Natalia Aspesi

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Natalia Aspesi
Natalia Aspesi
Natalia Aspesi, nella sua carriera di giornalista, ha trattato di cinema, moda, musica, ma come inviata ha anche seguito i principali eventi di cronaca
del nostro paese. Ha potuto osservare direttamente i fenomeni di costume e
l’evoluzione del ruolo della donna alla fine degli anni ’60, delineando il
contesto sociale in cui prendono vita il movimento studentesco e quello operaio.
Lei nel ’69 era giornalista a «Il Giorno», già osservatrice delle vicende milanesi anche dal punto di vista del costume. Come vedeva la borghesia, i
giovani, le donne? Come guardava a quel momento così importante per gli
esiti che avrà successivamente?
Quel momento è diventato importante all’improvviso, anche se
c’era stata una preparazione precedente di tipo, se posso essere superficiale, estetico. I giovani avevano già avuto una forma di ribellione verso i padri, e quindi verso la società adulta, da un punto di
vista estetico, appunto. I ragazzi si facevano crescere i capelli, una
cosa assolutamente impensabile, per i genitori era un’offesa drammatica alla mascolinità del figlio, adesso non riusciamo più a ricordare quanto ciò fosse drammatico per i genitori. Mentre le figlie
avevano tagliato le gonne, cioè avevano scelto la minigonna. Tutto
questo nei primi anni ’60. C’erano stati anche episodi tragici, di genitori che avevano addirittura sparato alle figlie che osavano uscire
di casa in minigonna. C’è stata dunque una prerivoluzione giovanile, dopodiché, è ovvio, è diventata una cosa più seria con le rivolte
studentesche. La borghesia aveva molta paura di questo, aveva paura perché i suoi figli partecipavano o perché sanbabilini, cioè di de67
stra, chiaramente fascisti, o perché di sinistra, con tutti i simboli
correlati, come la kefia, i giubbotti ecc. La borghesia aveva paura di
qualcosa che veniva a sconvolgere la sua pacifica realtà di gente con
denaro, gente perbene. Io ricordo, ad esempio, per quanto riguarda
le donne, che in quegli anni avevo delle giovani amiche alla facoltà
di Sociologia di Trento, il cui unico problema era finalmente liberarsi della verginità; questo, nel ’68, era un affare quasi impossibile,
perché i ragazzi, i compagni di università si rifiutavano, avevano
paura di doversi poi assumere delle responsabilità. Quindi, anche in
questo senso, la vera prima ribellione, a parte la minigonna, è stata
delle ragazze che volevano ribellarsi a un simbolo della loro femminilità, della loro integrità e del loro, diciamo, valore mercantile.
Mi aveva colpito questa entrata in campo − penso all’ingresso nella fabbrica
− di questa massa imponente di giovani ragazzi.
Le prime avvisaglie di lotta sono state di studenti, non di operai.
Sì, il ’68 viene definito studentesco e il ’69 operaio. Poi c’è stato l’incontro
tra classe operaia, come si diceva allora, e movimento studentesco, l’unico in
Europa. Anche in questa storia c’è una forte presenza delle giovani ragazze,
delle giovani donne, operaie che si trovano in una condizione particolare e,
entrando in scena, diventano importanti.
Beh, perché stava nascendo, poi si sarebbe sviluppato negli anni
’70, il femminismo. Iniziavano a formarsi moltissimi gruppi, anche
tra le operaie, che facevano rivendicazioni impensabili anche per i
compagni di partito o del Partito comunista. Per esempio, mi ricordo che a Padova c’era un gruppo per il salario domestico che lottava
affinché fosse riconosciuto, oltre a quello del lavoro, un salario per
il lavoro che le donne svolgevano a casa. La cosa era del tutto impensabile, era stravagante ed era anche combattuta dalla sinistra
che diceva: «Se le donne prendono un salario per stare in casa non
si libereranno mai dalla domesticità, non avranno un lavoro, non
entreranno in fabbrica». Ma il problema non era quello: in realtà,
per le donne, il lavoro era comunque scarso e quindi molte, soprattutto non più giovanissime, erano obbligate alla vita domestica. Allora tanto valeva che questa vita domestica fosse pagata dallo Stato!
Avevano fatto un elenco con il valore di tutte le attività casalinghe:
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lavare i piatti, lavare i pavimenti, allevare i bambini, tenere i vecchi
in casa; è stata un’iniziativa ripresa poi negli anni. Nacque dunque a
Padova, da un gruppo universitario legato, però, alle operaie della
zona, per ottenere il riconoscimento della domesticità come lavoro
necessario alla società, indispensabile.
