata.
Analisi guidata ]■t 14 (Miles gloriosus, atto IV, vv. 1137-1195)
■ La sintassi e lo stile
Prova a evidenziare nel testo:
1. l’ordine prevalentemente paratattico degli enunciati;
2. la successione rapida delle battute pronunciate dagli attori, ciascuna delle quali corrisponde
sintatticamente a una proposizione indipendente;
3. la differente morfologia di alcune forme rispetto alla lingua classica.
■ Il lessico
Uno dei tratti caratteristici del comico è l’eccesso, l’esagerazione, nelle situazioni che si vengono a creare e
nel carattere dei personaggi: sapresti rilevare in queste battute il lessico dell’“esagerazione”? Quali verbi,
avverbi, aggettivi esprimono questo tratto proprio della comicità plautina?
■ Per la comprensione del testo
a. In questa scena siamo ormai nel cuore della econda beffa ai danni di Pirgopolinice. Sapresti definire in
che cosa consiste la beffa nel teatro comico plautino? Quale funzione ha nella costruzione dell’azione
scenica? Giustifica la tua risposta con esempi tratti dal Miles gloriosus e da questa scena in particolare.
b. Leggi il testo critico in Interpretazioni, alle pp. 00, in cui Maurizio Bettini presenta una riflessione sul
tema del “carnevalesco” come tratto precipuo del teatro comico plautino. Sapresti ritrovare nella scena che
hai letto tratti tipici del “carnevalesco”? Per esempio:
1. nella figura del servus callidus;
2. nella serva Milfidippa e nella figura di Acrotelèuzio;
3. nel linguaggio con cui si esprimono i diversi personaggi.
■ I l t e s t o n e l c o n t e s t o d e l l ’o p e r a
A che punto si colloca all’interno dell’opera la scena che hai letto? Quale funzione ha
nell’economia generale della commedia? Per rispondere consulta il profilo letterario,
alle pp. 00.
■ Il genere letterario
Per la costruzione delle sue commedie Plauto si rifà sia alla commedia nuova greca sia al teatro italico delle
origini. Puoi rilevare nella scena che hai letto – e più in generale nell’opera di cui essa fa parte – i tratti tipici
dell’uno e dell’altro modello cui Plauto fa riferimento?
t 15
Ara funeraria romana con scena di matrimonio:
il consenso dei coniugi è suggellato dalla
“dextrarum junctio”, la stretta della mano destra,
Roma, Museo delle Terme
Lo sbruffone punito (Miles gloriosus, atto V, vv. 1411-1422)
Siamo così arrivati al gran finale, la scena unica e breve cui si riduce l’atto V. Dopo esser fiduciosamente entrato nelle aedes (“camere”) della matrona, che egli crede di sua proprietà e sgombre dal
marito, appare il misero capitano nelle grinfie dei lorarii, gli aguzzini pronti a squartarlo o, almeno, a fustigarlo per aver violato la casa che è in realtà del vecchio. Così, impietosamente, lo svergognano per aver osato, lui impudens, subigitare (“tentar di sedurre”) alienam uxorem, e gli rifanno il
verso apostrofandolo Venerium nepotulum (vv. 1413 e 1421: si noti il diminutivo sarcastico).
Ma, dopo tutto, la messinscena è una farsa e deve finir bene. Il nostro protagonista viene alfine
graziato, così che possa meditare sulle sue malefatte e le sue millanterie. Non prima, però, di giurare solennemente, pena la perdita della virilità, di non far rimostranza per le botte ricevute. Per
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
˘
CAPITOLO 5 Plauto
CAPITOLO 5 Plauto
le battute che riportiamo di seguito abbiamo scelto la versione del Paratore, il quale, come spiega
in nota, non ha rinunciato a riprodurre anche un doppio senso giuridico-sessuale tipico della farsa italica e della fantasia ilare di Plauto.
Interpretazioni
Metro: settenari trocaici.
Da un punto di vista antropologico le figure del servo
astuto e del padrone gabbato assumono un rilievo e un
significato che va al di là del divertimento scenico. Riprendendo il principio del rovesciamento burlesco della
realtà che, secondo lo studioso russo Michail Bachtin1,
caratterizza il “carnevale”, lo storico della letteratura latina Maurizio Bettini propone un’interpretazione delle
tipologie fisse dei personaggi e delle dinamiche dell’azione scenica proprie del teatro comico plautino, facendo
riferimento anche al singolare linguaggio con cui si animano le battute di scena.
