Leggi il primo capitolo

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Alessandra Faiella
La versione di Barbie
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© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Piccola Biblioteca Oscar gennaio 2013
ISBN 978-88-04-62556-8
Questo volume è stato stampato
presso presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento di Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy
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Introduzione
Forse a noi donne ci hanno rovinato le favole. C’è una
scena stupenda nel film Shrek III: alcune principesse delle
fiabe vengono fatte prigioniere. Alla domanda: “E adesso che facciamo?”, una di loro risponde: “Niente, siamo
principesse, aspettiamo che qualcuno venga a salvarci!”.
Ecco, è arrivato il momento di capire che dobbiamo salvarci da sole.
La Bella Addormentata, si sa, era imbottita di Xanax
e non si può pretendere che fosse molto lucida, ma noi,
come abbiamo potuto non capire che quando il Principe Azzurro ci ha promesso di farci scopare tutto il giorno non alludeva al letto, ma al pavimento?
E la Sirenetta? Ha dato la voce per avere le gambe.
Chissà che cosa le chiederanno per avere le tette!
La principessa sul pisello: quarant’anni sempre sul
pisello, sempre sul pisello, sempre, sempre sul pisello...
che palle! Sarà diventata lesbica!
E Biancaneve? Per secoli ci hanno fatto credere che fosse felice di fare la schiava per sette nanerottoli, probabilmente nemmeno superdotati! Francesco che parlava
ai lupi e agli uccelli è diventato santo, come mai la fan7
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ciulla con le gote bianche e rosse che canticchia con leprotti e cerbiatti ci appare una ragazzina mal cresciuta
e un po’ demente? E perché la Bella deve sposare una
bestia e non avviene mai il contrario?
Più che una favola, la vita di una donna è un horror!
Quando ci accorgiamo che la fiaba è una gigantesca presa per i fondelli è già troppo tardi: abbiamo un lavoro
che magari ci piace ma ci stressa (oppure che ci fa schifo quindi ci stressa ancora di più), dei mocciosi che pretendono da noi l’inverosimile e la bestia di cui sopra,
palla al piede finale.
Cominciano a snervarci a sei anni con i corsi di danza, le Barbie e il dolce forno, poi diventiamo adolescenti anoressiche o obese a seconda delle nevrosi materne e dei modelli mediatici in voga, attraversiamo l’età
adulta sospese tra fax, tex, mex e botox, per poi finire,
come tutti, in un comodo loculo vista cipresso. Quando
riesumeranno il cadavere, ci troveranno intatte: con tutto il botox, il collagene, l’acido ialuronico che ci siamo
sparate e i conservanti che abbiamo mangiato, se aprono la nostra tomba trent’anni dopo la morte sembreremo delle star di Hollywood: decrepite sì, ma perfettamente conservate.
Più di sessant’anni di femminismo sono stati buttati
nel cesso se ancora passiamo la nostra vita in preda ai
sensi di colpa, ossessionate dalla linea e dallo scorrere
del tempo, annichilite dall’ansia di diventare perfette e
di dover fare tutto a tutti i costi.
Questo è peggio della schiavitù ai tempi dei servi della gleba! Fermiamoci in tempo! Quando ti accorgi che
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stai stirando i bambini e accompagnando le camicie a
scuola vuol dire che hai esagerato. Bloccati! Prima che
il tuo cervello faccia la fine della lana in lavatrice: infeltrito e inutilizzabile!
È venuto il momento di riscriverle queste benedette
favole, perché tentare di vivere felici non è un optional.
E se per fare questo dobbiamo mandare affa*** qualcuno, pazienza: sono i vaffa che aiutano a crescere.
