assaggio Masaccio

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assaggio Masaccio
Nella stessa collana:
Raffaele Monti, Piero della Francesca
Raffaele Monti, Leonardo da Vinci
Cristina Acidini Luchinat, Raffaello
Raffaele Monti, Michelangelo Buonarroti
Ilaria Taddei, Botticelli
Angelo Tartuferi
Letture e percorsi
Masaccio
L’Autore desidera ringraziare Miklós Boskovits, Ornella Casazza, Alessandro Cecchi.
© 2003 Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino
Una realizzazione editoriale
s i l l a b e s.r.l.
Livorno
www.sillabe.it
Prima edizione digitale Gennaio 2016
ISBN 978-88-8347-845-1
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La posizione di preminenza assoluta nel campo della pittura saldamente occupata da Masaccio ancora ai nostri giorni, nel contesto dei padri fondatori del Rinascimento italiano, rimonta al
lucidissimo commento storico-critico della sua attività pronunciato dal Vasari nella prima edizione delle Vite (1550): “E gli artefici
più eccellenti, conoscendo benissimo la sua virtù, gli hanno dato
vanto di avere aggiunta nella pittura vivacità ne’ colori, terribilità
nel disegno, rilievo grandissimo nelle figure, et ordine nelle vedute degli scorti; affermando universalmente che da Giotto in qua,
di tutti i vecchi maestri Masaccio è il più moderno che si sia visto”. D’altra parte, il padre fondatore della storia dell’arte non
faceva nient’altro che storicizzare un’opinione straordinariamente
lusinghiera che dovette essere corrente già pochissimi anni dopo
la prematura scomparsa dell’artista di San Giovanni Valdarno. Ciò
è testimoniato in maniera inequivocabile dalla citazione di Leon
Battista Alberti nel trattato Della pittura (1436), oppure dalla folgorante sintesi critica dell’umanista Cristoforo Landino (1481):
“Fu Masaccio optimo imitatore di natura di gran rilievo universale buono componitore et puro sanza ornato”.
Non è certo meno importante l’ideale passaggio di consegne fra
Giotto e Masaccio tratteggiato da Leonardo da Vinci (Trattato
della pittura, 1500 ca), che anticipa di quattrocento anni la brillante e fortunatissima formula berensoniana di Masaccio quale
“Giotto born again” (1896). E non a caso è stata opportunamente sottolineata la sostanziale omogeneità di fondo che caratterizza la vicenda critica masaccesca nel corso di sei secoli, incentrata su pochissimi punti fermi che sono stati a turno approfonditi, espressi in accenti diversi, trascurati e talvolta quasi accantonati nelle varie epoche.
In primo luogo, il ruolo di fondatore della pittura moderna, che
come già detto apparve chiaramente ai suoi contemporanei e,
un secolo e mezzo più tardi, fu sancito dalla fondamentale sistemazione storico-critica del Vasari. Un ruolo che però si presenta assolutamente integro e vitale ancora ai giorni nostri dopo la
memorabile mostra di San Giovanni Valdarno, organizzata nella
locale Casa di Masaccio dal settembre 2002 all’inizio del 2003 in
occasione del sesto centenario della sua nascita. Non può sorprendere più di tanto, quindi, il fatto che l’“attualità” del linguaggio masaccesco sottolineata sovente dai critici sia in grado di
tradursi in termini di straordinaria evidenza visiva e comunicativa, tali da stimolare la nostra percezione di uomini del ventunesimo secolo. Così, il vicolo con gli storpi e i miserabili in cui si
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La Resurrezione del
figlio di Teofilo e
San Pietro in cattedra,
part., 1427 ca.,
affresco,
cm 230 × 598.
Firenze, Santa Maria
del Carmine, Cappella
Brancacci
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svolge la scena con San Pietro che risana gli
infermi con la propria ombra nella Cappella
Brancacci al Carmine, può davvero sollecitarci analogie più o meno concrete con
gli innumerevoli scenari di miseria e desolazione umana che il circo mediatico ci
propone quotidianamente!