PERIPLECOMENUS, PYRGOPOLINICES, CARIO
PE.
PY.
1415
PE.
PY.
CA.
PY.
1420 CA.
PY.
CA.
Iura te non nociturum esse homini de hac re nemini,
quod tu hodie hic verberatu’s aut quod verberabere,
si te salvom hinc amittemus Venerium nepotulum.
Iuro per Iovem et Mavortem, me nociturum nemini,
quod ego hic hodie vapularim, iureque id factum arbitror;
et si intestatus1 non abeo hinc, bene agitur pro noxia.
Quid, si id non faxis?
Ut vivam semper intestabilis.
Verberetur etiam; postibi amittendum censeo.
Di tibi bene faciant semper, quom advocatus mihi bene’s.
Ergo des minam auri nobis.
Quam ob rem?
Salvis testibus
ut ted hodie hinc amittamus, Venerium nepotulum.
Aliter hinc non eibis: ne sis frustra.
PERIPLECÒMENO, PIRGOPOLINICE, CARIONE
Giura che non darai fastidio a nessuno per questa faccenda, per le sferzate
che hai ricevute oggi e per quelle che riceverai ancora, se ti lasceremo andare vivo, nipotino di
Venere!
PIRGOPOLINICE Giuro per Giove e per Marte che non darò fastidio a nessuno per essere stato
1415 fustigato oggi, e anzi credo che sia stato un giusto castigo; e se non me ne vado via di qui senza testi... coli1, mi si usa anche troppa indulgenza in paragone della mia colpa.
PERIPLECOMENO E se infrangi il giuramento?
PIRGOPOLINICE Ch’io possa vivere sempre senza... quegli affari!
1420 CARIONE Un altro po’ di botte ancora; poi credo lo si possa mandar via.
PIRGOPOLINICE Gli dèi ti proteggano in eterno, poiché con tanta umanità hai assunto il mio
patrocinio!
CARIONE Allora dacci una mina d’oro.
PIRGOPOLINICE Perché?
CARIONE Perché oggi ti lascio andare coi testi... moni in salvo, nipotino di Venere! Per meno di
così non ci uscirai dalle mani: tientelo per detto.
(trad. E. Paratore)
PERIPLECOMENO
1. Qui e più sotto, con le espressioni intestatus, intestabilis, salvis testibus, Plauto gioca sul doppio significato
di testes (testimoni e testicoli). Nel linguaggio giuridico intestabilis o intestatus è la persona che, disonorata
per le sue cattive azioni, è stata privata della facoltà di testimoniare nei processi; naturalmente su questa nota
disonorevole Pirgopolinice e gli altri costituiscono, in base al duplice significato, l’idea di un disonore più
grande, quello del castigo subito da Abelardo. [N.d.R.] Pietro Abelardo, filosofo e teologo francese, fu evirato
per aver sedotto la giovane Eloisa.
Un’utopia per burla
«Certi momenti della vita sociale richiedono l’inversione, o quanto meno la sospensione dei rapporti sociologici autentici. Potremmo allora dire che il teatro
plautino è un teatro “carnevalesco”: e ricorrendo a
questa metafora, a questa categoria culturale, ci avviciniamo forse di più al cuore del problema.
Analogamente a ciò che accade nella festa di Carnevale, i ludi scenici plautini agiscono proprio come scompaginamento fittizio, come inversione giocosa dei rapporti sociologici usati. Il codice culturale si inverte, e ne
spunta una società governata dal semplice principio
del rovesciamento: quasi a mostrare come andrebbe il
mondo se tutto si rimescolasse. A Roma, com’è noto,
questo bisogno di sospensione e di rovesciamento carnevalesco si esprimeva soprattutto nella libertas Decembris dei Saturnali, allorché i rapporti fra padroni e
servi si invertivano e trionfava la giocosa libertà della
festa. Uno spirito analogo […] è forse ciò che spiega
tanta parte delle situazioni e del registro plautino.
I figli ingannano i padri, i servi trionfano sui liberi e
sui padroni. Non è un caso che siano proprio queste
due categorie di subalterni (gli uni per motivi di classe,
d’età, gli altri per statuto economico e sociologico) a
governare nel mondo della commedia. Il rovesciamento carnevalesco vuole che siano loro, per una volta, i
padroni, gli arbitri della situazione.