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Infanzia e adolescenza
In principio era la Barbie
Quando ero bambina, le mie amichette giocavano tutte con la Barbie. Io no. Preferivo le macchinine al dolce
forno e per questo le mie compagne mi guardavano con
sospetto: “Quella lì è proprio strana” pensavano. Loro
non lo dicevano, ma io glielo leggevo negli occhi. D’altra parte anche con i maschi non andava molto meglio:
se tentavo di inserirmi nei loro giochi, dal calcio ai cowboy, non avevano problemi a tagliarmi fuori. “Quella lì
è proprio strana” pensavano, e quel che è peggio lo dicevano pure, perché essendo maschi non avevano problemi a essere assertivi.
«Perché non giochi con le Barbie?» mi chiedevano maschi e femmine insieme, determinati nell’intento di farmi sentire una disadattata.
«I miei genitori non vogliono» rispondevo, cercando
vigliaccamente di addossare la responsabilità della mia
stramberia a chi aveva commesso l’imprudenza di mettermi al mondo.
«E perché non vogliono?» insistevano quelli, ben de11
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cisi a farmi provare la stessa sensazione che patisce un
extracomunitario a un raduno della Lega Nord.
«Perché i miei genitori sono comunisti» rispondevo,
cercando stupidamente di fare colpo con qualcosa di
trasgressivo.
A questo punto i miei amichetti mi voltavano sdegnosamente le spalle dopo avermi stigmatizzato con
un: “Poveraccia”, che si imprimeva sulla mia anima
come un marchio a fuoco sulla pelle pezzata di una
mucca frisona.
Soltanto quando andavo a passare l’estate al lago, a
casa della nonna materna, potevo finalmente sfogarmi.
Col mio amico Andrea avevo messo subito le cose in
chiaro: «Quando giochiamo a Nordisti e Sudisti siamo
entrambi soldati, ok?».
Domanda retorica: il mio tono non ammetteva repliche.
Anche Andrea, inizialmente, aveva provato a relegarmi in un ruolo marginale, consono, secondo lui, alla mia
appartenenza di genere: «Io faccio il soldato e vado in
guerra» aveva esordito un giorno «e tu sei mia moglie
che sta a casa con i bambini ad aspettarmi».
«Col cazzo!» avevo ribattuto con prontezza, fiera del
turpiloquio che da qualche mese infarciva il mio linguaggio. Anche così, riempiendosi la bocca con espressioni scurrili, si celebra l’ingresso nella pre-adolescenza.
Andrea aveva accettato di buon grado la mia defezione dai compiti muliebri: si divertiva molto di più anche lui ad avermi come commilitone, piuttosto che come
appendice disutile dedita a immaginari quanto improduttivi lavori domestici.
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Dopo le vacanze estive però, si tornava all’ordinaria
routine dei giochi sessisti: maschi da una parte, femmine dall’altra. Barbie e bambolotti da un lato, macchinine e cow-boy dall’altro.
Io in mezzo come una demente, sola e sociopatica. Mi
sentivo una sfigata, ma le Barbie continuavano a farmi
schifo.
Non riuscivo a capire che cosa ci fosse di tanto affascinante in un’orripilante bambolina di plastica col naso rifatto, le tette finte, e il quoziente intellettivo di uno gnu
(con tutto il rispetto per gli gnu). Più che vestirsi, spogliarsi e flirtare con Ken, il suo fidanzato tronista, la Barbie non faceva. Una noia mortale.
Un giorno, spinta da mia madre (che non solo non
era comunista, ma era anche terrorizzata dal timore che
diventassi del tutto sociopatica), accetto l’invito di una
compagna di scuola a giocare con l’odiato mostro di plastica. Il programma era divertirsi come matte giocando
a “Barbie e la magia della moda”, una delirante sfilata
di top model anoressiche.
E guardate che parlo di anoressia non a caso: se Barbie fosse una persona reale, facendo le debite proporzioni sarebbe alta 1,75, peserebbe 50 kg, e avrebbe come
misure seno-vita-fianchi: 100-45-85. Siamo in piena patologia anoressica.