Quella società era così complessa, con tante divisioni, anche di tipo sociale, ma
ciascuna di queste aveva, in fondo, una sua identità. Un’identità che era data
da come vestivano, leggevano, consumavano, andavano al cinema…
Beh, intanto questa società era, in parte, una società colta. A Milano c’erano una borghesia colta, ovviamente di sinistra o di estrema sinistra, e una borghesia invece meno interessata alla cultura e
che quindi non aveva capito cosa stava succedendo e aveva in odio
ogni tentativo di ribellione. Quest’ultima fu la società che chiuse le
porte a Camilla Cederna, la quale faceva parte di questa borghesia
ricca – non ricchissima perché le grandi ricchezze forse allora c’erano ma erano usate in modo diverso: erano le grandi ricchezze industriali, investite anche per le industrie, non erano tutti spreconi come adesso. Allora c’era proprio una separazione anche estetica; per
esempio, per le donne, non esisteva la moda che c’è oggi, quella che
si chiama «moda pronta», che tutti ormai portano a vari prezzi, ora
c’è quella costosissima e quella che costa poco ma che comunque è
sempre industriale. Allora c’era l’alta moda, a cui avevano accesso
solo le donne molto abbienti, e quella fatta dalle sartine: tra le due
c’era un divario di prezzo incredibile. In quell’epoca in Italia c’erano, mi pare, 400 mila sarte che facevano i vestiti per le ragazze e
per le donne qualsiasi, e poi c’erano le signore che andavano a Parigi a comprarsi gli abiti. Quindi, in strada, c’era questa gran diversità tra le donne dell’alta borghesia, della borghesia e le donne
qualsiasi, non necessariamente operaie, anche impiegate.
La parte di società più vistosa aveva il suo momento principe alla
prima della Scala. Ricordo un episodio importante, quello di Capanna, accolto con uno stupore incredibile. Quel momento, quell’esibizione di abiti meravigliosi (che non si vedono più adesso) e molto costosi, di pellicce e di gioielli era proprio un momento di glorificazione della ricchezza milanese, la prima della Scala! Il fatto che
un gruppo di studenti capitanati da Capanna, non solo la contestasse, ma la macchiasse, gettando uova – adesso non mi ricordo nean69
che più, ma io ero lì con loro – era un modo di insozzare un momento importantissimo della vita milanese e la borghesia si offese
forse più per questo che per episodi più gravi. Fu una cosa orrenda
perché osarono, ripeto, non solo ribellarsi ma macchiare quella serata così importante allora.
In fondo c’era una grande richiesta di cambiamento, era una rottura generazionale…
Era una rottura generazionale perché la richiesta di cambiamento
non era trasversale, era dei giovani, era la cosiddetta «ribellione ai
padri», quindi alla società.
E questo si muoveva sia in direzione del lavoro perché chiedeva migliori
condizioni e più dignità, sia nei confronti della scuola.
Certo, era la ribellione allo statu quo, a quello che fino a quel momento era stato più o meno accettato, la diversità di classe, di guadagno, il dominio dei padri, dei dirigenti, dei padroni, di chiunque
avesse un potere in mano.
Come visse la vicenda della strage: dov’era, dove si trovava, come venne a
sapere, che cosa pensò?
Guardi, io, come cronista, ho seguito la strage di Bologna1, quella
di Brescia2… le ho seguite tutte. Allora, non so per quale circostanza, sinceramente, non seguii come giornalista quell’evento. Beh, me
la ricordo comunque come qualcosa che avrebbe influito moltissimo
sul paese in modo molto negativo, pensavo che sarebbe stata una
tragedia di cui avremmo subito i contraccolpi per molto tempo. A
parte i sentimenti del momento, pensavo che avremmo avuto tutti
noi un futuro molto drammatico. Seguivo moltissimo Camilla Cederna nei suoi scritti su questo argomento, come quelli su Pinelli…
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Il 2 agosto 1980 esplode una bomba nella sala d’attesa della stazione di Bologna
provocando 85 morti. Furono condannati tre neofascisti del NAR come esecutori
della strage e numerosi esponenti dei servizi segreti per depistaggio.
2
L’attentato di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuto il 28 maggio 1974, fu opera di gruppi neofascisti. Nella vicenda sono coinvolti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi
e Pino Rauti, imputati anche per la strage di Piazza Fontana.
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non riesco neanche a parlarne, ma queste cose ci avevano molto
colpito. Le versioni della sua morte sono state tante; e lì cominciai
anche ad aver paura di una difesa da parte dello Stato, possibile in
moltissimi modi, e gli scritti di Camilla per me furono essenziali. Io
ho sempre creduto a quello che lei ha scritto fin quando non è stato
contestato, probabilmente anche a ragione, ma allora non riuscivo a
pensare che le soluzioni sarebbero state altre.