[…] Questa giocosa e “giovanile” rottura dell’ordine
presenta in Plauto altre manifestazioni collaterali che
rinviano anch’esse alla dimensione carnevalesca. In assenza di padroni e padri, servi e adulescentes si danno
generalmente alla vita allegra, godono e banchettano.
A questo proposito, c’è nella Mostellaria un’espressione abbastanza ricca di significato, là dove il fedele servo Grumione (quello che sta dalla parte della campagna, del padrone e dei buoni costumi) si scaglia contro
la depravazione in cui Tranione e Filolachete2 si sono
gettati (vv. 64 ss.): bibite, pergraecamini, / este, ecfercite
vos, “saginam caedite” (“bevete, vivete pure alla maniera dei Greci, mangiate, rimpinzatevi, fate strage di bocconi grassi”). Mangiare di grasso è per l’appunto la cifra dell’abbondanza e della festa: e non è certo casuale
che questa godereccia distruzione di beni alimentari
coincida proprio con il periodo in cui l’abituale detentore del potere (il padrone e padre) ha momentaneamente ceduto il suo scettro. Il buon Grumione non sapeva certo di anticipare, nei suoi amari e ironici imperativi, una vera e propria massima carnevalesca (Predica del beato Carlevale, 497 ss.): “ma zaffa et da’ de graffa / a ogni cosa buona e grassa”.
Alla fine, naturalmente, i rapporti reali verranno ristabiliti, e ciò tramite la rassicurante pratica del “perdono” esercitata dal padre verso il figlio e dal padrone
verso il servo. […] Anche qui, però, le analogie carnevalesche sono puntuali. Alla fine dell’antico carnevale
russo, dopo la libertas Decembris che ne aveva caratterizzato lo svolgimento, accadeva proprio che “i più
giovani si mettevano in ginocchio davanti agli anziani, i servi davanti ai padroni, e ciascuno chiedeva perdono per le colpe commesse…”. Dopo la decapitazione, la destituzione per burla del potere, tutto rifluisce
negli argini noti: ciascuno al suo posto, figli e servi al
rango di sottomissione che compete a ciascuna categoria. Ma la pratica del “perdono” significa anche che tutto quel che si è fatto era in qualche modo previsto: figli
e schiavi plautini (proprio perché perdonati e perdonabili) avevano in qualche modo il “diritto” di fare
quel che hanno fatto. Non è regola solo il ritorno alla
normalità – la prassi del perdono mostra che anche la
trasgressione era regola: la regola burlesca del rovesciamento, quella stessa regola che si fa qui struttura
1. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale,
Einaudi, Torino 1979.
2. Nella Mostellaria Tranione è il servo astuto, complice delle dissolutezze del giovane Filolachete.
PERCORSI TESTUALI
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
PERCORSI TESTUALI
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
dell’intreccio e codice, a un tempo, della composizione
teatrale.
[…]
Parassiti, schiavi, adulescentes si configurano in Plauto
come detentori della giustizia: la parte bassa, o marginale della comunità si impadronisce in scena dello ius
e lo piega alle più pazze delle necessità – pazze perché
realmente tali o pazze perché così eque e giuste da dover essere considerate, per forza ‘pazze’... Ora, nella sua
epistola sulla schiavitù (quella del celebre “servi sunt”:
immo homines) Seneca loda la saggezza dei maiores che
si adoperarono per togliere ogni motivo di astio da
parte dei servi verso i padroni, e ogni forma di offesa
da parte dei padroni verso i servi: “stabilirono un giorno di festa, non perché i servi mangiassero con i padroni solo in quello, ma almeno in quello permisero
loro di assumere cariche in casa e di emettere sentenze
(ius dicere), facendo della domus una piccola res publica’3. Del gioco dei Saturnali faceva dunque parte, sembrerebbe, anche il rivolgimento delle parti in campo
giuridico: quel giorno sono gli schiavi (d’altronde rivestiti di honores) che emettono sentenze alla maniera
del pretore.