Un altro punto basilare è dato dalla profonda essenzialità umana dell’arte masaccesca, già compresa e stupendamente sintetizzata a suo tempo dal Landino. È bene
precisare tuttavia che si tratta di un’essenzialità assai multiforme, che giunge sì ai livelli etico-filosofici, ma che prima di tutto
riguarda l’ordine figurativo e condiziona
soprattutto gli aspetti tecnico-artigianali
dell’operare artistico. A proposito della
decorazione delle aureole e delle altre
parti marginali, ad esempio, è pur vero che
non sappiamo con precisione quanto esse
ricadessero sotto la responsabilità del maestro che aveva ricevuto la commissione,
ma non sarà probabilmente un caso che in
genere quelle presenti nei dipinti masacceschi non risultano all’altezza – per ricchezza e raffinatezza del disegno, per qualità
esecutiva –, se paragonate non soltanto agli
esempi più fulgidi del secolo precedente (la
cerchia di Simone Martini), ma anche e soprattutto ai pittori contemporanei sui versanti del Tardogotico e dello Pseudo-Rinascimento (si pensi ad uno Starnina o a Gentile da Fabriano).
La forza dirompente sul piano psicologico-emotivo della pittura
masaccesca è invece una conquista più recente della critica romantica tedesca (Rumohr; Hegel) della prima metà dell’Ottocento, che portò tra l’altro alla classica antitesi Masaccio-Beato
Angelico, cui si sono nutrite molte generazioni di studiosi e di
studenti: naturalista estremo tutto volto all’esteriorità e poco
incline ai problemi della fede, il primo; idealista convinto, nonché
devotissimo e sempre tendente all’introspezione psicologica, il
secondo. È sorprendente constatare quanto appaia completamente superata oggi tale formula critica, soprattutto – occorre
rimarcarlo – nei riguardi dell’Angelico, che alla luce degli studi
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San Pietro risana
gli infermi con la
propria ombra,
1425-1426 ca,
affresco,
cm 230 × 162.
Firenze, Santa
Maria del Carmine,
Cappella Brancacci
degli ultimi anni è assurto al ruolo di comprimario paritetico del
pittore valdarnese e appare ora quasi un suo alter ego.
Ancora oggi, tuttavia, non finisce di stupire la particolarissima
vicenda umana di Tommaso di Ser Giovanni, stabilitosi a Firenze
giovanissimo – forse appena sedicenne – proveniente dal borgo
natio di Castel San Giovanni (l’attuale San Giovanni Valdarno),
dove nacque il 21 dicembre 1401, appoggiandosi presso la bottega di Niccolò di Ser Lapo. Di quest’ultimo sappiamo pochissimo, oltre al nome, ma indagini recenti (Padoa Rizzo) hanno
sottolineato il fatto che era figlio di un notaio, proprio come
Masaccio, e la bottega che egli dividerà con il suo giovane “discepolo” si trovava in piazza Sant’Apollinare (l’attuale piazza San
Firenze, all’angolo con via della Condotta): a pochi passi cioè
dalla sede della potente Arte dei Giudici e Notai nell’odierna via
del Proconsolo.
Non sembra quindi azzardato ipotizzare un ruolo di qualche
importanza per quest’Arte riguardo l’affermazione del giovanissimo Masaccio nel capoluogo toscano, non fosse altro che per
garantirgli un sistema di relazioni sociali: lo stesso Filippo Brunelleschi, indicato concordemente dalle fonti come maestro di
Masaccio nel campo della prospettiva, era figlio di un notaio.
Certo dal punto di vista strettamente storico-artistico non si
potranno trarre conclusioni significative fino a quando Niccolò di
Ser Lapo e Francesco di Jacopo Arrighetti (l’altro socio più anziano della “compagnia”) resteranno “nomi senza opere”. In ogni
caso, per tornare a Masaccio, un giovane venuto sì dalla campagna,
ma tutto sommato ben introdotto; e nonostante ciò, a conferma
delle contraddizioni che ne segneranno la breve esistenza terrena,
un uomo sempre alle prese con i debiti, come ci dicono i pochi
documenti che lo riguardano. Un giovane di genio ammesso a
pieno titolo nella cerchia assai ristretta ed elitaria dei padri fondatori dell’arte nuova, portatrice di un gusto tutt’altro che popolare presso gli strati meno elevati della società fiorentina del
tempo, sia economicamente che culturalmente: da questo punto
di vista resta assai penetrante l’analisi di Antal, soprattutto se
purgata della forte carica ideologica. Molto meno sorprendente è
invece, tenendo presente l’imprescindibile matrice artigianale comune a questi artefici straordinari, il fatto che Masaccio fosse
pagato insieme a Niccolò di Lapo all’inizio del giugno 1425 dai
Canonici della cattedrale di Fiesole per la doratura di alcuni candelieri processionali per la festa di Sant’Alessandro.