Dunque, quel giorno, decido di accettare l’invito e mi
reco a casa di Ludovica, una bambina ricca e simpatica
come un avviso di sfratto, che i miei mi obbligavano a
frequentare ogni tanto perché suo padre lavorava nello
stesso ufficio del mio.
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Appena entrata nella cameretta della rampolla della
Milano bene, vengo colta da malore: pareti rosa shocking,
moquette rosa shocking, mobili rosa shocking, anche lei,
Ludovica, era rosa shocking, accessori, scarpe, fascia per
i capelli, persino la sua paffuta faccia ebete era color rosa
shocking. Superfluo dirvi che sin da allora amavo tutti i
colori tranne il rosa shocking. Mentre osservo con malcelato disgusto la cameretta, con la coda dell’occhio sbircio Ludovica e rifletto sul fatto che non ha certo il fisico delle sue bambole preferite, probabilmente si ciba di
panini imbottiti di sugna a giudicare dai rotoli di ciccia,
messi in evidenza dalla tutina da ginnastica in lycra color rosa confetto.
Mi guardo intorno basita e noto con orrore che da ogni
anfratto della cameretta si affacciano miriadi di Barbie
abbigliate nei modi più disparati, ma sempre con la stessa identica espressione da pirla.
Al centro della stanza campeggia immensa, dotata di
ogni confort, una gigantesca casa di Barbie, una roba che
a Ibsen gli faceva un baffo. Un appartamento perfettamente miniaturizzato dove non manca nulla, c’è persino
la micro palestra e una minuscola Jacuzzi. Nessuno, infatti, potrebbe mai immaginarsi una Barbie povera, con
la cucina in fòrmica e il bagno sul pianerottolo.
Palla di lardo mi osserva socchiudendo gli occhi porcini, studiandomi con un misto di curiosità e disgusto,
poi afferra velocemente una, due, tre, cento Barbie e me
le rovescia ai piedi con aria di sfida. «Cominciamo la sfilata» mi intima.
Stende sulla moquette un red carpet in miniatura, in14
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fila nel mangiadischi la hit del momento, Pop corn, e comincia con fare disinvolto ad armeggiare con le bamboline simulando un improbabile défilé di alta moda.
Di fronte al mio sguardo attonito sfilano miriadi di Barbie abbigliate in modo diverso, tra cui spiccano: Barbie
Modella (tautologico), Barbie Infermiera, Barbie Atleta
olimpica, Barbie Chirurgo, Barbie Insegnante e Barbie
Hostess. Manca solo Barbie Zoccola, ma anche quella,
forse, sarebbe una tautologia.
Dopo i primi attimi di stupore, mentre Ludovica muove
con le mani grassottelle le sottili gambe di plastica delle bambole, io vengo colta da una sensazione di tedio
incontenibile e poco dopo crollo nel sonno più abissale. Come di fronte all’evento più noioso del mondo, tipo
una gara automobilistica in tv, sprofondo pesantemente
nella morbida moquette rosa shocking della cameretta
di Ludovica, l’odiata amica.
Quando la biondissima, firmatissima e slanciatissima
madre di Ludovica mi viene a svegliare, penso con orrore di trovarmi di fronte a una mostruosa Barbie parlante, alta 1,75.
«Tua madre ti è venuta a prendere» sibila la Barbie
gigante con una smorfia di disgusto dipinta sul viso
di plastica. E non solo il viso: sotto la camicetta di seta
svettano due bocce al silicone da fare invidia a quelle
che, di lì a poco, avrebbero popolato i programmi delle tv commerciali.
Un prototipo all’avanguardia del Drive in.
Ho fatto come al solito la mia figura da disadattata:
addormentarsi nel bel mezzo di una sfilata d’alta moda,
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a casa di una famiglia in vista della high society milanese. Non si fa, questo proprio non si fa.