[…]
Anche il linguaggio, questo linguaggio plautino così
ricco, corposo, quasi fisico, il metaforeggiare sfrenato,
il libero scomporsi e ricomporsi delle parole e il loro
riecheggiarsi in un universo apparentemente senza ordine e senza confini – tutto ciò rassomiglia troppo al
“carnevalesco” di Rabelais per non dover essere iscritto
nel medesimo orizzonte letterario. Leo Spitzer – commentando una “carnevalesca” ottava del Pulci, zeppa di
parole rare e difficili e giocata tutta su un incalzante
andamento anapestico dell’endecasillabo – aveva trovato una formula davvero felice per caratterizzare questo tipo di linguaggio: lo diceva inteso to create a “word
reality” not a “world reality” [a creare una “realtà delle
parole”, non una “realtà del mondo”]. Nella festa tutto si
fa abbondanza, accumulazione e consumazione gratuita: anche di parole. L’ingordigia linguistica dei servi
(e non solo dei servi) plautini è pari solo a quella – corporea – dei suoi parassiti, sempre pronti a tutto concedere per soddisfare le brame sfrenate del ventre. Siamo
di fronte, inutile dirlo, a un altro tema carnevalesco per
eccellenza: l’iperbole alimentare, la consumazione
smisurata come regola e misura della festa (“Santo
3. Seneca, Epistulae ad Lucilium, 47, 14.
4. M. Bachtin, L’opera, cit., pp. 102 ss.
Pancione” era il santo comunemente associato al Carnevale in Francia).
[…]
Anche l’insulto (insieme con la beffa) trova naturalmente posto in questo universo rovesciato e trionfante. Bachtin ci ha insegnato molto bene la funzione del
linguaggio di piazza – con la sua riduzione al “basso”
materiale e corporeo di ogni oggetto che capiti a tiro –
nella liberazione carnevalesca. In questo mondo rovesciato la terra, gli escrementi (trait d’union fra l’uomo
e la terra), così come certe parti “basse” del corpo umano (basse rispetto alla testa, la “parte sovrana”, potremmo dire con gli Stoici), non solo rientrano dall’esilio
culturale cui sono normalmente condannate, ma assumono una funzione dominante: ciò che era rimosso si
fa addirittura regola, diventa un paradigma capace di
ricodificare (rovesciando l’“alto” col “basso”) la realtà.
Di qui il carattere anche liberatorio, quasi fecondante
dell’insulto che “abbassa”.
[…]
Un altro aspetto, per concludere, di questo carnevale
linguistico che andiamo rintracciando: le percosse, i
supplizi. […] Plauto vi insiste con una puntigliosità
quasi idiosincratica: se non si assiste mai a una vera e
propria flagellazione di servi sulla scena, il fantasma
del patibolo, della sferza, del mulino e della tortura in
genere balena però frequentissimo nelle volute del linguaggio, spauracchio dei poveri servi. Spauracchio?
Non so. Certo non più di quanto non lo sia la morte
nelle rappresentazioni carnevalesche: amica e nemica
insieme, compagna e infida, termine e rinascita4. […]
La tortura e la sofferenza si fanno burla, il supplizio è
allegria. Il fatto è che la tortura e la sofferenza restituiscono contestualmente l’uomo alla sua fisicità: costituiscono l’altro “rimosso” corporeo che fa pendant con
il sudiciume e la trivialità dell’insulto, e sono così (paradossalmente) liberatorie e vivificanti. Il corpo percosso o smembrato riporta l’uomo a un “basso” quotidianamente negato dalle regole culturali. Anche qui (e
anche oggi) il Carnevale ci insegna. Le percosse, i colpi,
più o meno attenuati, più o meno simulati o simboleggiati, fanno parte integrante della sua rottura, della sua
utopia: quando si pretende che il verso, non il recto dell’esistenza sia la realtà».
M. Bettini, Introduzione a Plauto, Mostellaria. Persa,
Mondadori, Milano 1991, pp. 12-23 passim.
CAPITOLO 5 Plauto
7. Quelle di Plauto sono semplici traduzioni
dei modelli greci.
V
F
8. Uno dei procedimenti di rottura dell’illusione
scenica utilizzati da Plauto consiste
nell’inserzione, o intrusione, di riferimenti
greci in commedie di ambientazione romana. V
F
V ERIFICA
9. Plauto si preoccupa della coerenza e della
verosimiglianza della trama, ma non tanto
quanto Menandro.
V
F
CO M P L E TA M E N TO
10. Dalle commedie di Plauto emerge la sua
disapprovazione per la condotta immorale
dei Greci.
V
F
PLAUTO
A Completa il seguente testo inserendo i termini
mancanti.
CO L L E G A M E N TO
Tempo: 3 minuti.