Lei lavorava in redazione in un giornale particolarmente attento, con lei
c’era Giorgio Bocca…
Sì, tenga conto che io allora ero una «signora», come si diceva,
una donna, la sola che c’era a Il Giorno. Mi facevano fare più il Cantagiro che la cronaca.
Questo è interessante. Ho seguito un po’ la sua vicenda personale e professionale: nella sua biografia si dice che lei veniva un po’ discriminata,
c’erano questi uomini che seguivano le cose importanti e invece lei veniva
mandata in giro…
Sì, andavo in giro, per fare dei servizi al Festival di Sanremo, a
seguire le prime riunioni femministe che venivano prese in giro, ridevano tutti… Intervistavo i cantanti, le attrici. Quindi ero nel lato
frivolo del giornalismo. Di moda però non si parlava ancora, in
realtà c’era già chi ne parlava ma non io. Dopo, invece, ho cominciato a far la cronaca, quella che chiamavamo cronaca nera, ma che
invece era cronaca politica; la strage di Brescia l’ho fatta tutta io.
Ma in quell’anno ha fatto Sanremo?
Sì, io lo facevo sempre. Quando io entrai in redazione c’era Adele
Cambria e, siccome il nostro Il Giorno era un giornale fortemente
democratico, lei si licenziò: su trecento uomini c’era posto per una
sola signora… per far vedere che il giornale era democratico. Mi assunsero come impiegata, non come giornalista, ma facevo la giornalista. Poiché non volevano una donna in redazione perché poteva
turbare gli animi dei cronisti mi fecero inviata: sono stata avvantaggiata da uno svantaggio, secondo loro l’importante era che non andassi in redazione.
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Cominciavano già a introdursi elementi per il riconoscimento del valore
della donna, sia quando è operaia, sia quando fa un altro lavoro?
Guardi, a me andava bene perché mi occupavo di cose di cui gli
uomini non volevano occuparsi, di eventi che poi sono diventati importantissimi: per esempio, il funzionamento degli ospedali, gli
aborti clandestini. Andavo a fare le inchieste sulle maestre nella
Carnia, tutte cose che gli uomini disdegnavano. Poi invece sono diventati temi importantissimi. In seguito il giornale ha cominciato a
usarmi in altro modo, non nella politica, ma in quella che era cronaca, anche se era una cronaca tragica e quindi politica. E dopo sono arrivate tante altre donne. Mi ricordo un episodio che ora non
c’entra nulla; allora mi piaceva tanto il cinema come adesso, intervistavo gli attori però non parlavamo di film. Un giorno eravamo tra
colleghi, c’era anche un critico, Pietrino Bianchi, uno molto osannato, e discutevamo sul nome di un regista di cui non si ricordavano il
nome: io lo dissi, mi guardarono terrorizzati e mi dissero: «Non fare
la saccente». Eh, non lo ricordavate e io l’ho ricordato ma non volevo darmi delle arie! Ma in quanto ero una ragazza era grave che io
sapessi una cosa che loro non ricordavano.
Torniamo alla strage, perché prima ha detto una cosa: «quegli anni erano
anni di contestazione trasversale», lei ha detto: «si contestava il potere».
Qualunque genere di potere, il potere del padre, il potere della madre, il
potere del padrone, si era insofferenti al potere. Era un’affermazione di individualismo e di libertà, ma di individualismo nel senso migliore del termine. In questo contesto, individuare gli anarchici come colpevoli era perfetto,
forse neanche chi li aveva scelti aveva un’immagine così chiara, erano proprio perfetti in questo disegno.
Certo, lo erano, sì, ha ragione.
Cosa andava a vedere al cinema?
Andavo a vedere tutto perché amavo molto il cinema. C’erano
film bellissimi, come Il bell’Antonio, tutti quelli con Volonté, ma forse
sono successivi. Il cinema italiano per noi era il più bello. Certe volte anche il cinema europeo, mentre quello americano era disprezzatissimo.
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C’è un film, «Contratto», fatto da Gregoretti, in cui vengono messe in scena
lotte operaie. Non ebbe una grande circolazione perché era un film già anticipatore e di rottura, perché la valenza del cinema italiano è data dal fatto
che anticipa molti dei comportamenti degli italiani dal punto di vista del costume. Basti pensare a un film come «Divorzio all’italiana».
Ma lei si ricorda, ancora agli inizi degli anni ’60, come reagì la
borghesia milanese per La dolce vita? Sputò in faccia… però, vede,
Fellini fu un anticipatore. Mentre in quegli anni si andava pazzi, mi
spiace dirlo, per Antonioni che oggi è inguardabile. Se si vede L’avventura oggi, dopo cinque minuti si vuol tirare un sasso nello schermo
mentre La dolce vita è tuttora bellissimo, perché Fellini era un genio
al di là del cinema. Lui aveva capito tutto della società.
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