Ancora intontita dal sonno, m’infilo rapidamente il mio
montgomery da sfigata, una specie di coperta militare color verde bottiglia, con vistosi alamari di finto corno, un
cappottino orrendo che solitamente mi vergognavo profondamente di indossare. Le mie compagne avevano il
loden, simbolo delle giovinette moderne e alla moda, io
invece indossavo quel sacco informe di lana ruvida con
i bottoni di plastica. Eppure quel giorno, a casa della ciccio-bomba Ludovica, per la prima volta godevo a essere vestita male, in rivoluzionario spregio all’arroganza
delle due borghesi bastarde e Barbie-dipendenti. Nascevano in me i primi segni del fervore ribelle che avrebbe
agitato la mia tumultuosa adolescenza.
«Mamma, se mi porti ancora a giocare da quella cretina faccio harakiri con il trinciapollo» ho minacciato. Mia
madre non ha chiesto nemmeno il perché, ma Ludovica
è scomparsa dalla mia vita.
Sono passati più di trent’anni e io sto invecchiando.
La Barbie no. Nel frattempo, sono comparsi sul mercato altri tipi di pupazze, come le Braz per esempio, simili
alle Barbie, ma ancora più zoccole. Le Braz sono bamboline con la testa enorme, occhi grandissimi, nasi piccolissimi e gambe spaventosamente lunghe, in una parola dei cessi, ma riportano grande successo. Che le Braz
siano una versione ancora più orrenda e sessista delle Barbie l’ha constatato anche l’autorevole «Daily Telegraph» che le ha definite «quelle che hanno l’aria di
una ragazzina che vive sul marciapiede e sta aspettan16
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do il suo magnaccia che arriverà in limousine per farle
sniffare un po’ di coca».
Nuovi modelli nei cartoni animati? Se Mulan e Rapunzel hanno fatto qualche passo avanti, ci pensano le Winx
a riportare l’orologio indietro: capelli fluenti e vitino di
vespa, labbra carnose come quelle di una pornostar, svolazzano come noiosi calabroni nonostante il peso di gravosissimi sandali con enormi zeppe luccicanti e tamarre.
Comunque sia, Barbie, Braz, o Winx, le tette di plastica resistono al cambiamento delle mode e dei costumi
e la bambolina imputtanita è ancora il prototipo della
femmina del terzo millennio, tuttora dotato di appeal
sulle giovani generazioni, pronte a identificarsi col suo
stile di vita falso e demente. La new Barbie, oggi come
ieri, ci insegna a inseguire il suo intramontabile modello di donna: una ragazza moderna e superefficiente, rigorosamente eterosessuale, impegnata nel lavoro, che
riesce a conciliare perfettamente carriera e famiglia, restando sempre bella, giovane, priva di rughe e di cellulite. Bambine e ragazzine ne vanno pazze.
Mia nipote Gaia, dodici anni, m’invita a vedere il meraviglioso sito di Barbie, tutto un trionfo di fiocchi rosa
e paillette, dove ci si può godere il video Barbie e l’Accademia delle principesse. Nel filmato musicale, Barbie entra all’Accademia delle principesse, un corso di fondamentale importanza per tutte le giovani donne che fanno
il loro ingresso nello spietato mondo del lavoro. Con
sano realismo, i costruttori del mostriciattolo di plastica spiegano alle bambine che il loro futuro sarà sicuramente quello di diventare una principessa. Be’, lo san17
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no tutti, la principessa è il mestiere più accreditato per
una donna di oggi e soprattutto il più diffuso: ovunque
sui giornali si trovano quantità sterminate di annunci
che offrono impieghi come principesse.
Nel video che Gaia mi mostra, Barbie si cimenta con
esercizi indispensabili per l’evoluzione culturale di una
ragazza, come imparare a servire il tè e camminare con
una pila di libri sulla testa (vuota). La melensa canzoncina che accompagna il video chiosa: “Ma ciò che le dà
la maestosità che nessuno ha, è la sua bontà che dentro
al cuore ha”.