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fino ad ora senza alcun risultato. Le copie grafiche dell’affresco
sin qui identificate, tutte parziali e risalenti al secolo xvi, ci
tramandano soltanto un pallido ricordo di quest’opera di grande suggestione, che probabilmente fu alla base del grande sviluppo e dell’interesse per il ritratto che caratterizzò la pittura
fiorentina quattrocentesca a partire dal secondo quarto del
secolo. Ma soprattutto, com’è stato sottolineato dalla maggior
parte degli studiosi, la Sagra masaccesca promuoveva un evento importante della cronaca fiorentina a “historia”, segno inequivocabile del forte sentimento di autocoscienza civile e politica della classe dirigente cittadina, nonché fondatrice di un
autentico rinascimento culturale. Tuttavia, anche aldilà dei
possibili richiami più o meno diretti al rilievo celebrativo della
tradizione classica sul genere dell’Ara Pacis Augustae, in termini più strettamente figurativi dobbiamo rimpiangere probabilmente una presentazione di figure in rigorosa prospettiva secondo le regole codificate giusto in quegli anni dal Brunelleschi,
caratterizzata inoltre da un vivacissimo interesse per l’individuazione ritrattistico-psicologica non estraneo forse anche a
certi aspetti dell’universo tardogotico. In altre parole, una solenne e ispirata “architettura di corpi” – antica e moderna al
tempo stesso, anzi soltanto masaccesca –, come la possiamo
ritrovare unicamente nel Tributo e nella Resurrezione del figlio di
Teofilo sulle pareti della Cappella Brancacci, nell’Adorazione dei
Magi della Galleria di Berlino, un tempo al centro della predella del polittico dipinto per il Carmine di Pisa, oppure nella tavola con San Girolamo e San Giovanni Battista della National
Gallery di Londra appartenente in origine al polittico dipinto
per la chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma.
A lato e alle pagine
seguenti:
Sant’Anna Metterza,
1424-1425, intero e
part.i, tempera su
tavola, cm 175 × 103.
Firenze, Uffizi
E l’interesse per la figura umana resa naturale mediante la visione prospettica condusse Masaccio ad alcuni risultati di stupefacente e “artificiosa” bellezza, che spiegano probabilmente i toni
entusiastici delle fonti antiche a proposito di alcune opere ad
affresco che purtroppo al pari della Sagra del Carmine sono
scomparse: l’affresco con la figura di Sant’Ivo e al di sotto “vedove, pupilli e poveri, che da quel santo sono nelle loro bisogne
aiutati” (Vasari) nella chiesa di Badia a Firenze, oppure il San
Paolo dipinto su un pilastro del transetto della chiesa del Carmine a Firenze, dalla parte opposta alla Cappella Brancacci, con
le sembianze di Bartolo di Angiolino Angiolini (1373-1432), che
aveva ricoperto importanti cariche pubbliche.
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La Sant’Anna Metterza degli Uffizi
Secondo recenti ricerche documentarie (Cecchi) il committente
della tavola dovrebbe identificarsi con ser Nofri d’Agnolo Buonamici, titolare di un’impresa artigiana di tessitura di drappi serici,
la cui famiglia era particolarmente devota a
Sant’Anna. A quest’ultima, ser Nofri – nel
rispetto delle volontà testamentarie del
padre Agnolo del Brutto Buonamici
– dedicava ogni anno una festa
presso l’omonimo altare nella
chiesa di Sant’Ambrogio, per il
quale fu commissionata la
Sant’Anna Metterza, vale a
dire collocata in terza posizione dopo il Bambino e
la Madonna. La datazione generalmente accolta per l’opera si restringe tra il novembre
1424, la data in cui
vengono ultimati da
Masolino gli affreschi
per la cappella della
Compagnia della Croce in Santo Stefano
degli Agostiniani in
Empoli e la partenza
dello stesso artista –
cui fu probabilmente
affidata la commissione della tavola oggi
agli Uffizi – per l’Ungheria il 1 settembre
1425, in pratica gli
stessi estremi cronologici per l’esecuzione
degli affreschi della
Cappella Brancacci al
Carmine. Il bellissimo
drappo con frutti di
melograno sostenuto
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dai tre angeli alle spalle della complessa struttura del trono, che
esso contribuisce tra l’altro a nascondere in maniera sostanziale,
assume naturalmente un significato più preciso e storicamente
significativo alla luce delle nuove ipotesi relative alla committenza del dipinto. Non meno degno di nota appare inoltre il documentato rapporto di Nofri d’Agnolo Buonamici con Felice
Brancacci, titolare di un’analoga impresa tessitoria, tuttavia di
proporzioni ben più rilevanti, nonché probabile committente del
duo Masolino-Masaccio per gli affreschi nella sua cappella in
Santa Maria del Carmine.