Plauto nacque a Sàrsina prima del ..................; scrisse e portò
C Abbina i seguenti titoli di commedie plautine alla
loro traduzione.
sulle scene le sue commedie a partire dagli anni della
.............................................................................
. In vita godette fama di at-
tore di .................................................................................., tanto che il nomen
..........................................................
(in latino) alluderebbe alla ma-
schera di .....................................................; anche il cognomen .......................
..........................................
(in latino), che significa “.....................................
..............................................”
o “..................................................................” sarebbe
Tempo: 2 minuti.
1.
2.
3.
4.
5.
Aulularia
Miles gloriosus
Pseudŏlus
Mercator
Mostellaria
a) “Il soldato fanfarone”
b) “Il mercante”
c) “La commedia del fantasma”
d) “La commedia della pentola”
e) “Il bugiardo”
1. ..............; 2. ..............; 3. ..............; 4. ..............; 5. .............
forse un nome d’arte. Morì nel .......................... .
D Abbina i seguenti personaggi delle commedie
plautine al ruolo che rivestono.
V E R O / FA L S O
B Indica con una crocetta se ciascuna delle seguenti
affermazioni è “vera” (V) o “falsa” (F)
[un’affermazione si considera “falsa” sia quando lo
è totalmente sia quando lo è parzialmente, perché
compaiono uno o più elementi falsi].
1.
2.
3.
4.
5.
Servus callidus
Leno
Parasitus
Adulescens
Meretrix
a) Mercante e sfruttatore
di cortigiane
b) Giovane innamorato
c) Squattrinato
d) Servo scaltro, astuto
e) Cortigiana
Tempo: 1 minuto per ogni affermazione.
1. Plauto attinse elementi dalla commedia
nuova greca, ma non dalla tradizione popolare
V
della farsa italica.
F
V
F
2. Scrisse a partire dalla prima guerra punica.
E Sviluppa gli argomenti indicati
(max 15 righe per ogni risposta).
3. Varrone individuò trentuno commedie
di sicura autenticità plautina su centotrenta
che circolavano sotto il nome di Plauto.
V
F
4. In realtà le commedie plautine che
possediamo sono venti.
V
F
5. Ben sedici commedie su venti
presentano la stessa struttura fondamentale
della trama.
T R AT TA Z I O N E S I N T E T I C A
DI ARGOMENTI
Tempo: 20 minuti per ogni domanda.
V
6. Il “riconoscimento” è un tópos
frequentissimo nella commedia nuova e ricorre
V
in sei commedie plautine.
F
1. Gli schemi ricorrenti delle trame plautine.
2. Le caratteristiche della commedia di carattere, della
beffa e degli equivoci.
3. I rapporti fra la produzione teatrale di Plauto e i
modelli greci.
4. Il personaggio del servo nella commedia plautina.
F
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
Q U E S I T I A R I S P O STA S I N G O L A
F Rispondi alle seguenti domande
(max 5 righe per ogni risposta).
Tempo: 10 minuti per ogni domanda.
1. In che cosa consiste il “riconoscimento”?
2. In che senso Plauto sottolinea il carattere fittizio e
ludico dell’evento teatrale?
3. In che cosa consiste il procedimento del
“metateatro” adottato da Plauto? Cita qualche
esempio tratto dalle commedie.
4. Perché i personaggi plautini sono definiti “tipi
caricaturali”?
5. In che cosa è originale lo stile di Plauto?
6. Perché si parla di “ambiguità comica” nell’opera
teatrale plautina?
7. Che cosa si intende per “rovesciamento burlesco”
della realtà nel teatro di Plauto?
Q U E S I T I A S C E LTA M U LT I P L A
G Indica con una crocetta la risposta giusta tra
quelle proposte.
Tempo: 2 minuti per ogni domanda.
1. Plauto fu autore di:
a
■
b
■
c
■
d
■
preteste (tragedie di ambiente romano);
palliate (commedie di ambientazione greca);
coturnate (tragedie di ambientazione greca);
togate (commedie di ambiente romano).
2. Il vero eroe comico protagonista della commedia
plautina è:
a
■
b
■
c
■
d
■
il giovane innamorato;
il lenone cinico e arrogante;
il padre avaro e severo;
il servo scaltro e astuto.
3. I modelli greci a cui Plauto si rifà sono:
a
■
b
■
c
■
d
■
i rappresentanti della commedia antica;
i rappresentanti della commedia di mezzo;
i rappresentanti della commedia nuova;
gli stessi a cui si sono rifatti nella commedia
latina arcaica Livio Andronìco e Nevio.