Tralasciando un uso della sintassi e della rima a dir
poco imbarazzante, è la filosofia di vita che colpisce: Barbie non è solo bella, magra, ricca e con le tette dure, lei è
soprattutto buona. Ragazze, siate perbene, oneste, delicate e premurose, e sarete felici. Sono anni che le vostre
mamme, nonne e bisnonne adottano questo metodo per
prendersela in quel posto. Non vorrete cominciare voi a
fare il contrario?
Una speranza arriva dall’Inghilterra, dove la dottoressa Agnes Nairn ha scoperto che molte adolescenti, superata la fase di adorazione per la bambolina, la torturavano, oppure la decapitavano sbattendola sadicamente
contro la scrivania della loro cameretta: «Mutilazioni,
decapitazione e cottura nel microonde, per citare solo
alcune delle punizioni inflitte» racconta la Nairn. Venduta come attraente, femminile e bella, la Barbie veniva lanciata dalle finestre, bruciata, rotta e rapata a zero.
Una ragazzina ha detto: «Ne ho ancora tantissime, così
posso torturarle». Al che una sua amica ha aggiunto:
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«Anch’io, perché non mi diverto se non le torturo». Un
vero olocausto.
Dunque il genere femminile non è completamente
asservito al culto della modella demente: le ragazzine
che colpiscono selvaggiamente la bambola hanno finalmente capito che identificarsi con un’indossatrice citrulla avrebbe comportato il rischio di fare la sua stessa vita
di merda: vestirsi, spogliarsi e flirtare con un tronista. E
magari rifarsi le tette.
E a proposito di tette, dopo aver visionato il sito della pupazza, mia nipote mi ha guardato perplessa e mi
ha chiesto: «Zia, ma perché tu non hai le tette dure e alte
come la Barbie?».
Ho capito perché fin da bambina ti odiavo, insopportabile top model di plastica: sei il primo modello di
donna rispetto al quale cominciamo tutte a sentirci inadeguate. Un bel vaffa è dedicato a te. E sono i vaffa che
aiutano a crescere.
Fiocco rosa e fiocco azzurro
Al centro commerciale incontro la mia amica Marta. È un
po’ che non la vedo, ostenta una pancia gigantesca e, siccome dubito che si sia ridotta così a suon di Ceres (è sempre
stata un’accanita bevitrice di birra), suppongo che sia in
avanzato stato di gravidanza. Da quanto mi ricordo aveva altri due figli, questo è il terzo. La trovo al reparto infanzia, intenta a scegliere pagliaccetti per il futuro pargolo.
«Ciao Marta!» esordisco a voce un po’ troppo alta facendole rischiare un parto prematuro. Quando si ripren19
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de dallo shock, mi guarda languida, e con la voce sognante e melensa tipica della mamma in attesa, mi dice:
«Guarda che meraviglia questo body rosa», e mi schiaffa in mano una orrenda tutina rosa shocking tutta nastri, nastrini e falpalà, una roba da fare invidia a un cicisbeo del Settecento.
«Bella...» rispondo io mal celando il mio disgusto «ma
perché proprio rosa?»
«Come sarebbe a dire perché rosa? Perché sarà femmina, ovvio» risponde con sdegno la mia amica.
Comincia a montarmi un certo nervosismo.
«E allora?» domando irritata. «Chi ti dice che a una
bambina debba per forza piacere il rosa, magari preferisce il giallo o piuttosto l’azzurro, tu che ne sai? Forse
lei il rosa lo detesta, non ti pare?»
Marta mi osserva come si guarderebbe un alieno appena sbarcato sulla terra.
«A me il rosa piace,» risponde «anche la cameretta
sarà rosa, da che mondo è mondo è sempre stato così,
rosa se è femmina, azzurra se è maschio.» E chiude il discorso. Così crede lei.
Siccome tra le frasi fatte e i luoghi comuni che odio
c’è l’espressione “da che mondo è mondo”, attacco una
delle mie famigerate filippiche, di quelle che per zittirmi bisogna abbattermi col napalm.