L’attribuzione vasariana al solo Masaccio fu generalmente seguita fino alla magistrale distinzione filologica operata da Roberto
Longhi nel 1940, che riconobbe la collaborazione dei due artisti
e precisò l’intervento valdarnese nel gruppo “statuario” della
Madonna col Bambino e nell’angelo reggicortina di destra. Si tratta quindi di un altro affascinante capitolo dell’attività comune di
queste due personalità artistiche così diverse tra loro, che tuttavia anche in questo caso – al pari di quanto avviene sulle pareti della Cappella Brancacci – produce risultati che appaiono
sostanzialmente compatibili e omogenei sul piano stilistico. In
maniera analoga a quanto è dato di riscontrare nel trittico di
Cascia, il contrasto fra la struttura esteriore dell’incorniciatura
– d’impianto affatto tardogotico per quanto si può dedurre dalle impronte superstiti – e le parti masaccesche dell’opera si
traduce, quantomeno agli occhi dei critici moderni, in un contrasto di straordinaria evidenza didattica.
Le indagini riflettografiche eseguite sul dipinto hanno evidenziato
il ricorso ad incisioni per rafforzare i contorni soprattutto nelle
parti riferite a Masaccio: gli occhi e la bocca della Vergine, il
corpo del Bambino. Nelle parti attribuite a Masolino appare invece molto meno evidente il disegno preparatorio, mentre nella
riflettografia all’infrarosso si notano tracce di disegno a pennello
in corrispondenza dell’ampio soggolo di Sant’Anna. Davvero
degna di nota appare la concatenazione stilistica delle parti masaccesche con il Trittico di San Giovenale e, nel contempo, la
prodigiosa maturazione rispetto ad esso – a distanza di un lasso
di tempo che difficilmente dovrebbe superare un paio d’anni –
sottolineata dai critici. Il gruppo della Madonna col Bambino è
poi legato ineludibilmente da una fitta trama di rimandi stilistici
e morfologici sia a quello analogo del trittico di Cascia, che a
quello posteriore al centro in origine del polittico dipinto da
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Masaccio per l’altare della cappella del notaio Giuliano di Colino
degli Scarsi nella chiesa del Carmine a Pisa, oggi alla National
Gallery a Londra. Il piccolo Gesù, splendida figura di spirito donatelliano, è un “Putto nudo, vitale e robusto, ma non bello”
(Berti), derivato certamente da qualche esemplare antico.
A pochissima distanza di tempo dal trittico del 1422, capolavoro
acerbo e controverso, il genio di Castel San Giovanni è in grado
di proporre in perfetta simbiosi operativa con il suo più esperto
e compassato compagno di lavoro un testo paradigmatico della
gravitas rinascimentale in pittura, sostenuta da un naturalismo
senza confronti che sembra recuperare i modelli dell’antichità
prescindendo tuttavia, a differenza della maggior parte dei suoi
colleghi, da qualsivoglia accento archeologizzante. È inoltre in
questa tavola stupenda e segnatamente nella Madonna col Bambino, nell’indicibile inglobarsi di queste due masse corporee, che
s’impone per la prima volta quella “presenza fisica” – materiale
e morale ad un tempo – che marca inconfondibilmente le creature masaccesche, e che ancora oggi ci lascia attoniti e ci costringe a riflettere, dopo aver gettato nello sconcerto alcuni
secoli or sono un uomo della finezza intellettuale e di pratica
razionalità qual era Giorgio Vasari: “le cose fatte innanzi a lui
erano veramente dipinte et dipinture; ove le sue… molto più si
dimostrano vive et vere che contraffatte” (Le Vite, 1550).
Che simili raggiungimenti si siano dipanati in uno spazio temporale brevissimo, che verrebbe di misurare a mesi piuttosto che
in anni, è certamente uno degli aspetti più dibattuti e controver21