4. Elemento strutturale del genere comico e quindi
presente senza eccezioni nel teatro di Plauto è:
a
■
b
■
c
■
d
■
il riconoscimento;
il lieto fine;
l’esiguo numero di battute di spirito;
la presenza di invenzioni bizzarre e di trovate
paradossali.
CAPITOLO 5 Plauto
c
■
5. L’Amphitrŭo è definita nel prologo “tragicommedia”
perché:
a
■
b
■
c
■
d
■
ha per protagonisti personaggi del mito;
ha un inizio tragico e una fine comica;
ha un inizio comico e una fine tragica;
ne sono protagonisti eroi, ma non divinità.
i frequenti riferimenti a leggi, istituzioni, usi e
costumi romani;
d i personaggi iperbolici esageratamente
■
grotteschi.
11. I personaggi plautini sono:
a
■
particolarmente individualizzati sul piano
psicologico;
b caratterizzati da una psicologia sfumata, per
■
renderli verosimili;
c tipi caricaturali, di cui Plauto accentua i tratti per
■
sfruttarne fino in fondo le potenzialità comiche;
d modelli di anticonformismo sociale.
■
6. Il tema dei simillimi consiste:
a
■
nello sdoppiamento dello stesso attore in due
ruoli diversi;
b nella presenza sulla scena di personaggi dal
■
carattere simile;
c nel meccanismo dello scambio di persona, per
■
cui ciascuno dei due simillimi capita in scena al
posto dell’altro e viceversa;
d in un gioco di parole basato su doppi sensi e
■
somiglianze a livello verbale, dal quale nascono
divertenti equivoci.
7. L’espressione vortere barbare significa:
a
■
tradurre in una lingua “barbara”, cioè “non
greca”;
b
■ volgere dal greco in latino, assumendo il punto
di vista dei Greci;
c volgere dal latino in greco, assumendo il punto
■
di vista dei Romani;
d parlare una lingua “barbara”, straniera.
■
8. La tecnica della “contaminazione” consiste:
a
■
nell’inserzione in una commedia, derivata da un
determinato originale greco, di una o più scene,
talora anche di uno o più personaggi, tratti da
un’altra commedia anch’essa greca;
b nell’inserimento nel modello principale di una o
■
più scene tratte da altre commedie latine;
c nella rielaborazione e nel riadattamento di
■
modelli greci per la scena romana attraverso
un’operazione di semplice traduzione e cucitura;
d nell’introduzione nella trama di una commedia,
■
modellata su un determinato originale greco, di
scene tratte da una tragedia greca dello stesso
autore o anche di autori diversi.
9. Il termine cantica nelle commedie plautine indica:
a
■
b
■
c
■
d
■
intermezzi musicati tra due sequenze recitate;
intermezzi recitati tra due sequenze musicate;
recitativi privi di accompagnamento musicale;
veri e propri pezzi cantati con
accompagnamento musicale.
10. Elementi tipicamente e originalmente plautini
sono:
a
■
i riferimenti a problemi reali e quotidiani, quali
la disponibilità delle donne e l’uso del denaro
nella famiglia;
b le trovate di comicità buffonesca;
■
1.
..............
5. ..............
9.
2. ..............
6. ..............
10. ..............
3. ..............
7.
11.
4. ..............
8. ..............
..............
..............
..............
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
CAPITOLO 5 Plauto
L AVORARE SUI TESTI
I due Sosia (Amphitrŭo, atto II, vv. 577-615)
Il dialogo tra Anfitrione e il suo servo Sosia occupa interamente la scena, che si svolge a Tebe, lungo la strada che conduce a casa del padrone.
Anfitrione non riesce a credere alla storia di Sosia, che si dichiara “doppio”, affermando di trovarsi nello stesso tempo lì col padrone, ma anche davanti alla porta di casa: in realtà lo spettatore sa,
fin dal I atto, che il “Sosia” incontrato dal vero Sosia sulla soglia di casa è il dio Mercurio, il quale
ha assunto le sembianze del servo perché inviato in scena dal padre Giove.
AMPTHITRUO, SOSIA
ANFITRIONE, SOSIA
SOS.
Equidem decies dixi:
domi ego sum, inquam, ecquid audis?
et apud te adsum Sosia idem.