«Scusa un attimo,» la incalzo «ma ti rendi conto che
sono passati quarantasette milioni di anni dalla scoperta di Ida, il più antico primate femmina della storia dell’umanità, e ancora oggi quando aspettiamo un
bambino ci chiediamo di quale colore dobbiamo dipin20
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gere la sua cameretta? E non abbiamo dubbi: sarà rosa
se è femmina, azzurra se maschio. Nessuno si pone mai
il problema se alla povera bambina il rosa faccia totalmente schifo. Chissenefrega, è bimba quindi rosa. Rosa
la cameretta, rosa le tutine, rosa i succhiotti, rosa le copertine. Pink is beautiful. La bambina piange? Eh, si sa:
«Le femmine sono le professioniste della lacrima», come
dice Rita Pelusio. Col cacchio, piange perché quella tutina rosa le fa orrore. La bambina vomita? Non ha digerito. Col cacchio, è quel succhiotto rosa che la fa vomitare, lei adora il giallo, e allora? Lo sai, cara Marta, che
all’estero, le madri attente alle tematiche di genere sono
incazzate nere? C’è un gruppo che si chiama Pinkstinks,
“Il rosa puzza”, e la scrittrice inglese Peggy Orenstein ha
pubblicato un saggio dal titolo Cenerentola ha divorato mia
figlia. Qui in Italia invece il rosa va per la maggiore e la
Lego ha anche annunciato l’arrivo di nuovi giochi rosa
pensati a uso esclusivo delle bimbe. È qui che si pongono le basi per una cultura sessista e...»
«Dovresti tornare in analisi» mi dice lei con una smorfia di disgusto, voltandomi sdegnosamente le spalle.
«Eh no, ci devi andare tu dall’analista, traditrice, ex
femminista dei miei co... collant!»
«Ma vaffa***» mi urla lei dalla cassa.
Ehi, come sarebbe questa storia? Sono io quella dei
vaffa!
Per farmi sbollire la rabbia mi siedo sulla panchina
dei giardinetti vicini all’asilo. Non c’è quasi nessuno in
giro, solo qualche bambino piccolo con nonni o genitori,
e c’è un silenzio tale che riesco perfino a udire il cinguet21
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tio degli uccellini, momentaneamente scampati all’edema alla laringe per le polveri sottili. Mi metto a guardarmi intorno, cercando di rilassarmi e di non pensare
più alla discussione con Marta. Per distrarmi osservo i
bimbi che si trastullano felici con le cacche dei cani che
i padroni si ostinano a portare ai giardinetti, a defecare
proprio dove i bimbi vanno a giocare.
Una bimba lancia allegramente una cacca secca ovoidale usandola come fosse un frisbee, un’altra adopera
un’orrenda boassa per fare le formine. A un certo punto lo sguardo mi cade su una bambina piccola, avrà
neanche due anni, che cerca maldestramente di salire
sul cavallino a molla posto al centro del prato. La bestia di legno, però, non ne vuole sapere di farsi cavalcare dalla dolce creatura. La bimba afferra con forza le
maniglie poste sulla testa del cavallino ma i suoi piedini, ogni volta che lei cerca di salire sulle staffe, scivolano miseramente. La bambina cade, ma impavida si rialza, resistendo ammirevolmente alla frustrazione fino a
che, all’ennesimo tentativo fallito, scoppia a piangere
disperata correndo sconvolta verso il padre. Osservandola camminare, noto che ha un’andatura stravagante,
come fosse un po’ robotizzata e, a un’osservazione più
attenta, capisco il perché. La bambina indossa rigidissime scarpine di vernice.
Il padre, notando il mio sguardo incuriosito, si affretta a spiegare: «Ha ancora qualche difficoltà a camminare, ci siamo chiesti se non abbia dei problemi motori...».
“O forse dovreste chiedervi se non siete voi ad avere
dei problemi mentali” penso. Ma non lo dico.
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