Satin hoc plane, satin diserte,
ere, nunc videor
tibi locutus esse?
Te l’ho detto dieci volte: io sono a casa, e
lo ripeto. Mi senti? E tuttavia sono qui da te,
io, Sosia. Ti sembra che sono stato chiaro,
padrone?
AMPH.
Vah,
apage te a me.
ANFITRIONE
SOS.
SOSIA
Quid est negoti?
580 AMPH.
Pestis te tenet.
SOS.
SOSIA
E perché?
ANFITRIONE
Nam quor istuc
dicis? equidem valeo et salvos
sum recte, Amphitruo.
SOSIA
AMPH.
At te ego faciam
hodie proinde ac meritus es,
ut minus valeas et miser sis,
salvos domum si rediero: iam
585 sequere sis, erum qui ludificas dictis delirantibus,
qui quoniam erus quod imperavit neglexisti
[persequi,
nunc venis etiam ultro inrisum dominum: quae
[neque fieri
possunt neque fando umquam accepit quisquam
[profers, carnifex;
quoius ego hodie in tergum faxo ista expetant
[mendacia.
ANFITRIONE
590 SOS.
SOSIA
Amphitruo, miserrima istaec miseria est
[servo bono,
apud erum qui vera loquitur, si id vi verum
[vincitur.
Puah! Stammi lontano.
Sei impestato.
Ma perché parli così? Io sono sano e
vegeto, Anfitrione.
Per ricompensa, ti farò meno sano
e meno vegeto, solo che riesca a ritornare a
casa. Avanti, seguimi, tu che sfotti il padrone
con quei discorsi deliranti. Hai trascurato i
miei ordini, prima, e ora vieni anche a
buffonarmi. Razza di boia, tu mi gonfi la testa
con cose che non possono essere, che nessuno
ha mai sentito. Ma te le farò fischiare sulla
schiena, le tue panzane.
AMPH.
Quo id, malum, pacto potest nam
[(mecum argumentis puta)
fieri, nunc uti tu <et> hic sis et domi? id dici volo.
ANFITRIONE
SOS.
SOSIA
Sum profecto et hic et illic. Hoc cuivis
[mirari licet,
595 neque tibi istuc mirum magis videtur quam mihi.
AMPH.
Nihilo, inquam, mirum magis tibi istuc
[quam mihi;
neque, ita me di ament, credebam primo
[mihimet Sosiae,
donec Sosia illic egomet fecit sibi uti crederem.
Ordine omne, uti quicque actum est, dum apud
[hostis sedimus,
600 edissertavit. Tum formam una abstulit cum
[nomine.
Neque lac lactis magis est simile quam ille ego
[similest mei.
Nam ut dudum ante lucem a portu me
[praemisisti domum.
Certo che sono qui e sono là. È assurdo
per tutti, lo ammetto. La tua meraviglia non è
più grande della mia.
ANFITRIONE
SOS.
SOSIA
A.
Quid igitur?
ANFITRIONE
S.
Prius multo ante aedis stabam quam illo
[adveneram.
SOSIA
AMPH.
SOS.
Quas, malum, nugas? satin tu sanus es?
Sic sum ut vides.
605 AMPH.
Accidenti, stai scherzando? Sei
sano di mente?
ANFITRIONE
SOSIA
Sono come mi vedi.
SOS.
SOSIA
SOS.
Quis te verberavit?
Egomet memet, qui nunc sum domi.
Be’?
Molto prima di arrivare a casa, io stavo
là, davanti a casa, io.
ANFITRIONE
Fateor, nam sum obtusus pugnis pessume.
Come?
Ma sì, te lo ripeto. La faccenda riesce
strana tanto a te quanto a me. Che gli dèi mi
aiutino, dapprincipio io non credevo a me
stesso, Sosia, finché l’altro Sosia, io, fece sì che
io credessi a lui. Mi ha raccontato punto per
punto come le cose sono andate, mentre noi
eravamo alla guerra. Allora mi ha rubato il
nome e la figura. Una goccia di latte non è più
simile a un’altra di quanto lui è simile a me.
Quando tu, prima dell’alba, dal porto mi hai
mandato avanti, verso casa...
Huic homini nescio quid est mali mala
[obiectum manu,
postquam a me abiit.
AMPH.
Anfitrione! La disgrazia più disgraziata
per un buon servo, il quale dice la verità al suo
padrone, è quando la verità è vinta dalla
violenza.
Quo modo?
Ragiona un poco, accidenti. Come
può essere che tu sia qui e anche a casa? Voglio
che me lo spieghi.
A questo qui, dopo che mi ha
lasciato, una malefica mano gli ha lanciato un
malefizio.
Proprio così. Mi ha rintronato di botte.
ANFITRIONE
SOSIA
Chi ti ha pestato?
Mi ha pestato io, l’io che adesso sono a
casa.
AMPH.
Cave quicquam, nisi quod rogabo te, mihi
[responderis.
Omnium primum iste qui sit Sosia, hoc dici volo.
Attento! Guai se non rispondi a
tono a ciò che chiedo. Punto primo: voglio
che tu mi dica chi è questo Sosia.
ANFITRIONE
TOMO A DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI SILLA • L’età dell’imperialismo e l’ellenizzazione della cultura romana
SOS.
Tuos est servos.
SOSIA
610 AMPH.
Il tuo servo.
Mihi quidem uno te plus etiam est quam
[volo,
neque postquam sum natus habui nisi te servom
[Sosiam.
Io di Sosia ne ho uno e me ne
avanza. Da quando sono al mondo, di Sosia
non ho altri che te.
SOS.
SOSIA
At ego nunc, Amphitruo, dico: Sosiam
[servom tuom
praeter me alterum, inquam, adveniens faciam ut
[offendas domi,
Davo prognatum patre eodem quo ego sum,
[forma, aetate item
615 qua ego sum. quid opust verbis? geminus Sosia
[hic factust tibi.
■ CO M P R E N S I O N E CO M P L E S S I VA
1. Quali sono le caratteristiche peculiari della
personalità dei protagonisti?
2. Quale nota polemica emerge dalla rivendicazione di
verità da parte del servo nei confronti del padrone?
3. La comicità della scena è legata alla terribile prova
cui è sottoposto Sosia, che subisce i rimproveri
di Anfitrione, arrivando quasi a una crisi d’identità.
Quali sono i versi in cui emerge il tema
del “doppio”?
■ A N A L I S I D E L T E STO
1. Quale costruzione osserva videor al v. 579?
2. Quale coppia allitterante troviamo al v. 585?
ANFITRIONE
Ma io, adesso, ti dico: Anfitrione,
arrivando a casa, ti farò sbattere contro il tuo
servo Sosia, un altro Sosia oltre me, nato dallo
stesso Davo mio padre, che ha il mio aspetto e
la mia età. Servono altre parole? Questo Sosia
qui ti si è raddoppiato.
(trad. V. Faggi)
9. Che cos’è primo al v. 597?
10. Hostis al v. 599 è un arcaismo retto da apud: per che
cosa sta?
11. Al v. 605 si fa riferimento a una “malefica mano”
(mala manu) che avrebbe prodotto la pazzia del servo;
Sosia invece interpreta alla lettera le parole mala manu
e che cosa intende (v. 607)?
12. Cave del v. 608 (lett. “bada di non... ) viene tradotto
con “Attento!”: quale costruzione osserva?
13. Sosiam servom tuom del v. 612 è complemento
oggetto di quale verbo?
14. Che tipi di ablativi sono rispettivamente Davo patre,
forma, aetate al v. 614?
15. Al v. 615 Quid opust (= opus est) verbis? è tradotto
”Servono altre parole?”: qual è la traduzione letterale e
quale costruzione osserva qui opus est?
3. Che cos’è fando al v. 588?
4. Individua la figura etimologica presente al v. 590.
5. Alla fine del v. 591 leggiamo vi verum vincitur: di
quale figura retorica si tratta?
6. A che cosa corrisponde nel testo latino (v. 592)
l’”accidenti” della traduzione? Di quale accusativo si
tratta?
7. Che cos’è hic al v. 593? Con che cosa si può
confondere?
8. Al v. 595 che cosa osservi dal punto di vista del
suono in mirum magis … quam mihi?
■ APPROFONDIMENTI
■ Dopo aver eseguito l’analisi del passo, sulla base
del confronto con il testo Lo scambio di persona (T5) e
facendo riferimento alla scheda di approfondimento “I
simillimi, il sosia, il doppio” (˘ p. 00), produci un breve
scritto argomentativo, in cui dovrai mettere in
evidenza la significatività del tema del doppio nelle
commedie plautine, effettuando eventuali
collegamenti con opere della letteratura italiana o
straniera che tu conosci.